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30/11/2012

I dati Ocse che nessuno commenta

L'attività economica in Italia ''dovrebbe continuare a contrarsi nel breve tempo'' come conseguenza della stretta di bilancio, dell'indebolimento del clima di fiducia e della stretta creditizia. E' scritto nell'Economic Outlook pubblicato oggi dall'Ocse, che sconfessa dunque le previsioni del Governo Monti e che stima un ritorno alla crescita ''nel corso del 2013'' se il Governo conseguirà gli obiettivi di bilancio per il 2013 e il 2014. Ma non solo: l'Ocse ritiene che sia necessario ''un ulteriore inasprimento fiscale nel 2014 per raggiungere gli obiettivi di riduzione del debito pubblico'' dell'Italia, ''che e' entrata nella sua seconda recessione grave in tre anni''.

Saremo comunque in recessione anche l'anno prossimo: -1%. L'export continuerà a calare impietosamente. Monti non garantisce la sanità pubblica. I consumi delle famiglie, secondo la Banca d'Italia, sono tornati al livello del primo dopoguerra. L'Ocse riconosce che la conseguenza dell'austerity è la contrazione dell'economia, ma non contento chiede nuova austerity e una nuova manovra di lacrime e sangue nel 2014. I tecnici al Governo però sono ottimisti!

Ma la cosa più inquietante sono le previsioni a lungo termine sulla composizione del Prodotto Interno Lordo globale, che attualmente vede l'Europa con il 17% della produzione mondiale (calcolata su 34 paesi Ocse e su 8 paesi del G20 ma non OCSE).
Composizione PIL globale OCSE
Crescerà la Cina, passando dal 17% al 28% già nel 2030. Crescerà l'India, passando dal 7% attuale all'11% del 2030 e al 18% del 2060. Caleranno gli Stati Uniti, che dal 23% di oggi scenderanno al 18% del 2030 e al 16% del 2060. Ma soprattutto, sarà il crollo dell'Unione Europa, area Euro, che oggi partecipa al 17% della produzione globale, ma che già nel 2030 non rappresenterà che il 12% e nel 2060 finirà al 9%.

Ecco per cosa stiamo aggiungendo austerity ad austerity, ecco per cosa stiamo pagando lacrime e sangue: per un Europa e per un Euro che tra 17 anni non conteranno più niente.


post scriptum: il commento (ironico?) del Governo al documento dell'Ocse inizia così: 
Ocse la reazione del Governo

Fonte

Siamo al delirio, nemmeno quelli che calcolano gli effetti nefasti del rigore ammettono che è necessario un cambio di passo per invertire la rotta.
Tutta l'Europa è destinata a fare la fine dell'Inghilterra...

Modello Tav, il debito che piace ai tecnici

Dietro l'alta velocità si nasconde un meccanismo di privatizzazione dei profitti e di socializzazione delle perdite. A pagare gli ingenti costi infatti sono i cittadini, a testimoniarlo la Corte di Cassazione la quale ha decretato che i "debiti" del Tav verranno pagati dalle generazioni future fino al 2060.

Privatizzazione dei profitti e socializzazione delle perdite, il sistema Tav docet. Nel silenzio generale dei media mainstream. E se per i “tecnici” ridurre il debito corrisponde a ridurre la spesa pubblica attraverso il dimagrimento o persino lo smantellamento dello Stato sociale, per sfatare la convinzione tacita e diffusa che rigore significhi sottrazione al pubblico e alla sua dimensione occorre parlare proprio del Tav.

Una scelta che potrà stupire, in un contesto in cui la rappresentazione sociale veicolata dai media relega spesso al silenzio questo tema, e in ogni caso predilige le chiavi semantiche e interpretative della “violenza”, della “tensione”, lasciando spazio comunque più alle azioni che alle ragioni. Nel caso del Tav e dei movimenti ad esso contrari – ma anche nel caso di altre manifestazioni di contestazione che avvengono in Italia quanto in Grecia e altrove – la stampa ci consegna la realtà (semmai decide di raccontarla) attraverso il linguaggio della violenza, con modalità di manipolazione dell’informazione non molto dissimili da quelle già riscontrate negli anni Settanta. L’altra faccia della realtà arriva perciò attraverso la controinformazione, oggi come ieri, e oggi soprattutto grazie alla Rete.

E’ necessario però, per una riflessione compiuta sulla crisi, sollevare il tema Tav dalla dimenticanza generalizzata. Questo perché, come più di ogni altro Ivan Cicconi ha avuto il merito di cogliere e divulgare come dietro la grande opera si nasconda la messa a punto di un potente sistema di ingrossamento e di occultamento del debito pubblico. Di più, questo sistema viene poi replicato e diffuso in altri contesti nazionali e locali. Lo ha affermato la Corte dei Conti: "La vicenda è considerata paradigmatica delle patologiche tendenze della finanza pubblica a scaricare sulle generazioni future oneri relativi a investimenti, la cui eventuale utilità è beneficiata soltanto da chi li pone in essere, accrescendo il debito pubblico. (...) Si pregiudica l'equità intergenerazionale, caricando in modo sproporzionato su generazioni future (si arriva in alcuni casi al 2060) ipotetici vantaggi goduti da quelle attuali". Il sistema inaugurato in grande stile con il Tav prende avvio con la dichiarazione che a pagare saranno i privati, e si conclude con spese reali lievitate ai massimi livelli e in sostanza a carico del pubblico, così come il rischio di impresa. Privatizzazione sì, ma dei profitti, e socializzazione delle perdite.

Inoltre, il sistema Tav, la sua tipica architettura contrattuale, allenta le “briglie” di controllo pubblico su opere pur costose, per di più – la cosa è oggetto di indagine a Torino nel processo “Minotauro” – con il sospetto di infiltrazioni di stampo mafioso nella catena di appalti e subappalti.

Il cuore della questione è che, attraverso specifici istituti contrattuali portati a regime proprio con il Tav, quelli che venivano annunciati inizialmente come finanziamenti privati si rivelano in realtà una quantità amplissima di debito pubblico (una quantità molto più ampia delle previsioni annunciate a inizio opera). Un debito “fantasma” che si annida in società di diritto privato o nella spesa corrente delle amministrazioni pubbliche, e che si tocca con mano poi, che ricade sulle generazioni future fino al 2060, come ipotizza la Corte dei Conti. O persino oltre quella data, visto che l’architettura contrattuale tipica del Tav (basata sul “general contractor” e sul “project financing”) ricorre in realtà in numerose opere riguardanti gli enti locali. Esempi, e analogie con il “sistema Tav”, si trovano infatti a Roma (la Metro C), a Parma (la sede del Comune), a Bologna (la sede del Comune e il People Mover).

Quando il governo Monti ha preso in mano il dossier Tav, un dossier su cui molti fra cittadini e autorevoli professori e professionisti nutrivano perplessità di fondo, nessuna perplessità su questa grande fonte di debito è stata sollevata da parte dell’esecutivo. Il governo “tecnico” ha invece valutato che non valesse la pena neppure di riformare quel progetto coltivato con convinzione bipartisan negli ultimi venti anni e più. Il premier ha piuttosto confermato “piena convinzione e impegno per la realizzazione dell’opera”, riferendo dissenso per la “violenza” delle contestazioni ed esprimendo una blanda comprensione per i timori e l’astio di chi vedeva la Tav come qualcosa di “lontano dal proprio modello di vita”. Eppure la questione non riguarda solo il cortile di qualcuno, né tantomeno solo temi ambientali. Deve saperlo bene anche il governo dei “professori”: sotto questo governo, gli istituti contrattuali che costituiscono la spina dorsale del “sistema Tav”, come quello del project financing, sono stati persino incentivati, ampliati, rafforzati. Il governo dei tecnici ha infatti inserito a ottobre nel Decreto Sviluppo Bis sconti fiscali proprio sui project financing. Ciliegina sulla torta, è stata anche rimandata di almeno due anni la scelta se chiudere o meno la pagina del ponte sullo Stretto, grande opera costata già prima di cominciarla e ritenuta da molti insostenibile dal punto di vista economico.

Ma la più pesante contraddizione è quella di fondo: come mai proprio e anche sotto un governo che vede nella “risoluzione della crisi del debito” la propria mission dichiarata e la principale fonte di legittimità agli occhi dell’opinione pubblica, il sistema Tav non viene scalfito, e anzi viene incentivato? Alla domanda si potrà ipotizzare con facilità qualche risposta. Il debito pubblico “fantasma” nel sistema Tav, nasce sotto le vesti di spesa privata, avvantaggia aziende private, e si rivela poi enorme spesa pubblica, ricadendo sulle generazioni future. Di questo “paradigma Tav” bisognerebbe ricordarsi quando si cade nel mantra “diminuire il debito pubblico=abbattere il welfare state”. O, ancora, quando le tutele sociali vengono smantellate e si prospetta la privatizzazione del pubblico come soluzione, mentre nel contempo non si mette in discussione (né si discute) la socializzazione di profitti privati. Oppure quando gli appelli degli economisti per evitare la recessione rimangono inascoltati. Ma pur volendosene ricordare, della lezione della Tav poco si parla, sui media generalisti, e di tutto ciò in pochi sono consapevoli. Come mai? Questa è forse l’altra contraddizione più pesante da digerire e da superare.

