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30/09/2012

Zingales: quando un liberista tenta di scalzarne un altro

Monti, ormai dovrebbero averlo capito anche i sassi, al capitale internazionale piace.
Piace perché oltre a essere uno del "giro" (Bilderberg, Trilaterale e quant'altro) è probabilmente il primo personaggio che sia riuscito nell'impresa di scardinare un Paese (inteso come somma di beni comuni e stato sociale) senza scatenare nemmeno un sussulto nell'opinione pubblica, che al massimo sì divide tra chi soffre ma rispetta e approva le politiche di Monti in vista di non si capisce quale svolta positiva prossima ventura, e chi si compiace di vedere finalmente a capo del governo un personaggio che gode di prestigio internazionale.

Com'è ovvio, tuttavia, c'è anche qualcuno che Monti non lo digerisce del tutto.
Come sarebbe facile pensare, non si tratta solo di quei settori martoriati dalle politiche dell'attuale governo o di quei soggetti politici (come la Lega) intenti a riacquistare credibilità elettorale. Tra i detrattori dell'alfiere del rigore ci sono anche diversi suoi compagni di merende, sostanzialmente delusi dalla mancata onda di liberalizzazioni in Italia.
Per il momento, infatti, Monti e i suoi omologhi in Grecia, Spagna e Portogallo sì sono limitati a rastrellare risorse attraverso tasse e tagli dei servizi pubblici ai cittadini. La finanza internazionale è però in attesa scalpitante del piatto forte dell'abbuffata europea, ovvero la messa all'incanto del patrimonio industriale e immobiliare ancora in mano alle istituzioni pubbliche dei singoli paesi. L'obiettivo non dichiarato ma facilmente intuibile, è la chiusura di quel processo di liberalizzazioni esploso in Europa all'inizio degli anni '90, ispirato alle grandi privatizzazioni degli anni '80 che hanno sconquassato il tessuto sociale ed economico di Stati Uniti e Inghilterra.

Tra i detrattori del cattedratico della Bocconi spicca in questi giorni Luigi Zingales (anche lui partorito dalla Bocconi e poi esportato all'università di Chicago, quella di Milton Friedman e dei Chicago boys di cilena memoria...), che sulle pagine de Il Fatto Quotidiano, ha trovato spazio per un'estesa filippica contro l'insufficiente operato di Monti che sfocia in un'esaltazione (si noti bene, mai chiaramente esplicitata) del "libero mercato, quello vero" definito come "l’antidoto più efficace contro l’ingiustizia sociale".
Se non si trattasse di un articolo pubblicato nella home page di quello che si propone e viene riconosciuto come giornale di riferimento per l'opinione pubblica italiana "contro" (in senso lato ma fortemente caratterizzante, basta vedere l'animosità presente in ogni simpatizzante di Travaglio), ci sarebbe da chiamare la neuro.

Consiglio caldamente la lettura dell'articolo in oggetto per comprendere quale sia l'istinto più subdolo e predatorio che s'annida nelle classi dirigenti economiche odierne e  per farsi anche un'idea su quei soggetti e quella carta stampata che strepitano giornalmente contro il sistema non perché capaci o interessati a costruire qualcosa di strutturalmente diverso, ma perché referenti o ideologicamente legati a un modello di capitale ben più distruttivo di quello con cui si è confrontata la società italiana dal secondo dopo guerra ad oggi.


PS: notare bene che il prof. Zingales indica come proprio referente politico in Italia il PD, possibilmente remondato degli ormai antiquati inciuci dalemiani.
Tenete a mente tutti gli sponsor del centro sinistra che si stanno palesando, vi torneranno utili quando sarà momento di elezioni (ammesso che ci si vada e abbiamo un senso).

Alcoa. Anche Glencore si tira indietro

Bruxelles dice no alla riduzione del costo dell'energia. Salta l'accordo per l'acquisizione, Glencore abbandona il tavolo. Il governo Monti persegue la distruzione del tessuto industriale italiano.

Gli svizzeri mollano. È fallita la trattativa con il gruppo elvetico Glencore per l'acquisizione dello stabilimento Alcoa di Portovesme . La notizia è stata data nella tarda mattinata di ieri dai sindacati, che hanno ricevuto la lettera di rinuncia inviata dalla multinazionale al ministro dello sviluppo economico Corrado Passera e al governatore sardo Ugo Cappellacci.
La rinuncia all'acquisizione dello smelter di Portovesme è legata al costo dell'energia. Nei giorni scorsi Glencore aveva posto al governo una condizione imprescindibile per l'apertura di una trattativa per l'acquisizione dello stabilimento Alcoa: il costo dell'energia per i prossimi dieci anni non avrebbe dovuto superare i 25 euro a Mwh, contro i circa 100 euro che i mercati europei battono alla borsa dell'energia.
Passera e il governo Monti hanno provato a sondare l'Ue sulla proposta di Glencore. Ma da Bruxelles è arrivata una risposta negativa. Uno sconto come quello chiesto dal gruppo elvetico in base al credo ultraliberista che regola le scelte europee è considerato una inammissibile turbativa dei «normali» meccanismi di mercato. Passera, quindi, a Glencore ha risposto di no. Al massimo la Ue avrebbe potuto autorizzare un prezzo, di fatto concordato con Passera, di 35 euro. Ma per Glencore è troppo. Ed è così che, nella tarda serata dell'altro ieri, è arrivato il ritiro definitivo degli svizzeri, che in Sardegna controllano già, proprio nel Sulcis, un'altra fabbrica di alluminio, la Portvesme srl.
«Con una volontà meramente propositiva - afferma nella lettera il manager Glencore Daniel Goldberg - desideriamo sottolineare che, con l'applicazione dei meccanismi illustrati dal governo, arriviamo ad un costo finale dell'energia pari a 35 euro a MWh, prezzo che si è rivelato insufficiente a garantire anche la continuità produttiva di Alcoa. Non abbiamo mai chiesto al governo violazioni alla legislazione europea; abbiamo suggerito percorsi alternativi che avrebbero potuto portare a riequilibrare fattori produttivi non sostenibili economicamente. Prendiamo atto del fatto che anche queste altre strade non incontrerebbero i favori della comunità europea e, pertanto, confermiamo che, in questa situazione, non siamo interessati a proseguire il discorso, anche in ragione del dato che l'attuale gestore dell'impianto, Alcoa, alle stesse condizioni proposte dal governo accumula perdite rilevanti, che hanno portato alla decisione di chiudere».
«Ci sarebbe piaciuto - fanno sapere i funzionari del ministero di Passera - che Glencore avesse mostrato una disponibilità a fare l'investimento alle condizioni proposte e che valgono per tutti, perché il prezzo di 35 euro a Mwh da noi proposto si colloca sulla linea europea e il governo non vuole fare nulla oltre quel solco». Dure le prese di posizione dei sindacati territoriali che, invece, puntano il dito proprio contro il governo. «La vertenza - spiega Roberto Forresu, segretario della Fiom Cgil ora deve essere ora affrontata a palazzo Chigi. Sia Monti ad assumersi la responsabilità». Rino Barca, segretario della Fim Cisl, chiede al ministero dello sviluppo economico: «Il governo è in grado di garantire il prezzo dell'energia per un tempo determinato senza sottostare ai diktat di Bruxelles?».
Sul fronte politico, Paolo Ferrero chiede che il governo intervenga commissariando Alcoa: «La notizia del ritiro di Glencore impone un salto di qualità. Passera, che è in vena di commissariamenti, commissari l'Alcoa, e l'esecutivo ne garantisca l'attività produttiva. Monti deve intervenire senza aspettare che l'apparato industriale italiano vada tutto a rotoli». «Ora - dice invece Stefano Fassina - vanno verificate al più presto le altre offerte in campo per lo stabilimento Alcoa di Portovesme, per poter assicurare il ripristino dell'attività produttiva e dare prospettive di futuro ai lavoratori, alle loro famiglie e ai lavoratori dell'indotto. Il governo, oltre a coinvolgere la Regione, la Provincia e i Comuni, convochi al più presto i rappresentanti sindacali per informare sull'evoluzione del percorso con gli altri potenziali acquirenti. Non è l'ora della rassegnazione e della disperazione. È l'ora di raddoppiare l'impegno per una soluzione positiva».

da "il manifesto"
 

La vertenza Alcoa come al solito mette in luce che i sindacati e la sinistra politica, sono buoni (quando gli riesce) solo a fare opposizione a cazzo campana.
Il dato più vergognoso che dovrebbe risaltare nella situazione non è il fallimento di Passera o Monti nel piazzare l'ormai ex stabilimento Alcoa in mano agli svizzeri, ma il fatto che questi ultimi abbiano tirato il culo indietro perché il governo (di ultra liberisti ricordiamolo bene) non gli ha potuto garantire un prezzo degli approvvigionamenti elettrici da qui a 10 anni (Cristo 10 anni!!!) fissato a 25€ a MWh ovvero 1/4 del prezzo di mercato!
A fronte di queste richieste sarebbero dovuti essere direttamente i sindacati a mandare a cagare gli elvetici (è bene ricordare che qualsiasi potenziale acquirente di Alcoa non dovrebbe fare nulla oltre il subentrare alla precedente amministrazione, investendo, quindi, praticamente nulla di tasca propria) reclamando soluzioni di salvataggio dell'azienda completamente antitetiche a questo capitalismo di rapina.

Un milione di poveri in più causa crisi

L'elaborazione della Cgia di Mestre, associazione degli artigiani, che esprime un punto di vista "piccolo imprenditoriale", ma evidenzia a volte - anche inconsapevolmente - dati invece di interesse generale.

