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29/11/2013

L’Ucraina sbatte la porta in faccia all'Ue e si riavvicina a Mosca

Russia 1, UE 0. E’ un vero smacco per l’egemonia ad est dell’Unione Europea la rinuncia da parte del governo ucraino alla firma dell’accordo di associazione proposto da Bruxelles a una settimana dalla data stabilita per la firma stessa. Anche perché in contemporanea Kiev ha deciso il rilancio delle relazioni commerciali ed economiche con Mosca che da tempo esercita pressioni contro l’ex repubblica sovietica affinché rinunci alla partnership con l’UE. 

Ieri il premier ucraino Mykola Azarov ha firmato un decreto per «sospendere il processo di preparazione dell'accordo di associazione tra Ucraina e Ue» dopo che il parlamento di Kiev aveva bocciato una misura, richiesta a gran voce da Bruxelles, che consentiva all’ex premier Yulia Tymoshenko, attualmente in prigione, di farsi curare all’estero. Il presidente ucraino Viktor Yanukovich ha sottolineato che la questione della scarcerazione di Yulia Tymoshenko può essere risolta soltanto nel quadro delle leggi già esistenti in Ucraina e senza l’intromissione di paesi stranieri.
Per l'Ukrainskaya Pravda, quotidiano filoeuropeista e vicino all'opposizione al governo ucraino, si è trattato di un “giovedì nero” e non sono mancate accuse da parte di alcuni ambienti dell’establishment europeo nei confronti della ‘ministra degli esteri’ continentale Catherine Ashton, o dello stesso Kwasniewski, accusati di scarsa incisività o di ingenuità nei confronti delle pressioni di Mosca.
Ma a creare la frattura tra Ucraina e UE non c’è solo l’affaire Tymoshenko. "L'ultima goccia è stata la posizione illustrata dall'Fmi nella lettera del 20 novembre" ha spiegato lo stesso premier Azarov, citando l'intransigenza del Fondo sulle condizioni poste per un credito che di fatto, ha sostenuto, è solo il rifinanziamento del programma stand-by già concordato con l'Ucraina nel 2008 e poi nel 2010. "Il Fondo Monetario ha presentato condizioni per un prestito, pensate un po’, necessario a estinguere i debiti nei confronti dello stesso Fondo Monetario", ha detto Azarov, facendo un preciso elenco delle richieste Fmi. "Condizioni: aumento delle tariffe del gas del 40%, congelamento dei salari minimi e del livello salariale sui livelli attuali, sostanziale taglio delle voci di spesa nel bilancio, diminuzione dei sussidi al settore energetico".
Il premier Azarov ha anche evidenziato carenze nelle prospettive concrete di un accordo di libero scambio con l'Ue. "Cosa compenserà le perdite che subiremo dalla chiusura dei mercati dell'Unione doganale? Come, vi chiedo? A questa domanda purtroppo non abbiamo avuto risposta". Le condizioni poste da Mosca per la permanenza dell’Ucraina nella unione doganale tra Russia, Bielorussia e Kazakistan sono assai migliori di quelle chieste da Ue e Fmi.
Il ministro dell’Energia ucraino, Yuri Boiko, ha spiegato che il Paese non si può permettere di perdere i legami economici con Mosca e che Bruxelles ha rifiutato di offrire ricompense per le perdite nel commercio con la Russia. L’obiettivo di Kiev, insomma, è diventare meno dipendente da Europa e Fondo monetario internazionale e di preparare - ha detto il premier ucraino - «il mercato interno a delle relazioni da pari a pari» anche con l’Unione europea.
Di fronte all’uno-due di Kiev l'inviato dell’Ue per l'Ucraina, il polacco Aleksander Kwasniewski, ha dovuto prendere atto che al prossimo vertice del 29 novembre a Vilnius non sarà firmato nessun trattato di associazione. Mentre è saltata la visita a Kiev nei prossimi giorni del commissario europeo all’allargamento, Stefan Fule, il leader del Cremlino Vladimir Putin si è detto soddisfatto per la decisione dell’Ucraina di tornare a sviluppare le proprie relazioni con la Russia.

Ed ora l’UE potrebbe rivalersi contro l’Ucraina, che si è permessa di sbattere letteralmente la porta in faccia a Bruxelles preferendo il rapporto con la Russia, e contro la stessa Mosca.
Mercoledì la Commissione Europea aveva fatto sapere che prossimamente dovrebbe essere definito l'accordo per far passare le importazioni di gas verso la Slovacchia per ridurre la dipendenza dalla Russia. Da circa un anno l'Ucraina ha cominciato a importare gas dall'Ungheria e dalla Germania sulla base di un accordo di fornitura con il gruppo tedesco Rwe, con l’obiettivo di ridurre di quasi il 40% la dipendenza dagli acquisti diretti di gas russo.
Sono assai lontani i tempi in cui la ‘rivoluzione arancione’ consegnava alla sfera d’influenza europea la seconda repubblica per importanza nata dalla deflagrazione dell’Unione Sovietica.

Oggi pomeriggio Vladimir Putin ha accusato la Ue di ''ricattare'' e di far ''pressione'' sull'Ucraina per la sua decisione di sospendere l'accordo di associazione con Bruxelles: "Abbiamo sentito le minacce da parte dei nostri partner europei verso l'Ucraina, fino a promuovere l'organizzazione di proteste di massa" ha detto Putin durante una conferenza stampa a San Pietroburgo con il primo ministro turco Tayyip Erdogan, leader di un altro paese che negli ultimi anni è diventato assai tiepido nei confronti di un ingresso all'interno dell'UE.

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Honduras: il candidato della destra golpista proclamato presidente tra le proteste dell'opposizione

Dopo le elezioni svoltesi domenica scorsa il Tribunale Supremo Elettorale dell'Honduras ha proclamato presidente il candidato della destra Juan Orlando Hernández, espressione di quei settori che nel 2009 avevano destituito con un colpo di Stato (con l'appoggio di USA e Israele) il presidente democraticamente eletto Manuel Zelaya Rosales. Hernández avrebbe riportato circa il 34% dei voti contro il 29% della principale candidata dell'opposizione, Xiomara Castro (nella foto), moglie di Zelaya, che rappresentava la coalizione LIBRE. L’opposizione denuncia irregolarità e “carenze negli atti”. La polizia è intervenuta violentemente contro gli studenti che per protesta occupavano l'Università nella capitale Tegucigalpa. Pubblichiamo un commento tratto dal portale Rebeliòn. Redazione

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L’Honduras di fronte a una nuova crisi politica

Juan Manuel Karg y Mariana Katz

Rebelión

Lo scrutinio che poteva aver chiuso il ciclo inaugurato dal golpe del 2009, quando fu deposto della carica il legittimo presidente José Manuel Zelaya, non ha fatto altro che approfondire le differenze tra due progetti antagonisti di Paese.

Il partito Libertad y Refundación – LIBRE – ha denunciato irregolarità e “carenze negli atti”, dopo i primi dati forniti dal Tribunale Supremo Elettorale (TSE), che danno in vantaggio il Partido Nacional (34,1% a 28,5%, con il 46% delle schede scrutinate). Secondo queste cifre il candidato del PN, Juan Orlando Hernández, si è aggiudicato la vittoria, ed ha affermato di aver ricevuto le congratulazioni di Juan Manuel Santos, presidente della Colombia, Otto Perez Molina, presidente del Guatemala, e Roberto Martinelli, presidente di Panama. Cioè ha “costruito” la sua vittoria di fronte ai media dopo che il TSE aveva emesso il primo bollettino contenente solo i dati del 24% delle schede.

José Manuel Zelaya, Coordinatore Nazionale di LIBRE, ha dichiarato che “chi altera la pace è chi mente: ci hanno rubato le elezioni”, aggiungendo che, secondo le schede scrutinate in tutto il Paese, il risultato è di 30,6% a 25,6% a favore della candidata Xiomara Castro. Dopo ha affermato: “difenderemo ogni circoscrizione,ogni municipio e ogni seggio, e i suoi risultati in Honduras” . Secondo il primo comunicato pubblico di LIBRE, più del 20% del totale delle schede in favore del TSE “non è stato conteggiato a causa di presunte anomalie”. 

Cronaca di uno sviluppo annunciato

La possibilità dell’esistenza di irregolarità in questa direzione è stata denunciata da settimane da diversi analisti internazionali e mezzi di comunicazione di tutto il mondo in tutto il continente. A quanto pare, il dispiegamento di migliaia di rappresentanti di lista di LIBRE in tutto il Paese non è riuscito ad evitare le manovre, e tutti gli sguardi sono puntati sul lavoro dello stesso TSE. Per Rafael Alegría, dirigente della Vía Campesina dell’Honduras, la spiegazione è semplice: “Il Tribunale Supremo Elettorale risponde al candidato del governo. È triste perché ci aspetta una maggiore crisi sociale e politica nel Paese”. Dopo aver commentato così, Alegría ha dichiarato pubblicamente: “non resteremo a braccia conserte, se c’è bisogno di tornare nelle piazze lo faremo”.

Intanto, anche dal Partito Nazionale cercano di riprendere l’iniziativa: Juan Orlando Hernández ha dichiarato che la vittoria “non si negozia”, e ha comunicato che comincerà subito a formare il suo gabinetto. “Il popolo ha già scelto, ora dobbiamo lavorare e lavorare”, ha dichiarato il candidato del PN. L’esempio messicano - la frode contro Andrés Manuel Lopez Obrador nel 2006 - mostra che i primi giorni possono decidere molto in questi casi: se non si riesce ad articolare una solida mobilitazione nel Paese, e se non si riesce a denunciar massicciamente a livello internazionale il caso, la possibile reversibilità del quadro diventerà sempre più difficile. La destra lo sa, e per questo si darà da fare con molta iniziativa durante le prossime settimane: lì sta la possibile sopravvivenza del governo contestato.

Il ruolo degli USA e i governi dell’Alleanza del Pacifico

Non a caso, il primo governo che ha riconosciuto Hernández, tramite la sua ambasciatrice a Tegucigalpa - Lisa Kubiske - è stato quello degli USA. Kubiske ha dichiarato, dopo che è stato reso noto il secondo bollettino, “riconosco i risultati annunciati e quello che gli osservatori ci riportano" . La stessa ambasciatrice aveva affermato - qualche ora prima, la domenica, in pieno processo di votazione! - che gli honduregni non dovevano avere “paura” di “utilizzare il potere del suffragio: dovete chiedervi che genere di Paese vogliono costruire gli honduregni”.

Inoltre, come si diceva prima, chi ha parlato per primo con Juan Orlando Hernández - dopo il primo bollettino - è stato Juan Manuel Santos. Il significato della dichiarazione è chiaro: la Colombia negozia l’ingresso dell’Honduras come membro a pieno titolo nel blocco dell’Alleanza del Pacifico per l’anno 2014. L’unico candidato che gli può assicurare questa appartenenza è Hernández. Xiomara de Castro aveva dichiarato che, nel caso LIBRE fosse arrivato al governo, avrebbe scelto altri meccanismi di integrazione regionale, autonomi, come l’Unasur e il Celac.

Un futuro incerto, in un Paese con crescente povertà e vulnerabilità dei diritti umani

La situazione, per tutti i motivi che abbiamo visto, è quella dell’inizio di una nuova crisi politica nel Paese. L’Honduras ha oggi due candidati presidenziali che si proclamano vincitori delle elezioni di domenica. Ci sono cifre che esprimono preoccupazione sulla congiuntura politica e sul futuro del Paese: a livello economico c’è un notorio aumento della povertà in ampi settori della popolazione, prodotto di un orientamento politico che privilegia meno la cura del “sociale” rispetto al governo di Zelaya.