Colpo di Stato all'italiana

In Italia è in atto un colpo di Stato progressivo. La fine della democrazia un passo alla volta, per abituare il cittadino al cambiamento. Dolce, soffice come lo shampoo di Gaber. Il primo passo fu la legge porcata Calderoli voluta e utilizzata da TUTTI i partiti nonostante le sceneggiate di facciata del pdmenoelle. I parlamentari sono diventati "di nomina", come i cavalieri antichi, di 5 segretari di partito. Non più preferenze da parte degli elettori, ma, con una liberalità assoluta, amici, amanti, mogli, compari, avvocati di fiducia, sodali a cui fare evitare la galera. Il secondo colpetto è avvenuto con la nomina di Rigor Montis (inserito a forza nel Parlamento come senatore a vita per meriti sconosciuti) a presidente del Consiglio senza che il precedente governo fosse sfiduciato dal Parlamento in aula. Un fatto mai successo prima. Un precedente inquietante. E ora il terzo colpetto di Stato, nessuno sa quando si voterà, se ci sarà l'election day, con quale legge elettorale, con che circoscrizioni, se ci saranno premi e premiolini e chi lo deciderà. Nulla di nulla a pochissimi mesi dalle elezioni, mentre Napolitano a fine mandato estende le sue prerogative di garanzia della Repubblica a sovraintendente della prossima legislatura. Il prossimo presidente deve essere Monti, nessuna coalizione deve vincere, nessun governo politico dovrà guidare la Nazione, la legge elettorale in gestazione con Calderoli in qualità di legislatore, estrema beffa e presa per il culo degli italiani, va disegnata per escludere ogni possibilità di vittoria del M5S e riproporre la minestra riscaldata della coalizione Pdl, pdmenoelle, udc con la new entry Sel. Un governissimo dei partiti in cui governa un altro, un cosiddetto "tecnico" (ma di che?) scelto dalla BCE. Un uomo di fiducia della finanza internazionale che sta facendo dell'economia italiana un deserto dei tartari. Va detto, gridato, anche in sedi internazionali, e lo farò, che l'Italia non è più una democrazia, ma una partitocrazia affiliata ai poteri economici internazionali. Chi ha portato allo sfascio il Paese si esibisce in televisione e concede interviste ai giornali proponendosi come il nuovo che avanza, senza pudore, senza vergogna invece di scomparire dalla circolazione! Ridono nei salotti, con il riso di Franti, i responsabili della disoccupazione, della svendita del Paese, della corruzione (mai una legge), della mafia (con cui lo Stato ha trattato), del conflitto di interessi (mai una legge), del debito pubblico con cui hanno rovinato l'Italia e riempito le tasche delle lobby, della distruzione delle imprese, di una pressione fiscale inumana e degli stipendi più bassi d'Europa. Non potete essere sia la malattia, sia la cura. Dove siete stati negli ultimi 20/30/40 anni? Con il culo al caldo grazie ai soldi degli italiani! E da lì non volete muovervi a qualunque costo, anche stravolgendo la legge elettorale sotto elezioni. Neppure Stalin o Mao hanno avuto la vostra faccia di bronzo, di cambiare le regole del gioco all'ultimo minuto dichiarando che è per la democrazia. Ci vediamo (comunque) in Parlamento. Sarà un piacere.

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29/11/2012

Gli Usa destabilizzano di nuovo l'Argentina

Incredibile a dirsi, l'Argentina rischia di nuovo il default, dopo nemmeno 10 anni. Ma stavolta non dipende da una cattiva politica economico-finanziaria, quanto da un colpo inferto dall'ex “amico” nordamericano.
Entro il 15 dicembre – su sentenza del giudice di New York Thomas Griesa – lo Stato dovrà rimborsare 1,3 miliardi di dollari ai detentori dei tango-bond che nel 2001 hanno rifiutato la ristrutturazione del debito proposta dal governo. A questi si aggiungono i warrant indicizzati al Pil in scadenza il 15 dicembre e che ammontano a circa 3 miliardi. Naturalmente non è affatto detto che il governo di Buenos Aires si pieghi a questa sentenza (la "presidenta" Kirchner aveva già detto no, qualche giorno fa), né che lo faccia in tempi rapidi. Ma tanto basta a far scattare gli squali dei mercati finanziari.
Impennata immediata delle quotazioni dei Credit Default Swaps (certificati di assicurazione, dal valore dubbio, ma molto usati per ulteriori speculazioni) a 5 anni. Ma a questo punto è fortissima la probabilità che forti flussi di capitale lascino il paese, provocando un dissesto tanto artificiale quanto realissimo. Atteso anche un taglio del rating sul debito argentino da parte di Moody's e S&P's. In ogni caso inizia una lunga battaglia legale.
Spiega IlSOle24Ore. “A riaprire il caso è stata una querela avanzata da investitori e fondi di investimento statunitensi, tra cui Nml, controllato da Elliott Associates, e Aurelio, che hanno ancora in pancia i vecchi tango-bond e hanno respinto la ristrutturazione proposta dall'Argentina nel 2005 e nel 2010 per applicare una riduzione di circa il 65 per cento del debito, che è stata invece accettata dal 92 per cento dei creditori.
Se l'Argentina non rispetterà quanto sentenziato, il Tribunale Usa minaccia di inibire i pagamenti degli interessi ai detentori dei nuovi titoli ristrutturati. A quel punto potrebbe scattare un default tecnico da 24 miliardi di dollari, pari al debito emesso dall'Argentina tra il 2005 e il 2010.
Come se non bastasse, alla decisione del Tribunale di New York ha fatto seguito il taglio di rating dell'agenzia statunitense Fitch che ha declassato il debito di Buenos Aires di cinque gradini in un colpo solo, da "B" a "CC", facendolo quindi scivolare a livello spazzatura e pericolosamente vicino alla "D" di Default. Un downgrade che arriva proprio in ragione delle conseguenze che scatterebbero qualora si riaprisse la voragine sul nuovo debito.
Si profila quindi un dicembre caldo, una guerra aperta tra Stati Uniti e Argentina. Intanto l'amministrazione di Christina Fernandez de Kirchner ha già affermato di volere rivolgersi alla Corte d'Appello e eventualmente alla Corte Suprema per annullare la sanzione imposta. Il Governo deve inoltre affrontare un forte aumento delle tensioni sociali legate all'incremento marcato dell'inflazione”.

L'attacco degli Stati Uniti rischia di aprire un vaso di Pandora che si riteneva ormai chiuso per sempre e di scatenare l'ira di chi ha aderito al piano di ristrutturazione. Perché se l'Argentina andasse in contro dopo 10 anni a chi non ha aderito alla default "lacrime e sangue" danneggerebbe allo stesso tempo coloro che invece lo hanno fatto rinunciando a una parte corposa del debito. Per questo motivo i detentori di tango bond che hanno aderito allo swap impugnano adesso la sentenza del giudice di New York. A distanza di un decennio, dopo tanta pazienza, sono riusciti a recuperare tra il 60 e l'85% del capitale. Ma adesso, con la situazione che rischia di precipitare, rischiano di perdere nuovamente quanto faticosamente recuperato dopo anni di pazienza?”


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La strada verso il baratro

Il governo Monti ha compiuto un anno. Per celebrare l'evento, Palazzo Chigi ha diffuso una lunga nota ufficiale, denominata “appunti di viaggio”, che riassume quanto è stato fatto in questi dodici mesi. Un documento pieno di menzogne e di omissioni (come ad esempio il dato relativo alla disoccupazione giovanile, salita dal 27 al 35 per cento). Ma le balle potevamo aspettarcele, e basta dare uno sguardo alla tabella riassuntiva pubblicata dal Sole24Ore per apprezzare gli effetti nefasti del governo dell’austerity. Ciò che più colpisce, invece, è che finalmente alcune drammatiche verità vengono ufficialmente a galla.

1) Il mercato unico europeo non è nato per favorire la cooperazione

Il documento ribadisce per ben due volte, con frasi evidenziate in neretto, che il Trattato di Lisbona disegna un'economia di mercato “altamente e fortemente competitiva”, in cui i singoli Stati sono chiamati a “promuovere il proprio posizionamento” cercando di “migliorare la propria situazione comparata” (ovviamente a scapito degli altri). Interessante, non vi pare? Quando mai agli italiani è stato detto con chiarezza che i trattati europei non costituiscono affatto la base di forme di collaborazione fra gli Stati, e che quella che chiamano “Unione” in realtà non è altro che un teatro di guerra economica dove ciascuno deve lottare all'ultimo sangue contro tutti gli altri?
A tutto ciò va aggiunto che noi, in quanto appartenenti all'eurozona, possiamo contare su meno armi di altri, avendo rinunciato allo strumento della flessibilità del cambio. Apriranno finalmente gli occhi quelli che pensavano che l'appartenenza al mercato unico europeo fosse, o potesse diventare, fonte di cooperazione fra le nazioni?

2) Per essere salvati dovremo cedere sovranità

 Nel paragrafo “La tabella di marcia per l’integrazione economica e democratica” (che guarda caso, a discapito del titolo, non dice assolutamente nulla sulla democrazia), si ribadisce ciò che tutti i documenti ufficiali riportano, cioè che l'accesso ai fondi cosiddetti “salva-Stati” sarà possibile solo: “per quei Paesi della zona euro che sono in regola con le condizioni poste nel quadro del semestre europeo e del Patto di stabilità e crescita”, cioè solo per chi seguirà alla lettera e senza discussione i diktat della Commissione e della BCE.
Del resto, già nel Giugno scorso, i capi di Stato avevano firmato un accordo pubblico nel quale veniva scritto, nero su bianco, che i fondi sarebbero stati utilizzati al fine di "stabilizzare i mercati per gli Stati membri che rispettino le raccomandazioni specifiche per paese e gli altri impegni, tra cui i rispettivi calendari, nell'ambito del semestre europeo, del patto di stabilità e crescita e delle procedure per gli squilibri eccessivi. Tali condizioni dovranno figurare in un memorandum d'intesa.”. Ovviamente da nessuna parte si fa menzione del fatto che quei fondi non vengono dalla Luna. Sono nostri, cioè li abbiamo versati noi agli organismi europei.

3) Monti è qui per “svendere” il tessuto industriale italiano all'estero.

Questo è un tema di grande importanza, i cui risvolti probabilmente ancora sfuggono a buona parte dell'opinione pubblica italiana. Il documento di Palazzo Chigi sottolinea con enfasi il grande sforzo messo in campo dal premier per convincere potenziali investitori stranieri ad acquistare titoli ed aziende italiane. Pochi giorni fa, in Kuwait, Monti si è rivolto ad una platea di sceicchi dichiarando che: “i titoli a reddito fisso e le valutazione delle imprese in Italia sono bassi. E’ il momento di comprare a buon mercato perché si rivaluteranno”. Si potrebbe pensare che questa non sia una strategia sbagliata: siamo in crisi, quindi perché non importare capitali dall'esterno per favorire la ripresa economica?
Purtroppo questa logica è sensata solo all’apparenza, perché nelle nostre attuali condizioni affidarsi all'importazione di capitali esteri è del tutto controproducente. Innanzitutto perché il primo modo con cui Monti ha reso “appetibili” le aziende italiane è stato quello di attaccare i diritti dei lavoratori: ecco spiegato l'accanimento contro l'articolo 18, anche se è noto che per la maggioranza degli imprenditori italiani lo statuto dei lavoratori non è un problema. Naturalmente tutto ciò determina il depauperamento delle condizioni di vita dei lavoratori italiani, che vedono disperdersi diritti e salario, con ovvi effetti recessivi. Altro che uscita dalla crisi!
Ma c'è di peggio. Abbiamo visto che Monti cerca di convincere i potenziali acquirenti esteri fornendo loro la prospettiva di una rivalutazione a breve-medio termine del capitale impiegato in Italia. Immaginiamo che gli sceicchi seguano il suo consiglio e acquistino titoli e imprese italiane. L'afflusso di capitali, probabilmente, determinerebbe nell'immediato alcuni effetti positivi (aumento dell'occupazione, segnali di ripresa economica e così via). Difficilmente però questo consoliderebbe l'economia del Paese, sia perché buona parte dei profitti se ne tornerebbe a casa degli sceicchi, sia soprattutto perché nel frattempo le criticità strutturali dell'eurozona non sarebbero state risolte. Non essendo state rimosse le cause scatenanti della crisi, sugli asset italiani continuerebbe a gravare una forte incertezza che determinerebbe la minaccia continua di perdita di valore. A un certo punto, visto che l'attesa (e promessa) rivalutazione tarderebbe a concretizzarsi, e vista l’incertezza, gli investitori prenderebbero a vendere tutto quello che avevano comprato. Le vendite determinerebbero un'accelerazione della tanto temuta svalutazione e si scatenerebbe un effetto a catena: per contenere i danni, sempre più capitali prenderebbero il volo, scatenando il caos.
E' uno scenario da incubo, ma non è ipotetico: è esattamente quello che è sempre successo ai paesi che hanno agganciato il valore del cambio della loro moneta ad una valuta più forte e poi hanno cercato di attrarre investimenti esteri: si chiama “ciclo di Frenkel”, poiché prende il nome dallo studioso che lo ha efficacemente descritto.
Ecco dunque la destinazione finale verso cui ci porta la strada descritta negli “appunti di viaggio” del governo Monti: il baratro.