LA CRISI HA PROVOCATO QUASI UN MILIONE DI POVERI IN PIU’

Si allarga spaventosamente l’area del disagio socio/economico con gravi ripercussioni anche per artigiani e commercianti

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  • 988.000 nuovi poveri;
  • 1.247.000 disoccupati in più;
  • 421.000 nuovi cassa integrati;
sono gli aumenti che hanno allargato spaventosamente l’area del disagio sociale/economico presente nel Paese. La causa, segnala la CGIA di Mestre che ha curato l’analisi, è la crisi economica che, a partire dal 2007, ha aumentato a dismisura la povertà assoluta, i senza lavoro e i cassa integrati a zero ore. Risultato ? Oltre a peggiorare le condizioni di vita delle fasce sociali più deboli del Paese, questa situazione di difficoltà ha fatto aumentare la spesa pubblica a sostegno di queste persone e diminuire i consumi. Tra il 2007 e l’anno in corso, i consumi reali delle famiglie italiane (al netto dell'inflazione) hanno registrato una flessione del 4,4%. Una contrazione che, chiaramente, ha avuto delle ripercussioni molto negative sui bilanci economici dei piccoli commercianti e degli artigiani.

Visto che nel 2012 è prevista una contrazione del Pil attorno al 2,5%, mentre nel 2013 la caduta dovrebbe attestarsi attorno allo 0,2% – osserva il segretario della CGIA Giuseppe Bortolussi – è evidente che l’area del disagio socio/economico è destinata ad allargarsi, soprattutto nel Mezzogiorno che, sino adesso, è stata la ripartizione geografica che ha subito maggiormente gli effetti negativi della crisi. In termini assoluti è stato il Sud ha segnare gli aumenti più significativi sia delle sacche di povertà assoluta sia del numero dei nuovi disoccupati. Mentre spetta al Nordest, sempre analizzando la variazione in valori assoluti, l’aumento più significativo del numero di lavoratori in cassa integrazione a zero ore”.

Cosi come ci segnala sovente l’Istat – conclude Bortolussi – la povertà assoluta tende ad aumentare nelle famiglie monoreddito con un alto numero di figli o in quelle dove la persona di riferimento non risulta occupata. Visto che ci troviamo di fronte ad una crisi che è legata in particolar modo al calo dei consumi, se non verranno prese delle misure che consentiranno di lasciare più soldi in tasca alle famiglie italiane, difficilmente potranno ripartire gli acquisti, la produzione industriale e di riflesso l’occupazione”.

Dalla CGIA fanno notare che i dati relativi alla povertà assoluta si riferiscono al periodo che va dal 2007 al 2011 (ultimo dato disponibile). Come sostiene l’Istat “le soglie di povertà assoluta riferite al 2011 rappresentano i valori rispetto ai quali si confronta la spesa per consumi di una famiglia al fine di classificarla in assolutamente povera o non povera; ad esempio, un adulto (18-59 anni) che vive da solo è considerato assolutamente povero se la sua spesa è inferiore o pari a 784,49 euro mensili nel caso risieda in un’area metropolitana del Nord, a 703,16 euro qualora viva in un piccolo comune settentrionale e a 525,65 euro se risiede in un piccolo comune meridionale”.

Per quanto concerne i dati relativi ai disoccupati, l’analisi della CGIA ha misurato la variazione avvenuta tra il 2007 e la media dei primi 6 mesi del 2012. Infine, il numero di cassa integrati è stato calcolato nel periodo compreso tra il 2007 ed i primi 8 mesi del 2012, ipotizzando un’assenza completa dal lavoro su tutto il lasso di tempo considerato.


Fonte 

29/09/2012

Monti resta, noi che facciamo?

È presto per dire “ormai è fatta”, ma le premesse sono state poste tutte. La sortita newyorkese del “Professore” ha tolto il velo di incertezza che circondava la prossima legislatura: il “governo tecnico” proseguirà anche dopo le elezioni, qualsiasi sia il loro risultato, perché così voglio, pretendono e impongono “i mercati”, Wall Street, la Casa Bianca, la Germania e l'Europa.

«Non penso ci sarà una seconda occasione, ma se dovesse servire io ci sarò».

La decodifica diventa quasi inutile, ma per quel poco che serve va fatta. La crisi è lunga (l'ha detto lui stesso all'Assemblea dell'Onu), non ci sono soluzioni alle viste, la barca italiana è tra le più fragili nel mare in tempesta; i partiti “locali” esprimono una classe politica inadeguata e rissosa, non hanno ancora ben compreso il mutamento di realtà che la crisi economica sta producendo. Ma bisogna rispettare le scadenze formali della democrazia, anche se è chiaro quanto questa sia per “il potere” ormai un impiccio, più che uno strumento di costruzione del consenso. Ad aprile ci saranno perciò le elezioni politiche (anzi: un election day per rinnovare anche alcuni consigli regionali già in crisi o che lo saranno presto, il Comune di Roma che diventa “area metropolitana” cancellando la Provincia, ecc), anche se ancora non si sa con quale legge andremo alle urne.

La sortita del Professore risolve anche questo problema: ci andremo con una legge elettorale proporzionale (con o senza premio di maggioranza per il primo partito), perché in tal modo è assolutamente certo che non ci sarà alcuna maggioranza politica sufficientemente coesa e stabile. Quindi si creeranno quelle “circostanze particolari” per cui sarà indispensabile “richiamare in servizio permanente effettivo” (l'espressione militare è stata pronunciata da Pierferdy Casini, ed è tutta un programma) Monti ed almeno una parte della sua squadra di governo.

Monti ha scelto con cura il luogo della sua esternazione. Ha parlato al Council on foreign relations di New York, una sorta di istituzione non formalizzata che ha tra i suoi direttori ex segretari di Stato come Madeleine Albright e Colin Powell. Insomma, uno di quei centri – al pari del Bilderberg o la Trilateral – che hanno da qualche decennio sostituito i “salotti buoni” e i “circoli del golf” nazionali, come luogo di formazione delle principali scelte politiche; perlomeno di quelle “condivise”. Tra coloro che gli rivolgevano la domanda “resti o no?”, per capirci, c'è gente come David M. Rubinstein, cofondatore del gruppo Carlyle, “che gestisce oltre 150 miliardi di dollari in almeno tre continenti” e ha vantato tra i suoi dirigenti George Bush padre, Frank Carlucci, John Major, nonché – in Italia - Chicco Testa, Letizia Moratti e Marco De Benedetti (mica il proprietario di Repubblica, solo il figlio). Soldi da spostare a seconda della risposta.

In questo tempio del capitale multinazionale Monti ha messo sul piatto la sua “disponibilità fornendo una spiegazione assolutamente tecnico-finanziaria, inconfutabile: “dato che mi trovo in un contesto in cui quotidianamente tutti nei mercati manifestano preoccupazione e incertezze su cosa succederà dopo le elezioni, offro solo elementi di rassicurazione oggettiva”. Sono insomma io il garante dell'affidabilità dell'Italia come fedele esecutore di quanto altrove viene deciso. Detto altrimenti: resta, Rubinstein, ti faremo guadagnare...

Naturalmente questo distrugge la credibilità delle elezioni di aprile. E diventa un problema serio per i partiti che devono “motivare” l'elettorato. Che senso ha andare a votare se si sa già che andremo avanti con Monti qualsiasi partito scegliamo? L'unico senso possibile sarebbe tra un voto allo schieramento pro-Monti e uno a quelli contrari. Una sorta di bipolarismo “forzoso” che prosegue il ventennio berlusconiano alle nostre spalle senza però più il pathos dell'antiberlusconismo d'accatto.

Per il Pd è una notizia mortale, che lo ha immediatamente spaccato al suo interno. I democristiani come Fioroni i e Letta gongolano nel sapersi blindati anche in futuro; Bersani starà cominciando a pensare alla pensione, e persino Renzi intuisce di esser stato “rottamato” prima ancora di partire col camper.

Diventa un problema anche per il “partito di repubblica”, costretto ormai ad arrampicarsi sugli specchi: “Obama e Wall Street tifano Monti, è lui il vero anti-Berlusconi"; o anche “La Casa Bianca confida nel premier italiano per proseguire il dialogo con la Germania. I timori degli Stati Uniti: Silvio può tornare?". Silvio? Come ricorda giustamente Monti, “mi ha scoperto lui, nel '94. nominandomi commissario europeo”. Ma quale “ vero anti-Berlusconi”...

Ma è un problema anche per l'opposizione sociale, che deve dare immediatamente segni di vita (prima e dopo il No Monti Day” del 27 ottobre). Segni di vita sul piano politico, perché “lottare” nelle singole situazioni non basta. Si dovrebbe puntare a vincere, qualche volta...

Fonte

Guerra globale in forma tecnica e «silenziosa»

La guerra delle monete. Un anticipo di futuro? Grande è il disordine sotto i cieli della finanza.

