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28/02/2015

Quanto costa attraversare il confine tra Turchia e Siria? 25 dollari

di Chiara Cruciati

Ancora una volta la vittoria più consistente sul campo siriano e iracheno contro la macchina da guerra islamista è stata segnata dalla resistenza kurda: dopo aver liberato Kobane e, a seguire, altri 100 villaggi, ieri i combattenti delle Ypg (le Unità di Difesa Popolari) hanno issato la loro bandiera sulla città di Tel Hamis, prima roccaforte dell’Isis e strategico punto di transito verso il vicino Iraq.

Tel Hamis, parte est della provincia di Hasaka (il cui controllo è diviso a metà tra kurdi e islamisti e che da oltre una settimana è terreno di battaglia tra le due parti), è da tempo ponte tra Siria e Iraq, tra i principali punti di passaggio di armi e miliziani. “La bandiera sventola sopra Tel Hamis – ha detto ieri Redur Khalil, portavoce delle Ypg – Ora stiamo ripulendo la città da mine e terroristi. La città era una roccaforte dell’Isis che da qui lanciava le operazioni contro le città irachene di Sinjar e Mosul”.

Dalle file kurde, i combattenti riportano dell’uccisione di almeno 175 miliziani dell’Isis e del sostegno importante dei raid della coalizione, una ventina da giovedì. Una sconfitta cocente per il califfo, che in un mese ha perso Kobane e ora Tel Hamis, strategici non solo dal punto di vista tattico ma anche da quello simbolico, elemento su cui al-Baghdadi fonda la propria personale propaganda.

Alle vittorie kurde l'Isis risponde con la violenza, i rapimenti di siriani appartenenti alle minoranze religiose, come i 350 assiri cristiani sequestrati nei giorni scorsi e che avevano una propria unità di difesa in supporto a quella kurda. Da oltre un mese la controffensiva kurda post-Kobane e la ripresa di 100 villaggi è stata possibile grazie al sostegno delle milizie cristiane e di quelle arabe tribali, che hanno formato un fronte unico contro l’Isis.

La forza di volontà e le abilità militari delle milizie locali, che siano kurde, cristiane o tribali, hanno un altro significativo effetto: far risaltare gli scarsi successi della coalizione (che a detta del Pentagono ad oggi ha strappato all’Isis l’1% dei territori occupati in Iraq) e l’accidia della vicina Turchia. Un’accidia pericolosa: all’assenza di azione contro i miliziani islamisti sia prima dell’assedio di Kobane sia durante la strenua difesa kurda dell’enclave, si accompagnano le accuse – mosse ufficiosamente anche dalle Nazioni Unite – di aver in qualche modo sostenuto l’Isis, almeno indirettamente. Chiudendo un occhio mentre dal poroso confine tra Turchia e Siria passano armi e miliziani o, come dimostrato dai kurdi turchi, colloquiando con gli islamisti al confine durante il massacro di Kobane.

In un interessante reportage dell’Huffington Post, pubblicato ieri, si spiega nel dettaglio la trafila da seguire per attraversare il confine turco, direzione Siria. Secondo i servizi segreti internazionali, attraversare quella frontiera era il passaggio più semplice, molto più facile che raggiungere Ankara dall’Europa, nonostante il governo turco insista che i 500 km di confine con la Siria siano più che controllati.

Venticinque dollari, questa la piccola tangente da pagare al contrabbandiere di turno e alla guardia di frontiera. Combattenti, miliziani, contrabbandieri, poliziotti corrotti e gang militari hanno creato, scrive l’Huffington, una rete capillare e efficiente: chiunque può passare, basta che paghi.

“Se i turchi chiudono una zona, se ne apre un’altra – racconta al giornale Jasim Qalthim, trafficante 30enne – Se volessero lo renderebbero difficile”. In genere si compra una zona di confine per un certo periodo di tempo: il trafficante paga al responsabile dell’Isis, tale Abu Ali, che controlla a sua volta anche le guardie di frontiera, e così “affitta” il valico. “I soldati lo temono – continua Qalthim – Una volta ha chiuso la frontiera per 10 giorni perché era arrabbiato. Fa un sacco di soldi con cui compra poi armi e munizioni per l’Isis”.

Le guardie e i poliziotti corrotti ricevono la loro parte e voltano le spalle. Di tutto passa da quel confine, tanti nuovi miliziani non hanno nemmeno il passaporto con sé. Rami Zaid, attivista 23enne di Aleppo, dice di riuscire a passare una o due volte al mese quel confine; Abu Harwain, contrabbandiere siriano, passa ogni giorno e accompagna al mese un centinaio di persone dentro e fuori la Siria.

In un tale contesto, i tentativi turchi di mostrarsi come partner affidabile nella lotta all’Isis si sciolgono come neve al sole. Domani partirà in pompa magna il programma di addestramento e equipaggiamento del primo gruppo di ribelli moderati siriani (5mila su un totale di 15mila), programma congiunto Usa-Turchia, che vede la partecipazione anche di Giordania, Qatar e Arabia Saudita.

L’obiettivo del presidente-imperatore Erdogan è chiaro: preparare nuovi combattenti non per frenare l’Isis, ma per rovesciare il vero nemico di Ankara, il presidente Assad.

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Egitto - Bombe al Cairo: "colpiremo chi svende il Paese"

Uno dei negozi della Vodafone colpito ieri (Foto: Reuters/Mohamed Abd El Ghany)

Stavolta, dietro le esplosioni che ieri hanno colpito la capitale egiziana e provocato un morto, non ci sarebbe l’Isis né al Qaeda, Ansar al Sharia o Ansar Beit al-Maqdis. Insomma non ci sarebbero quei gruppi che stanno giustificando la lotta all’islamismo ingaggiata dal presidente al-Sisi e che gli garantiscono l’appoggio incondizionato dell’Occidente (ma soprattutto i due occhi chiusi sulle violazioni dei diritti umani in corso in Egitto).

Le esplosioni che ieri mattina hanno lasciato un morto e tre feriti e colpito un ristorante nel quartiere di Imbaba, una stazione di polizia in quello di Alwaraq e negozi di telefonia in quello di Mohandessen, sono state rivendicate da un gruppo sconosciuto, Il Movimento di Resistenza Popolare. Un attacco che alle autorità è apparso fin da subito ben coordinato. E preoccupante: gli attentatori sono stati in grado di agire nel cuore della capitale.

Apparentemente il gruppo non ha legami con altre organizzazioni islamiste o radicali che operano prevalentemente nella Penisola del Sinai, i cui attacchi hanno portato al sostegno militare e finanziario da parte degli Stati Uniti della crociata di al-Sisi. Secondo fonti locali, il Movimento di Resistenza Popolare avrebbe come obiettivo la conferenza programmata per il mese prossimo e che sarà la base per attirare nuovi investimenti esteri nel paese. Proprio per questo, dicono fonti della sicurezza, avrebbero avuto come target tre negozi della Vodafone e uno di Etisalat, compagnia degli Emirati Arabi, tra i maggiori sponsor del governo al-Sisi.