Su questo ha svolto una ricerca il “Centro Ricerche Economiche e Politiche”, con sede a Washington (CEPR la sua sigla in inglese), che ha affermato recentemente che dal 2010 a 2012 la povertà in Honduras è aumentata del 13,2% - e la povertà estrema è salita al 26,3% -. La stessa ricerca mostra che, durante la gestione Zelaya (2006-2009), la povertà si era ridotta del 7,7% - ed era diminuita anche quella estrema del 20,9% -.

Anche la situazione dei diritti umani è preoccupante, dato che c’è stata una crescente repressione su due settori specifici: i contadini da un lato, e i lavoratori e le lavoratrici della stampa dall’altro. Tra varie fonti consultate si calcolano in circa 300 gli omicidi politici negli ultimi quattro anni, una cosa sulla quale l’opinione pubblica internazionale, sfortunatamente, non si è espressa.

Se si affermasse la “vittoria autocostruita” di Juan Orlando Hernández, l’attuale schema di potere in Honduras continuerà: cioè non ci potranno essere progressi nello smantellamento del regime politico imposto dal 2009, che era quello che si proponeva, durante la sua campagna, Xiomara Castro, tramite la proposta di una Costituente. I prossimi giorni - e il ruolo delle organizzazioni sociali e politiche che hanno sostenuto LIBRE - saranno elementi chiave per sapere qual è il futuro di milioni di honduregni in relazione al loro governo.

Juan Manuel Karg. Laureato in Scienze Politiche UBA / Ricercatore del Centro Culturale della Cooperazione

Traduzione per Senzasoste Andrea Grillo, 26/11/2013


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Lo Zimbabwe di Mugabe

Mentre si avvicina il centesimo giorno del settimo mandato da presidente di Robert Mugabe, due rapporti usciti a meno di una settimana di distanza uno dall'altro, pubblicati da Amnesty International e da Human Rights Watch, sottolineano che lo Zimbabwe ha ancora molta strada da fare in termini di rispetto dei diritti umani e di infrastrutture idriche e sanitarie.

Anche se la situazione politica ed economica negli ultimi anni è migliorata, le violazioni dei diritti umani, soprattutto nei confronti dei giornalisti, degli attivisti e degli oppositori politici, non si sono mai fermate. L'applicazione della nuova Costituzione, entrata in vigore a maggio, che prevede la tutela dei diritti economici, sociali, culturali, civili e politici, è ostacolata dalla corruzione, dalla cattiva amministrazione e dalla mancanza di volontà che hanno segnato la vita politica dello Zimbabwe sin dalla sua definitiva indipendenza dal Regno Unito nel 1980.

Il governo di coalizione che ha guidato il Paese tra il 2009 e il 2013, composto dall'Unione Nazionale Africana Zimbabwe - Fronte Patriottico (Zanu-Pf) di Mugabe e dal Movimento per il Cambiamento Democratico (Mdc) del suo avversario Morgan Tsvangirai, ha consentito al Paese di non sprofondare nel vortice della violenza seguito alle contestate elezioni del 2008. Ma non è riuscito ad attuare le riforme istituzionali necessarie a garantire trasparenza e democrazia né a prendere le distanze dagli errori del passato e a migliorare le condizioni per il 70 per cento della popolazione che vive sotto la soglia di povertà.

I dati di Transparency International dimostrano che negli ultimi anni la corruzione è persino cresciuta e il Paese è passato dalla 24esima posizione tra gli Stati più corrotti al mondo nel 2008 alla tredicesima nel 2012. A ottobre, inoltre, la Zimbabwe's Revenue Authority (Zimra) ha stimato che lo scorso anno il paese ha perso due miliardi di dollari a causa della corruzione.

Secondo Amnesty International, il nuovo governo deve stabilire un'agenda dei diritti umani da seguire tra il 2013 e il 2018, per garantire alla popolazione la libertà di espressione, di associazione e di riunione, per cancellare il clima di impunità che aleggia nel paese e per rendere giustizia alle vittime.

Nel suo rapporto "Human Rights Agenda for the New Government - 2013 to 2018", l'organizzazione denuncia che ancora oggi gli attivisti e gli oppositori politici vivono in un clima di sospetto e di repressione. Molti di loro sono arrestati arbitrariamente e detenuti per periodi più o meno prolungati senza accuse e contro la legge, come è successo a Okay Machisa, direttore della Zimbabwe Human Rights Association, che a gennaio ha passato due settimane in carcere. Le forze dell'ordine, inoltre, continuano a usare la forza per reprimere ogni voce critica: il 19 settembre, per esempio, la polizia ha attaccato un corteo pacifico organizzato dal movimento Women of Zimbabwe Arise, diretto al Parlamento per presentare una petizione.

Gli abitanti dello Zimbabwe, d'altra parte, hanno ancora molto da conquistare anche dal punto di vista delle infrastrutture. Milioni di persone solo nella capitale, infatti, non hanno accesso all'acqua potabile né ai servizi sanitari, come sottolinea il rapporto di Human Rights Watch "Trubled Water". Le tubature di Harare sono vecchie e malandate e non sono in grado di soddisfare le necessità di una popolazione che in due decenni è passata da 600mila a quattro milioni di persone. Molte abitazioni, quindi, sono prive di acqua corrente e le famiglie fanno affidamento sui pozzi, molti dei quali sono contaminati. I liquami spesso fuoriescono dai tubi rotti e si riversano nelle strade, dove giocano i bambini. La mancanza di latrine, poi, aumenta i rischi per la salute, soprattutto delle donne. Queste condizioni, avverte Hrw, potrebbero favorire la diffusione di malattie nei sobborghi densamente popolati della città, a cinque anni dall'epidemia di colera che fece quattromila morti nel Paese.

L'89enne Mugabe, al potere da 33 anni, reinsediatosi il 22 agosto dopo aver vinto le elezioni con oltre il 60 per cento dei voti, non sembra intenzionato a dare una svolta alle politiche disastrose che hanno portato il Paese a classificarsi al decimo posto nell'indice degli Stati falliti 2013, redatto dal centro di ricerca Fund for Peace in collaborazione con Foreign Policy. La pena di morte continua a essere consentita nel Paese e il nuovo esecutivo non ha previsto alcuna misura a favore delle 700mila persone che nel 2005 furono costrette ad abbandonare le loro case nell'ambito della cosiddetta Operazione Murambatsvina, lanciata dal governo per demolire le baracche illegali nelle aree urbane. Trascorsi quasi cento giorni dal suo settimo insediamento, dunque, nessun segnale fa sperare che il prossimo mandato di Mugabe sarà diverso dai precedenti.

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E’ braccio di ferro tra Cina e Giappone

Nel Mar della Cina nessuno dichiara di volere la guerra e tutti dicono di voler evitare incidenti. Ma tutti vogliono anche le risorse di gas naturale delle Senkaku (Diaoyutai per i cinesi) le isole contese e soprattutto vogliono vincere la competizione economica in Asia. La partita sembra giocarsi in modo particolare tra Cina e Giappone. Anche se Pechino sembra parlare a nuora (Tokyo) affinché suocera intenda (Washington).

Pechino fa sapere che se gli aerei giapponesi torneranno a sorvolare l'area sotto il dominio cinese, verranno attaccati. Nessun problema invece per i voli civili. Il Giappone, scrive il giornale cinese Global Times, deve essere "il principale obiettivo" nella nuova "zona di identificazione" della difesa aerea decretata da Pechino. "Dobbiamo prendere senza esitazioni le opportune contromisure mentre il Giappone si rifiuta di piegarsi alla zona di identificazione della difesa aerea decisa dalla Cina", riferisce il quotidiano. "Se gli Stati Uniti non vanno troppo lontano, non saranno un nostro obiettivo nella protezione della zona di difesa aerea. Ciò che dobbiamo fare al momento è contrastare con fermezza tutte le azioni di provocazione del Giappone". Dal canto loro il Giappone e la Corea del Sud hanno affermato ieri di avere inviato degli aerei in questa zona senza riferirlo alle autorità cinesi, dopo un sorvolo compiuto a inizio settimana da due caccia statunitensi. Ma Stati Uniti e Corea del Sud, secondo la stampa cinese, possono essere ignorati, perché il Giappone deve essere "il principale obiettivo di questa zona". E’ difficile non vedere come i principali competitori in questa vicenda siano Cina e Giappone, entrambi alle prese con forti spinte interne nazionaliste.

In particolare il Giappone ha visto affermarsi la linea conservatrice e nazionalista che ha portato al governo Shinzo Abe. Abe fa parte dell'ala più conservatrice e nazionalista del partito liberale LDP ed è diventato per la seconda volta  primo ministro nel 2012. Il governo di Shinzo Abe ha attuato una politica monetaria espansiva battendo nuova moneta, ha fatto deprezzare la moneta nipponica (lo Yen) con il risultato di una ripresa delle esportazioni giapponesi  (con lo Yen deprezzato costa meno acquistare beni giapponesi) e un aumento dell'inflazione che ora è al 2%, ma i salari reali stanno diminuendo e il deficit è all’11% con il debito pubblico più alto del mondo, ben il 240% del Pil.

E’ ovvio che questa ripresa dell’export “made in Japan” sia entrato in aperta competizione con il gigante dell’export asiatico “made in China”. Una competizione che difficilmente non poteva nutrirsi del nazionalismo e di una escalation sul piano della politica militare. I partiti della coalizione di maggioranza e i nazionalisti che appoggiano Abe intendono procedere alla riforma costituzionale. La costituzione giapponese fu scritta dagli americani e "imposta" dopo la sconfitta del Giappone nella seconda guerra mondiale e include un articolo che proibisce l'uso della forza se non per autodifesa. I nazionalisti vorrebbero una forte revisione costituzionale in chiave più militarista soprattutto per fronteggiare l'ascesa della Cina come potenza egemone in estremo oriente.  Il governo giapponese ha deciso l’istituzione di un Consiglio per la Sicurezza Nazionale sul modello americano che dovrebbe essere varato nei prossimi giorni.

Abe già nel recente passato aveva rilasciato diverse dichiarazioni dai toni nazionalisti su questioni territoriali – ad esempio sulle isole Senzaku contese dalla Cina – e di politica internazionale. Tokio si sente forte – al momento – del sostegno Usa, che ha visto il segretario alla Difesa statunitense Hagel riaffermare che l'articolo V del Trattato di mutua difesa tra Giappone e Stati Uniti copre anche la contesa sulle isole Senkaku.

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28/11/2013

Gallino: "Un golpe attraversa l'Europa"

Ci voleva un "grande anziano" - il termine "vecchio" è ormai quasi un corpo di reato - per scuotere dalla soporifera lettura de "il manifesto". Anche se dubitiamo che sia sufficiente questa intemerata di Luciano Gallino per ridestare alla vita Norma Rangeri & friends, tutti concentrati sulle smorfie di Fassina e Orfini (la "sinistra Pd", ammettiamolo, non passa molto di più) o le fumisterie imbarazzate di Vendola.

Gallino è un intellettuale progressista, onesto, che chiama le cose col loro nome e non si ferma davanti alle intimidazioni semantiche ("questo non si può dire, sennò si fa un favore alla destra"). Si può naturalmente dissentire con alcune sue argomentazioni, ma individua con grandissima chiarezza il "deficit di democrazia" - o meglio la sua negazione - posto a criterio costruttivo dell'Unione Europea.

Per chi volesse approfondire, comunque, c'è pur sempre il nostro invito al forum di sabato e domenica, a Roma, alla Casa della Pace (www.contropiano.org/documenti/item/20604-un-forum-internazionale-per-l-uscita-dall-unione-europea).