Se esistessero soggetti e strategie per il cambiamento, forse la situazione potrebbe essere «eccellente». Ma non se ne vede traccia all'orizzonte...
Così le difficoltà delle diverse aree continentali in competizione si trasformano, per il momento, in «guerra delle monete». Al centro del sommovimento - come sempre - il dollaro Usa. L'economia reale statunitense segna il passo e il presidente della Federal Reserve, Ben Bernanke, ha deciso quindici giorni fa di «iniettare» (ricorrendo a ben tre diversi strumenti) quasi 85 miliardi di dollari al mese sui mercati. Senza peraltro indicare alcuna scadenza temporale.
Il risultato ovvio, e voluto, consiste in un deciso indebolimento del dollaro - meno 4%, tra la fine luglio e oggi - che dovrebbe aiutare la competitività delle merci Usa. In realtà la svalutazione è probabilmente inferiore a quella desiderata, perché la divisa Usa è «strutturalmente» forte; è infatti l'unità di misura e di scambio di tutte le materie prime, nonché delle transazioni finanziarie.
La Bce ha scelto una strategia un po' diversa (annunciando l'acquisto di titoli di stato a breve termine dei paesi in difficoltà), ma dai risultati simili. Solo che non ha ancora effettuato alcun acquisto sul mercato. Nessun paese ha chiesto un simile «aiuto» per raffreddare lo spread sui propri titoli. E quindi i mercati hanno ripreso ad esercitare pressione sui più deboli (Spagna e Italia, soprattutto), riportando per esempio lo spread sui Btp decennali a 370 punti.
Nonostante tutti i suoi problemi interni, l'euro si è perciò rivalutato. Peggiorando le condizioni dell'export per l'intera area. Stranamente, i più forti esportatori dell'eurozona - i tedeschi - non si mostrano particolarmente preoccupati. Una ragione è stata individuata da alcuni osservatori. È noto che si sta formando il fondo Esm, il nuovo «salva-stati», che però potrebbe essere usato anche per salvare le banche. L'incertezza è tale che questo fondo, per ora, non farà prestiti a nessuno. Ma, per non svalutarsi - l'inflazione galoppa a un ritmo superiore al 3% annuo - deve essere investito in titoli sicuri. Quali? Beh, in Europa c'è poco da scegliere. Olanda, Germania e Finlandia, i tre paesi a «tripla A». I quali, però, sono anche quelli che hanno rimesso in discussione le funzioni del fondo. Risultato ai limiti dell'assurdo: la messa in sicurezza del fondo Esm (acquistando titoli a «tripla A») farà aumentare lo spread dei paesi che avrebbe dovuto «salvare». Geniale, no?
Nemmeno le mosse cinesi - la Banca centrale ha «pompato» a sua volta 53 miliardi di dollari nell'ultima settimana - hanno ottenuto il risultato sperato: lo yuan si è rivalutato dell'1% in solo giorno, segnado un nuovo record nei confronti del dollaro.
Dove correranno, allora, i capitali finanziari in cerca di un certo margine di guadagno senza fatica? Qui gli analisti si sbizzarriscono. C'è chi vede bene le valute di paesi «emergenti», ma Brasile, Cina, India e Russi tutto possono sopportare tranne che un'eccessiva rivalutazione mentre anche le loro economie stanno frenando seccamente. Ecco dunque apparire all'orizzonte paesi al limite della solvibilità come il Messico. Mentre anche Singapore e Russia sembra pronti a sparare quantitative easing pur di mantenere l'oscillazione con il dollaro entro determinati limiti.
Chi si indigna soltanto per i quattro soldi rubati da un sottobosco politico al di sotto di qualsiasi soglia dovrebbe un attimo riflettere sulle dimensioni della ricchezza spesa nella «guerra delle monete» e che finisce nelle banche. Non c'è proprio partita.

da "il manifesto"
 

28/09/2012

Sull’ondata di proteste per il film su Maometto

Vi propongo il testo di un’intervista che ho rilasciato qualche giorno fa sul caso delle rivolte scoppiate per il film su Maometto.
L’intervista è di Michele Marelli

Nella misteriosa vicenda che riguarda il film blasfemo sul Profeta Maometto, le cose che non tornano sono parecchie. La sensazione che si sia cercato di provocare una reazione a tutti i costi è forte…

Camilleri definirebbe l’autore di questo film ‘mastro d’opra fina’. Come prodotto artistico è una schifezza irripetibile, ma come operazione di guerra psicologica è assolutamente impeccabile, da manuale direi.
 
Stando alla versione ufficiale, dietro a questo film ci sarebbero unicamente tre copti di origine egiziana – Nakoula Basseley Nakoula, Nasrallah Abdelmasih e Morris Sadek. Le sembra un’ipotesi credibile?

Non diciamo cazzate. Per com’è stata concepita e per la raffinatissima sensibilità psicologica dimostrata, si tratta quasi certamente di un’operazione da Servizi Segreti. Quei tre cretini dovrebbero innanzitutto spiegare dove hanno trovato i soldi per fare questo film; ma, in ogni caso, se io – insieme a dieci amici – trovassi dei soldi per girare un cortometraggio con l’obiettivo di prendere a pesci in faccia l’Islam, potrei pure metterlo su YouTube ma non è che automaticamente tutti se ne accorgerebbero. Se aspettassi il passaparola, forse in cinque anni… Se una cosa del genere scoppia in modo così repentino, significa che qualcuno, oltre ad averci messo dei soldi, ha organizzato alla perfezione il lancio del film via web proprio allo scopo di ottenere un’eco mediatica come quella che abbiamo visto.

Pare che il film fosse in rete già dallo scorso giugno e che solo con la comparsa – circa due settimane fa – di una versione sottotitolata in arabo si sia giunti allo scoppio, decisamente repentino, di questa crisi. Strano, se si pensa che in Paesi come la Libia e lo Yemen l’alfabetizzazione si attesta intorno al 50%…

Cerchiamo di capire, innanzitutto, chi ci guadagna. Non può non colpire la coincidenza fra questa crisi e l’avvicinarsi della possibile azione militare israeliana contro l’Iran. Diciamo che la ‘minestra’ era preparata da un po’. Se è vero che il film era stato caricato su YouTube già lo scorso giugno, probabilmente questa cosa era ‘in viaggio’ già dalla scorsa primavera, se non addirittura da prima. Qualche tempo tecnico per preparare questa porcheria ci sarà pure voluto…

Tra l’altro pare che questo misterioso produttore, Nakoula, si sia recato in Egitto alla ricerca di fondi. Sarà un caso, ma la presenza dei Servizi Segreti israeliani in Egitto è un fatto assodato…

Si può dire che lì stiano di casa… L’interesse è chiaramente di chi auspica una frattura fra il Mondo islamico e l’Occidente. È per questo che mi viene da pensare più agli israeliani che agli americani. Questi ultimi puntano, semmai, più a una rottura fra l’Iran e il Mondo arabo, giocando – con l’appoggio dell’Arabia Saudita – sul crinale sunniti-sciiti. Qui invece l’operazione ha mirato a spostare la spaccatura sulla contrapposizione Occidente-Islam: l’intento è inequivocabilmente quello di impedire un ponte col mondo islamico. Per quanto possa sembrare paradossale, gli israeliani sono più interessati a un Medio Oriente fondamentalista che non a un Medio Oriente che evolva verso forme di democrazia più o meno simili a quelle occidentali. In un Medio Oriente tendenzialmente filo-occidentale, democratizzato e secolarizzato, infatti, Israele perderebbe gran parte della sua ragione d’essere.

Quando parla di un coinvolgimento israeliano in questa vicenda, a chi si riferisce?

Parlare di Israele in toto sarebbe un errore. Ho in mente alcuni circoli di destra che, per esempio, non vogliono saperne di alcun processo di distensione coi palestinesi e che premono per un’operazione in Iran. Consideriamo poi un altro fatto: la destra israeliana non ama Obama. Non le sembra strano che questa crisi in Nordafrica e in Medio Oriente sia scoppiata a poco più di un mese dalle Presidenziali americane? Di colpo Obama si è trovato tra le mani, oltre a un Ambasciatore ucciso in un modo a dir poco atroce, una situazione delicatissima: se non reagisce trasmette un’immagine di debolezza, ma può forse reagire bombardando a cuor leggero le città di un Paese che lui stesso ha contribuito a liberare da una dittatura?

Eppure, stando ai primi sondaggi, sembra che Romney non abbia guadagnato terreno su Obama in questa fase. Anzi, sembra che ci stia addirittura rimettendo…

Romney ci sta rimettendo perché è un inetto. Però, obiettivamente, lo ‘scherzo’ a Obama non è stato carino…

In questa operazione, secondo lei, quali altri attori potrebbero essere in gioco?

Io non escluderei l’ipotesi di una ‘manina’ americana riconducibile a quei settori legati ai petrolieri. L’idea che abbiano dato una mano o che siano essi stessi i ‘committenti’ non è campata per aria. Non vedo, viceversa, la possibilità di coinvolgimenti di altri Servizi Segreti. Nessun Servizio europeo, in un momento di crisi come questo, si prenderebbe la briga di far scoppiare un simile caos. I cinesi? Che interesse vuole che abbiano… I russi? Quelli hanno già tanti problemi coi ceceni e la creazione del nemico americano è roba da URSS, non da Russia di Putin… Gli iraniani…?

Trova così improbabile l’ipotesi di un coinvolgimento dei Servizi Segreti iraniani? In effetti, questa crisi sembra aver ricompattato l’opinione pubblica musulmana contro il comune nemico americano, indipendentemente dalle divisioni fra sunniti e sciiti…

Sì, è vero. Ma un’operazione simile, a tre settimane da un possibile attacco israeliano in Iran, non avrebbe alcun senso. Il tempismo fa pensare agli israeliani, non agli iraniani.

Ha in mente altre possibili ‘regie’?

Si potrebbe anche pensare a un’operazione dei Fratelli Musulmani egiziani organizzata per mettere in crisi l’Esercito e per mobilitare le masse verso un fondamentalismo religioso lontano da uno sbocco di tipo democratico-occidentale. Ma è un’ipotesi poco probabile…

La ‘pista egiziana’ non la convince?

Non è una pista campata per aria, intendiamoci. Tuttavia, i Servizi Segreti egiziani – i cosiddetti Mukhabarat – sono roba seria e, a quanto ne so io, sono controllati dall’Esercito. Se i Fratelli Musulmani si fossero mossi in questo senso (e dubito che siano così ‘raffinati’), i Mukhabarat l’avrebbero scoperto e, a quel punto, l’obiettivo dell’operazione sarebbe stato chiarissimo. Il piano, le garantisco, non sarebbe andato in porto.

Un gioco di sponda fra alcune frange dei Servizi Segreti americani e l’Intelligence israeliana legata alla destra, dunque?

È sicuramente un’ipotesi molto più convincente.

Quando parla di Servizi Segreti israeliani a chi allude?

È sbagliato pensare necessariamente al Mossad. Esistono altri Servizi, come quello dell’Esercito, decisamente più ‘cattivelli’. A confronto, quelli del Mossad sono i ‘buoni’ (quant’è difficile usare quest’espressione…). È l’Esercito che in questa storia ha un interesse maggiore a mantenere una tensione permanente, in modo da restare un’istituzione intoccabile. Fino a quando permarrà una situazione d’emergenza, infatti, l’Esercito potrà fare ciò che vuole.

Torniamo ai tre copti che avrebbero prodotto il film blasfemo su Maometto. È probabile che siano stati usati e che non abbiano la minima idea di chi siano in realtà le persone per cui stanno lavorando?