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Analisi impeccabile.

Interesse pubbico, proprietà comune

La famiglia Riva è a questo punto la sintesi dell'imprenditoria italiana. Il contrasto tra interesse privato e interessi pubblici è qui esemplare. Ogni suo comportamento è “tipico”, comune a tutti i padroni di una certa dimensione.

Felice Riva ha acquisito lo stabilimento di Taranto nel 1995, in seguito alla crisi e alla liquidazione della Finsider, società del gruppo Iri, quindi di proprietà statale. Una privatizzazione in piena regola, dunque, che è costata a Riva una miseria garantendogli però quasi il monopolio della produzione d'acciaio in Italia. Impianti più piccoli, come Piombino, furono affidati invece a Lucchini. La privatizzazione non era dovuta a una presunta inefficienza del “pubblico” rispetto al privato, ma alla più generale crisi dell'acciaio in Europa, che venne gestita a livello comunitario con tanto di lista degli impianti da chiudere (memorabile il caso di Bagnoli, chiusa appena conclusa una costosissima ristrutturazione).

Riva non ha investito una lira nella modernizzazione dello stabilimento. I macchinari e l'organizzazione generale della produzione sono ancora quelli dell'inaugurazione, nel 1965. Ogni centesimo di profitto non è stato dunque reinvestito nell'attività – nel core business, come dicono i patiti dell'economia borghese - ma nascosto nei paradisi fiscali e quindi riversato nel mare magnum della speculazione finanziaria.

Gli investimenti veri sono stati tutti in corruzione. Riva si è costruito una rete di protezione molto articolata “ungendo” o stipendiando politici nazionali, mezzo ministero dell'ambiente, amministratori locali, poliziotti, giornalisti, funzionari, controllori di vario livello. E naturalmente del sindacato. Anche la Fiom, a Taranto, non si è certo coperta di gloria; l'operazione “pulizia”, scattata circa un anno fa, è stata tardiva e soprattutto incompleta.

Quando la magistratura si è finalmente attivata, questa rete di protezione si è messa in moto all'unisono. Soprattutto a livello ministeriale, mediatico e sindacale. La nuova “autorizzzione integrata ambientale” esce dagli stessi uffici e dalle stesse mani della precedente, del 2011, che nelle intercettazioni l'avvocato dell'Ilva così riassume: “la Commissione ha accettato il 90% delle nostre osservazioni e la visita allo stabilimento riguarda solo il 10%. Non avremo sorprese”.

Questo è l'imprenditoria italiana. Questo è lo Stato italiano, questo il suo governo, “tecnico” o politico che sia.

Questo stesso governo pensa ora di militarizzare l'impianto con un decreto che lo dichiari “zona di interesse strategico”. Una presa in carico dei costi da parte dello Stato per mantenere in piedi l'attività, risanare per quanto possibile lo stabilimento e poi restituirlo al “privato” delinquenziale. La militarizzazione impedirebbe alla magistratura di mettere il naso in quel che accade lì dentro d'ora in poi; silenzierebbe la stampa, privando la popolazione delle informazioni minime sui pericoli per salute; inchioderebbe i lavoratori ai macchinari, condannandoli al silenzio e impedendone la normale conflittualità sindacale.

Non si tratterebbe di una nazionalizzazione, è evidente, ma solo di una secretazione di quanto verrà fatto per garantire i profitti privati con risorse pubbliche.

Eppure la nazionalizzazione delle imprese abbandonate dai “prenditori” in fuga è una necessità che emerge dai fatti, da quel che accade in altri paesi europei, dal bisogno di mantenere una struttura industriale tale da supportare le necessità “strategiche” di un paese. Il governo francese, per esempio, sta valutando di ricorrere a questa soluzione per mantenere l'attività degli altoforni francesi a Florange, in Lorena, che ArcelorMittal vorrebbe dismettere. Ne ha dato annuncio addirittura il presidente Hollande, in conferenza stampa congiunta con il premier belga Elio Di Rupo.

L'unica cosa che non si può fare è assistere passivamente allo smantellamento di quel che è stato costruito con i nostri sacrifici – soldi pubblici, tasse uscite dalle nostre tasche – soltanto perché abbiamo un governo di banchieri che teorizza e pratica la distruzione dei beni pubblici in favore delle imprese private. Non ci interessa neppure sapere se queste “imprese” siano dirette da industriali veri (come Lakshmi Mittal, che in Italia possiede la Magona di Piombino, e vorrebbe chiudere anche quella) o capintesta “prendi i soldi e scappa” come i Riva. Vale anche per l'Alcoa e per altre cento situazioni dello stesso genere.

Quel che serve a tutti, che è interesse pubblico, va conservato. In mani pubbliche e con il controllo primario dei lavoratori. Quei lavoratori che ieri a Taranto gridavano “i padroni siamo noi” ci dicono la più semplice e sincera delle verità.

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Caos Italia, verso il referendum consultivo per l'indipendenza del Veneto

Non stiamo parlando di una versione italiana di Chaos Usa di Bruce Sterling, dove gli Stati Uniti sono disintegrati da potenti forze sociali centrifughe, ma di una notizia ufficiale che è sfuggita al mainstream, principalmente occupato ad analizzare i decimali di voto in elezioni propedeutiche a successive elezioni, oppure intento a rincorrere le emergenze. Ebbene si è reale: il Veneto va verso il referendum consultivo sull'indipendenza. Grazie ai voti decisivi di un consigliere regionale del Pd (e fin qui...) e di uno di Rifondazione (!).
Quello che è clamoroso, e mostra le storture dei media italiani che bucano totalmente le notizie, è che l'ufficio di Barroso, commissario Ue, ha scritto agli indipendentisti veneti dicendosi rispettoso dei processi democratici (come quelli di questo tipo di referendum). Il presidente della regione Veneto ha già detto che voterebbe "Si" al referendum. Un fatto politicamente grave. Tutto mentre il media mainstream era occupato con il gioco su chi ha il fattore X tra i candidati alle primarie.
Ecco quattro link in materia. Buona lettura e buona fortuna a tutti, nel caos Italia.

http://www.wallstreetitalia.com/article/1464442/veneto-indipendente-si-va-verso-referendum-consultivo.aspx

http://www.vicenzatoday.it/politica/indipendenza-veneto-referendum-luca-zaia.html

http://www.lindipendenza.com/referendum-barroso-scrive-ad-indipendenza-veneta/

http://www.vicenzatoday.it/politica/indipendenza-veneto-referendum-stefano-fracasso.html

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28/11/2012

Under Apollyon´s Sun


A distanza di anni continuo a pensare che questo sia uno dei migliori brani composti dai Celtic.

Bancocrazia - Gianni Dragoni


Le banche hanno finito i soldi
Ciao cari amici del blog di Beppe Grillo, sono Gianni Dragoni, sono un giornalista, lavoro a Il Sole 24 Ore e ho scritto un libro sulla crisi e il ruolo delle banche, si chiama “Banchieri & Compari”. E oggi parleremo della crisi, le banche sono al centro di questa grande crisi, i guasti del sistema finanziario però le banche sono sempre quelle che vengono aiutate dai governi, anche dal governo Monti.Partiamo dal grande aiuto che le banche in Europa hanno avuto un anno fa e anche nel febbraio di quest’anno dalla Bce. Le banche italiane sono quelle che hanno avuto più soldi, 270 miliardi di Euro, più di un quarto del totale Un prestito che però è quasi un regalo che pagano per tre anni un tasso di appena l’1 % all’anno, chi ha bisogno di un finanziamento o di un mutuo se lo sogna un tasso del genere, non lo otterrà mai, ma non otterrà neanche i finanziamenti perché le banche, lo dicono i dati della Banca d’Italia, hanno ridotto continuamente l’erogazione del credito al sistema produttivo, alle imprese e alle famiglie. Allora se i prestiti non vengono dati all’economia, ma le banche ricevono prestiti a buon mercato, soldi facili dalla Bce e sono soldi nostri perché è una banca pubblica, questi soldi dove sono andati a finire? Sappiamo che molto di questo denaro è stato utilizzato per comprare dei titoli di Stato e questo ha consentito sì di aiutare lo Stato, in questo caso il governo Monti, a piazzare l’enorme debito pubblico che cresce continuamente ed è arrivato alla soglia dei 2 mila miliardi di Euro, una somma gigantesca. Il terzo debito del mondo rispetto al prodotto interno lordo è quello dell’Italia, ma sono serviti anche a aiutare le banche a salvarle praticamente dal fallimento, perché? Perché con il crollo della fiducia e il timore di una bancarotta, il timore che l’Italia facesse la fine della Grecia, un timore che non è ancora del tutto scongiurato, i titoli di Stato nel loro portafoglio i Bot e i Btp si erano svalutati e quindi le banche avrebbero dovuto portare in bilancio delle perdite enormi. Invece ricomprando questi titoli hanno comprato, guadagnandoci , dei titoli che costavano poco e rendevano molto, molto di più del costo del denaro che gli è stato prestato. Quindi il risultato è che le banche hanno potuto fare una speculazione con i soldi dei contribuenti, con i soldi nostri.
Questa crisi è nata anche perché le banche hanno finito i soldi.Lo stesso Presidente della Consob e già vice mnistro dell’economia Tremonti. Giuseppe Vegas più o meno un anno fa ha detto: “Le banche sono senza soldi”, una constatazione che viene da una persona che conosce molto bene la situazione. Ma dove sono finiti allora i soldi che già le banche avevano? In realtà le banche non erano proprio senza soldi però non si fidavano più e anche oggi non si fidano più e non si prestano i soldi neppure tra loro, perché il principale canale di finanziamento delle banche sono i prestiti interbancari che si fanno quotidianamente. In effetti le banche se tutti i risparmiatori volessero andare subito a ritirare i loro depositi non avrebbero i soldi da restituire, dovrebbero andare a procurarseli. Perché queste banche hanno finito i soldi? Come sono stati impiegati prima di ricevere questo maxi prestito dalla Bce? Sono stati impiegati spesso in operazioni o speculative o di credito per finanziare gli amici. C’è stato il caso Ligresti famoso, ma non unico, eclatante forse il più eclatante perché Ligresti è entrato in crisi e ormai il suo impero finanziario è passato di mano, anche se Ligresti ha ancora un cospicuo patrimonio. Ci sono altri amici delle banche spesso sponsorizzati dalla politica, per esempio l’immobiliarista Zunino, oppure il finanziere Zaleski, che è stato finanziato da Banca Intesa e dal suo amico Giovanni Bazoli, per comprare, con i prestiti delle banche, dei pacchetti azionari delle stesse banche che lo finanziano. Questo è un caso clamoroso di conflitto di interessi, eppure, alla fine Zaleski, con il crollo dei valori di Borsa, possedeva e possiede ancora dei titoli azionari, partecipazioni in molte imprese che però si sono svalutate e quindi ha avuto bisogno di nuovi prestiti dalle banche per essere salvato. E in questo modo le banche hanno un po’ salvato sé stesse ma soprattutto questi grandi banchieri, come Bazzoli e i finanzieri che hanno salvato la loro poltrona e il loro potere.