Dicono lo stesso i responsabili dell’attacco: su Fb il nuovo gruppo scrive di aver voluto colpire la Vodafone “in risposta alla partecipazione alla conferenza per svendere l’Egitto” e Etisalat “in risposta al contributo degli Emirati al colpo di Stato”. E promette nuove azioni contro “le forze criminali, gli assassini, i violatori di santità e i torturatori di bambini”. Il gruppo ha poi aggiunto di avere cellule attive nella provincia di Minya e a Giza, dove sono avvenuti gli ultimi attacchi.

Prosegue intanto la crociata del presidente al-Sisi contro la Fratellanza Musulmana: oggi 271 persone sono state rinviate a giudizio di fronte ad una corte militare con l’accusa di aver attaccato tribunali e la sede del procuratore nella provincia di Minya, nell’agosto del 2013. Gli attacchi seguirono alla distruzione di due campi di protesta di sostenitori del deposto presidente Morsi al Cairo e a Giza, durante la quale furono uccise 1.400 persone.

Dalla salita al potere del nuovo governo, il 3 luglio 2013, oltre 15mila sostenitori della Fratellanza sono stati imprigionati, un migliaio di loro condannati a morte. E per poter colpire meglio ogni voce critica il 24 febbraio l’esecutivo ha emanato una nuova legge anti-terrorismo, che amplia a dismisura i reati identificabili come tali, e stringe ulteriormente la morsa intorno alla libertà di espressione.

Nel calderone dei “terroristi” entrano genericamente “entità e individui che minacciano l’unità nazionale” e alla polizia, artefice di abusi nei confronti di manifestanti e oppositori, sono accordati ampi poteri di repressione. I gruppi etichettati come terroristi vengono sciolti e i loro fondi bloccati, anche nel caso di individui. Per essere etichettati come terroristi è sufficiente bloccare il traffico o impedire lo svolgimento di una lezione all’Università, secondo la legge che in questo specifico caso sembra pensata per colpire i sostenitori del movimento fuorilegge dei Fratelli Musulmani che spesso organizza proteste nei campus universitari e blocca le strade.

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La lotta alla corruzione del Pcc


C’è molta curiosità in Occidente sulla lotta alla corruzione che si è scatenata in Cina da circa un anno. Date le dimensioni del tutto insolite del fenomeno (180.000 funzionari sotto procedimento già a settembre, nel frattempo già saliti ben oltre i 200.000), ci si è sbizzarriti per capire cosa stia succedendo: c’è chi parla di ritorno ai metodi della rivoluzione culturale e di regressione della Cina all’epoca maoista, chi, al contrario, sottolinea il nesso con il dibattito sullo “stato di Diritto” e, quindi, sull’uguaglianza dei cittadini davanti alla legge, chi della consueta lotta fra fazioni del partito e chi, invece, pensa a una semplice manovra diversiva per distrarre l’attenzione dai crescenti problemi sociali del paese.

Ragionevolmente c’è qualcosa di vero in ciascuna di queste idee, ma la vicenda sembra andare ben oltre questi limiti. Carl Minzer che, nel numero di settembre di “Esat Asia Forum”, mette la campagna in relazione alle riflessioni di Xi Jinping sulle primavere arabe nella quali decisivo sarebbe stato l’indebolimento del partito dominante. In effetti, nei discorsi dell’ultimo anno, il capo del Pcc ha manifestato una crescente enfasi sul ruolo del partito come guida politica della nazione e pietra angolare del sistema. E la corruzione dei funzionari del partito, delle amministrazioni e dell’esercito è vista come un tarlo che sta erodendo dall’interno il partito, favorendone la disgregazione in una miriade di comitati d’affari e distruggendone la legittimazione agli occhi delle masse.

Torna, a questo proposito, la nozione maoista di “linea di massa” destinata a ristabilire un rapporto fiduciario fra il partito e la popolazione proprio attraverso una lotta alla corruzione che colpisca senza riguardi per la posizione nella gerarchia. E, in effetti, i nomi eccellenti non mancano: da Zhou Yongkang, già potentissimo capo degli apparati di Pubblica sicurezza, a Xu Caihou, già numero due dell’Armata Popolare di Liberazione, sino a tre mesi fa. La storia cinese ricorda molti casi in cui l’Imperatore guadagna l’amore del suo popolo colpendo i mandarini corrotti, sino ai più alti livelli.

Da questo punto di vista, acquista peso l’accento posto sullo stato di diritto, ma non è detto che l’espressione “yifazhiguo” sia l’esatto equivalente del nostro “governo della legge”. Per noi, l’eguaglianza dei cittadini davanti alla legge comporta anche l’unicità della giurisdizione davanti a cui comparire e non ci sono giurisdizioni speciali (salvo l’Alta Corte di Giustizia); invece, in Cina un membro del partito può essere giudicato dai tribunali ordinari solo dopo che gli organi disciplinari del partito glielo abbiano consegnato (ed a ciò segue infallibilmente una condanna). Un po’ come accadeva per la competenza dell’Inquisizione per il clero. Xi Jinping non sembra avere alcuna intenzione di dismettere questa prerogativa del partito, anzi sembra che intenda ribadire la centralità del partito nel sistema.

Il punto è che la campagna sullo stato di diritto è rivolta soprattutto contro gli arbitri delle corti periferiche, più condizionabili dal potere politico locale. L’operazione è quindi quella di una centralizzazione che sia massima influenza al vertice del partito.

Xi Jinping si trova a fare i conti con tendenze sociali fortemente divaricanti: la spinta autonomistica delle periferie (Xjiniang, Tibet, Hong Kong, in una certa misura Manciuria), la pressione dalle campagne, il malessere del ceto medio urbano, le rivendicazioni salariali operaie, le tendenze dell’apparato a disgregarsi in comitati d’affari ecc. Ed in tutto questo, il problema più spinoso  è quello delle diseguaglianze sociali ormai insostenibili: in Cina i valori di indice Gini (il metodo più generalmente condiviso per misurare le diseguaglianze di reddito e di ricchezza) sono superiori anche agli Usa e sono fra i maggiori del mondo. Trentacinque anni di crescita continua hanno enormemente arricchito la Cina, ma questa crescita ha premiato solo i super ricchi, mentre gli altri hanno dovuto accontentarsi delle briciole e, talvolta, neanche di quelle.*

Oggi, da parte dei ceti bassi e medi, ci sono aspettative di suddivisione della ricchezza prodotta che non possono più essere rinviate. Per oltre trenta anni, il governo di Pechino ha tollerato condizioni salariali terribili, la pirateria, i traffici delle Triadi e la corruzione dilagante nel Partito e nello Stato, e ciò per realizzare "l’accumulazione originaria” necessaria al decollo (esattamente come avvenne in lnghilterra nel XVII e XVIII secolo). Non c’è dubbio che la manovra sia sostanzialmente riuscita, facendo dell’economia cinese la seconda del mondo. Tutto questo ha comportato la nascita di un robusto ceto di neo arricchiti venuti dal nulla: si parla circa 4 milioni di multimilionari cinesi - in dollari -, quadruplicati in poco più di un decennio. In un paese in cui non esistono patrimoni ereditati e c’è una divisione relativamente uguale tra terre agricole e habitat privato, il modo più sicuro per creare in breve grandi patrimoni è l’illegalità (corruzione in primo luogo). E così, il “partito dell’accumulazione originaria” è stato la risorsa della Cina del “trentennio glorioso”, ma oggi la risorsa sta diventando il problema: la nascita di una così robusta fascia sociale di miliardari genera, dall’interno della burocrazia, una nuova classe che si contrappone ad essa. Certe condizioni subite per anni oggi sembrano intollerabili. Ad esempio, gli imprenditori cinesi che esportano, debbono poi cambiare i loro dollari ed euro in yuan, per pagare i loro operai e fornitori, ma al cambio subiscono un prelievo del 15% per diritti di signoraggio ed è evidente che questo decurta molto sensibilmente i loro profitti. E, per evitare questo prelievo, si è andato formando un “mercato nero dei cambi” dietro cui non è difficile scorgere l’ombra delle triadi.