Quando dico che il regista di questa operazione è ‘mastro d’opra fina’ penso anche alla scelta della ‘faccia’. Tra tutti i possibili ‘candidati’ chi si è deciso di usare per un’operazione di questo tipo? Tre copti. Così magari ci scappa pure un bel massacro dei cristiani in Egitto. Ulteriore motivo per poter dire: «Guardate i musulmani che carogne che sono»… Probabilmente si tratta di tre imbecilli reclutati per l’occasione. Qualcuno avrà detto loro: «Facciamo una cosa contro Maometto» e quelli ci sono cascati in pieno. Se si fosse voluto creare un caos simile in Turchia, a metterci la faccia sarebbero stati sicuramente tre armeni… Sotto questo punto di vista, ripeto, è stata un’operazione perfetta.

Colpisce anche un altro fatto, tralasciato dai più. Si parla di rivolte in tutto il mondo islamico, eppure nella Penisola Arabica – ad eccezione dello Yemen – sembra che non stia succedendo niente. In Arabia Saudita, in Qatar, negli Emirati Arabi Uniti e in Oman nessuno si muove in difesa del Profeta…?

Questo ha colpito anche me. Tuttavia, l’Arabia Saudita è un Paese poco popoloso, molto più controllato anche per ciò che riguarda Internet e colpito solo in misura ridottissima dalla Primavera Araba, mentre Qatar ed Emirati sono Paesi ad alto reddito. In più, non dimentichiamo che in quella zona ci sono le basi americane… Diciamo che le condizioni e gli interessi per tenere sotto controllo la cosa ci sono. È la dimostrazione di un fatto: se non si crea un ‘ponte’, la notizia non passa. A colpirmi è anche un altro fatto: a muoversi maggiormente sono stati, guarda caso, i Paesi colpiti dalla Primavera. L’impressione è che si tratti proprio di un’operazione mirata…

Sotto dittatura i popoli europei

di Gianni Lannes

No pasaran, No pasarán, Ils ne passeront pas, They shall not pass. Non passeranno.  
L’Europa dei popoli è vittima di un’aggressione finanziaria senza eguali nella storia della modernità, il cui scopodichiarato è la conquista a qualunque prezzo umano. Il popolo spagnolo, prima di chiunque altro (compreso il dormiente italiano) - come nel 1936 - ha ben compreso il destino fatale che ci attende se non ci sarà una reazione risolutiva. E' in gioco la democrazia, la qualità della vita ed il futuro di milioni di esseri umani. E ieri c’è stata guerriglia. Duri scontri il 25 settembre a Madrid tra i manifestanti del movimento degli indignati e la polizia, che ha fatto diverse cariche e utilizzato proiettili di gomma per disperdere i giovani nei pressi del Congresso dei deputati. Migliaia di persone si sono riunite ieri davanti al Parlamento al grido di "dimissioni", per denunciare una democrazia "sequestrata" e "schiava dei mercati finanziari". Anche la Grecia si sta svegliando dal letargo.

Ovviamente non basta una protesta spontanea: il sistema di dominio è ben organizzato. Gli oligarchi del terzo millennio prima di usare le maniere forti hanno annichilito le garanzie legali nel vecchio continente. Come? Adottando il 13 dicembre 2007 il Trattato di Lisbona che ha sospeso le Costituzioni dei Paesi aderenti all’Unione Europea. E precedentemente, due mesi prima (18 ottobre 2007) aderendo al Trattato di Velsen che ha dato carta bianca, ossia licenza di uccidere (“legalmente”) chiunque ostacoli questo processo di dominio - la polizia militare che va sotto il nome di Eurogendfor, controllata dalla Nato. Infine il Fiscal Compact: addio alla sovranità economica. Così, grazie alla compiacenza di interi parlamenti nazionali e dei soliti padrini l’indipendenza è stata azzerata.

La storia sembra non insegnarci nulla. Un secolo fa furono concepiti i piani disumani di sottomissione dell’Europa da parte del sistema industriale. Due guerre mondiali avviate per spietati interessi economici hanno mietuto circa 100 milioni di vittime nel tentativo di dominare il nostro continente.

E’ finita la guerra fredda ed è cominciata la terza guerra mondiale. Purtroppo, nostro malgrado, siamo in guerra, sotto il tallone militare nordamericano, vale a dire il braccio armato che esegue gli ordini del complesso industriale Usa, spronato dall'insaziabile cupidigia dell'industria chimica, farmaceutica e nucleare.

Su la testa: non facciamoci raggirare e soffocare anche da guru ammaestrati e profeti urlanti. Non possiamo essere indifferenti mentre cercano di sottometterci definitivamente. Il loro scopo platealmente dichiarato è la subordinazione commerciale e politica di intere nazioni. Si potrebbe partire con una paralisi dei consumi e proseguire con uno sciopero ad oltranza, senza interruzioni per obbligare i parlamenti nazionali a dimettersi in blocco.

L'Europa è un baluardo da abbattere e soggiogare per controllare l'intero mondo. Non ci sarà mai più un' Europa che annichilisce la sua gente per generazioni, rendendola schiava degli interessi e finanziari delle multinazionali. Mai più. Ma spetta a noi combattere, ora. La libertà va ri-conquistata.

Giuseppe Dossetti, un padre italiano della Patria ha scolpito parole dal vivo della sua esperienza: «Quando i poteri pubblici violano le libertà fondamentali e i diritti garantiti dalla Costituzione, la resistenza all’oppressione è un diritto e un dovere del cittadino».

E Mohandas K. Gandhi ha dimostrato con la non violenza: «Sono le azioni che contano. I nostri pensieri per quanto buoni possano essere sono perle false fintanto che non vengono trasformati in azioni. Sii il cambiamento che vuoi vedere avvenire nel mondo». 

Eurogendfor (approfondimenti):

http://sulatestagiannilannes.blogspot.it/2012/02/poteri-illimitati-ai-militari.html

http://www.lindro.it/IMG/article_PDF/article_a1050.pdf

Fonte

27/09/2012

Si può essere garantisti con Sallusti? No

La condanna a 14 mesi di detenzione al direttore del Giornale Sallusti lascia indifferente persino chi, come chi scrive, trova aberranti i reati di opinione ed è per il superamento della società del carcere. Sallusti è stato condannato per aver pubblicato un articolo sul Giornale dove si pubblicava una notizia falsa (un aborto indotto da un magistrato) invocando la pena di morte per i magistrati abortisti.

Dopo la condanna di Sallusti si sono quindi riscoperti, nel centrodestra come nel centrosinistra, i principi illuministici della libertà d'opinione. Si è chiesta la grazia per il direttore del Giornale e ci si è domandati se si può finire in carcere per un'opinione. Francamente tutto questo ci ricorda le affermazioni sul rischio di violazione della costituzione americana in caso di chiusura di siti nazisti negli Usa.

Il Giornale è una testata che, da quando è l'organo del berlusconismo militante, attacca la libertà di espressione di chiunque intimidendo e, come abbiamo visto, falsificando. Attacchi e dossieraggi che si pretendono essere fatti in nome della libertà di espressione. La lista delle nefandezze, di violazioni della libertà e della dignità altrui del Giornale di Sallusti, e prima ancora di Feltri, è troppo lunga per essere citata. E' comunque sufficiente evocarla per negare qualsiasi solidarietà al direttore del Giornale.

Risulta oltretutto perlomeno indecoroso che il dibattito sulla libertà di espressione in Italia si risvegli attorno a Sallusti. Davvero siamo all'Ancien régime: esiste un regime di garanzie per il notabilato e uno stato permanente di arbitrio nei confronti del popolo. Infatti il dibattito pubblico gira intorno al fatto che una legge vecchia, superata e ingiusta per molti, sia applicata al direttore de Il Giornale. Fino ad oggi però andava bene, probabilmente non aveva mai colpito così in alto ma solo qualche direttore di giornali o siti d'informazione indipendente.

Non bisogna abboccare alle lenze degli illuministi fuori tempo massimo, quelli che hanno voltato le spalle tutte le volte che in questo paese i diritti si violavano davvero: nessuna solidarietà a Sallusti.

La funzione Polverini e la marea

"Si vive in un'epoca in cui solo gli ottusi sono presi sul serio" (Oscar Wilde)

POLVERINI_FESTEGGIALo scandalo è quello strumento di regolazione dei rapporti politici che è passato, viaggiando in varie epoche, dalla società di corte a quella delle reti. Non a caso Castells, in Comunicazione e potere, gli dedica un importante capitolo. Perchè lo scandalo è uno strumento potente di regolazione dei conflitti politici e di potere. E funziona senza sparare un colpo. Ma anche nella società di corte lo scoppio dello scandalo non coincideva con la cospirazione, ma avveniva entro fattori complessi di circolazione delle informazioni. Quindi questa profonda dissimetria tra cospirazione e scandalo, tra effetto della promozione sociale di chi esce vincitore da una vicenda scandalistica e cause della delegittimazione di un personaggio o di un ceto politico, vale tanto più nella nostra società mediale. Dove le fonti di informazione, e quindi di delegittimazione, sono ancora più complesse e spesso non facilmente governabili.

In questo contesto la vicenda Polverini va, putroppo, separata da quella del format narrativo di un ceto politico vorace, di cui l’ormai ex presidente del Lazio è espressione, che ha dato spettacolo di sé. Specie nel momento in cui si è voluto assicurare il passaggio di status rappresentato dalla transizione dal consumo regolare di porchetta a quello di ostriche, dal fine settimana in albergo a tre stelle alla settimana a spese della regione negli esclusivi resort sulla costa Smeralda. Si scrive purtroppo perchè la lettura di queste vicende in termini di commedia, che l’esangue cinema italiano non sa cavalcare, potrebbe rappresentare una divertente narrazione su ascesa e declino di un ceto politico a cavallo tra provincia e metropoli.