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«Le misure della legge di stabilità, per quanto sembrino sorrette da buone intenzioni, in una prospettiva minimamente di sinistra hanno il grave difetto di continuare a essere più che mai provvedimenti a pioggia, mentre il paese è in emergenza con 10 milioni tra disoccupati, precari, scoraggiati, vale a dire il 40 per cento della forza lavoro attiva – afferma Luciano Gallino, autore di Il colpo di Stato di banche e governi (Einaudi) – Con questi spiccioli buttati qua e là il risultato sarà quasi inesistente».

Cosa ne pensa di quello che il governo chiama «reddito minimo» mentre in realtà è una social card?
Invece di investimenti da 10 o 20 miliardi nel campo del lavoro o sul dissesto idrogeologico si fa una cosina che non servirà nemmeno come esperimento. In Francia dove è stato sperimentato il «reddito di solidarietà attiva», l’esperimento riguardava un milione di persone con un impegno finanziario enormenemte superiore ai 40 milioni di euro all’anno stanziati in Italia. Con queste modestissime risorse non inciderà sulla povertà. Aggiungo che non sono favorevole al reddito minimo. Penso che se ci sono le risorse sarebbero più utili da spendere per creare posti ad alta intensità di lavoro, e soprattutto niente grandi opere. Il reddito minimo è un intervento di portata non direttamente paragonabile a interventi diretti sull’occupazione, ma avrebbe qualche giustificazione se fosse una modalità per superare la congerie della cassa integrazione in deroga, dei sostegni alla famiglie in povertà, dell’Aspi. Si potrebbe mettere ordine integrando tutto nella sola voce del sostegno al reddito per chi non ha occupazione.

Quello in corso in Italia, e in Europa, sarebbe per lei un colpo di stato. In cosa consiste?
Si può parlare di colpo di stato quando una parte dello stato stesso si attribuisce poteri che non gli spettano per svuotare il processo democratico. Oggi decisioni di fondamentale importanza vengono prese da gruppi ristretti: il direttorio composto dalla Commissione Ue, la Bce, l’Fmi. I parlamenti sono svuotati e hanno delegato le decisioni ai governi. I governi li hanno passati al direttorio. Se questa non è la fine della democrazia, è certamente una ferita grave. Pensiamo al patto fiscale, un enorme impegno economico e sociale con una valenza politica rilevantissima di cui nessuno praticamente ha discusso. I parlamenti hanno sbattuto i tacchi e hanno votato alla cieca perché ce lo chiedeva l’Europa. Non esistono alternative, ci è stato detto. Questa espressione è un corollario del colpo di stato in atto.

Il governo Letta è l’espressione di questo colpo di stato?
Lo è fino al midollo. Perché tutti i suoi componenti rappresentano l’ideologia neoliberale per la quale l’essenziale è la decisione, che sia rapida efficiente ed economicamente razionale.

Crede che Letta e Napolitano avvertano la difficoltà di mantenere il piano dell’austerità?
Direi che prima se ne rendono conto, meglio sarà per tutti.

Ma è realistica la loro intenzione di ammorbidire l’austerità?
Non lo è, un po' di pioggerella su un grande pascolo non fa crescere i baobab o le sequoie. Gli alberi bisogna piantarli, non innaffiare il prato aspettando che dopo tre o quattro decenni crescano da soli.

Uno degli effetti del colpo di stato è stato l’introduzione del pareggio di bilancio nella costituzione italiana?
È avvenuto in tutti i paesi membri dell’Unione Europea dopo la decisione del consiglio europeo sotto la spinta del direttorio. Bisogna assolutamente rientrare dal debito in 20 anni, riportandolo al 60%. Questo valore è inventato. Poteva essere il 50% o il 70%. Il dogma poi è diventato sacro. Questa decisione impone all’Italia di trovare 50 miliardi di euro ogni anno, per i prossimi venti. Significa l’impossibilità assoluta di farvi fronte. Qualora fosse realizzato questo piano sarà imposta una miseria rispetto alla quale quella della guerra del 40-45 sarà poca. Questa decisione doveva essere discussa, sottoposta a un referendum, per rendere edotti i cittadini di cosa significava.

A cosa è ispirato il progetto politico di chi dirige questo colpo di stato?
La maggior parte dei nostri governanti ha assorbito l’ideologia neoliberale per cui i cittadini non devono pronunciarsi, perchè danno fastidio, si mettono a discutere di cose che non capiscono, intervengono su decisioni che riguardano la loro vita, ma se si prendono alla spiccia è meglio, senza interferenze. La democrazia è un intralcio quando si devono prendere decisioni economiche e finanziarie in modo veloce. Angela Merkel al suo parlamento ha detto che viviamo in un sistema democratico e quindi è corretto che il parlamento esamini le leggi a condizioni che si arrivi a decisioni conformi al mercato. La direttrice dell’Fmi Christine Lagarde sostiene la stessa cosa. Quello che queste due signore auspicano è già avvenuto. I parlamenti non decidono nulla.

Quello che tratteggia sembra un moloch politico-finanziario praticamente inattaccabile. In che modo si può costruire un potere alternativo?
Me lo chiedono sempre, ma le alternative ci sono e gli dedico 35 pagine del libro. La riforma essenziale è quella del sistema finanziario per affrontare la possibilità di una nuova crisi che può esplodere nel giro di pochi anni. Questo sistema è lontanissimo dalle esigenze delle economie reali e dalla produzione di beni utili per la comunità. In Europa si discute di questo dal 2008 senza combinare nulla, salvo pubblicare numerosi rapporti o studi. La riforma dell’architettura finanziaria della Ue è fondamentale, come anche l’intervento sui trattati europei. Siamo arrivati al paradosso che si possono cambiare le costituzioni in due ore, mentre il trattato di Maastricht viene ritenuto immodificabile. Questo trattato ha limiti gravissimi, assomiglia allo statuto di una corporation, mentre sarebbe molto bello che la piena occupazione comparisse non una sola volta come oggi, ma come il suo scopo centrale. Bisogna inoltre modificare lo statuto della Bce. Davanti a 26 milioni di disoccupati e 126 milioni a rischio di povertà persegue la stabilità dei prezzi, mentre dovrebbe regolare il credito e l’attività finanziaria, prestare a enti pubblici a cominciare dagli Stati. Una facoltà che hanno tutte le banche centrali, tranne la Bce.

da Il manifesto

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Ginevra 2: ci saranno anche i ribelli

La data è stata fissata, il 22 gennaio, e il balletto delle adesioni a Ginevra 2 sembra essersi concluso nelle ultime ore, anche se sarà arduo arrivare a un accordo tra i diretti interessati. Governo e ribelli ci saranno, ma restano fermi su posizioni opposte e dietro l'angolo potrebbero esserci strappi e defezioni. Ci sono anche perplessità sugli altri partecipanti, Stati come l'Iran e l'Arabia Saudita schierati rispettivamente con il regime e con le opposizioni. Intanto, Ankara e Teheran, in una insolita convergenza sulla Siria, hanno lanciato un appello al cessate-il-fuoco in vista della ripresa del negoziato, il cui primo infruttuoso round si è tenuto nell'estate del 2012.

Damasco ha annunciato che parteciperà ai colloqui che si prefiggono di porre fine al conflitto che in 32 mesi ha fatto oltre 120.000 morti e milioni di sfollati, ma ha già spiegato che il presidente Bashar al Assad non si tocca e dunque la sua delegazione non negozierà alcun passaggio di poteri. Proprio quello che invece chiedono le opposizioni, divise e riluttanti a sedere al tavolo assieme ai delegati governativi. Dopo molte titubanze e diverse defezioni, ieri Ahmad al Jarba, leader della Coalizione nazionale siriana (Cns), gruppo di opposizione in esilio, ha annunciato che sarà a Ginevra il 22 gennaio. Un colpo di scena dopo il netto 'no' di Salim Idriss, comandate dell'Esercito siriano libero (Esl), il braccio armato del Cns. Ma la principale condizione posta dalle opposizioni e sostenuta anche da alcuni Paesi arabi e occidentali, tra cui la Francia, è stata rigettata dal governo siriano: Assad non parteciperà al negoziato, ma la sua uscita di scena non è in agenda. Gli occidentali e le opposizioni rinuncino alle loro "illusioni", ha detto Damasco, aggiungendo che il primo punto di discussione dovrà essere la lotta al terrorismo, alludendo ai numerosi gruppi armati legati ad al Qaeda che combattono tra le file dei ribelli. Formazioni che in realtà sfuggono al controllo dell'opposizione spalleggiata dall'Occidente e che spesso si scontrano con essa sul campo di battaglia, poiché in mente hanno l'obiettivo di fondare uno Stato islamico in Siria. Ormai i ribelli sono frastagliati in una galassia di sigle che da quelle laiche a quelle jihadiste, passando per le fazioni curde, rappresentano visioni diverse sul futuro della Siria. Divisioni che avvantaggiano Assad che agita lo spettro del terrorismo.

La fermezza del governo siriano su Ginevra 2 spariglia le carte. Gli Stati Uniti, sponsor del negoziato assieme alla Russia, puntano a un governo di transizione senza Assad. Ma Damasco tratta da una posizione di forza dopo l'accordo di settembre sulla dismissione dell'arsenale chimico, che ha scongiurato un intervento armato guidato da Washington, e le recenti vittorie sul campo di battaglia. Le truppe lealiste hanno riguadagnato terreno, sottraendo ai ribelli città e zone strategiche della Siria: la cintura intorno alla capitale è di nuovo sotto il controllo dell'esercito governativo, come pure due cittadine vicino ad Aleppo e la città strategica di Qara, al confine con il Libano da dove arrivano gli uomini del movimento sciita libanese Hezbollah a dare man forte ai soldati lealisti. E in Siria combattono anche i volontari jihadisti che arrivano dall'estero, passando per le porose frontiere dei Paesi confinanti: almeno 500 cittadini turchi starebbero combattendo nei gruppi ribelli, secondo il quotidiano turco Todays Zaman, creando apprensione per il dilagare di gruppi legati ad al Qaeda che potrebbero agire anche all'interno dei confini turchi.

Un fronte diplomatico ancora aperto è quello della partecipazione di altri Paesi a Ginevra 2, in particolare di Iran e Arabia Saudita. Sono i due Stati alleati rispettivamente del governo siriano e dei suoi oppositori, accusati di armare le forze in campo. Teheran ha pure ammesso di avere in Siria alcuni "consiglieri militari", ma si è detta pronta a sedersi al tavolo "senza precondizioni". D'altronde il recente riavvicinamento alla Casa Bianca e la firma dell'accordo sul programma nucleare iraniano hanno fatto riguadagnare credito alla Repubblica islamica che, per alcuni analisti, potrebbe favorire un processo di pacificazione in Siria. Jarba ha però sottolineato che l'Iran potrebbe esserci soltanto se "smette di prendere parte al bagno di sangue in Siria, ritirando le proprie forze".

Mentre in Siria la battaglia sta facendo migliaia di vittime e ieri Damasco è stata colpita da un altro attentato dinamitardo, si è consumata una convergenza di posizioni tra Teheran (sciita) e la Turchia (sunnita), Paese schierato con i ribelli e pure accusato di finanziarli militarmente. L'agenzia iraniana Mehr ha riferito che i due governi in una dichiarazione congiunta hanno chiesto la firma di un cessate il fuoco prima di Ginevra 2.

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B52 - 2 titoli di stato. La partita Usa-Cina


Molti sono rimasti sorpresi dalla "scorreria" statunitense - due B52 disarmati sono passati sulle "isole contese" tra Cina e Giappone, violando la decisione di Pechino di imporre lì una propria zone di "controllo aereo" - e hanno iniziato a riflettere su quanto sia ancora adesso grande lo scarto di potenza militare tra i due paesi.