Ma ai “nuovi ricchi” non bastano più i profitti realizzati: vogliono una trasformazione piena del sistema in senso capitalistico, superando la fase di capitalismo di Stato (o, se preferite “collettivismo burocratico di Stato”) che ha caratterizzato la Cina di questo tentennio. E questo postula la sostituzione al potere della classica burocrazia di partito.

E’ evidente che si sta producendo una spaccatura feroce nel gruppo dirigente, che va al di là delle consuete lotte di corrente e configura un vero e proprio conflitto di classe trasversale alle componenti tradizionali: fra gli inquisiti, anche di alto rango, ci sono molti uomini del clan di Shanghai (il gruppo che aveva il suo punto di riferimento in Jiang Zemin), ma non mancano neppure dei tuanpai (la corrente di Hu Jintao e di Li Kequiang) e neppure “principi rossi” (corrente da cui proviene lo stesso Xi Jinping). A questo giro di vite, i settori colpiti (soprattutto i funzionari corrotti) stanno reagendo con una sorta di “sciopero dei capitali”: la Banca Mondiale segnala che oltre 5 milioni di nuovi ricchi cinesi stanno cercando rifugio presso le banche occidentali per i loro capitali. Il che, sarebbe un colpo durissimo per l’economia cinese. Una conferma indiretta viene dalla campagna del partito contro i “funzionari nudi”, quelli che mandano moglie, figli e capitali all’estero, sperando di non essere scoperti e che, se individuati, spesso si suicidano, perché la legge cinese proibisce di proseguire ogni forma di processo nei confronti dei defunti, per cui, la famiglia salva il capitale. Puntuale si sta profilando la reazione: modificare la legge per recuperare i capitali. E non si tratta solo di misure legali: da alcune settimane circola la notizia di circa 250 casi di milionari cinesi fuggiti all’etero e “rimpatriati” dai servizi cinesi con vere e proprie extraordinary redditions.

Dal vulcano Cina si percepiscono minacciosi brontolii che lasciano presagire una possibile prossima grande eruzione.**

(Articolo apparso su Il Venerdì di Repubblica di alcune settimane fa).

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* al solito il nodo è sempre lo stesso: il socialismo è reale solo sui testi filosofici ed economici.

** e magari una bolla economico-finanziaria, capace d'infliggere il definitivo colpo di grazia ad un 30ennio di globalizzazione finanziarizzata, con tutto quello che d'infauso può conseguire.

Le notizie su ripresa economica: caso di abuso credulità popolare

Come si fa a costruire la ripresa economica? Quella che serve per le elezioni di primavera e per i sondaggi, naturalmente. Prima di tutto ci vogliono trasmissioni economiche a reti unificate. Poi si prende un indice di fiducia pompandolo su fattori non economici (esempio l'elezione di Mattarella, come è stato detto dalle stesse agenzie di stampa). Poi si prende questo indice soggettivo e lo si incrocia con i dati (sui cui parametri non si dice niente): + 0,1 sul Pil e ribasso dello spread tra bond italiani e bund tedeschi.

Raccontate con enfasi queste tre notizie assieme fanno una "ripresa", l' "addio alla recessione" e via abusando della credulità popolare. Di un paese che deve tirare la carretta tutti i giorni e magari presta fiducia a queste notizie ritenute oggettive anche perché sente solo quelle. Prendiamo invece un grafico, ci scusiamo della mancata traduzione ma commenteremo a dovere, per togliere ogni dubbio in materia. Occhio alla linea blu e a quella rossa. E occhio a come, e quando, le loro traiettorie si discostano periodicamente.



La linea blu segue l'andamento del DAX, che è l'indice borsistico di Francoforte. Indice che è uno dei principali termometri di salute sia delle borse sia dell'economia mondiale. La linea rossa segue, invece, l'andamento del Baltic Dry Index che è l'indice dell'andamento dei costi del trasporto marittimo e dei noli delle principali categorie delle navi dry bulk cargo. Il Baltic Dry Index è reputato un indicatore fondamentale della salute dell'economia mondiale. In un'economia globalizzata infatti i traffici marittimi sono essenziali anche solo per permettere di assemblare merci che divengono tali a volte solo se riuniscono componenti di 80 paesi diversi. Come possiamo notare agilmente nel 2015 l'indice Dax è ai massimi, mentre il Baltic Dry Index ai minimi. Difficile qui parlare di "addio alla recessione" in un paese come l'Italia che, più di altri, dipende dalla domanda globale. Domanda che, come vediamo, è al minimo anche rispetto ai tempi di Lehman Brothers (il picco minimo prima del 2010). Come si vede si è creata una ampia zona bianca, la bolla, tra indice Dax e Baltic Dry index che sembra destinata ad allargarsi. Ma andiamo a leggere le altre bolle, le zone bianche che si creano quando c'è forte divaricazione tra linea blu (Dax) e rossa (Baltic Dry). La prima, da  sinistra, porta con sé il crack di borsa del 1987 (Aktien-Crash von 1987, nella voce originale), la seconda, se si ha la pazienza di guardare, contiene il crack del 1998 e il crollo delle dot-com del 2000-2001. Per non parlare del botto Lehman che avviene si con un Baltic Dry in aumento ma, effetto bolla, trascinandolo poi ai minimi storici di sempre. Fino ad oggi, visto che siamo andati più in basso.

Che l'Italia sia condizionata da questo quadro lo si capisce dal calo, ufficiale, delle esportazioni (-2,4% in paesi extra-Ue) nonostante l'euro più basso. Segno che il Baltic Dry, in ribasso forte, vale anche l'Italia. Il  +0,1% del Pil, al netto dell'analisi dei parametri che l'hanno determinato (e anche del cambio di direzione dell'Istat più sensibile al renzismo che avanza) appare quindi come un rimbalzo tecnico. Il calo dello spread? Semplice, significa che la liquidità messa in circolazione dalle banche centrali, che promuovono l'acquisto di debito pubblico, sta facendo il suo lavoro. Gonfiando però gli indici borsistici come il Dax che, in presenza di calo dei commerci, a questo punto hanno solo un significato: bolla. E la bolla, paragonando la zona bianca di oggi a quelle del passato, pare grossina. L'ex presidente della Federal Reserve Greenspan, il maestro di tutte le bolle del passato, l'ha definita molto grossa e rischiosa. Ma questo non va nei tg renziani unificati. Ci va invece un discorso sulla diminuzione degli spread come garanzia di contrazione del debito pubblico. Ma anche lì, se non sconfiggi la deflazione, il debito pubblico rischia di aumentare. E il Jobs Act è una manovra deflattiva sul piano del lavoro.