La questione va però vista in un altro modo specie quando sia i media ufficiali che la  rete, sullo scandalo della regione Lazio, traboccano di particolari che sembrano usciti dai film di Luigi Zampa o di Sergio Corbucci. Quando c’è sovrapproduzione di questi particolari, si può guardare la vicenda con uno sguardo più direttamente politico. E qui è bene essere chiari: le dimissioni di Renata Polverini non mettono all’angolo un ceto politico anacronistico, con tanto di corte dei miracoli al seguito, che non aveva capito la fine di un’epoca. Ma mettono in seria difficoltà un processo di evoluzione in atto della destra mainstream italiana. Quello che è accaduto nel Lazio ci dà elementi per capire il futuro della destra in Italia, qualsiasi forma assuma (anche di centrosinistra), piuttosto che rappresentare la fine di un modo di fare politica. E’ il contenitore del Pdl infatti che è scomparso, non determinate esigenze della politica istituzionale. Esigenze che si concretizzano in un modo: il ceto politico istituzionale è, a parte alcune eccezioni, completamente funzionale ad una logica di tagli e di dismissioni. Consapevole dei costi politici di questo comportamento, come dire, emette conseguentemente fattura per questo genere di prestazioni.

E’ da notare infatti come l’abnorme rigonfiamento delle spese per la presidenza e i consiglieri della regione Lazio coincida con dei tagli stringenti e pesanti a sanità e welfare della stessa regione. E qui i fatti sono due, non necessariamente in alternativa: un ceto politico, consapevole della secca perdita di voti a causa dei tagli, si fa compensare in denaro oppure storna dei fondi per curare le clientele strategiche per farsi rieleggere. Per questo è utile parlare di “funzione Polverini”:  accumulare fondi per sostenere una maggioranza che farà tagli feroci. Il tentativo di emancipazione della destra laziale, che ha abbandonato ogni velleità di essere realmente “sociale”, dalla crisi del berlusconismo si spiega con questa funzione. Non fosse che risse e comportamento plateale della destra istituzionale laziale l’hanno consegnata alla società dello spettacolo e quindi nelle braccia della politica dello scandalo.

Non è quindi un caso che già dall’alba della società industriale, gli stessi vescovi anglicani consigliassero sobrietà pubblica alle classi dirigenti che affamavano il popolo. L’ostentazione della ricchezza, o della lussuria come nel caso laziale, consegna infatti le classi dirigenti alla politica dello scandalo determinandone crisi, delegittimazione e disgregazione. Resta però un’esigenza delle classi dirigenti italiane, che quella laziale ha interpretato a modo suo: tagliare, tanto e a lungo, ha un costo politico e di immagine che in qualche modo va contabilizzato. La destra che riuscirà, anche in forma di centrosinistra, ad interpretare questo problema senza scottarsi si candiderà a governare il possibile prossimo decennio perduto della storia del nostro paese.
Resta però un dettaglio che, anche nei sistemi rappresentativi democratici più chiusi, tende a riproporsi a breve nel caso italiano. Lo spettacolo dello scandalo delle classi dirigenti ufficiali, la reiterazione dell’ostentazione della lussuria (spettacolo che rende la ricchezza massimamente impopolare), rendono piuttosto ardua la conferma elettorale dei partiti che attualmente sostengono il governo Monti. Non solo, si sta imponendo il desiderio, alle prossime elezioni, del voto “per punire” le attuali classi dirigenti. Insomma, la marea della cosiddetta antipolitica se monta, nell’attuale situazione, può generare il caos scomponendo completamente la politica italiana. La politica dello scandalo, si sa, non solo moralizza e stabilizza le classi dirigenti ma può anche consegnarle alla delegittimazione permanente.

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ILVA, il gip respinge il piano dell’azienda.

Il piano dell’Ilva di Taranto “è inadeguato“, “non c’è spazio per proposte al ribasso” e i beni in gioco, come la salute, l’ambiente, lo stesso diritto al lavoro, “non ammettono mercanteggiamenti”. Il no del gip Patrizia Todisco all’Ilva è arrivato, è nero su bianco, depositato in cancelleria. Il gip si allinea al no già espresso qualche giorno fa dalla Procura. “La richiesta dell’Ilva è sconcertante” scrive il gip. “E’ inaccettabile”, secondo il giudice, il ragionamento dell’Ilva che “ha chiesto l’autorizzazione all’attività produttiva, non quantitativamente precisata, finalizzata sostanzialmente alla sostenibilità e alla realizzazione del risanamento, come se ci fosse una inesigibilità economica”. Il magistrato ha respinto anche le richieste di rimessione in libertà avanzate dai legali di Emilio e Nicola Riva, ex presidenti dell’Ilva, e di Luigi Capogrosso, direttore fino allo scorso mese di giugno dello stabilimento siderurgico tarantino (sono tutti agli arresti domiciliari dal 26 luglio).

Sotto il profilo dei sequestri è un doppio no quello del magistrato: all’istanza con cui l’Ilva aveva chiesto la possibilità di continuare a produrre, sia pure ad un passo di marcia ridotto, e al piano aziendale da 400 milioni di euro relativo agli investimenti per mettere a norma lo stabilimento e abbattere le emissioni inquinanti. Primi investimenti, ha detto sempre Ferrante, in attesa di avere il quadro della nuova Autorizzazione integrata ambientale e quindi programmare altri investimenti e ulteriori spese.

Da qui partirà la reazione del ministro dell’Ambiente Corrado Clini: “Chiederemo subito il rispetto dell’Aia”. “In base alla legge italiana in applicazione della direttiva europea – ha aggiunto Clini – il ministro dell’Ambiente è l’autorità competente per l’AIA, che rappresenta il documento di autorizzazione all’esercizio degli impianti industriali nel rispetto delle norme per la tutela dell’ambiente e la salute”. L’Aia, ha aggiunto, “avrà le prescrizioni puntuali per l’adeguamento degli impianti di Taranto agli standard stabiliti dalla commissione Ue e che dovranno essere rispettati a partire del 2016 ma che noi chiederemo all’Ilva di applicare da subito”. Clini però risponde anche al gip: “Il ministro dell’Ambiente – dice – non fa mercato, interviene a difesa della salute della popolazione”.

I sindacati, nel frattempo, hanno indetto due giorni di sciopero. Si terranno domani e venerdì: il primo turno dalle 9 sino a fine turno, per otto ore invece il secondo e terzo turno. Analoga protesta anche venerdì. Lo sciopero è stato proclamato da Fim Cisl e Uilm. La Fiom parla di “esasperazione all’interno della fabbrica2. Nel pomeriggio nella sede di Confindustria, a Taranto, si terrà un incontro tra il presidente dell’Ilva, sindacati e Confindustria. La riunione era stata convocata già ieri.

Il giudice: “Il piano dell’Ilva misure già annunciate e mai realizzate”Tutto già deciso 8 anni fa, ma mai realizzato. E’ uno dei punti sui quali si basa il no del gip di Taranto. “Non può non rilevarsi con grande amarezza – scrive – come tutti gli interventi proposti da Ilva nell’attuale istanza siano esattamente quelli facenti parte di due atti di intesa adottati tra l’Ilva, la Regione Puglia, il Comune di Taranto, il Comune di Statte e organizzazioni sindacali l’8 gennaio 2003 e il 27 febbraio 2004, e molti di essi dovevano già essere realizzati da diversi anni. In conclusione la proposta tecnica dell’Ilva appare inserirsi più che altro nello stesso solco dei famosi atti di intesa rimasti sulla carta e comunque assolutamente insufficiente”.

In particolare, rileva ancora il gip nel provvedimento, per l’area delle cokerie l’intervento prospettato dall’Ilva è parziale, “tralasciando completamente le altre che invece i custodi (quasi per tutte) indicano come destinate allo spegnimento e completo rifacimento. Appare curioso come l’Ilva proponga un intervento su delle batterie già oggetto di sequestro” negli anni precedenti “e per le quali proprio a seguito di tale sequestro gli adeguamenti dovevano già essere realizzati da diversi anni”.
“Non si può certamente parlare di inesigibilità tecnica o economica quando sono in gioco la tutela di beni fondamentali quali la salute e la vita delle persone e la salubrità dell’ambiente – rileva – Appare a dir poco sconcertante” la richiesta dell’Ilva di continuare a produrre “prescindendo da qualsiasi considerazione in merito alla perpetuazione che sarebbe implicata dal provvedimento di accoglimento, di situazioni lesive e pericolose per la salute degli abitanti di Taranto e dei lavoratori dell’Ilva”.

“Non può essere autorizzato alcun uso a fini produttivi” spiega, insomma, il magistrato. L’autorizzazione a una minima capacità produttiva, secondo il gip, sarebbe infatti in contrasto con la natura del sequestro preventivo che ha lo scopo di impedire che proseguano le emissioni incontrollate di sostanze nocive che hanno causato il disastro ambientale e sanitario del capoluogo ionico e per cui sono indagati ivertici aziendali della fabbrica. È arrivata in un documento di 15 pagine la bocciatura ufficiale al piano di interventi proposto dall’azienda che sperava sotto l’impegno di una spesa di 400 milioni di euro di ottenere la possibilità di continuare a produrre. Una richiesta “sconcertante” secondo il gip che ha definito l’istanza “inaccettabile” nonché “non quantitativamente precisata, finalizzata sostanzialmente alla sostenibilità e alla realizzazione del risanamento, come se ci fosse una inesigibilità economica”.

Il giudice Todisco ha ritenuto pienamente condivisibili le motivazioni che hanno portato la procura di Taranto e i custodi tencici Barbara Valenza, Emanuela Laterza e Claudio Lofrumento a formulare un parere negativo nel quale è stata anche raccontata la beffa dei protocolli dìintesa stipulati dall’azienda nel passato. Gli interventi annunciati e coperti dai 400 milioni di euro, sarebbero infatti impegni che l’Ilva ha assunto negli atti stipulati con le amministrazioni locali tra il 2003 e il 2006 e che, di fatto, non avrebbe mai rispettato. Non solo. Il gip ha riportato integramente il parere della procura che scrive: “Evidentemente la colossale presa in giro degli atti di intesa era un sistema ben rodato”. Un sistema quindi che non può non aver avuto nelle istituzioni una sorta di complicità: qualcuno, infatti, avrebbe dovuto controllare che quegli impegni fossero portati a termine e, invece, non l’ha fatto”.