E' un vecchio vizio "militarista" (oggi si direbbe "geostrategico") quello di ragionare sulle cose come se fossero ferme, o se la dotazione militare fosse l'unica arma in mano alle superpotenze, ma anche agli Stati meno "prestanti".

Questo articolo della Reuters, ripreso da La Stampa di Torino, mette invece le mani sul problema complicato costituito dall'intreccio tra interessi economici, corso delle monete, acquisto dei titoli di debito, decisioni di politica monetaria, situazione dei rispettivi mercati interni nonché importanza delle esportazioni, ecc. Tra Cina e Stati Uniti, naturalmente. Ne vien fuori uno scenario assai meno "bicolore" e con ampie zone d'ombra, dallo sviluppo quanto mai incerto.

Ma la tempistica appare chiara: la Federal Reserve statunitense sta per procedere (tra poche settimane o qualche mese) alla riduzione dei propri acquisti di titoli del tesoro americano. Questo significherà meno liquidità per i mercati finanziari, ma anche un rendimento più alto (interessi sul debito) per i Treasury bond.

Nello stesso momento la Cina, che ha sempre meno interesse a sviluppare la sua economia contando sulle esportazioni, perché ritiene di poter crescere altrettanto - se non di più - sviluppando il proprio mercato interno (i consumi), potrebbe fare la stessa cosa. E bisogna ricordare che la Cina è il principale acquirente di Treasury americani, che usa tra l'altro per gestire il cambio dello yuan, in modo da non farlo crescere troppo velocemente (cosa che in passato avrebbe danneggiato proprio le esportazioni).

Ma se punta sul mercato interno può anche cancellare, o diminuire fortemente, questi acquisti "tradizionali". E in questo caso ai Treasury verrebbero a mancare i due principali acquirenti. Il servizio sul debito per gli Usa schizzerebbe in alto, mettendo in difficoltà un bilancio federale che viaggia già per conto suo oltre il 100% del Pil. Anche il Pentagono sta sperimentando la "coperta corta", e un aggravamento del deficit porterebbe "meno navi" (e aerei, e droni, ecc) nei depositi Usa.

E' chiaro, dunque, perché non bisogna fermarsi soltanto sul dato militare "attuale"?

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Rohani: Iran verso accordo globale su nucleare

Torna a parlare il presidente iraniano Hassan Rohani per ribadire che l'Iran andrà "un passo alla volta" verso l'accordo globale con l'Occidente sul suo programma nucleare, senza abbandonare "mai" l'arricchimento dell'uranio. Rohani ha fatto un bilancio dei primi cento giorni del suo governo e parlato del significato dalla firma dell'accordo sul nucleare a Ginevra con il gruppo dei 5+1 (Onu + Germania). Rohani ha aggiunto che l'intesa è "un primo passo positivo", ma, ha aggiunto, "il viaggio è ancora lungo''.

"Alcuni all'estero - ha detto in riferimento a Israele ed Arabia Saudita - non volevano che questa questione fosse risolta e si potrebbe dire che c'è chi, anche nel nostro paese, agisce in modo puerile (le forze politiche più radicali)".

"Tutti sono felici - ha aggiunto - tranne i guerrafondai e quel regime illegittimo e d'occupazione'', ha concluso alludendo ancora una volta a Israele.

Rohani ha sottolineato che l'accordo ha provocato un ''cambiamento di atmosfera'' in Iran, in evidente crisi economica, e non ha mancato di rivolgere critiche al predecessore Mahmud Ajmadinejad.

"L'amministrazione precedente ha guadagnato 600 miliardi di dollari tra petrolio e gas in otto anni", ma è stato, ha detto, "il governo più ricco e più indebitato della storia".

"In questi ultimi anni - ha ironizzato Rohani - abbiamo creato occupazione ... ma in Corea del sud e in Cina".

Nell'impossibilità di far rientrare gli introiti petroliferi a causa delle sanzioni, Teheran ha barattato petrolio e gas con merci prodotte dai suoi clienti asiatici.

Ieri era tornato a farsi sentire anche il grande manovratore della politica iraniana, l'ex-presidente Akbar Hashemi Rafsanjani, con un'intervista attraverso al Financial Times, per far sapere di essere fiducioso che Iran e potenze mondiali del 5+1 - dopo quello semestrale - troveranno con le trattative anche l'accordo definitivo sul programma nucleare iraniano.

Trattative per le quali c'è già una ''finestra'' entro la quale dovrebbe svolgersi il primo incontro: fra il 22 dicembre ed il 5 gennaio, come ha anticipato il ministro degli esteri e capo-negoziatore per il nucleare, Mohammad Javad Zarif.

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Camila Vallejo non è una velina. È una donna politica, ha idee e sa parlare ma, invece che da sue interviste, c’invadono di gallerie di foto

Non ricordo di aver visto gallerie di foto per neoelette deputate comuniste bulgare o sudafricane o svizzere. In queste ore, da Repubblica al Fatto, tutto il mainstream sgomita per mostrare gallerie di foto della neodeputata comunista cilena Camila Vallejo. E’ evidente che l’unica cosa che interessa ai quotidiani non sia informare ma aizzare il voyerismo dei lettori mostrandone l’avvenenza. Altrimenti intervisterebbero la donna politica cilena per raccoglierne la storia, le idee, i progetti, la radicalità della militanza. Eppure sa parlare Camilla, ha idee ben chiare, milita in un partito che viene da lontano e ha avuto centinaia di martiri, uomini e donne, sa tenere discorsi pubblici e incantare il pubblico non col bel viso ma con le cose che ha da dire. Al contrario il nostro mainstream la umilia privandola di voce e la sbatte lì, come una velina qualsiasi, per racimolare qualche click accomunandola alla nostra triste tradizione politica, quella delle Nicole Minetti. Non è in parlamento perché è bella Camila Vallejo. Lei e i suoi colleghi sono in parlamento perché leader di un movimento di moltitudini che ha tenuto in scacco per un anno e mezzo il governo neoliberale e oggi chiede a Michelle Bachelet di rispettare i patti per un sistema educativo pubblico, efficiente e gratuito.
È vero, Camila è la “fidanzata d’America”, ricevuta insieme ad altri leader studenteschi cileni, come Karol Cariola, segretaria generale della gioventù comunista, anch’essa eletta ma non oggetto di gallerie, da tutti i principali dirigenti integrazionisti latinoamericani, da Fidel Castro a Hugo Chávez. Li hanno ricevuti perché quel movimento ha rappresentato la novità più importante in un quarto di secolo di un paese ancora strangolato dal regime neoliberale. Ma vallo a spiegare a Repubblica… Camila Vallejo è appunto la fidanzata di un’America latina integrazionista costantemente demonizzata da quegli stessi giornali. Camila è esponente di quell’asse del male latinoamericano da colpire per il quale i nostri giornali sarebbero stati pronti ad appoggiare una guerra contro l’America latina nell’era Bush. Oggi, denudandola della propria identità e delle proprie idee, pretendono di venderne il corpo. Addirittura il TG3 delle 19 di ieri, nel darla in pasto ai propri spettatori, ha evitato di dire di che partito fosse Camila Vallejo. Troppo scomodo.
Solo una chiosa. Per le gallerie di Camila Vallejo il mainstream usa indistintamente il termine “pasionaria”. Come la pensi chi scrive di questo stantio stereotipo per il quale ogni donna comunista di lingua spagnola sia “pasionaria” è qui dal lontano 2005.

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Israele-Ue, intesa su cooperazione scientifica

L'Unione Europea e Israele hanno raggiunto un compromesso che consente loro di firmare l'accordo di cooperazione scientifica noto come Horizon 2020. Lo scrive il quotidiano Haaretz che ritiene "superata" l'impasse nei negoziati tra le due parti legata alle "Linee Guida" dell'Ue, comunicate nei mesi scorsi, che vietano investimenti nelle colonie israeliane nei Territori palestinesi e siriani occupati. Israele investirà 500 milioni di Euro e riceverà da Horizon 2020 nei prossimi anni 1,4 miliardi di Euro.

Il compromesso, ha aggiunto Haaretz, sarebbe stato raggiunto dal ministro della giustizia Tizpi Livni e dal capo della diplomazia Ue Catherine Ashton dopo - dice il giornale - una maratona telefonica.

Quali siano i punti centrali di questo compromesso non è ben chiaro. Secondo una nota ufficiale diffusa ieri sera da Israele «L'accordo rispetta pienamente i requisiti giuridici e finanziari dell'UE, rispettando allo stesso tempo le sensibilità politiche di Israele e delle sue posizioni di principio». Parole che potrebbero voler dire che l'Ue eviterà nel testo dell'accordo di descrivere la Cisgiordania, Gaza, Gerusalemme Est e le Alture del Golan come "Territori occupati", come affermano in modo netto le risoluzioni dell'Onu e la Convenzione di Ginevra. Secondo Israele quei territori non sarebbero "occupati" ma "al centro di una disputa territoriale".

Gli accordi per Horizon 2020, è convinzione generale in Israele, rappresentano un'occasione d'oro per gli istituti di ricerca scientifica del Paese e l'esclusione da quel programma avrebbe potuto avere ripercussioni specie per le università.

Ieri il ministro degli esteri Avigdor Lieberman e il suo viceministro Zeev Elkin, esponenti della destra ultranazionalista e alfieri della colonizzazione dei Territori occupati, avevano messo in guardia da un "cedimento politico" di Israele sulle colonie per non fornire un precedente che i palestinesi potrebbero usare al tavolo degli asfittici "negoziati di pace" ripresi lo scorso luglio su pressione degli Stati Uniti.

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Ennesima elargizione al governo d'Israele. Quel miliardo e messo di Euro forse sarebbe stato meglio impiegarlo per progetti di sviluppo della comunità palestinese... 

Perché non brindo alla decadenza di Silvio Berlusconi

No, non mi cambia la vita la decadenza del satrapo lombardo. Non brindo, non rido, non festeggio. Ha rubato i miei venti e i miei trent’anni e vorreste che vi dicessimo bravi, voi burocratini del Partito democratico col sedere al caldo. Ha smantellato pezzo per pezzo la nostra democrazia, ha corrotto persone e costumi, manipolato coscienze. Ha comprato corpi e portato in alto i peggiori, spacciandolo per merito.

No, non sono contento e non vi dico bravi per aver fatto il minimo sindacale. Decade oggi ma non è mai stato eleggibile. Vent’anni ci sono voluti. Non dovevate farcelo entrare in Parlamento, quindi non sono contento che oggi ne esca. Era ineleggibile e non vi siete opposti. C’era un enorme conflitto d’interesse e avete trattato. Ci avete mangiato la crostata insieme e ancora dovete spiegare perché. Gli avete lasciato fare la grande porcata perché conveniva anche a voi autonominarvi invece che farvi eleggere. L’avete usato come foglia di fico per non dire mai, neanche per sbaglio, cose di sinistra. Ci avete fatto un governo insieme.

Vorreste che vi dicessimo bravi per avergli lasciato ridurre in macerie la nostra democrazia e il nostro paese. Costernato e rabbioso, non brindo, vorrei solo scompariste anche voi, complici di regime. Simul stabunt simul cadent. Ma non succederà.