Insomma, tutto va per il meglio almeno nei migliori media possibili. Quelli italiani dove, come si è visto, è persino arrivata la ripresa economica. Ah, il grafico non è ripreso dal bollettino di una qualche Karl Marx Stiftung ma da Die Welt, il quotidiano vicino ad Angela Merkel. Segno che in Germania, per quanto liberisti, non è credibile raccontarsela. Questo per l'oggi. Per il futuro abbiamo visto una previsione economica, sull'Italia, punteggiata di tanti 0,1 in meno e in più fino al 2050. Ma questo, con le relative conseguenze, magari un'altra volta.

Redazione, 28 febbraio 2015

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Iran - Sotto Rouhani tornano i riformisti

Il congresso del nuovo partito riformista Nedaye Iran (Foto: Isna/Hamidreza Dastjerdi)

A volte tornano. Cacciati dalla scena politica iraniana senza tanti giri di parole, i riformisti si sono riorganizzati in una nuova formazione: “Nedaye Iranian” (Appello agli iraniani), fondato nel dicembre scorso, ha tenuto il suo primo congresso qualche giorno fa a Teheran. Gli obiettivi, pur sembrando semplici, non sono affatto scontati: vincere le legislative del 2016, ma soprattutto provare a sopravvivere in uno Stato che, dopo averli perseguitati, ha tentato di disfarsene.

Il partito riformista ha cominciato a scomparire dalla scena politica iraniana dopo la rielezione di Mahmoud Ahmadinejad nel 2009: accusando le autorità di brogli, gli sfidanti riformisti Mir Hossein Moussavi e da Mehdi Karroubi, avevano scatenato l’ondata di proteste, nota come “Onda verde”, che aveva infiammato la Repubblica islamica per mesi e portato alla morte di almeno 80 persone e all’arresto di quasi 5mila manifestanti, secondo i dati di Amnesty International. L'”Onda verde” si era conclusa con un  giro di vite sui membri del partito riformista, con Moussavi e Karroubi messi agli arresti domiciliari e decine di attivisti incarcerati.

Alle elezioni parlamentari del 2012, invece, i riformisti avevano optato per il boicottaggio contro la “dura repressione” della protesta del 2009: il risultato era stato un Parlamento quasi completamente privo di opposizione. Alle presidenziali del 2013, invece, i riformisti avevano potuto contare su un unico nome: Mohammed Reza Aref, vicepresidente al tempo del mandato di Mohammad Khatami. Assieme a lui avrebbe dovuto correre anche l’ex presidente riformista Akbar Hashemi Rafsanjani, classe 1934 – che, a detta degli analisti, avrebbe potuto far convergere sulla sua persona i voti dell’elettorato riformista e moderato: la sua esclusione, a detta del Consiglio dei Guardiani della Costituzione – che vaglia le candidature e autorizza i concorrenti – era dovuta all’età.

Ma ora il clima è diverso. Il presidente Hassan Rohani, proveniente dall’ala più moderata tra i conservatori, ha portato più aperture in due anni di qualunque suo predecessore in un intero mandato: non solo nelle relazioni esterne, con l’avvio del negoziato sul nucleare con la comunità internazionale, ma anche all’interno. Sono 15, infatti, i nuovi partiti che hanno chiesto l’autorizzazione a registrarsi al ministero dell’interno nell’ultimo anno. A qualche mese dall’elezione di Rohani, inoltre, è avvenuta la liberazione di Nasrin Sotudeh, avvocatessa per i diritti umani, condannata nel 2011 a 11 anni di detenzione – poi ridotti in appello a 6 – e a 20 anni d’interdizione dalla professione di avvocato per aver difeso numerosi dissidenti arrestati durante le proteste del movimento “Onda Verde” del 2009 e per la sua appartenenza al Centro di Difensori dei Diritti dell’Uomo del premio Nobel per la pace in esilio Shirin Ebadi. Assieme a lei erano tornate in libertà decine di attivisti, mentre le autorità della Repubblica islamica non mollano la presa su Karroubi e Moussavi.

Nedaye Iranian entrerà in una coalizione di circa 20 altri partiti riformisti riunitisi a Teheran lo scorso gennaio e ha annunciato di voler correre alle elezioni legislative fissate per il 26 febbraio 2016: “L’obiettivo finale – ha detto il segretario generale Majid Farahani – è dominare il prossimo parlamento”. Tra i suoi fondatori c’è anche Mohammad Sadegh Kharrazi, consigliere dell’ex presidente riformista Mohammad Khatami ed ex ambasciatore in Francia e alle Nazioni Unite. Kharrazi, che non ha aderito al partito, ha inviato un messaggio di auguri al congresso e dichiarato che tra gli obiettivi c’è “il completo ritorno dei riformisti sulla scena politica iraniana, il supporto per il governo del (presidente Hassan) Rouhani e sostegno a tutti coloro che hanno idee riformiste”.

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La Turchia sostiene lo Stato Islamico. Parola di intelligence Usa

Spesso siamo obbligati a cercare di interpretare la realtà tentando di leggere tra le righe di certi fenomeni, di individuare tendenze che altrimenti sarebbero celate dietro un muro di disinformazione, di cogliere segnali che sfuggono – per distrazione e dolo – alla stampa mainstream.

Poi, magari, arriva una conferma improvvisa da una fonte ‘autorevole’ che rende giustizia a tali sforzi. Come in questo caso.

La Turchia non considera una sua priorità la lotta contro lo Stato islamico (Is) e questa tolleranza permette ai jihadisti di muoversi liberamente dal suo territorio verso la Siria e viceversa. L'accusa arriva nientemeno che da James Clapper, il capo dell'intelligence degli Stati Uniti, proferita di fronte alla commissione difesa del Senato a Washington. "Io penso che la Turchia abbia altre priorità e altri interessi" ha detto il capo dei servizi segreti statunitensi. "I sondaggi della pubblica opinione in Turchia – ha continuato Clapper – non mostrano l'Isis come una minaccia primaria". In effetti un quinto dei ‘sondati’ da diversi istituti demoscopici in quel paese è addirittura solidale con i jihadisti che non a caso hanno eletto Ankara come propria base logistica dove reclutare combattenti, rifornirsi di armi, vendere il petrolio estratto nei territori sotto il loro controllo, curare i propri feriti. Spesso con la tolleranza o addirittura l’attiva collaborazione dei servizi di intelligence turchi e delle forze armate.

L'effetto dell'approccio turco, secondo il funzionario statunitense, è quello di creare un contesto "permissivo" per il reclutamento dei "foreign fighter" che si recano in Siria per unirsi all'Is. "Così qualcosa come il 60 per cento di questi combattenti stranieri trovano la loro strada verso la Siria attraverso la Turchia". Clapper ha anche ammesso che altri governi del Medio Oriente si sono mostrati in un primo momento riluttanti a unirsi alla coalizione anti-Isis, ma la "brutalità selvaggia" jihadista "ha avuto un effetto galvanizzante sull'opinione pubblica nella regione mediorientale" e ora c'è più volontà di unirsi agli Usa nello sforzo bellico e nella condivisione di informazioni d'intelligence.