Il giudice Todisco ha poi precisato che non vi può essere alcuna contrapposizione tra diritto alla salute e diritto al lavoro poiché quest’ultimo già presuppone che il lavoro rispetti “i diritti fondamentali della persona: salute, sicurezza, libertà e dignità umana”.

L’unico piano in piedi, quindi, resta quello dei custodi che hanno già disposto il fermo di tre altiforni e di sette betterie. “L’ilva – ha infatti concluso il gip – è obbligata a porre i tecnici nella condizione di curare le realizzazione dei predetti interventi, assicurandone l’integrale copertura finanziaria”. Questo secondo il gip è ciò che l’Ilva deve fare per “riprendere l’attività produttiva presso lo stabilimento di Taranto”, ma solo dopo “l’effetivo ripristino della legalità violata” e in “condizioni di assoluta sicurezza per la salute della popolazione locale dei lavoratori e dell’ambiente”. Per il giudice Todisco “non vi è spazio per proposte al ribasso” poiché “i beni in gioco” intesi come salute, vita, ambiente e lavoro dignitoso “non ammettono mercanteggiamenti” e l’azienda “non può porre alcuna condizione”.

Clini: “Il ministro non fa mercato, difende la salute della gente”
“Mi auguro” che la decisione del gip “non interferisca con la procedura prevista dalla legge italiana”, ossia che il ministro dell’Ambiente “rilasci l’autorizzazione ambientale integrale”. Il ministro dell’Ambiente Corrado Clini risponden così al question time sull’Ilva. Clini ha sottolineato che “in questi giorni” sarà completata “l’istruttoria per l’autorizzazione integrata ambientale. Avrà le prescrizioni puntuali per l’adeguamento degli impianti di Taranto agli standard stabiliti dalla Commissione europea e che dovranno essere rispettati a partire dal 2016. Noi chiederemo all’Ilva di cominciare a rispettare questi standard adesso, cioè con 4 anni di anticipo”.
Poi una replica a distanza al gip che parla nel provvedimento di “mercanteggiamenti”. “Il ministro dell’Ambiente non fa mercato”, ma interviene “a difesa della salute della popolazione”, puntualizza. “Noi stiamo facendo una cosa che in Europa ancora non esiste, ci sarà dal 2016 – chiarisce Clini – parlando degli standard degli impianti – Questo non è mercato ma il modo corretto di intervenire a difesa della salute della popolazione. Quello che mi auguro è che la decisione presa dal gip non interrompa il percorso avviato dal ministero”. Clini ribadisce che l’Aia avrà “prescrizioni sull’adeguamento degli impianti agli standard più recenti, alcuni sono gli stessi proposti da Ilva negli interventi urgenti”.
“Aspetto di leggere il documento del gip – ha continuato il ministro – con il quale è stata respinta la proposta di Ilva per un primo intervento urgente nelle aree dello stabilimento più critiche, che prevede investimenti per 400 milioni di euro e mi auguro che questa iniziativa non interferisca con la procedura prevista dalla legge che noi intendiamo rispettare puntualmente e che stabilisce che il ministro dell’Ambiente rilasci l’autorizzazione integrale ambientale”. Il ministro assicura che “stiamo lavorando in modo responsabile. Mi auguro che tutte le istituzioni abbiano lo stesso senso di responsabilità. Siamo impegnati ormai da più di due mesi senza sosta per cercare di dare tecnicamente, e che sia poi certificabile, una risposta alla domanda di salute della città di Taranto, garantendo la continuità della produzione”.

L’ennesimo no al piano
Il “Piano di investimenti immediati” redatto dall’Ilva è stato consegnato il 18 settembre scorso dal presidente Ferrante in procura. Il piano non è piaciuto da subito: non convinse neppure i sindacati, che già il 18 settembre all’uscita dall’incontro con Ferrante che glielo aveva presentato, giudicarono “inadeguate” le risposte dell’azienda rispetto alle indicazioni operative già allora formulate dalla Procura. Poi, il piano non è piaciuto agli ingegneri-custodi giudiziari Barbara Valenzano, Emanuela Laterza e Claudio Lofrumento, che il 20 settembre si espressero per una bocciatura sostanziale in un documento contenente una relazione tecnica e consegnato al procuratore di Taranto, Franco Sebastio, e ai pm che si occupano dell’inchiesta per disastro ambientale a carico dell’Ilva. Il giorno dopo giunse il “no” della procura sia al piano sia alla richiesta aziendale di mantenere una capacità produttiva minima per tenere in equilibrio la tutela dell’ambiente e del lavoro.

Bersani: “Il governo prenda in mano la situazione”
Al governo bussa il segretario del Pd, Pierluigi Bersani: “Il governo prenda in mano la situazione, come ha fatto. Sono molto preoccupato e mi auguro che all’Aia si raccolga la preoccupazione dei magistrati ma al tempo stesso si faccia in modo di non chiudere l’attività”. “Il governo – aggiunge – ha in mano, in base alla legislazione europea, l’Autorizzazione ambientale. Spero che in essa si raccolga la preoccupazione dei magistrati e al tempo stesso di non spegnere l’attività, perché forse non si percepisce ancora la dimensione colossale del problema”. Per il segretario Pd “serve una ricerca attenta e anche costosa della compatibilità tra il tema ambientale e produttivo. E’ l’unica strada possibile”.

Clima teso, proteste, sciopero della fame e della seteE’ sempre più teso, intanto, il clima dentro e fuori lo stabilimento siderurgico. Stamani 9 operai sono saliti sulla passerella in cima al camino E312 dell’area agglomerato dove si sono incatenati esponendo tre striscioni di protesta. I nove operai si aggiungono ai gruppi – cinque a turno – che da ieri sera si stanno alternando in presidio sulla torre di smistamento dell’altoforno 5, il più grande d’Europa, uno degli impianti sotto sequestro perché inquinanti. L’altoforno 5, con l’altoforno 1, secondo le disposizioni dei custodi giudiziari, va spento e sottoposto a rifacimento. Uno dei manifestanti dell’Afo5 ha consegnato una lettera al segretario provinciale della Uilm di Taranto, Antonio Talò. “Aiutateci, non spezzate il mio futuro”, scrive tra l’altro l’operaio. Gli operai sulla passerella del camino hanno annunciato lo sciopero della fame e della sete.

L’operaio a Clini: “Quanto vale la mia vita?”“Vorrei sapere dal ministro Clini e da Riva: quanto vale la mia vita e quanto vale quelle dei miei figli?” chiede Cataldo Ranieri, un operaio dell’Ilva componente del Comitato cittadini e lavoratori liberi e pensanti che, insieme con un gruppo di compagni di lavoro, si trova davanti allo stabilimento. “Noi non siamo contro la magistratura – chiarisce - Vogliamo che lo Stato ci dia risorse per fare acciaio pulito come accade nel resto d’Europa, e non bastano 400 milioni di euro. Non siamo noi di certo – aggiunge – a volere la chiusura dello stabilimento, è Riva che vuole la chiusura se non mette i soldi. E chi non mette i soldi per far si che i nostri colleghi, che noi tutti, non si muoia a 50 anni: ogni giorno noi qui, vediamo davanti alla fabbrica manifesti listati a lutto. Questo è giusto?”.

“La protesta degli operai? Esprime l’esasperazione in fabbrica”La Fiom appare preoccupata. Il segretario provinciale Donato Stefanelli denuncia che “quello che è accaduto, con la decisione di alcuni operai, di salire sull’altoforno e il camino è l’espressione della esasperazione che c’è in fabbrica”. “Si tratta – ha aggiunto – di manifestazioni incontrollate. Poco fa, alcuni operai sono saliti anche sulle passerelle della batterie e poi sono scesi, e siamo preoccupati, siamo preoccupati per la situazione di pericolo in cui si possono trovare questi operai”.
“E’ arrivato il momento – dichiara il sindacalista – di fare le assemblee e decidere insieme ai lavoratori cosa fare. Non è più rinviabile”. Secondo il segretario provinciale della Fiom, inoltre, “non bisogna bloccare la città, tra i lavoratori e la città bisogna costruire ponti del dialogo”. Di qui un appello forte alla città: “Non bisogna lasciare soli questi lavoratori. E’ il momento di parlarsi e non di contrapporsi; occorre il dialogo e non bisogna scavare le trincee”.

Fonte

Secondo me l'ILVA fa melina in attesa del momento propizio per sbaraccare da Taranto, mollando la patata bollente completamente in mano dello Stato che si farà carico di anni di cassa integrazione e della bonifica (insufficiente e infarcita di mazzette) delle aree industriali abbandonate. Ovviamente, col senno di poi, amministratori locali, nazionali e sindacati crocifiggeranno i magistrati per la iattura occupazionale che hanno tirato alla provincia tarantina.

26/09/2012

Gli ideologi del Corriere della Sera

Dopo Giavazzi e Alesina contro lo Stato sociale, il Corsera "spara" Panebianco contro i magistrati sul caso Ilva e i ricorsi Fiom.

Il Corriere della sera è da sempre il “pesce pilota” della borghesia nazionale, l'interprete in tempo reale delle esigenze e dell'ideologia di questo settore. Da giorni batte con i sui editoriali sempre sullo stesso tasto: aboliamo lo stato sociale, ridiamo alla legge della giungla l'ultima parola su ogni cosa e vedrete come saremo di nuovo “competitivi”.

Oggi è stato il turno di Panebianco, grigio e stanco tessitore di frasi fatte, che si impegna come può nello stilare la “lista dei nemici”, definiti “complici del declino”. Significativo non per la profondità del pensiero, quanto per il fatto che la classe dirigente ritenga necessario rivolgersi così ai lettori, veicolando un senso comune reazionario senza ritorno.

Come altra volte, “decodifichiamo” il ragionamento inframezzando l'editoriale di Panebianco con le nostre considerazioni.


Tutti i complici del declino
Angelo Panebianco

Ma perché mai dovrebbe esserci in Italia un futuro di crescita economica, di ampliamento della ricchezza individuale e collettiva, di assorbimento e valorizzazione delle energie giovanili, se entrambi i principali strumenti di guida e controllo della collettività, la politica e il diritto, danno l'impressione di essere stati plasmati per favorire il declino, l'accelerazione della deindustrializzazione del Paese, l'accrescimento e la diffusione della povertà?