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Mancava giusto un "andate a fare in culo", Carotenuto è un professionista serio che certi scivoloni non li fa, uno come me invece se li può permettere, quindi andate a fare in culo! tanto la classe dirigente del PD quanto tutti i coglioni che oggi festeggiano

27/11/2013

La crisi politica, oltre il teatrino

C’è una tentazione alla quale bisogna resistere, quella cioè di considerare le scene che si svolgono sul palcoscenico istituzionale immagini di un mondo separato, lontano dalla società reale e con logiche interne su cui non vale la pena di indagare. E quindi i commenti su ciò che in quei luoghi avviene privi di interesse, se non per la parte meno visibile dei salassi al lavoro salariato e delle misure repressive che dovrebbero mettere quel mondo al riparo da proteste e rivolte.
La tentazione si fonda su dati reali, naturalmente. Il dato essenziale lo aveva già colto Paul Valéry, quando scriveva che la politica è l’arte di impedire alla gente di occuparsi di ciò che la riguarda. Del resto una battuta, abusata ma comunque felice, chiama “armi di distrazione di massa” il chiacchiericcio mediatico sulle disavventure giudiziarie di Berlusconi, sulle amicizie pericolose di Cancellieri e sulle balls of steel dell’attuale presidente del Consiglio.
E’ per questo che chi agisce per il disgusto di uno stato di cose e con il desiderio di cambiarlo indaga piuttosto su ciò che non si vede, dietro il palcoscenico o al di qua della “quarta parete”, tra gli spettatori paganti, nello sforzo di mettere in contatto una parte con l’altra, saltando le ingannevoli scene che li separano.
Eppure se queste vengono semplicemente ignorate, sfuggono dati della realtà di cui sarebbe invece meglio tenere conto. Anche perché accade spesso che gli attori dimentichino il copione e improvvisino come nella commedia dell’arte. E questo accade tanto più spesso, quando la disorganizzazione e la confusione nel pubblico mettono il palcoscenico al riparo da sacrosante reazioni di sdegno.

La mano destra del padronato italiano
Prima ancora che la Commissione Europea chiedesse di rivedere la legge di Stabilità, in Italia i portavoce di parte padronale avevano già espresso la loro delusione nei confronti del governo Letta-Alfano. Gli interessi in nome dei quali l’una e gli altri hanno parlato non sono proprio gli stessi, ma la morale della favola è la medesima, così come l’individuazione del cane che ancora dovrebbe essere bastonato. L’argomento delle recriminazioni è, più o meno, il seguente. A che cosa diavolo serve un governo di “larghe intese”, se non a farsi carico di misure impopolari con un’opposizione ridotta la minimo possibile?
Letta – sia chiaro – si è mosso nel solco del cosiddetto governo tecnico guidato da Monti ma, per quanto possa apparire incredibile, c’è chi ritiene che ci sia ancora molto succo da spremere dal lavoro subalterno, dai resti del welfare e da beni che dovrebbero essere considerati comuni.
Gli oltre tremila emendamenti alla legge di Stabilità (qualche anno fa l’avrebbero chiamata finanziaria) testimoniano del clima elettorale permanente con cui l’attuale governo è stato finora costretto a fare i conti. L’azione di disturbo della destra berlusconiana, con i lavori in corso e di fronte a un declino economico che avvicina l’Italia alla Grecia, significa semplicemente che il capitalismo italiano non ha in questo momento una destra di cui possa davvero fidarsi per la semplice ragione che gli interessi di un solo padrone ostacolano quelli del padronato nel suo complesso. Nei limiti in cui è possibile usare una simile formulazione per un modo di produzione in cui la guerra interna è la regola.
Luciano Fontana nell’editoriale del Corriere della Sera del 16 novembre esprime il suo rammarico per la “malinconica fine di un’esperienza”. Il popolo di centrodestra – scrive – ha dinanzi a sé un orizzonte vuoto; Forza Italia è solo un’etichetta che serve a regolare conti interni; i partiti di Berlusconi arretrano nelle urne, perdono pezzi e mescolano interessi privati e pubblici.
A proposito della rottura nella corte berlusconiana, vale la pena di segnalare una sola cosa. Era poco credibile l’idea che Alfano e soci si muovessero sorretti solo dall’attaccamento alle poltrone. Sarebbe stato un calcolo miope perdere il sostegno dei soldi e dei media di Berlusconi in cambio di poltrone prestigiose certo, ma precarie e comunque di breve durata in confronto ai tempi di un’intera carriera. Era intuibile quindi, anche prima che il Messaggero lo rivelasse, che alle spalle della nuova formazione politica ci fosse l’ennesimo tentativo dei cosiddetti poteri forti di creare sostegni più sicuri delle metamorfosi berlusconiane pro domo sua.
Le ultime vicende smentiscono un’idea che l’esperienza italiana (ma anche altre in giro per il mondo) aveva alimentato. Si è detto che sconfitto il movimento operaio e ridotta a ben poco la possibilità dello Stato di elargire a settori popolari con la mediazione di sindacati e partiti, i possessori di capitali tendevano a entrare direttamente in politica ciascuno con la propria corte, i propri bravi, i propri mezzi di comunicazione e la propria mitocrazia in una specie di neo-feudalesimo capitalistico.
Non importa quanto questo sia vero o falso. In parte è vero, ma non da ora; in parte è l’estensione arbitraria di fenomeni limitati e interpretabili in modi diversi. Ciò che interessa tuttavia è che vero o falso, parzialmente vero o parzialmente falso che sia, questo modello di potere non sarebbe comunque efficace perché è evidente che le formazioni sociali egemoni non possono fare a meno di affidabili mediazioni politiche, capaci anche di regolare in qualche modo i loro rapporti interni.

L’altra mano
Il Partito Democratico si è da tempo candidato a essere l’autentico partito padronale, capace di gestire razionalmente i suoi affari in cambio di una parvenza di democrazia e di una spolveratina di buonismo, per alcuni aspetti più cattolico che laico. Tuttavia la borghesia italiana non può affidarsi nemmeno al partito di Epifani, che non dà garanzie né di tenuta, né di adeguata ampiezza di consensi. In fondo l’attuale marasma deriva proprio dall’incapacità del PD di vincere in pieno un confronto elettorale con la destra, anche quando quest’ultima si trova nello stato di crisi in cui si è trovata più volte per divisioni interne, perdita di consensi, vicende giudiziarie e finanziarie del suo leader. Le ragioni per cui il PD non vince sono numerose, ma vale la pena di ricordarne soprattutto una. Il suo destino è simile a quello dei partiti liberali europei del Novecento che coniugavano un certo spirito laico e alcune libertà democratiche con l’ossequio agli imperativi del profitto, restando così privi della possibilità di trovarsi in qualche modo in sintonia con settori popolari sufficientemente ampi. Con questi settori nel Novecento i partiti sono entrati in contatto o dal versante della soddisfazione di loro bisogni primari (le sinistre) o da quello delle superstizioni religiose, razziste, sessiste e omofobe (le destre). Mi scuso per la schematizzazione estrema, perché le cose ovviamente sono state molto più complicate di così, ma l’importante qui è comprendere che cosa renda l’altra mano non sufficientemente efficace. A causa di questa inefficacia nel corso del secolo passato la gestione degli affari delle formazioni sociali egemoni è stata spesso affidata o agli apparati di partiti di origine operaia oppure a destre estreme o anche non estreme, come la Democrazia Cristiana in Italia, ma legate a reti di aggregazione e a sentimenti popolari radicati nella storia del paese e capaci quindi di garantire uno stabile e ampio consenso.

La terza mano
La crisi rende naturalmente più ampio lo spazio per il ritorno di destre radicali. Come spesso accade in Italia, il fenomeno si è realizzato in forma più contraddittoria e confusa. Per alcuni aspetti le coalizioni elettorali di Berlusconi sono state già a loro modo destre radicali, perché hanno inglobato i post, i neo-fascisti e i razzisti della Lega e perché hanno radicalizzato lo scontro politico con gli avversari e con le istituzioni della democrazia parlamentare. E tuttavia hanno anche alimentato la leggenda di schieramento moderato e liberale, limitando (dopo Genova 2001) gli aspetti repressivi dei loro governi e subendo le pressioni della burocrazia cattolica nel senso di una pacificazione. E’ possibile che dopo la rottura con Alfano, per una certa fase almeno, la destra berlusconiana tenda a occupare più coerentemente uno spazio populista e radicale, in polemica con l’Europa e con l’uso strumentale anche di temi sociali. Inoltre in Italia una parte di quello spazio è occupato dal Movimento 5 Stelle che mescola comportamenti e discorsi di sinistra e di destra.
Alla terza mano bisogna perciò guardare soprattutto nella sua dimensione internazionale e chiedersi se in qualche modo può rappresentare la soluzione di una crisi padronale di direzione che non è solo italiana. La risposta è negativa, anzi è magari vero il contrario. A un certo tipo di destre nel corso del Novecento i possessori di capitali hanno scelto di affidare i loro interessi sotto la minaccia dell’ascesa del movimento operaio, dinanzi ai fantasmi del bolscevismo e della rivoluzione. Oggi non solo questi fantasmi si sono dissolti ma la minaccia nucleare, gli squilibri climatici e l’ampiezza delle ripercussioni dei gesti politici della maggiori potenze economiche e militari sembrano sconsigliare pericolosissime avventure. Se ce ne fosse davvero bisogno, questi signori sarebbero anche disposti a correre il rischio, ma non sembrano queste le circostanze. Non solo, ma se un giorno lo diventassero vorrebbe solo dire che la crisi di direzione del capitalismo si sarebbe ulteriormente aggravata.
Per tornare all’Italia e per concludere una sola osservazione. C’è chi pensa che la crisi si risolverà in senso presidenzialista e plebiscitario. In una certa misura questo sta già avvenendo, al di là degli stessi interventi legislativi. Ma è legittimo esprimere dubbi sul fatto che questa sia davvero la soluzione. Per spiegarlo bisognerebbe avventurarsi su altri terreni di osservazione, su cui il palcoscenico e le sue scene contano davvero poco.

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La rabbia saudita

L’esperto Fadal Abu Ainain, economista, ha dichiarato all’agenzia di stampa ArabNews che quanto sta accadendo alla popolazione etiope e sudanese in Arabia Saudita ha lasciato vacante circa il 20% dei posti di lavoro, arrivando ad affermare che «tale situazione è positiva perché costringerà le aziende ad assumere lavoratori locali». Si potrebbe pensare di trovarsi di fronte alla grande politica del secolo, che libera posti di lavoro in quantità e attraverso semplici manovre. Gli ingredienti della ricetta sono effettivamente pochi, qualche migrante, dei luoghi di produzione in cui sfruttarne sistematicamente la forza lavoro, possibilità di licenziamenti con un cenno del capo, milizie disponibili in caso di rivolte nonché leggi che favoriscano una disparità di diritti e di obblighi tra soggetti.

Seguendo il consiglio dell’esperto economista saudita, la preparazione è semplice e il caso Saudita lo dimostra. Dopo una sanatoria durata sei mesi, il 4 novembre scorso il governo dell’Arabia Saudita ha dichiarato un giro di vite contro i migranti irregolari presenti nel paese, annunciando la deportazione di tutti coloro che non avessero nel frattempo sanato la propria posizione. L’effetto immediato di questo nuovo corso del governo saudita delle migrazioni è stato una serie di raid e scontri che hanno portato alla brutale uccisione di alcuni uomini provenienti dall’Etiopia e dal Sudan. Sono stati proprio i migranti Etiopi a dare avvio alla rivolta contro le politiche repressive e le deportazioni del governo che hanno portato all’omicidio di un loro connazionale, scontrandosi con la polizia e la polizia locale a Manfouha, quartiere povero di Riyadh. Nei giorni successivi, le proteste si sono diffuse ad altre città, fino alle coste del Mar Rosso. In questa situazione di estrema insicurezza, sembra che 23mila Etiopi, incluse donne e bambini, si siano consegnati alla polizia. Le autorità hanno dichiarato che coloro che non possono documentare il loro ingresso regolare nel paese saranno detenuti in attesa di deportazione. Ecco il segreto di questa politica di lotta alla disoccupazione, una ricetta che sembra non risentire dei confini nazionali, che segue logiche globali. Deportare i migranti che sono stati utili fino a qualche istante prima per essere sfruttati e sono ora necessari alla concretizzazione della proposta di ridurre la disoccupazione.