Premi milionari costruiti sulle disgrazie altrui
Molte banche italiane, a cominciare dalle più grandi, sono coinvolte in un gigantesco giro di evasione fiscale, cioè tasse non pagate, c’è il caso dell’Unicredit che aveva fatto dei titoli esteri , perché c’è sempre una triangolazione estera, quando c’è evasione fiscale, c’è sempre bisogno di andare all’estero, ma possiamo anche dire che quando ci sono delle operazioni con l’estero se non corrispondono a delle operazioni che accompagnano per esempio dei finanziamenti o uno spostamento di merci c’è puzza di bruciato, c’è il sospetto quindi che vengono fatte solo per aggirare il fisco o le leggi. Unicredit aveva come sponda il Lussemburgo e i titoli che si chiamano Brontos con l’aiuto di una banca inglese, la Barclays è stata accusata di avere evaso il fisco per più di 750 milioni di Euro di utili e ha accettato di pagare, quindi ha fatto una transazione e e le tasse corrispondenti, quasi 250 milioni di Euro. Questo è avvenuto pochi mesi fa ed è appena cominciato a Milano un processo contro l’ex amministratore delegato di Unicredit Alessandro Profumo, oggi Presidente di Monte dei Paschi di Siena, e altri banchieri sia dell’Unicredit sia della Barclays per le accuse di avere aggirato il fisco. Anche Banca Intesa San Paolo, l’altra grande banca italiana, è accusata di evasione fiscale attraverso titoli esteri per più di un miliardo di Euro di utili e ha già accettato di pagare una somma importante ma l’aspetto paradossale è che il suo ex amministrative delegato Corrado Passera che conosciamo benissimo perché è diventato ministro dello Sviluppo economico nel governo Monti, ministro di uno sviluppo che peraltro non c’è perché la crisi peggiora giorno dopo giorno, è indagato in sostanza per infedele dichiarazione fiscale per evasione fiscale. Eppure è diventato ministro e non pensa minimamente a dimettersi. L’altro aspetto curioso che nessuno mai gli ricorda questo problema o gli chiede spiegazioni.
Poi Monte dei Paschi di Siena, Credito Emiliano, Banca Popolare di Milano, il Banco Popolare di Verona e Novara, i grandi gruppi italiani hanno tutti fatto degli accordi per restituire al fisco una parte delle somme contestate. In pratica anche se forse formalmente non è una ammissione di colpevolezza è come se abbiano accettato di dire preferisco pagare più che avere altri guai.
Le banche italiane sono accusate di avere sottratto al fisco tra i 4 e i 5 miliardi di Euro e con queste transazioni, con questi accordi con l’agenzia delle entrate hanno restituito circa un miliardo di Euro e gli altri tre o quattro miliardi dove sono andati? Questi soldi ma perché non vengono recuperati?
Chiaramente sono rimasti, se le accuse sono fondate, intanto dentro le banche, sono degli utili che queste banche hanno avuto e più gli utili sono alti, anche se sono operazioni di breve periodo che poi non tengono, non sono sostenibili. I capi delle banche si danno ogni anno dei grandi stipendi e dei bonus, dei premi milionari che spesso sono costruiti sulle disgrazie altrui. Per esempio i vertici di Mediobanca. Alberto Nagel, amministrative delegato, Renato Pagliaro è il Presidente, abbiamo visto il bilancio al 30 giugno 2012, hanno ancora degli stipendi lordi che sono più di 2 milioni di Euro all’anno, quindi dopo le tasse circa la metà. Ma un anno fa con la crisi era apparsa sul giornale la notizia che Nagel e Pagliaro di Mediobanca si sarebbero ridotti lo stipendio del 40 per cento, una notizia non ufficiale ma neanche smentita. In realtà lo stipendio che abbiamo visto del bilancio 2008 dei vertici di Mediobanca è quasi lo stesso dell’anno precedente, quindi la banca ha fatto anche meno utili, ha dato meno dividendo agli azionisti, con la crisi è andata molto peggio e non poteva che essere diversamente, ma i suoi vertici continuano a guadagnare più o meno lo stesso stipendio. Vedremo cosa succede nei prossimi mesi con Unicredit e Intesa San Paolo ma non c’è da aspettarsi un taglio degli stipendi. Corrado Passera nel 2011 ha lasciato Banca Intesa San Paolo con uno stipendio, è stato pubblicato dal bilancio, più 3 milioni lordi prima delle tasse e quindi il suo stipendio più o meno ordinario di ogni anno.


Lo scandalo dei tassi taroccati
Ecco dove sono andati i soldi, ecco perché le banche fanno speculazioni e operazioni di breve periodo, i loro vertici continuano a arricchirsi anche quando banche procurano dei danni all’esterno e hanno anche bisogno poi di ristrutturarsi e di tagliare il personale, perché quando c’è un problema si taglia in basso e non in alto.Si stima che le banche italiane hanno in corso piani di ristrutturazione con 20 – 30 mila esuberi, tra queste Unicredit che ha dato finanziamenti a Ligresti diciamo a piè di lista, lo ha sempre finanziato, sono crediti in buona parte inesigibili però manda via circa 5 mila persone. Intesa San Paolo ha un piano simile, Monte dei Paschi di Siena 3 – 4 mila esuberi e così via.
Sullo sfondo rimangono sempre i grandi giochi pericolosi, le grandi acrobazie speculative della finanza internazionale che parte dall’America e arriva in Europa ma il sistema interconnesso ne fa parte anche il sistema finanziario e bancario italiano. Abbiamo visto nei mesi scorsi esplodere delle grandi truffe nei derivati che sono in sostanza dei titoli speculativi, equivalgono a delle scommesse anche se qualche grande banchiere li chiama delle operazioni fatte per proteggere la banca, ma per esempio la banca J.P. Morgan negli Stati Uniti ha avuto una perdita su derivati di 4 – 5 miliardi di dollari, quella dichiarata, forse molto più alta. Però il capo dell’ufficio investimenti a Londra, la signora Ina Drew è stata messa alla porta con una superliquidazione di decine di milioni di Euro lordi. Poi c’è stato lo scandalo dei tassi taroccati, Libor e l’Euribor, sono i tassi presi a riferimento in tutto il mondo, anche in Italia, per determinare il costo dei finanziamenti, il prezzo dei mutui, i tassi di interesse. Il banchiere che sta in alto però non paga mai e il capo della prima banca che ha ammesso di avere un ruolo in questo scandalo, in questo cartello dei tassi per cui le banche si mettevano d’accordo il capo della Barclays Bob Diamond si è dovuto dimettere in luglio e aveva preteso pure una liquidazione che doveva essere di più di 10 milioni di sterline. Per le proteste della stampa la liquidazione è stata ridotta e ha avuto 2 milioni di sterline che è una somma enorme, sono più di 2 milioni di Euro ed è stato soprannominato dalla stampa inglese Bob il diamante. Questo è un’po’ lo specchio, quando succede un danno, quando c’è un problema i grandi manager della finanza, i grandi banchieri ne escono sempre bene e si taglia in basso.
Passate parola!
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La bufala delle primarie PD: 1.200.000 elettori in meno

Ieri la pressoché totalità dei giornali e delle TV hanno celebrato le primarie PD come un evento politico che “riavvicina i cittadini alla politica”, “segna un’indubbia novità” e si dimostra un “grande strumento di partecipazione popolare”. Siccome però i numeri sono più certi delle chiacchiere, dell’enfasi e della propaganda, sono andato a verificare quelli delle precedenti primarie PD (o del suo antenato, l’Unione), nelle quali si è votato per eleggere il candidato premier del centrosinistra.


Nella tabella 1 seguente sono riportati i dati dei votanti nelle elezioni primarie del 2005 (nella quali è uscito vincitore Prodi) e del 2007 (che hanno incoronato Veltroni), nonchè il differenziale, sia in valore assoluto che in percentuale, dei votanti.

Anno Vincitore Votanti Diff V.A sul 2005 Diff % sul 2005
2005 Prodi 4.311.149 0 0
2007 Veltroni 3.554.169 -756.980 -17,60%
2012 Ballottaggio 3.107.568 -1.203.581 -27,90%

 E qui abbiamo la prima sorpresa: rispetto a 5 anni fa il numero di coloro che hanno votato alle primarie PD è calato di quasi mezzo milione (esattamente 446.601 in meno). Ma se paragoniamo il dato odierno con quello di 7 anni fa il calo è clamoroso: oltre 1.200.000 elettori in meno. In altri termini più di un elettore su quattro, tra coloro che avevano votato nel 2005, non si è recato alle urne nel 2012. E sono quasi certo che non sono elettori di Mastella... La cosa assume maggiore rilevanza se si tiene conto che le primarie del 2005 e quelle del 2007 avevano un risultato scontato: Prodi e Veltroni non avevano veri competitori. In queste primarie invece erano candidati, oltre alla novità Renzi, anche un leader con un certo seguito elettorale come Niki Vendola. Eppure hanno votato in molti di meno rispetto alle volte precedenti. Che poi che ci fossero le file ai seggi è imputabile al fatto che circa la metà degli elettori si è registrata direttamente al momento del voto. E questo ha allungato, inevitabilmente, i tempi d’operazione di voto. Pensate a cosa succederebbe se metà degli elettori italiani, quando si recheranno alle urne nella prossima primavera, si facessero fare la tessera elettorale direttamente al seggio: sarebbe il caos!