Redazione. È singolare questo atto d'accusa contro “politica” e “diritto” per come sono stati costruiti in Italia. Quel che abbiamo davanti, infatti, è esattamente quello che il Corriere della sera ha sponsorizzato per decenni. Se la notazione critica venisse da un giornale d'opposizione, potrebbe sembrare sensata; ma dal Corriere, via...

Partiamo dal diritto. Si accusano sempre e soltanto i politici per le astruserie delle norme che regolano l'amministrazione pubblica e i rapporti fra amministrazione e cittadini. Ma i politici sono solo dei coprotagonisti e, spesso, anche impotenti (basti vedere come il cavillismo, di cui l'amministrazione pubblica è maestra, riesca oggi a ritardare, e forse anche a sabotare, l'attuazione di diverse riforme varate dal governo Monti). Quella impalcatura giuridica, soffocante e irrazionale, è gestita, plasmata, interpretata da una «infrastruttura amministrativa», una burocrazia, che, per mentalità prevalenti e stili di lavoro, è assai poco compatibile con le esigenze di una società industriale in crescita.

Red. L'«infrastruttura amministrativa» e giuridica italiana è frutto di compromessi più o meno “storici” tra esigenze oggettive e interessi di parte. Anche qui, il Corsera ha avuto per decenni un ruolo “ideologico” non secondario, consigliando sempre il conformismo alla burocrazia: sia quando si trattava di “proteggere” l'impresa e il potere, sia quando c'era da “fare le pulizie” (Tangentopoli, ecc). “Mentalità” e “stili di lavoro” sono stati sagomati per rispondere a certi input, che con “l'efficienza” e “il merito” c'entrano davvero poco. Ma l'intemerata di Panebianco contro il “cavillismo” sembra fuori luogo quanto l'incazzatura di un padre che ha dato per anni il sonnifero ai figli per non essere disturbato e poi scopre che, diventati grandi, sono tossicodipendenti.

Tale uso perverso del diritto da parte di burocrati addestrati a non fare i conti col principio di realtà non caratterizza solo l'amministrazione. Tanti operatori giudiziari sono dello stesso conio, figli della stessa tradizione giuridica che ha formato gli amministratori. Basti vedere come viene giudiziariamente gestita la vicenda dell'Ilva di Taranto. Non sembra che si voglia contemperare a tutti i costi, tenendo conto dei dati di realtà, bonifica e salvataggio della continuità produttiva e delle quote di mercato dell'azienda. Sembra piuttosto che si voglia dare, anche lì, un contributo alla de-industrializzazione del Paese. Come se la disoccupazione e la conseguente povertà non fossero anch'esse attentati alla salute, cause di mille malattie. Oppure pensiamo ai ricorsi Fiom contro la Fiat. La Fiom ha già vinto un importante ricorso su Pomigliano. Poniamo che anche altri magistrati le diano ragione. Non sarebbe forse quello, alla fine, un ottimo argomento per spingere la Fiat a prender su baracca e burattini e andarsene definitivamente? È da dubitare che ci sarebbe in tal caso una vittoria dei «diritti dei lavoratori»: quei diritti, comunque definiti, si estinguerebbero, non essendoci più i lavoratori.

Red. Ma è qui il cuore dell'argomentazione. L'amministrazione e la magistratura dovrebbero uniformarsi al “principio di realtà”, non alle norme o alla legge. Ma è noto che il “principio di realtà” può dare risultati opposti a seconda degli interessi in campo. Il boia e il condannato, per esempio: applicando lo stesso “principio di realtà” il primo cerca di portare a termine il compito, il secondo di impedirlo. Gli esempi fatti da Panebianco, però, sono davvero rivelatori dell'”interesse di classe” in questo momento. L'Ilva, i ricorsi Fiom contro la Fiat per comportamento antisindacale e il “modello Pomigliano”... In pratica Panebianco vorrebbe un mondo infernale in cui una fabbrica possa ammazzare all'infinito chi ci lavora e chi ci vive intorno, senza che nessuno – nemmeno la magistratura – possa metterci il naso. Strano, pensavamo che l'omicidio volontario, specie se seriale, fosse un reato alquanto grave... E vorrebbe anche un mondo in cui il sindacato non c'è, il lavoratore è muto, l'imprenditore fa profitti cercando le soluzioni per lui più vantaggiose.
Ma Panebianco si rivela ideologo a tutto tondo quando attribuisce alle “regole” (sulla sicurezza ambientale o sui diritti) la responsabilità di “disoccupazione e povertà”; come se solo l'assenza di leggi fosse compatibile con la logica d'impresa. È vero, naturalmente, in una sola direzione: le leggi, secondo lui, dovrebbero legare le mani soltanto ai dipendenti e ai cittadini, mai alle imprese e ai potenti.
Con il tocco “di classe” finale: “Come se la disoccupazione e la conseguente povertà non fossero anch'esse attentati alla salute, cause di mille malattie”. Ricapitoliamo: se è l'impresa a licenziare, la disoccupazione e la povertà sono “benefiche” perché aumentano la competitività; se una regola impedisce all'impresa la libertà totale (anche di omicidio), allora l'impresa fa bene a chiudere e in questo caso disoccupazione e povertà non sono benefiche. Quindi, l'unico modo di “convincere” l'impresa a restare è accettare tutte le sue scelte, anche quelle omicide, così si eviteranno le malattie della disoccupazione e della povertà (aumentando però quelle di una produzione sregolata). Coerente, non vi sembra?

Guardiamo ora alla politica. È troppo comodo, è troppo facile dire che la «demagogia» è solo quella di Beppe Grillo. Se per demagogia si intende promettere senza tener conto dei dati di realtà, senza precisare come, con quali soldi, e presi dove, e con quali conseguenze, si onoreranno le promesse, allora la demagogia è di casa ovunque: è il modo dominante mediante il quale i politici, vecchi e nuovi, si rivolgono all'opinione pubblica.
Dario Di Vico (Corriere , 22 settembre) ha ben illustrato a cosa abbia condotto la demagogia nella vicenda dell'inceneritore di Parma. I grillini avevano promesso di bloccare l'opera senza però precisare quale salasso ciò avrebbe comportato per le già disastratissime finanze comunali: una penale di 16 milioni di euro. E senza badare al fatto che la «soluzione» cosiddetta alternativa (esportare i rifiuti, secondo il luminoso esempio napoletano) imporrebbe ai contribuenti costi altissimi.
Ma, come si è detto, è facile prendersela con i grillini: con il no all'inceneritore non stanno facendo nulla di diverso da ciò che, prima di loro, hanno già fatto altri amministratori in altre zone del Paese.
Oppure, si prenda il caso di Berlusconi: promette di abolire l'Imu ma dimentica di dire da dove prenderà le risorse. O quello di Bersani, il quale, nel rigoroso rispetto della «agenda Monti» (qualunque cosa questa espressione significhi) si circonda di uomini che intendono rovesciare come un guanto la suddetta agenda, dalle pensioni al lavoro.
O si pensi a chi invoca patrimoniali in un Paese già super tassato. O a chi vaneggia di politiche industriali (che, tradotto dal politichese o dal sindacalese, significa massicci investimenti pubblici) per «sostenere l'occupazione», come se vivessimo ancora nel mondo relativamente chiuso e protetto del 1960 anziché in quello, globalizzato e iper competitivo, del 2012. Eppure, forse per la prima volta nella storia del Paese, c'è la possibilità che la demagogia abbia stancato una parte almeno dell'opinione pubblica e che quella parte attenda solo che qualcuno se ne accorga. Magari, chissà?, si è aperto uno spazio per l'anti demagogia (quella vera), la quale consiste nello spiegare dettagliatamente che cosa si intenda fare, con quali costi e quali conseguenze prevedibili, tenuto conto degli stringenti vincoli posti dalla realtà. Magari, il primo che riesca a dare di sé una vera immagine di serietà e di rigore potrebbe avere uno spazio elettorale che, data la nostra tradizione, è sempre stato fin qui negato ai non-demagoghi. Per esempio, chi scrive è convinto che se non si abbasseranno drasticamente le tasse, le tante parole che si spendono a favore della crescita economica resteranno solo chiacchiere. Ma è altrettanto convinto che se si vogliono abbassare le tasse bisogna spiegare dettagliatamente come e dove si recupereranno le risorse occorrenti.
Cattive abitudini politiche e cattivo uso del diritto spingono il Paese sulla strada del declino. Urgono idee fresche su come rovesciare la tendenza.

Red. Su una cosa, infine, Panebianco ha ragione. Constata che tra esigenze dell'economia in crisi e “qualità” della classe politica italiana c'è uno scarto molto grave. I “populismi”, da sempre, prendono un solo tema (a scelta tra tasse, inceneritori, corruzione, zingari, extracomunitari, ecc) e fanno una bandiera della soluzione semplicistica da loro immaginata per “risolvere il problema”. Problema che invece ha legami e implicazioni “sistemiche” troppo complesse per esser volgarizzate in parole d'ordine semplici.
La qualità infima della classe politica italiana è il problema che si trova davanti, oggi, la borghesia multinazionale europea. È il problema che ha momentaneamente risolto con il governo Monti, e che spera di contenere a lungo grazie al fiscal compact, al pareggio di bilancio in Costituzione e cento altri provvedimenti sulla stessa falsariga. Gli editoriali del Corsera (chiunque li scriva) servono ad accompagnare questo trasferimento di poteri (e di senso comune) dall'ambito della democrazia parlamentare a quello dei comandamenti imposti dall'alto, dai cieli della “troika” (Fmi, Ue, Bce). È questo il “principio di realtà” cui si richiama Panebianco. Lo potremmo anche chiamare “la voce del padrone”.

Fonte

Una bella disarticolazione del pensiero borghese italiano (e non).