Sembra che l’Arabia saudita non abbia risolto la questione già emersa con gli scioperi degli anni ‘50 dei lavoratori impiegati nell’industria estrattiva, che avevano messo il governo in allerta nei confronti dei pericoli di una forza lavoro locale organizzata e concentrata in un settore economico vitale. In quell’occasione il governo optò per una politica di importazione del lavoro. Un lavoratore straniero, con un permesso di lavoro a breve termine che può essere facilmente deportato, sembrava l’ideale. Ora però lo straniero ha lo stesso problema che presentavano precedentemente i locali, si rivolta, ha smesso di essere estraneo anni fa, ora è lì e non se ne vuole andare per cui lotta contro le deportazioni di massa che lo vedono coinvolto, perché sarà anche entrato illegalmente, ma per anni è stato usato costantemente. Ora a quali lavoratori si rivolgerà il governo saudita? Tutti i lavoratori sembrano rivoltarsi allo sfruttamento in nome di un profitto mai visto. Prima o poi smettono di starci.

Così le politiche del lavoro del governo saudita hanno istituzionalizzato con brutalità quella divisione dei lavoratori necessaria a indebolire il conflitto, creando lavoratori «eletti», privilegiati, da un lato e lavoratori migranti, di serie b, dall’altro. Queste divisioni, esistenti anche in Italia e in Europa ma mai apertamente dichiarate, sono la base su cui la precarizzazione si giustifica e si estende. Ciò facendo credere e dando corpo al fatto che ci sia sempre qualcuno «messo peggio». Ma è un gioco al ribasso che nuoce a tutti i lavoratori, migranti e non. Il risultato al momento è che 20mila scuole sono senza addetti alle pulizie, altre senza i conducenti degli autobus, mancano gli spazzini, il 40% delle piccole imprese di costruzione ha smesso di lavorare, senza contare la serrata obbligata di decine di attività commerciali. Il risultato, in altre parole, è che l’economia Saudita nel perseguire l’obiettivo di incrementare l’occupazione dei lavoratori locali si sta anche dimostrando completamente fondata sul lavoro migrante dei quasi dieci milioni di lavoratori che lì vivono da anni.

Spostandosi di qualche centinaio di chilometri, possiamo poi vedere quanto sta accadendo nel vicino Qatar, dove già da ora sono presenti segni di rivolta da parte dei lavoratori migranti venuti per costruire gli stadi che ospiteranno i Mondiali del 2022, su cui Amnesty ha già redatto un documento che ha dato vita a diverse campagne contro lo sfruttamento del lavoro migrante. Ci vogliono grandi eventi per cogliere altri grandi eventi? Lo sfruttamento del lavoro migrante non è certo apparso da qualche mese. Chi regge le grandi industrie? Chi si occupa di servizi di cura? Chi lavora nel settore edile? Il lavoro migrante è un evento ben più mondiale di quanto possa esserlo una torneo di calcio e il suo sfruttamento deve preoccupare tutti, eletti e non.

I ain't superstitious

Hollande rimette l'elmetto, pronto alla guerra in Repubblica Centrafricana

Dopo il Mali, la Francia si prepara a intervenire militarmente - per la seconda volta in un anno - in un'altra delle sue ex colonie dell'impero africano annunciando il dispiegamento di almeno 1200 soldati nella Repubblica Centrafricana per un periodo di 6 mesi a sostegno dei battaglioni regionali dell'Unione africana (Ua) e della Comunità economica degli stati dell'Africa centrale (Eccas). Ad annunciarlo sono stati ieri i suoi Ministri della Difesa e degli Esteri Jean Yves Le Drian e Laurent Fabius. La notizia, confermata anche dal primo ministro della Repubblica Centrafricana, Nicolas Tiangaye, era già nell'aria da settimane e a dare il via libero definitivo si attende ora solo l'investitura ufficiale dell'Onu la cui risoluzione è ormai in dirittura d'arrivo per la prossima settimana.

Circa dieci giorni fa era stato lo stesso Ban Ki-moon ad annunciare il dispiegamento di nuovi battaglioni e la possibilità di una ridistribuzione di quelli presenti nei Paesi vicini nel caso in cui la situazione fosse ulteriormente precipitata in tempi ancor più rapidi.

Tanto alti funzionari dell'Onu quanto i ministri francesi confermano una situazione «sull'orlo del genocidio». Secondo fonti Onu, nella sola zona di Bossangoa, una delle zone più colpite - circa 300 chilometri a nord della capitale Bangui - diverse centinaia di persone sono state uccise nelle prime due settimane di settembre. Mentre circa 460.000 - il 10% su una popolazione di 4,6 milioni di abitanti - hanno abbandonato le case, e più di un milione necessita di aiuti alimentari.

Due giorni fa il Vice Segretario Generale dell'Onu Jan Eliasson, parlando al Consiglio di sicurezza, aveva esplicitamente chiesto alla comunità internazionale interventi immediati a fronte di una situazione che sta «scivolando nel caos completo».

Senza sbocco sul mare, isolata ed estremamente povera, nonostante le sue riserve di oro, legname, uranio e diamanti di qualità gemma, la Repubblica Centrafricana è devastata da una spirale di violenze che da più di un decennio l'ha trascinata in un baratro infernale, una voragine che litanie di stupri, uccisioni, fame e quant'altro perpetuano giorno dopo giorno sotto gli occhi indifferenti sia dell'Occidente che delle economie emergenti.

Il Paese è piombato nell'anarchia più totale dopo la débâcle di Bangui a marzo scorso, quando i ribelli Seleka hanno rovesciato il Presidente François Bozizé e insediato al potere il leader della coalizione Michel Djotodia, formalmente insediatosi come Presidente ad interim nel mese di agosto con un mandato di transizione di 18 mesi.

Da allora, il dissolvimento di Seleka non è bastato ad arginare gli scontri con le milizie di autodifesa locali, i cosiddetti «anti- Balaka» o anti-machete, mentre i casi di esecuzioni sommarie, stupri e saccheggi ad opera dei combattenti ex Seleka ancora all'indomani del colpo di Stato hanno alimentato tensioni tra musulmani e cristiani nella ex colonia francese dove la popolazione è per l'80% cristiana. La situazione è già da tempo fuori controllo nella Repubblica Centrafricana, un tempo considerata la Cenerentola dell'ex impero coloniale francese in Africa poi diventata lo Stato fantasma dell'era postcoloniale dove la Francia conta un considerevole numero di interventi militari a difesa di non pochi interessi locali.

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Fine corsa


Oggi Berlusconi ci lascia. Momento atteso, mitizzato, invocato, liberatorio. Nel pomeriggio il Senato vota per la sua decadenza da parlamentare, una manifestazione del suo “popolo” sotto palazzo Grazioli cercherà di dargli conforto nel momento triste, alla procura di Milano – e in altre – forse si preparano nuovi mandati di cattura. Questa volta non si risolleverà dal baratro.

“Lo vuole l'Europa”, più che la politica italiana. Lo vuole fuori dai piedi così come l'aveva accettato ben volentieri quando si trattava di demolire la credibilità internazionale di questo paese e del suo establishment, in modo da aprir meglio la strada allo svuotamento della Costituzione repubblicana, alla distruzione della “sinistra radicale” (sempre disponibile a farsi asservire dal centrosinistra in nome del “pericolo Caimano”), al prepotere della finanza continentale, e infine al governo della Troika. Spremuto il limone di quanto poteva utilmente dare, restava solo l'impresentabile macchietta porno-mafiosa, l'impresario che evade il fisco e tocca il sedere alle ballerine, che si fa scrivere le leggi dai suoi avvocati portati appositamente in Parlamento.

Fine corsa.

Ma non si tornerà per questo indietro. Non torneremo al “Parlamento sovrano” dove partiti politici, espressione di interessi sociali differenti e opposti, battagliano per trasformare la ricchezza prodotta dal paese in dividendi sociali ineguali, ma “liberamente contrattati”.

Questo ancora non è stato capito dai protagonisti – si fa per dire – della squinternata “sinistra” italiana. L'invasione che c'è stata due anni fa, con la nomina regale del “governo Monti”, ha sancito per sempre che il “gioco politico” si esercita ormai su aree molto ristrette e per nulla discrezionali del bilancio complessivo. E anche le “riforme strutturali” vengono dettate in base a interessi e strategie altrui. Senza troppe consultazioni.

L'eliminazione politica di Berlusconi è diventata necessaria nel momento in cui il “blocco sociale” coagulato intorno alla sua figura è entrato nel cono d'ombra dei “tagli alla spesa”. Un blocco formato da evasione/elusione fiscale, cannibalizzazione di appalti e subappalti con fondi pubblici, economia sommersa o direttamente criminale, piccola impresa galleggiante sul lavoro nero, rendita immobiliare diffusa e ricchezza patrimoniale basata su prezzi “fuori mercato”... Un pezzo di lardo accumulato da smagrire, spremere, svuotare di potere. La “competitività” si deve fare strada anche grazie a “sacrifici” caricati su questo insieme. E non è più accettabile – dal punto di vista dei poteri continentali – che questo blocco disponga di una “rappresentanza politica” potente, dotata di mezzi di comunicazione di massa gestiti con abilità e sfrontatezza, peso condizionante le scelte del governo (la “legge di stabilità” messa al voto di fiducia ieri notte è il risultato di questo condizionamento; e non a caso non piace a nessuno, né risolve alcun problema, neppure dal punto di vista liberista).

Adieu, Silviò. Non ci mancherai. Di certo la tua assenza sarà un problema per quel “discorso politico”, veicolato per venti anni da alcuni media soi-disant “progressisti”, che ha fatto scomparire programmaticamente ogni problema sociale e politico dietro quel tuo ghigno da jokerman minaccioso. Dovranno reinventarsi, o chiudere finalmente bottega per assoluta mancanza di idee proprie.

Adesso la nuda realtà ci guarda dritto in faccia, senza più veli. Ve la sentite di guardarla negli occhi?

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Italia. Allarme scorie nucleari. Dove verranno messe?

In un silenzio che non promette nulla di buono, l’Italia dovrà decidere tra breve dove “sistemare” circa novantamila metri cubi di scorie nucleari. Sono i residui prodotti dalla breve stagione del nucleare in Italia (quella chiusa prima con il referendum del 1987 e poi con quello del 2010). Poi ci sono altri residui legati alle attività, in particolare quelle di carattere medico-radiologiche.