Seconda considerazione: gli elettori italiani (escluse le circoscrizioni estere) sono 47.141.807. Quindi la percentuale di affluenza alle urne è stata del 6,6% sul totale. Ma anche prendendo a riferimento i circa 13.000.000 d’elettori di cui è accreditata, nei sondaggi, la coalizione di centro-sinistra non si arriva al 25% degli elettori di PD-SeL-Psi. Sono percentuali da “grande partecipazione popolare”? Possiamo dire che “i cittadini si sono riavvicinati alla politica”?

Ma c’è una terza considerazione che è, a mio avviso, decisiva per identificare la natura di queste primarie: quella di comparare l’affluenza di voto per ogni singola regione con quella generale nazionale. Più le primarie sono il risultato di una partecipazione reale dei cittadini, più le due percentuali si avvicinano; più le primarie sono legate alla partecipazione dei militanti più divergono ed assomigliano alla composizione degli iscritti ai partiti, segnatamente del PD. In altre parole, nel primo caso avremo come risultato che la partecipazione dei cittadini alle primarie in Lombardia è simile al 15,8% (che è la percentuale totale di elettori lombardi sul totale nazionale). La tabella 2 mostra proprio la comparazione tra percentuale d’elettori alle primarie per regione e percentuale nazionale degli elettori per regione.

Regione % Votanti Primarie % Elettori italiani Differenza
Emilia-Romagna 14,2 7,1 +7,1
Toscana 13,9 6,2 +7,1
Umbria 2,4 1,5 +0,9
Basilicata 1,5 1,0 +0,5
Marche 3,0 2,6 +0,4
Lazio 9,7 9,4 +0,3
Liguria 2,8 2,8 0
V.Aosta 0,1 0,2 -0,1
Calabria 3,3 3,4 -0,1
Molise 0,4 0,6 -0,2
Abruzzo 2,0 2,3 -0,3
Friuli 1,6 2,1 -0,5
Sardegna 2,3 2,8 -0,5
Trentino 0,9 1,6 -0,7
Lombardia 14,2 15,8 -1,6
Piemonte 5,7 7,4 -1,7
Puglia 5,0 7,0 -2,0
Veneto 5,3 7,9 -2,6
Campania 7,0 9,7 -2,7
Sicilia 4,7 8,6 -3,9

Come si vede i risultati parlano chiaro: sono le regioni “rosse”, cioè quelle dove ci sono più iscritti al PD, che hanno votato di più (compresa la Basilicata che è l’”Emilia del Sud”) e che hanno un differenziale positivo. L’unica, parziale, eccezione è il Lazio che però ha solo un +0,3 in più. Ma il Nord (Lombardia, Piemonte e soprattutto Veneto) è largamente sottorappresentato così come le due grandi regioni del Sud: Campania e Sicilia. Significativo il dato della Puglia: è la riprova che la capacità di coinvolgere militanti da parte di Vendola è limitata. Non così per il PD: infatti, Bersani è in testa e vincerà le elezioni. Non si capisce dove Renzi possa prendere dei voti (ricordo che non ci si può iscrivere a votare dopo il primo turno): Vendola, al di là delle dichiarazioni di prammatica per alzare un po’ il prezzo, sa benissimo che i suoi elettori o voteranno Bersani o si asterranno mentre la Puppato e Tabacci (che pure ha fatto endorsement per Bersani) hanno dimostrato di non contare assolutamente nulla.

In conclusione, queste elezioni primarie hanno registrato, dati alla mano, un’affluenza modesta, un calo consistente dei votanti e una partecipazione più legata alla militanza che non una reale e libera partecipazione dei cittadini. Renzi tutto questo l'ha sottovalutato, non ha tenuto cioè conto delle parole del compagno Gianni Marchetto che, il 2 dicembre del 1989, durante un dibattito alla sezione PCI di Mirafiori, disse:
I comunisti, quando perdono l’idea della rivoluzione, perdono il senso dell’avventura. E i comunisti, quando perdono il senso dell’avventura, diventano gente noiosa e anche pericolosa ” 

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Bomba ecologica sul Lago di Vico

La Chemical City, definita così dall’intelligence inglese negli anni ’40, è una zona militare a poche decine di metri dal lago di Vico, in provincia di Viterbo. Si tratta di uno dei più importanti bunker fascisti di produzione di armi chimiche: iprite mescolata ad arsenico, fosgene, admsite. Un Magazzino Materiali di Difesa NBC (Nucleare, Batteriologico, Chimico) rimasto per decenni nell’ombra. Fino al 1996, quando – durante la prima operazione di bonifica condotta nel più assoluto segreto – un ciclista venne investito da una nube tossica fuoriuscita dal centro chimico, svelando a tutta la popolazione, fino ad allora ignara, la dimensione del problema. Negli anni successivi le autorità militari hanno evidenziato in alcuni punti concentrazioni di arsenico e altri metalli pesanti superiori alla soglia di contaminazione. Oggi, 27 novembre, squadre militari specializzate procederanno allo scavo della zona militare. Chiuse strade provinciali e comunali, sgomberati tutti i fabbricati e divieto assoluto di navigazione nel raggio di 1 km dal punto in cui si andrà ad operare.

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Cancellieri: “il numero identificativo per gli agenti? Non è fattibile”


Rendere identificabili gli agenti in servizio di ordine pubblico con un codice alfanumerico? Non è fattibile. Ad affermarlo la Ministra Cancellieri durante un incontro con i sindacati di Polizia.

Nei giorni scorsi, sotto l’onda della vasta indignazione suscitata dalle botte gratuite e dalla caccia al ragazzino per le vie del centro di Roma dopo le pesanti cariche contro gli studenti del 14 novembre, la ministra Cancellieri aveva detto che "se ne poteva discutere".

Si riferiva alla richiesta, avanzata da studenti, associazioni per i diritti umani, intellettuali ed esponenti politici, di rendere identificabili gli agenti in servizio di ordine pubblico tramite una placca con un codice alfanumerico da portare sulla divisa. Una ‘apertura’ che alla Cancellieri era costata le durissime critiche da parte dei sindacati di Polizia di destra centro e ‘sinistra’, che si erano detti delusi dalle dichiarazioni del ministro e lasciati soli.

Nel frattempo la richiesta sulla possibilità di identificare i celerini – in modo da poter individuare e denunciare quelli violenti – aveva preso quota, anche grazie ad una petizione firmata tra gli altri da Dario Fo, Ascanio Celestini, Stefano Rodotà, Gad Lerner, Gianni Vattimo, Luigi de Magistris, Michele Serra, Massimo Carlotto, Sabina Guzzanti ed altre decine di migliaia di cittadini noti e meno noti. Una richiesta non nuova, emersa con forza dopo la “macelleria messicana” contro i manifestanti e i medi attivisti a Genova nel 2001 e poi finita temporaneamente nel dimenticatoio fino all’avvento del governo ‘tecnico’. Manesco quanto quelli precedenti, se non anche di più.

Una campagna che chiede di equiparare le norme sull’identificazione in piazza degli agenti in tenuta antisommossa a quanto avviene in altri paesi d’Europa e del mondo. E nei confronti della quale non sono mancate le critiche di chi, nel movimento, ricorda che l’obbligo di essere identificabili stabilito dalla legge negli altri paesi viene spesso e volentieri aggirato e violato. E’ successo negli ultimi mesi nelle città dello stato spagnolo, dove i celerini mobilitati per manganellare o gasare lavoratori e indignados hanno opportunamente rimosso o coperto o reso illeggibili le placche, senza che fossero puniti o quantomeno redarguiti.
Perché il problema è la catena di comando, dalle regole di ingaggio ordinate ai subalterni dagli ufficiali e dai responsabili politici dell’ordine pubblico. E dall'impunità che i governi e gli apparati repressivi concedono a chi fa il lavoro sporco contro i manifestanti.
Ma – rispondono i promotori della campagna – se gli agenti fossero riconoscibili in piazza sarebbero comunque meno inclini alla violenza spropositata e gratuita. E comunque da qualche parte bisognerà pur iniziare…

Però ora, dopo l’apparente – anche se vaga – disponibilità dimostrata nelle scorse settimane dal ministro dell’Interno, la Cancellieri ha tagliato la testa al toro. “Il progetto di un numero identificativo degli agenti in servizio di ordine pubblico al momento non é fattibile" ha detto l’inquilina del Viminale. Senza neanche prendersi la responsabilità di affermare che il governo non è d’accordo, ma adducendo problematiche di ordine tecnico e rimandando il tutto, forse, alla prossima legislatura. Chi vivrà vedrà.

Che Anna Maria Cancellieri abbia esternato sulla questione incontrando i rappresentanti dei sindacati di Polizia al Viminale è significativo. Anche perché invece per la Cancellieri non è solo fattibile, ma è urgente introdurre con un ddl ad hoc l'"arresto in flagranza differita" anche per i manifestanti, alla stregua di quanto accade con gli ultras violenti.


Anche nell'ordine pubblico, il rigore è sempre a senso unico.

27/11/2012

Monti, l'Andreotti "tecnico"

«Rifletterò su tutte le possibilità, nessuna esclusa su come io riterrò ancora poter dare il mio contributo per il migliore interesse dell'Italia europea».