Fatto sta che Turchia e Stati Uniti inizieranno ad addestrare ed equipaggiare migliaia di combattenti della cosiddetta “opposizione siriana” già il prossimo 1 marzo, nell'ambito dell'intesa firmata il 19 febbraio scorso da Ankara e Washington. "Posso dire che inizieremo il 1 marzo", ha affermato ieri il portavoce del ministero degli Esteri turco, Tanju Bilgic, citato dal quotidiano Hurriyet. Secondo il memorandum d'intesa siglato dall'Ambasciatore Usa ad Ankara John Bass e dal sottosegretario agli Esteri turco Feridun Sinirlioglu, Ankara metterà a disposizione un numero di addestratori militari pari a quello degli Stati Uniti. Una sottolineatura che sta a dimostrare il desiderio da parte turca di controllare a pieno la missione dei ribelli siriani che, ha precisato il ministro degli Esteri turco, Mevlit Cavusoglu, "combatteranno contro lo Stato islamico e contro il regime siriano".

Più di recente, il 25 febbraio scorso, il ministro per l'Europa di Ankara, Volkan Bozkir, ha dichiarato che la concessione a Washington dell'uso della base aerea turca di Incirlik, chiesta dagli Stati Uniti per potenziare l'offensiva militare internazionale contro l'Is, dipenderà dai risultati ottenuti dal programma di addestramento. Un segnale più che esplicito nei confronti della Casa Bianca, che deve fare i conti anche con le pretese di un altro ‘alleato’ assai esigente. Il governo del Qatar ha criticato gli Stati Uniti accusandoli di non fare abbastanza contro lo Stato Islamico ma in realtà sottolineando la necessità di colpire non solo le postazioni dei jihadisti ma anche le unità delle forze militari siriane, ipotesi sulla quale invece nell’amministrazione statunitense non c’è unanimità.

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Messico: 12 maestri ‘desaparecidos’, polizia accusata di violenza sessuale

Dopo i 43 studenti di Ayotzinapa spariti nel nulla il 26 settembre la stessa sorte tocca ai maestri? Alcune organizzazioni di docenti messicani hanno denunciato ieri la scomparsa di 12 loro colleghi e gli abusi sessuali subiti da quattro maestre a seguito della dura repressione scatenata martedì scorso dalla polizia contro migliaia di manifestanti che protestavano nel porto di Acapulco a favore del pagamento degli stipendi arretrati, saldatisi con un maestro ucciso, decine di feriti e centinaia di fermati.

Manuel Salvador Rosas, rappresentante del Coordinamento statale dei lavoratori dell’istruzione dello Stato di Guerrero (Ceteg) – lo stesso Stato in cui a settembre sei persone sono state uccise dai poliziotti di Iguala e dai narcos e 43 studenti della scuola rurale di Ayotzinapa sono spariti nel nulla – ha annunciato una denuncia formale alle autorità. “Ora non sono più solo i 43. Dalla repressione di Iguala a oggi si contano anche 12 maestri che non compaiono più da nessuna parte, non sono a casa, non sono agli arresti” ha detto a una emittente radio locale.

“Quattro maestre affermano di essere state violentate nel giorno della repressione” ha aggiunto Rosas. In quanto al docente in pensione rimasto ucciso martedì a causa del pestaggio da parte degli agenti, il 65enne Claudio Castillo, l’organizzazione sindacale ha respinto la versione ufficiale fornita dalla polizia secondo la quale sarebbe stato investito da un’auto. “Era in testa al corteo, in nessun momento è sceso dal suo mezzo, è stata la polizia a tirarlo giù e a colpirlo. Era una persona disabile, non era autosufficiente negli spostamenti”.


Intanto alcune migliaia di persone hanno partecipato a una manifestazione a Città del Messico per commemorare i cinque mesi dalla scomparsa dei 43 studenti che secondo il governo sono stati uccisi da una gang di trafficanti di droga in combutta con le autorità e la polizia di alcune località del Guerrero. La marcia è partita da una piazza al centro di Città del Messico e si è chiusa fuori dalla residenza del presidente Enrique Pena, circondata da un ingente dispositivo di polizia in assetto antisommossa.

La marcia si è chiusa con la consueta repressione della polizia nei confronti dei giovanissimi manifestanti – molti i feriti – e con l'arresto di alcuni di loro. L'episodio più cruento si è verificato quando la polizia ha aggredito un gruppo di studenti che si allontanavano dal luogo di chiusura della manifestazione vicino alla fermata della metropolitana Sevilla. Nel corso delle violentissime cariche diversi studenti hanno riportato ferite gravi come traumi cranici e fratture del volto e cinque di loro sono stati arrestati.

Gli studenti scomparsi studiavano in un collegio di preparazione alla carriera di insegnante ad Ayotzinapa. Sono scomparsi dopo essere stati arrestati dalla polizia il 26 settembre; secondo le autorità gli agenti li hanno consegnati a una gang di trafficanti di droga, i ‘Guerreros Unidos’, che li avrebbero uccisi e ne avrebbero bruciato i resti gettandoli in alcune discariche. Ma i parenti delle vittime e il movimento che si è sviluppato in solidarietà con i desaparecidos respingono la ricostruzione del procuratore generale dello Stato, Murillo, notando che finora non sono stati recuperati i resti degli scomparsi e che la tattica del governo è quella di concludere le indagini e salvare da possibili ripercussioni le autorità politiche e militari del paese che invece sarebbero coinvolti nel massacro e nel rapimento.

"Fino a quando i media nasconderanno la partecipazione della polizia federale e dell'esercito nel massacro di Iguala, non ci fermeremo” hanno avvertito i manifestanti che giovedì hanno marciato a Città del Messico ma anche in altre città dello Stato.

Come a Cancun, dove 13 manifestanti sono stati arrestati.

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L’Alba Euromediterranea vista dall’America Latina. Se ne discute anche a Cuba

Un modello che produce recessione e crisi ha bisogno di alternative, incluso quel modello europeo ormai in via di liquidazione nella sua versione keynesiana, soppiantato dal dispotismo dell’Unione Europea, dei suoi apparati e dei suoi trattati. La Grecia insegna questo e l’accanimento contro i paesi più deboli – definiti Piigs – mostra che per le aspettative popolari di questi paesi non vi è margine di manovra dentro la Ue. Alternative? Rompere con l’Unione Europea e l’Eurozona, creare una propria area di integrazione economica regionale tra i paesi euromediterranei ed estenderla ai paesi della sponda sud, con una propria moneta sganciata dall’Euro e ragioni di scambio paritarie e solidali. Una alternativa irrealizzabile? Forse, ma credibile. Credibile perché un altro pezzo del mondo lo ha fatto concretamente creando l’Alba (Alleanza Bolivariana delle Americhe), ha stoppato il progetto strategico neoliberale degli Stati Uniti per l’America Latina (l’Afta) e si è dotato di meccanismi propri ed indipendenti dal dollaro Usa. Le tesi fin qui esposte sono state elaborate cinque anni fa da tre studiosi marxisti, Luciano Vasapollo, Rita Martufi e Joaquim Arriola in un libro - “Il risveglio dei maiali” - suscitando interesse e polemiche, discussione e ostracismo. Ma negli ultimi anni, confortato dagli sviluppi della realtà più che dalla indolenza politica e intellettuale della sinistra europea, il libro è stato tradotto in spagnolo e in greco ed ha cominciato ad innescare un confronto più serrato, in Italia ovviamente ma anche in Spagna e in Grecia. Ma l'interesse per questa proposta sta crescendo anche in America Latina.