Si tratta comunque di migliaia di metri cubi di scorie radioattive, anche se di grado diverso. Quelle più rognose (ad alta attività radioattiva) sono quindicimila metri cubi ma rappresentano quasi il 90% della radioattività emessa. Gran parte di questi rifiuti molto particolari erano all’estero – in Francia e in Gran Bretagna soprattutto, ma qualcosa c’era anche in Svezia – ed ora devono rientrare in Italia sotto forma di blocchi vetrificati. I programmi prevedono il rientro in Italia del materiale radioattivo proveniente dalla centrale di Sellafield (Inghilterra) a partire dal 2019, e quello dalla centrale nucleare francese di La Hague dal 2020 al 2025.
L’individuazione delle aree dove collocare queste scorie rappresenta un serissimo problema. Secondo quanto reso noto dal Corriere della Sera del 20 novembre, entro dicembre l’Ispra renderà noti i criteri tecnici ai quali il deposito nucleare nazionale dovrà uniformarsi ed entro il prossimo agosto, la Sogin (la società pubblica che si occupa dello smantellamento delle vecchie centrali nucleari) dovrà indicare la Carta nazionale delle aree potenzialmente idonee. Secondo le prime indiscrezioni le scorie non verranno interrate nel sottosuolo, ma ospitate in una struttura di superficie in grado di resistere per duecento anni. In questa struttura verrebbero però ospitate in modo permanente le scorie a bassa e media e “per qualche decennio quelle ad alta attività, in attesa di trasferirle a un deposito europeo di profondità”.
I vertici della Sogin hanno depositato in Parlamento un documento con le indicazioni su dove collocare le scorie. La Sogin (il presidente è Zollino, l’amministratore delegato è Casale) nel 2012 ha speso 2,1 miliardi di euro. Conta di aver bisogno di altri 3,8 miliardi per il nuovo impianto di stoccaggio in superficie. Occorre poi tenere conto che in queste cifre non sono compresi deposito e parco tecnologico, con costi aggiuntivi tra i 700 milioni e 1 miliardo di euro.
Il costo della Sogin nelle bollette elettriche delle famiglie italiane è già oggi di circa 220-230 milioni l’anno. La società si difende con gli argomenti del businnes. Secondo alcune stime, nei prossimi anni il mercato mondiale dello stoccaggio e smantellamento di scorie e materiale radioattivo potrebbe portare ad un giro d’affari di 600 miliardi. Se l’Italia ne gestisse anche solo l’1% i conti andrebbero in pareggio. Un enorme giro di soldi dunque, ma per intercettarli occorre prendere il proprio pezzo di spazzatura radioattiva. Secondo le stime contenute nel rapporto che la Sogin ha consegnato alla Camera (e sul quale sarebbe bene che i parlamentari facessero sapere qualcosa di più), saranno necessari almeno quattro anni per arrivare a una localizzazione condivisa del sito di stoccaggio e all’”Autorizzazione unica”. Altri quattro anni serviranno per la progettazione esecutiva e la costruzione dell’impianto di stoccaggio. E qui si aprono i problemi. Ad esempio la Lega ha già fatto approvare dalla Regione Emilia-Romagna una risoluzione che dice no all’installazione del deposito nella ex centrale nucleare di Caorso (Piacenza), il cui materiale radioattivo è stato trasferito in Francia tra il 2007 e il 2010. A Trino Vercellese, il combustibile nucleare esaurito è in parte “in ammollo” nella piscina della centrale (39 elementi di uranio e 8 di mox, una miscela di uranio e plutonio). Le scorie nucleari del Garigliano si trovano nel Regno Unito dal 1987, ma 63 elementi sono parcheggiati nel deposito Avogadro di Saluggia destinati alla Francia. A Saluggia, tramite l’impianto Eurex (dove si riprocessava l’uranio) è il sito dove si registra la maggiore attività, all’incirca il 70% della radioattività registrata in tutti i siti italiani.

Infine all’Itrec di Rotondella, in Basilicata, stazionano ancora 64 elementi di combustibile del ciclo uranio-torio, ritenuto molto tossico e proveniente dal reattore americano di Elk River. Eredità di un accordo con gli Usa degli anni ‘70 e che tra mille difficoltà sta lentamente riprendendo la via del rientro. Bosco Marengo, secondo la Sogin, dovrebbe essere il primo impianto a ritornare alla condizione di “greenfield”.

Italia e Francia nel recente vertice tra Letta e Hollande, hanno ribadito gli impegni presi in materia di trattamento delle scorie nucleari previsti dall'Accordo intergovernativo di Lucca. Nell’incontro bilaterale di Roma di una settimana fa, è stata anche confermata la prosecuzione del programma di trasporto  delle scorie italiane da trattare in Francia e l'attuazione del calendario di rientro delle scorie in Italia.

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Tanti soldi, tanti "progetti", ma il dato incontrovertibile è uno soltanto: questa merda nessuno sa dove metterla e il problema - di portata planetaria - si post pone facendo girare le scorie come acqua nei tubi sperando che non succeda mai un patatrac.
Roba da neurodeliri!

Arriva la grande coalizione tedesca, il governo dell'Italia

Cominciamo, come d'abitudine, con quelle frasi da ciarlatano che piacciono tanto all'elettorato Pd e che niente hanno a che vedere con la politica.
Prendiamo gli ultimi due improbabili, Bersani e Renzi, protagonisti del Pd. Entrambi, quando hanno parlato di legge elettorale hanno sempre affermato, pensando di declamare chissà cosa "la sera dopo le elezioni si deve avere la certezza su chi ha vinto". Per poi franare qualche settimana dopo, aggiungiamo noi.

Già, perché basterebbe guardare alla grande coalizione tedesca, la seconda in otto anni, per capire finalmente come non è una legge elettorale, che esprime magari un vincitore come se fosse un beauty contest, che garantisce l'esercizio di governo. Ma un intero sistema politico. Le elezioni in Germania si sono svolte il 22 settembre, l'accordo tra democristiani tedeschi e Spd è arrivato quasi a dicembre, il sistema è molto vicino al proporzionale (c'è solo qualche correzione e uno sbarramento del 5 per cento). Tutte condizioni per l'orrore secondo gli strateghi della politica italiana e i creativi delle formule elettorali. Infatti la Germania è il paese leader dell'Europa mentre l'Italia si sta disgregando. Ma c'è un delirio pluridecennale, sulle regole elettorali, che dura da qualche decennio in Italia. Dove periodicamente i dottor Stranamore delle formule elettorali finiscono per fallire. Per evitare il delirio a questo paese "bastava" fin dagli anni '80 riformare il sistema politico, e il suo supporto amministrativo e scientifico, senza incaponirsi nella legge elettorale, cosa peraltro impossibile ad ogni attore politico da allora ad oggi.

Ma veniamo ai contenuti. L'accordo tra democristiani e SPD, secondo la stampa tedesca si basa su alcuni punti d'accordo che qualificano le politiche sociali:
-) una legge sul pedaggio autostradale, in Germania inesistente, per finanziare spese sociali (ci sono commentatori  tedeschi che dubitano che l'accordo sia veramente raggiunto, si riporta per la cronaca);
-) Il minimo salariale a 8,50€ l'ora. Minimo che può essere ritoccato verso il basso, fino al 2017, grazie all'accordo tra le parti sociali;
-) La doppia cittadinanza valida solo per chi nasce in Germania da genitori provenienti dall'estero;
-) un'attenzione ai minimi livelli di solidarietà sociale: ritocco verso gli 850 euro per le pensioni minime, diritto ad andare in pensione a 63 anni dopo 45 di contributi, assegno di solidarietà per le madri più anziane con figli nati prima del 1992.

Nella CDU si è parlato di un "risultato meraviglioso". La realtà è che l'accordo visibile, quello su cui si è combattuto per due mesi, è su temi di piccolo cabotaggio. Comunque tutti rivolti al sociale, cosa impossibile in Italia, mentre i temi forti (politica estera, unione bancaria europea, rapporto con Bruxelles e Francoforte, revisione o meno del modello neo-mercantilista tedesco che rischia di far collassare l'economia globale) sono rimasti accuratamente ai margini. Per non parlare del modello Hartz IV, vero e proprio deus ex machina delle relazioni sociali in Germania che ha supportato le esportazioni competitive. E' rimasto fuori anche Prism anche se sulla stampa tedesca è apparso un articolo della FAZ dove si fa capire che lo sviluppo dell'open source è ormai politicamente visto come un'arma contro lo spionaggio dall'estero (perché impedisce i sistemi chiusi, venduti dall'estero, che possono essere usati da chi vende per spiare).

Enrico Letta, in queste settimane, ha fatto tanto per accreditarsi presso questo governo. Ha parlato al congresso della Spd e al convegno della Sueddeutsche Zeitung. Parole di piena docilità politica che marcano la realtà: l'Italia esiste come area colonizzata che può sperare, al massimo, comprensione per lo stato delle proprie banche (via Bce). Il resto, trasferimento di risorse e di proprietà in Europa via legge di stabilità, serve a mantenere l'egemonia del modello neo-mercantilista tedesco, compreso il lato legato alla finanza globale, come il sistema tolemaico dei nostri giorni in politica. Molta stampa anglosassone mostra stupore sulla mancata reazione in Italia, Spagna,Francia rispetto a un modello eurozona-Ue che vampirizza le risorse di questi paesi a favore della Germania. Probabilmente ciò che conviene a Société Générale in Francia o a Unicredit in Italia, come a BBVA in Spagna, conviene anche alla Germania. Visto che i governi non li esprime certo la volontà popolare molto, di questo apparente suicidio politico, si spiega così.

Comunque il governo di cui siamo un Land periferico, anzi un Hinterland, si è installato. Poi ci sono Letta, Renzi, il teatrino della politica finché questo spettacolo avrà spettatori che credono si tratti di qualcosa di reale.

redazione 27 novembre 2013

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La Libia affonda nella violenza, Eni ottimista

Decine di morti, quasi ogni giorno, eppure Paolo Scaroni, l'amministratore delegato dell'Eni guarda con ottimismo al futuro della Libia. «La costruzione delle istituzioni libiche ha un percorso più lento di quello che avevamo sperato ma sono relativamente ottimista», non a breve termine, «tra un mese o tre mesi» ma «a medio termine», ha detto Scaroni a margine del vertice italo-russo. Il cane a sei zampe, si sa, guarda alla Libia con occhi (e interessi) ben diversi da quelli della popolazione che quotidianamente deve fare i conti con le «eroiche milizie della rivoluzione anti-Gheddafi» e che oggi dettano legge nelle strade del Paese.

Ieri a Bengasi, la «capitale» dell'est della Libia, accogliendo l'appello alla «disobbedienza civile» lanciato dai consiglieri comunali, gli uffici amministrativi e le scuole sono rimasti chiusi, insieme a banche e negozi. A testimoniare la richiesta di sicurezza della popolazione che chiede il ritiro delle milizie armate dopo i sanguinosi combattimenti del giorno prima, con 14 morti e decine di feriti, tra l'esercito «regolare» e i jihadisti del gruppo salafita Ansar al-Sharia. È il gruppo qaedista accusato dell'attacco del settembre 2012 al consolato Usa in cui morirono quattro americani, tra cui l'ambasciatore Chris Stevens.

L'Esercito è stato dispiegato nei quartieri più sensibili. Ma nessuno si fa illusioni, le milizie sono forti e godono di appoggi ovunque, grazie anche agli enormi interessi che genera la produzione del petrolio. Ed inoltre chi spinge per la separazione di Bengasi da Tripoli e per l'«indipendenza» della Cirenaica punta proprio sul caos per velocizzare la frantumazione della Libia. Il governo di Ali Zeidan prova a riprendere il controllo del Paese e intende integrare le milizie nell'esercito regolare. Il tentativo ha dato finora scarsi risultati.

Nove giorni fa miliziani di Misurata avevano ucciso decine di abitanti nella stessa capitale Tripoli durante una manifestazione che chiedeva il ritiro dei gruppi armati dalla città. E la violenza genera continue emergenze sociali. Sarebbero più di 65 mila i rifugiati interni, in fuga dagli attacchi o portati via dalle milizie. Il mese scorso Amnesty International ha denunciato che intere comunità, come gli abitanti di Tawargha o la tribù dei Mashashya di Sirte e Bani Walid, sono soggette a rappresaglie, discriminazioni, torture ed esecuzioni sommarie dalle milizie; tra gli abitanti di Tawargha ci sarebbero 1.300 scomparsi nel nulla. In molti casi i rapiti sono accusati di aver sostenuto Gheddafi.