Fatta la tara alla retorica d'obbligo («poter dare il mio contributo per il migliore interesse dell'Italia europea»), Mario Monti, assiso sulla comoda poltrona di Fabio Fazio, ha dato la più andreottiana delle risposte alle (non tante) domande sul suo futuro prossimo. Così facendo pensava forse di nascondere – non le sue ambizioni personali – il potente intreccio di poteri che si sta adoperando per riproporlo in un ruolo centrale nella prossima legislatura. Che si tratti di Palazzo Chigi o del Quirinale, da dove sarebbe possibile dare un colpo definitivo al quadro costituzionale della Repubblica nata dalla resistenza, è questione ancora da dirimere. Ma lo scalino più alto del podio, nei poteri istituzionali, gli è già stato assegnato.
Da chi? Da molti partiti, che non si sentono in grado di reggere la prova delle “ricette della Troika” in relazione al proprio blocco sociale di riferimento; da due dei tre sindacati confederali (la Cgil non può accettare ancora a lungo d'essere sciolta nell'acido di “riforme” che eliminano il ruolo e la necessità di un sindacato; dagli imprenditori, che non potevano sperar di meglio; dalla Chiesa, naturalmente, unita in pratica soltanto su questo grazie al pasticcio sull'Imu. Ma soprattutto dalle “Cancellerie” straniere e dai “mercati”, che hanno un loro uomo, per decenni abile procacciatore d'affari per le mutlinazionali (questo e non altro significa international advisor) nel ruolo di playmaker.
Questo passo da un “retroscena” di Repubblica, qualche giorno fa, dà la misura esatta di quanto importante sia, per l'establishment multinazionale, “continuare” sulla strada intrapresa:

“Basti pensare che l' ambasciatore Usa a Roma, Thorne, negli ultimi giorni sta praticamente facendo il giro di tutti i partiti italiani per spiegare quanto sia elevato l'apprezzamento della Casa Bianca per il presidente del consiglio. Per non parlare del giudizio chei cosiddetti "mercati" assegnano all' attuale governo italiano e delle paure che vengono manifestate per un eventuale "dopo senza Monti".
Nella società politica italiana il blocco di poteri che supporta Monti non ha avversari veri, solo complici. Equamente divisi tra entusiati e riluttanti. Questa differenziazione solleva problemi, ma nessuno irrisolvibile.
A destra non c'è quasi più nulla da distruggere. Il Berlusconi che medita “il grande ritorno” è un sequel senza speranze. Il Pdl corre a perdifiato verso l'esplosione interna, dopo aver già assaggiato quella dei consensi, diviso tra chi ha capito la lezione internazionale subita - e si mette a disposizione dei vincitori - e la rumorosa coorte di chi agita senza nemmeno crederci spettri nazionalistici per mantenersi a galla.
Il centro è già montiano da sempre, per assenza di idee, supporto sociale, personalità degne di nota.
Nel centrosinistra, infine, la partita tra entusiasti e riluttanti è ancora in piedi fino al ballottaggio di domenica prossima. Ma alla fin fine è questione che riguarda più le dinamiche interne di un partito che non quelle complessive del paese nel prossimo futuro. Le piccole varianti cresciute sull'onda della “pulizia politica” (Di Pietro, De Magistris, ecc) sono già ora rientrate nei ranghi dei “riluttanti con diritto di mugugno”. Cercheranno di farsi notare, ma non romperanno le scatole.
Fuori del Parlamento si gioca la partita vera. La frattura tra società politica e ceti popolari si va estendendo a velocità crescente. L'irrisolvibilità della crisi economica promette di allargarla oltre ogni ipotesi di ricomposizione a breve termine. Detta in termini semplici, se – come dice anche Confindustria – non ci sarà nessuna “ripresa” entro i prossimi tre anni, e quindi bisognerà fare i conti con un disagio sociale senza neppure più gli strumenti del “welfare povero” oggi in funzione, può accadere praticamente di tutto.
Il “grillismo” è una risposta furba ma poverissima a questa sfida. Gioca su residui di “pulizia politica”, sulle suggestioni della “democrazia in rete”, sponsorizza senza crearlo o costruirlo il rifiuto sociale su alcuni temi emergenti (ambiente, No Tav, ecc). Nessuna idea di società diversa da questa. Non sarà il M5S a preoccupare il trenino di poteri che ha Monti come maschera politica.
Resta dunque solo l'antagonismo sociale e politico. In parte già in movimento, in grandissima parte tutto da costruire. Non sembra un caso che ai primi e ancora incerti vagiti d'opposizione questo governo “tecnico” abbia immediatamente reagito col via libera ai manganellatori e alla denunce a raffica, ipotizzando “daspo”, arresti differiti, robocop, intelligence (vuol dire spie) contro i movimenti nascenti.

Il “programma di governo” è chiaro. Chi si presenta alle elezioni con “ambizioni di governo” deve però sostenere di volerne una versione diversa; poco o tanto, dipenderà dalle formule retoriche più adatte alla campagna elettorale. Chiunque “vinca” le elezioni del 10 marzo conosce quel programma ed è disposto a realizzarlo. Non deve far altro che seguire le indicazioni di Monti, dovunque si sarà seduto.

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Primarie. Gli “arancioni” guardano al Pd

Ennesimo “oplà!” di Gigino De Magistris che schiera le liste arancioni al fianco della coalizione Pd-Sel lasciando per strada chi stava lavorando ad una lista alternativa di sinistra. Ne vedremo delle belle, anzi di pessime.


Passato il primo turno delle primarie del Pd, anzi di coalizione, già cominciano gli smottamenti “a sinistra”. In una intervista publicata oggi su Il manifesto (che si è sbrigato a fare una edizione speciale per le primarie, evento rarissimo nella storia del giornale), il sindaco di Napoli, Luigi De Magistris, ha immediatamente rovesciato le aspettative di chi vedeva nelle liste “arancioni” un interlocutore per una aggregazione politica-elettorale di sinistra alternativa all'agenda della troika, del governo Monti di oggi e del possibile governo Monti bis domani.


Io vedo un’evoluzione delle posizioni all’interno di questo che è stato chiamato il quarto polo. Adesso anche l’Italia dei valori e una parte della Federazione si stanno spendendo per l’unità con il centrosinistra” dice De Magistris nell'intervista. Incalzato sul fatto che diversi esponenti della proposta delle liste arancioni avessero in testa una collocazione diversa, De Magistris replica così: “Guardiamo la realtà: c’è un movimento di protesta molto forte, quello di Grillo, e contemporaneamente c’è una situazione di crisi oggettiva dei partiti anti Monti. Parlo dell’Idv e della Federazione della sinistra, soggetti ai quali mi sento vicino ma che oggi sono deboli. Se quest’analisi è giusta, allora io credo che vadano tenute insieme la capacità di critica alle politiche del governo Monti, e quindi anche al Pd che le ha sostenute, con una proposta forte di governo con il centrosinistra ma nella direzione del cambiamento”. Il redattore de Il manifesto mette i piedi nel piatto e chiede a De Magistris come si regolerà con i compagni di strada di Alba che invece sostengono l'idea di non coalizzarsi con i partiti: “Bisogna prendere tutte le distanze dalle politiche in corso, ma non serve entrare in conflitto con il centrosinistra a meno di non volersi condannare all’irrilevanza, alla testimonianza pura” afferma De Magistris. “Io sarò a Roma sabato e la lista arancione che presenteremo il 12 dicembre resterà fuori dalla coalizione, ma tenderà una mano nell’ottica di un’alleanza. Se la lista arancione correrà da sola allora dovrà scegliere un candidato premier forte, e sì, il livello è quello di Ingroia. Con lui sono in contatto e potrebbe essere lui. Ma se correremo nella coalizione il candidato premier sarà il vincitore al ballottaggio delle primarie. In qual caso avremo un candidato simbolo, magari come capolista in tutte le circoscrizioni” chiosa Gigino De Magistris. Vedi l'intervista a De Magistris.

Insomma il sindaco di Napoli e leader delle liste arancioni ha in mente uno sganciamento clamoroso da ogni ipotesi di lista alternativa e un ritorno al collateralismo con il centro-sinistra, una coalizione che, già nella carta d'intenti delle primarie, ha dichiarato e sottoscritto che non metterà affatto in discussione i trattati europei sui quali si fondano i diktat della troika Bce,Ue,Fmi e che ipotecheranno pesantemente l'azione del futuro governo.

Giorgio Cremaschi, rivolgendosi a chi si è fatto catturare dalla fascinazione delle primarie, denuncia: “Il
documento che viene sottoscritto dai candidati alle primarie è vincolante per i loro futuri comportamenti. Ebbene in quel testo è seccamente affermata la volontà di mantenere il fiscal compact e tutti gli impegni assunti da Monti. Cioè l'austerità, si proprio quell'austerità contro la quale siamo scesi in piazza il 14 novembre, non si tocca”. Non la manda a dire il portavoce del Comitato No Debito per anni dirigente sindacale della Fiom “Mi chiedo allora quale sia la ragione che vi fa trascurare un vincolo così rilevante per il paese e in particolare proprio per l'iniziativa sindacale. La più semplice delle risposte è che anche voi alla fine siate d'accordo di mantenere gli impegni di Monti e ciò che ne deriva sul piano del rigore e dell'austerità”.

Ma Cremaschi non è il solo a mettere sull'avviso chi si è accodato al rito di massa delle primarie. Per Mauro Casadio della Rete dei Comunisti le primarie del Pd rivelano come l'effetto Renzi riveli la mutazione genetica nel Pd: “Il risultato di Renzi certifica la svolta a destra della base sociale del Pd, emblematico il risultato nelle regioni “rosse”. E' la penetrazione del modello berlusconiano nell'area elettorale del Pd. Il resto è teatrino della politica” sintetizza Casadio.
Marco Revelli scrive che “Non intenderei mai e poi mai legarmi le mani, con questo voto “minore” per la successiva scelta di voto alle elezioni vere. Certo, Nichi Vendola mi è più simpatico di Pierluigi Bersani, e naturalmente di Renzi. Ma non vorrei “impegnarmi” a votare poi per il Pd di Renzi o di Bersani – di Monti in filigrana – quando uno dei due avrà vinto la gara e presenterà il conto”. 
Anche Paolo Ferrero, segretario del Prc sottolinea come le primarie non possono diventare l'evento scatenante per appiattirsi sul centro-sinistra: “Nonostante il gran battage pubblicitario, le primarie hanno raccolto un milione di votanti in meno di quelle del 2005. Un crollo del 25% che ci parla del distacco tra il paese reale e l’alleanza dei democratici e progressisti che sostiene il governo Monti” afferma Ferrero in un nota che sta circolando su Fb. “In questo contesto Vendola non sfonda e il suo risultato conferma il carattere moderato di quell’aggregazione. Al contrario, per dare una risposta ai problemi del paese, è necessario oggi costruire una alternativa di sinistra. Invito quindi Vendola e tutti i compagni e le compagne di SEL a partecipare alla costruzione della lista unitaria di sinistra: cambiare si può, cambiare è necessario”.


Insomma la strada per la costruzione di un polo di classe e indipendente che si opponga decisamente ai diktat della troika indicando una alternativa al massacro sociale e al dogma della "governance", difficilmente troverà compagni di strada nel ceto politico. E se provassimo a cercare alleanze nella società piuttosto che nella ridda di personaggi in cerca di autore?

Fonte

Dopo Renzi, De Magistris è senza dubbio lo scalatore politico più spregiudicato dell'ultimo decennio.
Una vera vergogna averlo sostenuto, anche per il sottoscritto.