Nei giorni scorsi, il libro è stato presentato a Cuba, alla Fiera del Libro dell’Avana ma anche nella conferenza internazionale annuale dell’Anec, l’associazione degli economisti che ogni anno riunisce centinaia di studiosi (non solo marxisti) all’Avana. Presentando il libro, Luciano Vasapollo, ha affermato che i paesi del Sud dell’Europa hanno la necessità di creare una associazione simile a quella dell'ALBA per combattere il neoliberalismo
In una intervista a Prensa Latina, Vasapollo ha sostenuto che l'ALBA è un modello al quale si possono ispirare Grecia, Italia, Spagna, Portogallo Irlanda che sono i paesi europei più colpiti dalla crisi internazionale.

Secondo Vasapollo la crisi attuale è sistemica e strutturale al modo di produzione capitalista. La soluzione non è cambiare alcuni elementi nel sistema ma cambiarlo totalmente. Ha ricordato che il crollo del debito sovrano dell'Eurozona è stato innescato in Grecia, con un'ondata di panico che ha portato a diktat di disciplina fiscale da parte dei creditori del debito greco, soprattutto le banche tedesche e francesi.

Da qui la totale condanna della posizione della Troika (Banca Centrale Europea, Commissione europea e Fondo monetario internazionale), che vuole imporre ancora tagli e austerità contro la Grecia a scapito degli standard di vita della popolazione precipitati ad un passo dall’emergenza umanitaria.

Intervenendo alla conferenza annuale dell’Anec, Vasapollo, ha sostenuto che la Germania, paese di punta del polo imperialista europeo, in competizione con gli Stati Uniti per l'egemonia economica globale, ha bisogno di esportare i prodotti nei paesi del Mediterraneo meno sviluppati cercando di avere un rapporto di dipendenza. Da qui la necessità per i paesi Piigs dell’Europa di cercare un’altra strada per il loro sviluppo sociale, una sorta di Alba Euromediterranea che apprenda tutto quello che si può e che le diverse condizioni consentono, dall’esperienza dell’Alba in America Latina. Un'ipotesi questa che ha suscitato un grande interesse tra gli economisti cubani e latinoamericani. Il presidente dell’ANEC, Oscar Luis Hung, ha rilevato l'importanza della conoscenza di questo lavoro in Europa. Tre settimane fa ci si era confrontati approfonditamente su questo in Spagna, in diversi incontri a Barcellona e Madrid, mentre segnali di interesse arrivano sempre più spesso dalla Grecia, dove l’ipotesi di rottura con l’Unione Europea e di creazione di una area regionale alternativa sta trovando conferma nei fatti.

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Lo Stato ha già scelto: Salvini ha bisogno di Renzi, Renzi ha bisogno di Salvini


Le cariche violente, indiscriminate, illegali di stasera a Roma sono il segno di un potere che garantisce le sue opposizioni ideali e spazza via tutto il resto. Salvini, da questo punto di vista, è l’alternativa perfetta al sistema “democratico”. Populista abbastanza per coagulare attorno a sé l’opposizione di centrodestra in questa fase di vuoto di potere, ma privo di quella credibilità necessaria ad esprimere la volontà di una “maggioranza”, ad essere insomma un competitor effettivo al governo “democratico”. Salvini è l’assicurazione sulla vita del governo Renzi, motivo per cui viene e verrà sempre più difeso oltre ogni legalità democratica. La prova l’abbiamo avuta per l’appunto oggi, quando è stato messo in campo un tentativo sicuramente determinato ma in fin dei conti pacifico e dimostrativo di occupare simbolicamente la Piazza del Popolo. Evidentemente, la possibilità di esprimere effettivamente il proprio dissenso non viene prevista dalla Questura romana, che da un lato domani garantirà ai neonazisti di Casapound di manifestare nella stessa piazza dove partirà il corteo dei movimenti, mentre oggi vieta con la violenza agli stessi movimenti di presenziare simbolicamente, e il giorno prima, la piazza scelta per la manifestazione fascio-leghista. La più trita dinamica dei due pesi e delle due misure. Mai nella storia di questo paese ad un’organizzazione neofascista era stata concessa la stessa piazza delle forze democratiche, nello stesso giorno e con solo due ore di scarto, sugellando la direzione politica di una polizia incontrollabile, vero potere politico parallelo a quello ufficiale. Succede oggi, testimoniando la resa di ogni possibile discorso sui diritti e sulla natura “antifascista” della Costituzione e delle istituzioni. Chiacchiere spazzate via dai manganelli di poche ore fa a piazzale Flaminio, dove circa 500 manifestanti del percorso “MaiConSalvini” si erano dati appuntamento. Roma non vuole Salvini, così come non vorrà l’infame Le Pen ad aprile, e questo rifiuto non potrà continuare ad essere gestito solo attraverso l’ordine pubblico, le cariche, mentre dall’altro lato si legittimano le formazioni neofasciste di tutta Europa. Siamo di fronte ad un cambio di paradigma per la storia politica del paese. La legittimazione democratica e antifascista sta crollando sotto i colpi della marginalità di un movimento incapace di assumersi l’onere degli eventi, mentre dall’altro lato il sistema “democratico” legittima le opposizioni reazionarie in quanto funzionali al suo sistema di potere. La storia corre veloce di questi tempi, e quando si sarà riassestata attorno ad un paradigma post-antifascista anche nelle forme, ci ritroveremo più deboli di prima. Tutti quanti, nessuno escluso. Le cariche di stasera non sarebbero state possibili un tempo. Oggi lo sono, con il consenso unanime del quadro parlamentare.

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Sulla Palestina vergognosa sceneggiata alla Camera

Pensiamo che nella storia parlamentare di questo paese – che pure ne ha viste tante – non sia mai accaduto che il governo appoggi due mozioni diverse sullo stesso argomento. Probabilmente la fregola di togliersi dalla scatole e dall’agenda la seccatura palestinese e la richiesta di riconoscimento dello Stato di Palestina, già approvata dall’assemblea plenaria delle Nazioni Unite e da diversi governi europei, ha provocato un pastrocchio senza precedenti. In aula il governo è riuscito ad approvare due diverse mozioni: una presentata dal Pd (sul quale sono convenuti i voti di Sel e del Psi che hanno rinunciato alla propria mozione e francamente non se ne comprende l'utilità), l’altra presentata dagli alleati di governo del Ncd/Sc completamente appiattita sulla posizione israeliana. Anche la mozione del Pd, nei fatti, non riconosce lo Stato Palestinese ma si limita ad invitare al riconoscimento a patto che l’Olp riprenda i colloqui con Israele e costringa Hamas al riconoscimento dello stato israeliano. In pratica un nulla di fatto. La mozione migliore era quella del Movimento Cinque Stelle che però è stata bocciata. Ma le curiosità, se così possiamo definirle, non sono finite qui. L’ambasciata israeliana appena cinque minuti dopo la votazione esprimeva la propria soddisfazione per l’esito del voto parlamentare e per la posizione del governo italiano. “Accogliamo positivamente la scelta del Parlamento italiano di non riconoscere lo Stato palestinese e di aver preferito sostenere il negoziato diretto fra Israele e i palestinesi, sulla base del principio dei due Stati, come giusta via per conseguire la pace” recita un comunicato dell’ambasciata israeliana. Anche l’ambasciata palestinese, in una nota molto ma molto sintetica ringrazia l’Italia. Ma alcune fonti rivelano che da Ramallah, capitale dell’Anp, i giudizi sul voto italiano siano assai meno lusinghieri, ritenendo molto più avanzate le mozioni approvate da paesi come Francia o Gran Bretagna, “Il Presidente Abu Mazen è l’estremo baluardo negoziale, le ha provate tutte prima di rivolgersi alle Nazioni Unite e all’Europa, da mesi Israele lo delegittima in tutti i modi costruendo colonie in barba agli accordi e rendendo la sua azione inefficace”.