Libia: petrolio rosso sangue

È uscito il secondo episodio di «Humanitarian War», famosa fiction washingtoniana sulla Libia. Ecco il trailer: aiutati i libici a liberarsi dal feroce dittatore, i buoni, guidati dall’eroico Chris, continuano ad aiutarli con uguale disinteresse; ma i cattivi – i terroristi ancora annidati nel paese – uccidono Chris che «rischiava la vita per aiutare il popolo libico a costruire le fondamenta di una nuova e libera nazione» (Hillary Clinton) e, «fatto particolarmente tragico, lo uccidono a Bengasi, città che aveva aiutato a salvare» (Barack Obama); il Presidente invia una «forza di sicurezza» in Libia, ma sono gli abitanti di Bengasi, scesi spontaneamente in piazza con cartelli inneggianti a Chris, a cacciare i cattivi dalle loro tane. In attesa del terzo episodio, uno sguardo alla realtà.


Chris Stevens, ambasciatore in Libia dallo scorso maggio, era stato rappresentante speciale Usa presso il Cnt di Bengasi durante la guerra: ossia il regista dell’operazione segreta con cui erano state reclutate, finanziate e armate contro il governo di Tripoli anche milizie islamiche fino a poco prima bollate come terroriste. Novello apprendista stregone, Chris Stevens è stato travolto dalle forze da lui stesso create quando, abbattuto il governo di Tripoli, in veste di ambasciatore Usa ha diretto l’operazione per neutralizzare le milizie ritenute da Washington non affidabili e integrare nelle forze governative quelle affidabili.
Operazione estremamente complessa: ci sono in Libia almeno 100mila combattenti armati, appartenenti a svariate formazioni, comprese alcune gheddafiane. Tripoli controlla oggi solo una parte minore del territorio. È iniziata la disgregazione dello stato unitario, fomentata da interessi di parte. La Cirenaica – dove si trovano i due terzi del petrolio libico – si è autoproclamata di fatto indipendente, e lo vuol essere anche il Fezzan, dove sono altri grossi giacimenti, mentre alla Tripolitania resterebbero solo quelli davanti alle coste della capitale.
La balcanizzazione della Libia rientra nei piani di Washington, se non riesce a controllare lo stato unitario. Ciò che preme agli Usa e alle potenze europee è controllare il petrolio libico: oltre 47 miliardi di barili di riserve accertate, le maggiori dell’Africa. Importante per loro è disporre anche del territorio libico per lo spiegamento avanzato di forze militari.
La forza di rapido spiegamento dei marines, inviata da Obama in Libia con il supporto dei droni di Sigonella, ufficialmente come risposta all’uccisione dell’ambasciatore, non è né la prima né l’ultima. Il Pentagono aveva già inviato forze speciali e contractor a presidiare le maggiori piattaforme petrolifere, e ora si prepara a un’azione «antiterrorista». Sono da tempo sbarcate le compagnie petrolifere che, con accordi ufficiali e sottobanco (grazie alla diffusa corruzione), ottengono contratti molto più vantaggiosi dei precedenti. Si prepara allo stesso tempo la privatizzazione dell’industria energetica libica. Partecipa alla spartizione del bottino anche il Qatar che, dopo aver contribuito alla guerra di Libia con forze speciali infiltrate e forniture militari, spendendo oltre 2 miliardi di dollari, ha ottenuto il 49% (ma di fatto il controllo) della Banca libica per il commercio e lo sviluppo. Un buon investimento, quello della guerra.

23/09/2012

Someday never comes

I tumori della Monsanto

Per la prima volta al mondo un'equipe di scienziati - quelli dell'Università di Caen - ha studiato sul lungo termine l'impatto sulla salute di un Ogm e di un pesticida prodotti dalla Monsanto. Dimostrando che sono altamente tossici e pericolosi.

Contro chi denunciava il pericolo per l’ambiente e per la salute rappresentato dagli Ogm – gli organismi geneticamente modificati – si è scatenata negli ultimi anni una campagna di criminalizzazione mediatica e politica da far invidia alla caccia alle streghe. Chi avvertiva sui rischi che l’uso dei prodotti agricoli geneticamente modificati comportava è stato accusato di volta in volta di essere antimoderno, di tollerare la morte per fame di milioni di persone ogni anno, e di altre nefandezze del genere.
Agli allarmi lanciati dagli attivisti dei movimenti sociali – in particolare dai rappresentanti di Via Campesina e di quel mondo dell’agricoltura strozzato dalla diffusione degli Ogm – le grandi lobby dell’agro-business sostenute dal loro apparato di fiancheggiatori nei media e nella politica rispondevano promettendo che i nuovi prodotti transgenici avrebbero risolto come d’incanto il problema della fame nel mondo, avrebbero abbattuto i costi dei prodotti agricoli rendendoli accessibili a tutti, avrebbero reso fertili terreni desertici e inospitali. Nulla di tutto questo è naturalmente avvenuto, anzi.  Gli ogm hanno gettato sul lastrico decine di milioni di agricoltori (in Asia e Africa in particolare), hanno consegnato a poche multinazionali il controllo del mercato dei semi in tutto il pianeta ed hanno ridotto la varietà delle produzioni agricole, causando spesso danni gravi in aree del pianeta divenute così sempre più dipendenti dalle importazioni provenienti da Stati Uniti ed Europa.

Ma ora un’altra notizia getta un’ombra macabra sulla diffusione dei prodotti geneticamente modificati. Che non solo sono pericolosi per la biodiversità ed antieconomici, ma rappresentano anche un fattore di rischio per la salute degli esseri umani e degli animali. Uno studio condotto dall’Università di Caen su 200 cavie e pubblicato ieri rivela infatti che il mais ogm è altamente tossico, tanto da provocare enormi tumori sui topi utilizzati nell’esperimento condotto in tutta segretezza per evitare boicottaggi e sabotaggi. L’equipe dell’Università della Bassa Normandia ha condotto il suo studio su una varietà di mais e su un erbicida molto diffuso, il Roundup, entrambi prodotti dal gigante dell’agricoltura geneticamente modificata, la statunitense Monsanto, acclarando gli effetti nefasti sulla salute. “I risultati sono allarmanti'' ha detto il coordinatore dello studio, Gilles-Eric Seralini, ricercatore di biologia fondamentale e applicata all'Università di Caen e autore del libro 'Tous cobayes' (Tutte cavie). “Le conclusioni del nostro rapporto – spiega Seralini - dimostrano un effetto tossico del mais transgenico e del Roundup sull'animale e ci portano a pensare che (queste sostanze, ndr.) siano tossiche anche per l'uomo. Diversi test che abbiamo effettuato su cellule umane vanno nella stessa direzione''. E aggiunge: ''dallo studio emerge che anche a piccole dosi, l'assorbimento a lungo termine di questo mais, così come del Roundup, agisce come un veleno potente e molto spesso mortale, i cui effetti colpiscono prioritariamente i reni, il fegato e le ghiandole mammarie''. Durante l'esperimento i ricercatori hanno ripartito i 200 topi-cavie in tre gruppi alimentandoli per due anni rispettivamente con mais Ogm NK603, Mais Ogm trattato al Roundup, e mais non Ogm trattato con l'erbicida. Rispetto a un altro gruppo di topi-campione, non alimentato con l'Ogm e il pesticida, il primo topo-cavia é morto un anno prima e al 17/o mese di esperimento si è osservato che i topi alimentati con gli Ogm hanno una mortalità di cinque volte superiore rispetto agli altri. ''Nei tre gruppi i ricercatori hanno constatato una mortalità da due a tre volte superiore nei topi femmina e la comparsa di tumori nei topi di entrambi i sessi fino a tre volte maggiore” spiegano i ricercatori.

La tesi ufficialmente sostenuta finora dalla Commissione Europea che gli ogm erano innocui e che i controlli finora effettuati erano sufficienti a fugare ogni dubbio era stata già contestata da alcuni Paesi. Ad esempio proprio dalla Francia che aveva adottato una clausola di salvaguardia per impedire la coltivazione del Mon 810 sul suo territorio.

Ma ora per la prima volta al mondo si è studiato sul lungo termine l'impatto sulla salute di un Ogm e di un pesticida, cosa che non era mai stata fatta dai governi e dalle industrie, semmai interessati a nascondere gli effetti nefasti degli organismi mutati. Il governo francese ha raccolto, almeno a parole, l’allarme lanciato dallo studio della sua università. Il ministro dell'Agricoltura di Parigi, Stephane Le Foll, ha chiesto che vengano attuate procedure di omologazione degli Ogm in seno all'Ue ''molto più strette'', mentre la Commissione europea ha subito chiesto che il rapporto sia sottoposto all'Agenzia per la sicurezza alimentare (Efsa).

Ma chi ha reagito più duramente è stato l’ex leader contadino francese Josè Bovè, attualmente promosso alla carica di vicepresidente della commissione agricoltura di Parigi, che ha richiesto all'Ue la sospensione immediata delle autorizzazioni per la coltivazione di mais geneticamente modificato. Una richiesta che ha fatto sobbalzare le lobby pro-ogm in tutto il continente. "Lo studio effettuato dall'università di Caen sulla pericolosità per l'uomo dei prodotti ogm è certamente un'indagine seria. Ma non deve in alcun modo creare inutili allarmismi, né cancellare i moltissimi anni di ricerca in materia" è stato l’incredibile e cinico commento di Rocco Tiso, presidente nazionale Confeuro. Per Tiso - che se la prende proprio con Bovè - "richiedere alla Ue, come ha fatto oggi il vicepresidente della commissione agricoltura, la sospensione immediata delle autorizzazioni per la coltivazione di mais ogm potrebbe essere una mossa avventata e inutile. E' certamente di primaria importanza salvaguardare la salute dei cittadini che consumano ogni giorno i prodotti della terra. Ma Bruxelles prima di cambiare radicalmente opinione in materia -conclude il leader Confeuro- dovrà avere a supporto prove evidenti e convincenti". Non sia mai che la difesa della salute e dell’ecosistema mettano a rischio i profitti delle multinazionali…

Fonte

Fortuna che l'UE ha una posizione chiara sugli ogm, ma soprattutto garantista nei confronti della qualità alimentare e della salute delle persone (che ovviamente non si prendono mai la briga di capire se stanno mangiando merda o meno).