“Chiudiamo lo stabilimento di Taranto e tutti quelli collegati”. l'Ilva alza il tiro

Chiusura. Per il Gruppo Riva non ci sono alternative dopo il provvedimento di sequestro emesso oggi dal Gip di Taranto. Una decisione che comporterà “in modo immediato e ineluttabile l’impossibilità di commercializzare i prodotti e, per conseguenza, la cessazione di ogni attività nonchè la chiusura dello stabilimento di Taranto e di tutti gli stabilimenti del gruppo che dipendono, per la propria attività, dalle forniture dello stabilimento di Taranto”. In pratica, una ritorsione. E’ quanto ha scritto l’azienda in una nota diramata nel pomeriggio. Un comunicato in cui la società ha anche reso noto che “proporrà impugnazione avverso il provvedimento di sequestro e, nell’attesa della definizione del giudizio di impugnazione, ottempererà all’ordine impartito dal gip di Taranto”.

La clamorosa decisione di Riva Group è arrivata dopo i 7 arresti effettuati oggi insieme al sequestro dei prodotti finiti. I primi ad avere la notizia sono stati i sindacati, a cui la società ha comunicato la chiusura immediata dell’area a freddo del siderurgico tarantino. ”L’azienda ci ha appena comunicato la chiusura, pressoché immediata, di ‘tutta l’area attualmente non sottoposta a sequestro’ e ciò riguarda oltre 5000 lavoratori cui si aggiungerebbero a cascata, in pochi giorni, i lavoratori di Genova, Novi Ligure, Racconigi, Marghera e Patrica”. E’ quanto detto dal segretario Fim Cisl Marco Bentivogli.

La Procura ha infatti sequestrato ‘coils’ e lamiere prodotti nelle ultime settimane in quanto li ritiene ‘provento e profitto di attività penalmente illecita’, quella cioé derivata dagli impianti dell’area a caldo, altiforni e acciaierie, che dal 26 luglio scorso sono sotto sequestro senza facoltà d’uso con l’accusa di disastro ambientale. L’Ilva, dicono i pm, non poteva produrre dopo il sequestro e il fatto che abbia continuato a farlo è un illecito. Di qui il blocco dei prodotti derivati da quest’attività. Per l’area a freddo, causa la crisi di mercato, l’Ilva aveva già fermato alcuni impianti nei giorni scorsi come il treno lamiere e il rivestimento tubi, ai quali si è aggiunto dalla fine della scorsa settimana anche il tubificio due. Per effetto di questa fermata 700 lavoratori sono in ferie forzate in attesa che l’Ilva definisca con i sindacati metalmeccanici un accordo sulla cassa integrazione ordinaria, già chiesta per 2mila unità. Adesso, invece, dopo il sequestro la società ha deciso di fermare tutta l’area a freddo e quindi più impianti. Si calcola che circa 5mila potrebbero essere i lavoratori coinvolti in questo stop.

Non solo chiusura: l’Ilva annuncia ricorso al sequestro
La società del gruppo Riva, dopo la clamorosa decisione, ha comunque annunciato ricorso al provvedimento di sequestro. La presa di posizione parte dal fatto che “Ilva non è parte processuale nel procedimento penale – si legge nella nota – ed è quindi estranea a tutte le contestazioni ad oggi formulate dalla Pubblica Accusa”. Non solo. La società, dopo aver ricordato “che lo stabilimento di Taranto è autorizzato all’esercizio dell’attività produttiva dal decreto del Ministero dell’Ambiente in data 26.10.2012 di revisione dell’AIA” ha sottolineato che “il provvedimento di sequestro di oggi si pone in radicale e insanabile contrasto rispetto al provvedimento autorizzativo del Ministero dell’Ambiente”. Da questa presa di posizione, quindi, deriva “l’impugnazione avverso il provvedimento di sequestro” e “nell’attesa della definizione del giudizio di impugnazione, ottempererà all’ordine impartito dal GIP di Taranto”.

La società: “A Taranto nessun rischio per la salute”
Infine la provocazione diretta ai magistrati, con la messa a disposizione da parte dell’Ilva delle consulenze attestanti la conformità dello stabilimento alle leggi anti-inquinamento. “Per chiunque fosse interessato – hanno comunicato i vertici dell’azienda – Ilva mette a disposizione sul proprio sito le consulenze, redatte dai maggiori esponenti della comunità scientifica nazionale e internazionale, le quali attestano la piena conformità delle emissioni dello stabilimento di Taranto ai limiti e alle prescrizioni di legge, ai regolamenti e alle autorizzazioni ministeriali, nonché l’assenza di un pericolo per la salute pubblica”. Ilva, infine, ha ribadito “con forza l’assoluta inconsistenza di qualsiasi eccesso di mortalità ascrivibile alla propria attività industriale, così come le consulenze epidemiologiche sopraccitate inequivocabilmente attestano”.

Fonte

Ormai è palese che il gioco del gruppo Riva sia quello di alzare il tiro, fomentando il malcontento dell'ovina massa operaia, per scaricare i costi di uno stabilimento alla frutta sulle spalle dello Stato.
Capitalismo di rapina con la connivenza di ogni amministrazione, nazionale e locale, degli ultimi 20 anni almeno.

Primarie, sempre meno votanti nonostante l’iniezione fatale di realtà aumentata

“Dovunque regni lo spettacolo, le uniche forze organizzate sono quelle che vogliono lo spettacolo”. Questa frase dei Commentari di Guy Debord va interpretata in modi differenti, diversi anche dalle intenzioni dell’autore. Debord metteva l’accento su come differenti forze dello spettacolo si contendessero il dominio, per operare politiche del tutto simili, nella società dello spettacolare integrato. Società che altro non era che un dispositivo di potere coordinato tra concentrazione di potere nella produzione di significati spettacolari e diffusione microfisica dei suoi effetti. Qui Debord, interpretato meno alla lettera e in toni meno apocalittici, faceva capire come nelle società contemporanee la coesione politica, e anche quella sociale di qualunque segno, non possa essere separata da quella spettacolare. Il possesso  di una evoluta logistica dello spettacolo è quindi garanzia di potere politico ma anche della riuscita di quello spettacolo che rappresenta il campo di forza della coesione sociale. Fa politica chi è in grado di mettere assieme spettacolo e logistica intesi come tecnologie della creazione e del mantenimento del campo di forza della coesione sociale. Un quarto di secolo dopo i Commentari, con l’esplosione di diverse generazioni di tecnologie della comunicazione, vanno rivisti sia i concetti di spettacolo che di logistica in rapporto alla politica istituzionale.

Le primarie di centrosinistra rappresentano quindi un buon punto di osservazione dei cambiamenti di questi concetti. E questi cambiamenti sono il vero dato politico delle primarie visto che il grosso delle politiche su lavoro, fisco, bilancio in Italia (quello che sarebbe il nucleo di un programma elettorale) passa tra Ecofin, eurogruppo e Bce e le  esigenze di un sistema bancario europeo in preda a tossicità di ogni genere. Tutti temi solo minimamente sfiorati alle primarie, cosa che ha contribuito a renderle uno spettacolare integrato, di una nuova generazione, ma del genere “strapaese inconsapevole della politica”. Genere che, nato per contrastare la cosiddetta antipolitica, alimenta così i processi di regressione cognitiva dell’elettorato che ha partecipato all’evento. Siamo quindi di fronte a mutazioni tali, nella rappresentazione della coesione sociale tramite una matura logistica della cosiddetta partecipazione democratica, da farci pensare che all’elettorato di centrosinistra sia stata data una iniezione letale di realtà aumentata da renderlo politicamente e socialmente morto.

Guardiamo di capirle queste mutazioni. Partiamo dal concetto di realtà aumentata. La augmented reality non è la realtà virtuale, non è un ambiente di immissione in un reale del tutto diverso da quello convenzionale. E’ piuttosto un corpo di tecnologie, già in atto da tempo ed in permanente evoluzione, che sovrappone la realtà digitale a quella convenzionale. Lo smartphone, ancora più del tablet a causa della sua maggiore praticità, è il terreno sul quale si sviluppa la realtà aumentata. Il modello è quello dello smartphone inteso come occhio attraverso il quale la realtà convenzionale può essere, nel momento in cui è percepita, aumentata di segni, indicazioni, strumenti di lettura, di relazione e di orientamento. L’archetipo di questo modello è Google Maps montato a suo tempo sull’iPhone 3. Gli sviluppi possibili di questo archetipo sono ovviamente infiniti. Eventi come le primarie ci mostrano la produzione di una realtà aumentata in politica che è un fenomeno differente, un’evoluzione dello spettacolare integrato di Debord. In quest’ultimo lo spettacolo era un fenomeno, di rappresentazione del mondo annullata nelle immagini tradizionali del cinema e della tv, concentrato nei poteri che lo governavano e diffuso nell’eco della narrazione sociale. Oggi, la produzione di segni, indicazioni, strumenti di lettura, relazione ed orientamento della realtà aumentata, che ha lo smartphone come paradigma, diviene strategico nella produzione di contenuti nella politica istituzionale. Non è un dato alla moda ma un preciso tratto antropologico: alla personalizzazione dell’offerta politica, il candidato che mette in ombra i contenuti (che comunque politicamente, come abbiamo visto, non ci sono), corrisponde la possibilità di personalizzare dati e indicazioni dei candidati sui propri oggetti privati di comunicazione. Che, in questo modo, permettono di vedere la realtà in modo diverso, aumentata in contenuti. L’uso non solo massiccio ma ostentato di twitter nelle primarie di centrosinistra mostra l’adeguamento di questo genere di politica istituzionale a questo paradigma. Gli stessi successi di Renzi, che ha usato in modo più evoluto strategie di penetrazione digitale nelle zone del paese dove il digital divide è minore rappresentano un segnale in questa direzione.