La mozione di Pd, Sel, Psi ha ottenuto 300 voti favorevoli, 40 contrari, 59 astenuti e impegna il governo a sostenere la costituzione dello Stato palestinese. La posizione del governo, però, ha subito scatenato la reazione della minoranza del Pd. Stefano Fassina  ha definito "ridicolo" il placet fornito a due documenti  "in contrapposizione".  L’altra mozione, quella del Ncd, Scelta Civica e centristi ha ottenuto 237 sì (tra cui i parlamentari del Pd che avevano votato anche l’altra mozione) 84 no e 64 astenuti, antepone invece la ripresa del dialogo tra israeliani e palestinesi e la fine della violenza al riconoscimento, quale condizione per il riconoscimento dello Stato di Palestina. La mozione del M5S, decisamente quella più coincidente con i diritti dei palestinesi, è stata respinta. Difficile non condividere in questo caso la valutazione del M5S su quanto accaduto in Parlamento: "Abbiamo assistito a un bluff vergognoso da parte del governo, che ha votato due mozioni dal significato e dal valore diametralmente opposto sul riconoscimento dello Stato di Palestina, negando ancora una volta il sacrosanto diritto di esistere ad un popolo che da 67 anni attende giustizia” dicono in una nota i parlamentari del M5S, “Per questo riteniamo deliranti e infondate le soddisfazioni espresse da parte di Pd, Sel e maggioranza. Non c'è stato alcun riconoscimento dello Stato di Palestina e a confermarlo è la stessa nota diffusa in queste ore dall'ambasciata di Israele".

Insomma una sceneggiata che rimuove ogni impegno concreto dell’Italia per far si che possa nascere un legittimo Stato Palestinese. In compenso da Israele fanno sapere che l’Italia si conferma il loro migliore alleato in Europa. Una prova ulteriore di questo servilismo delle autorità italiane verso Tel Aviv è l’enorme padiglione assegnato a Israele al prossimo Expo di Milano. Sarà collocato a fianco di quello italiano, ossia nel cuore dell’esposizione. Una vergogna in più per chi ha ancora un minimo di senso della giustizia e della dignità dei popoli. Una occasione in più per i movimenti di solidarietà con il popolo palestinese per dimostrare che esiste un'altra Italia, migliore del suo governo e del suo parlamento e che attraverso la campagna di Boicottaggio, Disinvestimento e Sanzioni può attuare quello che le istituzioni non intendono fare.

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Senza vergogna, come i peggiori infami.

Monti e Brancaccio sulla Grecia

Radio Anch’io, RAI Radio Uno – 25 febbraio 2015.  L’ex Presidente del Consiglio Mario Monti dichiara che il programma elettorale di Tsipras era irrealistico, e al contempo rinnova la fiducia nella possibilità che le ricette della Troika aiutino la Grecia a risollevarsi dalla crisi. I dati tuttavia rivelano impietosamente che irrealistiche sono proprio quelle ricette, che hanno comportato enormi sacrifici ai greci senza determinare effettivi miglioramenti dei saldi di bilancio pubblico ed estero. Anzi, la distruzione di capacità produttiva alimentata dall’austerity ha fatto sì che oggi la Grecia non riesca a rilanciare l’export nemmeno dopo un crollo dei salari monetari di venti punti percentuali. Interviste a Mario Monti (Università Bocconi), Emiliano Brancaccio (Università del Sannio), Carlo Bastasin (Il Sole 24 Ore). Conduce Giorgio Zanchini.


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27/02/2015

L'incrinatura greca


Il vento di Atene è stato imbrigliato dalla fitta e spietata maglia dei trattati dell’Unione Europea. In molti si augurano che venga disperso, molti altri si augurano che in qualche modo continui a soffiare per non far richiudere nuovamente la lastra di ghiaccio sul futuro delle classi subalterne in Grecia e in Europa.

Dopo la vittoria di Syriza alle elezioni, era sembrato possibile che ci fossero interstizi nei quali infilare le aspettative generate dal risultato di una democratica espressione popolare e da una situazione sociale che presenta aspetti di aperta catastrofe umanitaria. Ma l'Unione Europea e i suoi apparati hanno immediatamente esplicitato che il voto popolare non conta, che contano solo la governance e i rigidi parametri stabiliti dai trattati. E non tanto per gli scostamenti economici che le richieste elleniche potevano causare, quanto per affermare il potere decisionale degli apparati costruiti dalle classi dominanti continentali su tutti i paesi aderenti all'Eurozona.

Nè il voto popolare nè la drammatica situazione sociale della Grecia hanno smosso la gabbia blindata dell’Unione Europea, la quale, al contrario, ha fatto pesare la sua capacità di dissuadere dolorosamente qualsiasi paese aderente ai trattati dal prendere strade divergenti da quelle imposte dalla Troika. Neanche sulla base di un programma riformista, più o meno radicale o intermedio che fosse. Del resto non si può perdere di vista il fatto che se il programma di cambiamento passa attraverso lo strumento elettorale e non l'insurrezione popolare, il programma in qualche modo è “tarato” per questa prospettiva, con forze politicamente orientate su essa e un consenso popolare testato dai risultati elettorali.

Il governo di Syriza si è trovato così davanti a un bivio:

a) Sbattere la porta di Bruxelles e prepararsi a gestire una sorta di “periodo especial” in Grecia senza neanche i soldi per pagare i già immiseriti salari, la devastata sanità e i servizi per una popolazione provata dalla recessione (anche perché il governo ha deciso di non toccare le spese militari e l'immenso patrimonio immobiliare della potente Chiesa Ortodossa). Alcuni paesi hanno affrontato prove altrettanto pesanti, come Cuba, e in condizioni economiche e di isolamento internazionale anche peggiori. Ma Cuba non aveva la stessa moneta dei suoi oppressori, non era chiusa nella gabbia di una struttura sovra/statale, né veniva da una economia di mercato. Inoltre aveva una soggettività politica solida, motivata e sperimentata da mille verifiche, inclusa quella rivoluzionaria. Una situazione simile l'hanno affrontata, anche in quel caso a partire da una situazione di estrema debolezza, altri paesi sudamericani che hanno rotto il meccanismo di integrazione imposto da Washington prima che esso si chiudesse come una catena su tutto il continente. All'Afta caldeggiato dagli Stati Uniti e dalle classi dirigenti dei propri paesi, i popoli di alcuni stati hanno contrapposto l'Alba, svincolandosi dal ricatto del debito e acquisendo autonomia dal punto di vista politico, economico e militare.

b) Rinunciare allo scontro frontale con l’Unione Europea, piegarsi a dolorosi compromessi, prendere il tempo che si riesce a strappare per prepararsi ad una seconda fase del braccio di ferro, cercare nel frattempo di preparare il paese a questo scenario, tentare di trovare nuove fonti di finanziamento internazionale extraeuropee (Russia, Cina, Brics), verificare se in qualche altro paese europeo si affermino forze di governo con orientamenti più simili alla Grecia e più indipendenti dall’osservanza ai diktat della Troika, intervenire sugli aspetti più urgenti dell’emergenza umanitaria che attanaglia la popolazione greca. Forze importanti sia dentro Syriza sia fuori (vedi il Kke e il sindacato Pame) non sembrano condividere questa decisione e premono per uno scenario più simile al primo.