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Le bufale virali ed il razzismo 2.0

Chi frequenta facebook lo sa, chi non lo frequenta non verrà di certo risparmiato da questa campagna denigratoria, questa operazione di incitamento all’odio, alla violenza ed alla xenofobia. Certo chi ha un minimo di capacità intellettive non cade facilmente nella trappola, ma a volte la stessa è così ben congegnata da diventare più che credibile. Girano tutti i giorni e hanno una ciclicità tematica: adesso è il periodo degli immigrati e dei rom. Vengono messe in rete su di loro notizie terribili tese a discreditarli in ogni modo. Se dovessimo credere a tutto quello che viene diffuso in rete dovremmo credere davvero all’uomo nero ed al mostro del lago.

Una utente di Facebook, Giulia Carlini, si è presa la briga di fare un elenco di tutti gli articoli che poi si sono rivelati una bufala fatti girare negli ultimi tempi: immigrati che mangiano cani a Lampedusa. Bufala. Immigrati che crocifiggono gatti. Bufala. Immigrati che fanno sesso con la statua della Madonna. Bufala. Immigrati che buttano via il cibo perché non gli piace. Bufala. Sussidi agli immigrati degni di uno stipendio da banchiere. Bufala. Bambina rapita dagli zingari in Grecia. Bufala. Bambina rapita dagli zingari in Irlanda. Bufala. Furti sotto i 200€ di valore non più reato per gli zingari. Bufala. Tutte bufale che vengono fatte circolare con regolarità e pervicacia.

Come ogni bugia ripetuta all’infinito, queste bufale diventano vere. Soprattutto perché seguono il sistema di moltiplicazione virale dei link secondo le modalità social: nessuno verifica tutti condividono. Perché se gira una notizia inquietante non si resiste alla seduzione della condivisione. Le condivisioni dell’orrore sui social sono come piccole assoluzioni: io non sono come loro, io denuncio, io diffondo il vero per arginare il male. Ovviamente gli assolutori di loro stessi 2.0 fanno tutti questo in maniera acritica, senza porsi il problema della verifica della notizia che stanno pubblicando.

Bisogna dire che alcune sono scritte molto bene con tanto di linguaggio giornalistico e articoli di legge a supporto delle tesi: «Zingari: furto fino a 200 euro non è più reato», questo il titolo. Nel pezzo si legge: «Approvato finalmente il D.lgs. 958/2013 che la Commissione Consultiva dell’Integrazione ha richiesto per la salvaguardia delle popolazioni nomadi, le quali sono rappresentate dal 1971 dall’Unione Rom Internazionale. Questo movimento mira al riconoscimento di un’identità e di un patrimonio culturale e linguistico nazionale senza stato né territorio, cioè presente in tutti i paesi europei». Insomma, poiché i rom rubano per vivere, per applicare una politica di integrazione dobbiamo permettergli di rubare legalmente, ma fino a 200 euro.

E’ una bestialità ed è falsa, ma si è diffusa viralmente sulle bacheche dei razzisti, che l’hanno immediatamente data per buona, condivisa, commentata e, ovviamente, deprecata. E’ accaduto allo stesso modo con la notizia delle bambine rapite, e con la foto della statua della Madonna “violata”. La gente si fida di quello che trova in rete, se opportunamente confezionato con sembianze di articolo giornalistico, malgrado la rete sia per antonomasia il luogo dell’incerto, del dubbio, del limbo anonimo dal quale emergono verità e bugie in uguale misura. Ma è il luogo in cui ci si può sentire “branco” anche stando seduti a casa perfettamente da soli, ed è facile ed indolore un bel linciaggio xenofobo. Peccato che poi ci sia sempre il passaggio al mondo reale.

Il web forma anche l’opinione, rimbalza le ipotesi false, le fa diventare tesi condivise, fa proliferare i luoghi comuni e genera mostri anestetizzando la ragione. E incide nella realtà. Gli immigrati ed i rom sono il nemico pubblico numero uno. Due episodi accaduti a Napoli negli ultimi mesi denunciano come l’odio razziale sia virale come nel web: il bambino rom sfigurato con l’acido buttatogli addosso da un balcone ad opera di una donna e un bambino picchiato da coetanei in via Carlo Poerio al grido di «zingaro di merda». Sono solo la rappresentazione plastica dell’impianto di pregiudizi costruito per alimentare il razzismo. Quei ragazzini non sanno perché hanno picchiato, ma tutti noi abbiamo mosso i loro pugni.

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Al Vertice di Varsavia dominano le imprese mentre del cambiamento climatico non parla più nessuno

Il potere delle imprese al vertice ONU sul cambiamento climatico
 
Democracy Now!
 
La conferenza sul cambiamento climatico delle Nazioni Unite di quest'anno si sta svolgendo a Varsavia, una città piena di storia. Qui si trova il principale monumento eretto in omaggio a Niccolò Copernico, il famoso astronomo polacco che ipotizzò per la prima volta che la Terra gira intorno al Sole e non viceversa. L'aeroporto di Varsavia porta il nome di Frederic Chopin, in onore del brillante compositore che visse qui. La pioniera della scienza delle radiazioni, Marie Curie, la prima donna che ha vinto un premio Nobel (ne vinse due, in realtà), è nata qui.
Qui c'era anche il Ghetto di Varsavia, uno dei più orribili simboli dell'Olocausto, dove centinaia di migliaia di ebrei rimasero rinchiusi prima di essere trasferiti al campo di sterminio di Treblinka e altri campi di concentramento nazisti, dove furono assassinati. In mezzo al terrore dell'occupazione nazista, gli ebrei del ghetto si sollevarono in un coraggioso atto di autodifesa. Più tardi, ispirati dalla ribellione del ghetto, anche gli abitanti non ebrei di Varsavia si sollevarono e lottarono per due mesi prima di essere alla fine sconfitti dalle forze di occupazione tedesche. Alla fine della Seconda Guerra Mondiale, 6 milioni di polacchi, la metà di loro ebrei, erano stati assassinati e l'ottantacinque per cento della città di Varsavia era in macerie.
 
In questo preciso luogo si sta svolgendo la 19a Conferenza delle Parti della Convenzione Quadro delle Nazioni Unite sul Cambiamento Climatico (CMNUCC), denominata COP 19. Migliaia di negoziatori dei 198 Paesi membri della Convenzione camminano frettolosamente attraverso i corridoi temporanei di tela installati nel campo dello Stadio Nazionale, così come i rappresentanti di numerose organizzazioni non governative e addetti stampa. Il vertice di quest'anno ha una caratteristica diversa: il supporto delle imprese.
“Questa probabilmente è la conferenza sul cambiamento climatico con la maggior presenza delle imprese che abbiamo mai visto", mi ha detto Pascoe Sabido. "Questo non significa che nelle precedenti non ci sia stata una grande influenza delle imprese. Tuttavia, quello che è diverso stavolta è il livello di istituzionalizzazione, il grado in cui il Governo polacco, l'ONU e la convenzione stessa, hanno ricevuto le imprese a braccia aperte, e hanno incoraggiato la loro partecipazione”. Sabido lavora nell'organizzazione Corporate Europe Observatory, che ha pubblicato un opuscolo intitolato “Guida della COP 19 sulla lobby imprenditoriale: delinquenti climatici e complicità del Governo polacco”. Alcune delle grandi imprese presenti in questa COP 19, afferma Sabido, sono “la General Motors, nota per finanziare gruppi di ricerca che negano il cambiamento climatico, come lo Heartland Institute degli Stati Uniti e c'è anche la BMW, che sta facendo cose simili in Europa, nel tentativo di indebolire le norme sulle emissioni”. Il logo del LOTOS Group, la seconda principale impresa petrolifera polacca, compare sulle 11.000 borse consegnate ai delegati.
 
La Polonia, la cui principale fonte d'energia è il carbone, ha organizzato una conferenza parallela insieme all'Associazione Mondiale del Carbone, denominata Vertice Internazionale del Carbone e del Clima. La Segretaria Esecutiva della COP 19, Christiana Figueres, ha provocato l'ira di molti attivisti per il clima pronunciando il discorso inaugurale della conferenza dell'industria del carbone. Fuori dal vertice, gli attivisti di Greenpeace hanno appeso un grande striscione con i colori della bandiera polacca sulla facciata del Ministero dell'Economía. Lo striscione diceva: “Chi comanda in Polonia: l'industria del carbone o la gente?”. Sul tetto dell'edificio, altri attivisti hanno dispiegato uno striscione con la scritta: “Chi comanda nel mondo: l'industria dei combustibili fossili o la gente?”. Nel frattempo, nella piazza che si trova in basso, centinaia di persone manifestavano contro il carbone in una sfilata denominata “Cough 4 Coal” (Tosse per il carbone) nella quale c'erano due grandi polmoni gonfiabili, che rappresentavano gli effetti nocivi del carbone sull'atmosfera e sulla salute umana.
 
Mentre nello Stadio Nazionale le trattative si affievolivano, gli attivisti gridavano all'unisono: “Dov'è il finanziamento?”. I Paesi ricchi hanno promesso di fornire appoggio finanziario ai Paesi in via di sviluppo perché realizzino la transizione verso fonti di energia rinnovabile (mitigazione) e perché possano far fronte agli effetti del cambiamento climatico (adattamento). La Oxfam calcola che, finora, questo fondo ha incassato solo 7 miliardi e 600 milioni di dollari, molto meno della cifra promessa tra 30 e 100 miliardi di dollari. Non si tratta di carità, gli inquinatori devono pagare. Ho parlato con il principale negoziatore sul cambiamento climatico delle Filippine, Yeb Saño, nel nono giorno del suo sciopero della fame, che è cominciato il giorno in cui è stata inaugurata la COP 19. Saño mi ha detto: “Gli Stati Uniti, che sono i responsabili di almeno il 25% delle emissioni totali, hanno una grande responsabilità, la responsabilità morale di combattere il cambiamento climatico, non solo a livello nazionale, ma anche di fornire appoggio ai Paesi in via di sviluppo”.
 
La distruzione causata dal tifone Haiyan è un crudo sfondo delle trattative di Varsavia. Yeb Saño ha saputo che suo fratello è sopravvissuto al tifone vedendolo nei notiziari mentre aiutava a radunare i corpi dei morti. La scienza è chiara: se le temperature continueranno ad aumentare, gli eventi climatici estremi diventeranno sempre più frequenti e più mortali. Dopo che Saño aveva annunciato in un emozionante discorso durante la sessione plenaria della convenzione che aveva deciso di iniziare uno sciopero della fame, diversi studenti hanno marciato in silenzio insieme a lui mentre usciva dalla sala. Tenevano uno striscione in omaggio ai morti delle Filippine. In conseguenza del loro atto spontaneo di solidarietà, gli è stato vietato di assistere alle trattative sul cambiamento climatico per un anno. Una studentessa che ha partecipato all'azione, Clémence Hutin, di Parigi, mi ha detto: “Per me il Vertice sul Cambiamento Climatico è uno spazio democratico. Non capisco perché la società civile non è la benvenuta alla convenzione, mentre le imprese sì”.
 
Amy Goodman è la conduttrice di Democracy Now!, un notiziario internazionale che si trasmette quotidianamente in più di 750 canali radio e televisivi in inglese e in più di 400 in spagnolo. È co-autrice del libro "Quelli che lottano contro il sistema: Eroi ordinari in tempi straordinari negli Stati Uniti", edito da Le Monde Diplomatique Cono Sur.
 
Traduzione per Senzasoste Andrea Grillo, 24 novembre 2013