Le primarie: una regressione antropologica che nega la democrazia

Il genere di spettacolare integrato prodotto dal centrosinistra è quindi un tipo di spettacolo dove la coesione sociale ed elettorale è operata attraverso l’estetica, assieme alle tecnologie, della realtà aumentata. Lo stesso spettacolo originario, la serata su Sky, che serve anche per alimentare le altre forme di coesione spettacolare, le più tradizionali, ha assunto tratti significativi di questa estetica. Segnatempo marcati ovunque come in un tablet o in uno smartphome, candidati rappresentati entro un format personalizzabile.
Le primarie rappresentano quindi una revisione del concetto di spettacolo ma anche di logistica, che diviene logistica della percezione piuttosto che dell’immaginario. Una logistica dove il candidato più che immaginato deve essere percepito ovunque, in tv e sui propri dispositivi personali. Logistica e spettacolo, in questo modo, tendono naturalmente verso un tipo di rapporto sociale che è una forma democratica di negazione della democrazia. Guardiamo infatti alle modalità organizzative delle primarie. A quelle tradizionali, organizzazione dei volontari e dei seggi, si sono infatti fermamente sovrapposte, sovrastando la dimensione del volontariato, tutte le forme logistiche flessibili del project-financing, dello sponsoring, dello spin-doctoring, dell’uso degli influencer in rete, della programmazione televisiva pay e generalista. Come sappiamo è dalla forma organizzativa non dai contenuti, che comunque qui non c’erano, che si comprende se c’è democrazia reale.  Bene, tutte queste forme di logistica flessibile egemoni nell’evento primarie presuppongono un rigido controllo verticale dei contenuti da diffondere,da far circolare e da finanziare.  Basta immaginare il contrario per capire cosa sono le primarie del centrosinistra: si pensi che razza di casino sarebbe accaduto se solo la logistica delle primarie avesse esaltato, dandogli la scena, i contenuti prodotti dagli utenti supporter di uno dei candidati. Se in prima serata tv fosse finita la dichiarazione di un follower di  Bersani “ripristiniamo l’articolo 18, basta con il governo delle banche” (e ce ne sono non pochi), o di Vendola “Renzi è uno di destra e non dobbiamo allearci con lui” (anche qui ce ne sono non pochi). Sarebbe stata un’operazione di realismo non di realtà aumentata ma l’intero mosaico dei contenuti da vendere attraverso questa complessa logistica della percezione sarebbe rimasto sinistrato. Più difficile sarebbe stata la dinamica fluida del project-financing (chi finanzia contenuti non controllabili nè dallo sponsor nè dallo sponsorizzato), dello spin-doctoring (chi si mette a governare contenuti che non controlla) e di tutti i dispositivi della logistica che sono la vera anima di questo genere di scenografia elettorale.

Per questo si deve parlare di primarie come iniezione fatale di realtà aumentata perchè rappresentano una complessa, implicitamente autoritaria, immissione di contenuti non negoziabili nel proprio corpo elettorale. Il fatto che si parli dell’elettorato, secolarizzando l’uso del concetto, in termini di partecipazione aiuta proprio a comprendere questa dinamica. In termini più squisitamente mutuati dall’antropologia religiosa la partecipazione è quel processo, formalizzato in rito, di assunzione, e di successiva personalizzazione, della parola tramite una funzione. Le persone partecipano tramite le emozioni esperite nella funzione, o il commento entro logica e regole religiose, mentre il governo dei significati e della parola appartiene a chi detiene i dispositivi di funzionamento della funzione (qui l’assonanza tra questi  due ultimi concetti dovrebbe aiutare a comprendere il problema).  Non è affatto un caso che diversi candidati alle primarie abbiano utilizzato, in differenti coniugazioni, l’esortazione alla  “speranza”. Nella subcultura cattolica, alla quale tutti i candidati hanno fatto  esplicitamente riferimento nel cosiddetto Pantheon dei valori, la speranza serve per un governo positivo dell’emozione suscitata nei partecipanti. In un dispositivo rituale dove c’è chi ha il potere reale, del governo della parola e della scenografia, e chi può soltanto partecipare. E la costruzione della parola e l’organizzazione della scenografia non sono controllati dai partecipanti.
Quindi non si sbaglia affatto quando si parla di primarie come fenomeno di regressione antropologica, che finisce per rappresentare il rovescio di una democrazia che invece è un processo di relazione tra uguali, di una parte della società italiana. Una regressione nella trasformazione dei processi di elaborazione collettiva dei contenuti politici che finiscono oltretutto per svanire verso la riproposizione, in forma logisticamente complessa, di una elementare antropologia religiosa dove è netta la separazione tra chi ha potere e contenuti e chi “partecipa”.  Dove svanisce ogni reale contenuto politico, che è oggi è l’Europa non la chiacchiera sulla politica nazionale, per lasciare il posto ad un fluire continuo di commenti di piccoli, inutili fatti banali attorno alle primarie. In un sistema definito di controllo dei contenuti immessi dall’alto verso il basso entro una complessa logistica della percezione. Logistica che permette l’uso dei social network in modo opposto rispetto alla concezione del primato dei contenuti prodotti dagli utenti e all’attivazione di forme complesse di intelligenza collettiva. Qui la complessità della logistica lavora per negare l’intelligenza collettiva.

Come si vede lo spettacolare integrato di Debord ha subito una evoluzione e una differenziazione di modello (sulla differenza tra primarie americane, francesi, italiane ed inglesi è davvero tema a parte). In un paese, l’Italia che, come scriveva Debord è a “scarsa tradizione democratica”.  Il trasferimento di potere, nelle primarie del centrosinistra, dagli elettori agli eletti si configura quindi come un trasferimento di potere non democratico. Operato con le forme spettacolari della democrazia. Gli italiani sono avvertiti: il modo con il quale si governa un partito è lo stesso con il quale, quando si va al potere, si governa un paese.

Nonostante la realtà aumentata, sono sempre di meno. Il cupio dissolvi del popolo di sinistra.

La letteratura americana sulle primarie, che si dispone su quattro decenni di case studies, ci insegna che si tratta più di fenomeni di radicalizzazione di una parte del proprio elettorato che di vera e propria costruzione di un consenso largo. Quello avviene, semmai, successivamente in fase elettorale. In questo senso i dati definitivi sull’affluenza alle primarie sono impietosi. Nonostante la più grossa campagna di mobilitazione al voto su più piattaforme (dalle piazze, ai social network, ai giornali, alla tv pay e generalista) anche queste primarie confermano un dato oggettivo di declino dell’affluenza per questo tipo di elezioni. Su dati ufficiali, queste primarie di coalizione hanno raggiunto lo stesso numero di partecipanti di quelle, con il solo Pd, del 2009 (3.100.000). E’ evidente che nello stesso Pd, pur al centro di tutte le dinamiche spettacolari, c’è stato un calo di affluenza. E le primarie del 2009 rappresentavano il punto più basso di affluenza, in questo genere di elezione, raggiunto da quel partito.  Rispetto alle ultime primarie di coalizione, quelle del 2005, il calo è spettacolare. Una perdita di più di un quarto dei votanti, circa un milione e duecentomila voti di meno, quando nel 2005 il dispositivo di propaganda per questo genere di elezioni non era sofisticato come oggi. Una perdita ma con anche anche una infiltrazione di elettorato di centrodestra, come da numerose testimonianze, come mai era accaduto nelle precedenti primarie. Eppure non è mancato l’effetto Orwell con i media che, durante la giornata elettorale, hanno parlato continuamente di boom votanti, riprendendo le indicazioni degli spin-doctor dei candidati, cercando di creare un’ onda che trascina verso il voto. Le file, frutto di una organizzazione approssimativa sul terreno (a logistica sofisticata corrisponde qui organizzazione deficitaria sul territorio) hanno fatto quindi parte della scenografia non della realtà. Vedremo quale effetto farà la scenografia sull’elettorato al momento delle elezioni politiche. Del resto siamo di fronte ad uno spettacolo politico che, come negli Usa, gonfia i palinsesti e attrae audience e quindi pubblicità. Le primarie si mostrano così, sul piano della mobilitazione reale, un istituto già usurato,  nell’intenzione originaria di raccogliere consensi allargati, nel momento in cui sembra raggiungere il suo acme spettacolare. Eppure, questione da non trascurare, i follower di ogni genere sono stati valorizzati in maniera maggiore rispetto al passato.

I numeri che ci danno una partecipazione sostanzialmente in calo radicalizzano così l’esperienza di chi ha partecipato creando la distanza con gli altri. Che può essere o non essere colmata nel momento elettorale. Nel 2006, dopo le primarie boom del 2005, ad esempio il centrosinistra sostanzialmente riuscì a far eleggere un governo debole che durò poche decine di mesi. Dal punto di vista dei numeri siamo quindi di fronte a modalità di mobilitazione politica minore nella società degli user generated contents. Magari di una minoranza non democratica, strategica per vincere le elezioni in una società politicamente frammentata ma neanche da scambiare per una maggioranza. Dal punto di vista dei risultati arrivano al ballotaggio due candidati di destra. Entrambi assolutamente compatibili con procedure e dettati politici Ue, Bce, Ecofin che hanno portato l’Italia in una contrazione economica permanente che rischia di produrre disastri sociali impensabili per questo paese.  Che dalle primarie esca un pd più bersaniano o renziano, onestamente, è solo un problema di organigramma interno a quel (si fa per dire) partito.

Sugli altri candidati che hanno avuto funzione decorativa merita spendere due parole su Nichi Vendola. Che due anni fa era un possibile,  candidato vincente alle primarie del centrosinistra. Ed oggi è rimbalzato, dopo una serie di errori e travisamenti, alla condizione del Bertinotti di 15 anni fa. Quello costretto a stare in una coalizione, erodendo il proprio elettorato, maledicendo e votando leggi come la Treu sugli interinali. E a differenza del Bertinotti del ‘97, Vendola oggi è senza un partito strutturato, con la capacità di mobilitazione ormai completamente subordinata alla copertura del suo personaggio nei talk show. Come si capisce non solo dalla dismissione degli user generated contents delle fabbriche di Nichi, fondamentali per l’ascesa del personaggio, ma anche dalla spiegazione che Vendola dà del suo flop elettorale. Ovvero quella di non essere stato coperto a sufficienza dai grandi media. Nel complesso siamo di fronte al cupio  dissolvi del popolo di sinistra. Con questa espressione, a partire dagli anni ’80, si è sempre indicato l’elettorato di sinistra in grado di fare massa ben oltre l’adesione militante ai partiti progressisti. Questo genere di tipologia di popolazione, comunque numericamente in regressione, è invece oggi servito, come materia grezza per un processo di costruzione autoritaria del consenso, in forma democratica, grazie a nuovi dispositivi spettacolari, stranianti e cognitivamente regressivi.

Viste le politiche che ha in previsione il Pd una volta al potere, e che sono quasi sconosciute ai suoi follower, non  scherziamo affatto quindi quando diciamo che, chi vota le primarie, consapevole o no, è socialmente pericoloso.  Perchè trasferisce potere, secondo un complesso dispositivo non democratico, ai candidati di un partito che non ha prospettive di futuro. Bersani  ha parlato di primarie come di una festa. Bene, chi vuol fare politica deve uscire dall’autoreferenzialità e, politicamente parlando, si deve organizzare per fare la festa a questa gente. Disgregando una subcultura di centrosinistra che è uno dei fattori chiave del grave declino, dell’impoverimento materiale e cognitivo di questo paese.

Per Senza Soste nique la police

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