La leadership e il governo di Syriza sembra invece aver scelto questa seconda strada, augurandosi che il tempo lavori per Atene e non contro, e che questo tempo sia sufficiente per estendere il grido della Grecia anche ad altri paesi Pigs, in particolare Spagna, Irlanda e Portogallo dove le forze di sinistra sembrano avere buone possibilità sul piano elettorale. Purtroppo per noi l'Italia, nonostante sia la “I” mancante dall'acrostico Piigs, non sembra ancora poter comparire in questo elenco di aspettative.

E qui veniamo a come la Grecia parli anche a noi e ai nostri problemi. Osservando le valutazioni e i commenti in circolazione rileviamo come prevalga ancora una insostenibile immaturità. Coloro che avevano sperato che il vento di Atene potesse sollevare anche le proprie sorti, magari sul terreno elettorale, oscillano tra l'ennesima delusione e un giustificazionismo che omette sistematicamente dal giudizio ogni elemento oggettivamente negativo. Coloro che avevano sin dall'inizio scommesso sul fallimento politico di Syriza ne ricavano una acritica soddisfazione che non coglie nessuno dei dati oggettivi che possono incidere sullo scenario. Ancora una volta si ragiona sulla fotografia della situazione e non sulle tendenze o i possibili sviluppi.

In questi anni abbiamo sostenuto con pubblicazioni, campagne politiche, iniziative pubbliche che la rottura dell'Unione Europea e con l'Eurozona, non erano una opinione ma una condizione inevitabile per chiunque, in Europa, si candidi a rappresentare un progetto di cambiamento politico con caratteristiche di classe e internazionaliste. L'Unione Europea è oggi “il nemico dell'umanità”, almeno in Europa e nelle aree circostanti, non è riformabile nè condizionabile dall'interno. Questo è un dato di fatto che l'esperienza greca sta confermando pienamente.

In secondo luogo abbiamo sostenuto che nessun paese da solo ha la massa critica sufficiente per perseguire una rottura dell'Unione Europea, anche su un terreno riformista magari avanzato come quello proposto da Syriza.

In terzo luogo abbiamo indicato chiaramente come la rottura non poteva che incubare e magari prodursi nei paesi Pigs (Spagna, Grecia, Portogallo, Irlanda) in quanto anelli deboli della catena imperialista europea e vittime del processo di integrazione e gerarchizzazione interno. E anche qui i dati indicano che è in questi – e non in altri paesi, per ora – che si manifestano possibilità di cambiamenti politici o scostamenti dal dominio della Troika.

In questi anni abbiamo sostenuto che la sfida dell'integrazione regionale, ma declinata come solidale e cooperativa, non è un terreno che appartiene solo alla borghesia. Se un solo paese non ha la forza per produrre una rottura ma può avviarla, un gruppo di paesi che rompe con l'Unione Europea e l'Eurozona e dà vita ad un'area regionale alternativa (una sorta di Alba Euromediterranea), questa rottura non può che passare attraverso lo scontro con la borghesia europea oggi dominante e il conflitto sociale animato dai movimenti e dai sindacati di classe. Si indica quindi una alternativa e ciò riporta finalmente nell'agenda di tutti il tema del cambiamento politico, un tema rimosso da troppo tempo o affrontato in termini del tutto rinunciatari e riformisti.

E' per questi motivi che dobbiamo augurarci che l'incrinatura greca non si chiuda, anche attraverso un forte conflitto di classe in quel paese che spinga in avanti il processo di rottura con l'Unione Europea e la Nato nonostante una parte della leadership di Syriza non sia assolutamente su questa linea. La realtà modifica scelte, comportamenti, posizionamenti e spesso costringe i soggetti in campo a fare cose che solo un mese prima non si erano neanche immaginate possibili.

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La guerra di Piero


Mosul: la cultura in fumo e briciole


“La biblioteca di Mosul mi ha reso scrittore. Era in un posto magnifico negli anni Quaranta e Cinquanta: sulla riva destra del Tigri, presso il ponte Re Ghazi“ racconta l’iracheno Mahmoud Saeed che della narrazione ha fatto una ragione di vita. Accanto all’ultimo scempio operato dai tagliatori di teste dell’Isis, che applicano questa criminale manìa alle stesse statue decapitandole e smembrandole assieme a capolavori millenari del museo cittadino, c’è quello della Biblioteca cittadina di cui il direttore Ghanim al-Tàan calcola un’approssimativa distruzione di circa diecimila volumi e manoscritti antichi. Una perdita che l’Unesco ha già definito inestimabile. La particolarità della biblioteca, seconda in Iraq solo a quella di Baghdad, consisteva nella presenza di migliaia di libri appartenenti alle stesse famiglie benestanti che li depositavano nelle sale di lettura e che potevano essere consultati da chiunque. Su quegli scaffali si rintracciavano testi messi all’indice nel Paese: anche teorie politiche comuniste e socialiste o questioni relative alla liberazione sessuale. Venivano, inoltre, raccolti preziosi manoscritti d’epoca Ottomana. I roghi del materiale “eretico”, relativo a religioni considerate takfir (empie), e altre questioni sgradite, erano iniziati dall’autunno scorso. Approssimativamente si stima che negli ultimi due mesi siano state arse 100.000 copie di libri antichi insostituibili.

I libri, sì sempre loro. I libri di storia c’insegnano che quattro millenni prima di Cristo in quei luoghi definiti poi biblioteche si raccoglievano tavolette d’argilla su cui venivano impresse testimonianze di vita e vicende vissute. Accadeva a Ninive, non lontano da Mosul, dove il re Assurbanipal aveva creato la maggiore biblioteca dell’antichità, dov’era riassunta l’epopea di Gilgamesh di cui va fiero il popolo kurdo che la considera l’alba della propria civiltà. Era quella l’aurora civile del mondo che trovò continuazione in altre popolazioni, oltre i Sumeri. Sebbene nelle antiche società le contraddizioni fossero molte, tutte si chinavano all’arte e a un culto solo parzialmente oscurato dalle religioni. Che spesso ordinavano e imponevano, ma preservavano anche. La conservazione del sapere venne proseguita dal mondo arabo il cui credo islamico non scivolava verso la cieca e meccanicistica follìa con cui il moderno fondamentalismo s’approccia alle opere d’arte considerandole esclusivamente idoli. Da sbriciolare e cancellare come non fossero mai esistiti. Furono i mongoli a disgregare le oltre sessanta biblioteche che la città di Baghdad aveva raggiunto in epoca Abbasside, annegando manoscritti pregiatissimi nella acque del fiume Tigri. Certo gli schiavi scalpellini messi all’opera dal rancoroso Thutmose III e dai successori, cancellarono per anni la presenza della mitica Hatshepsut, la regina egizia diventata faraone grazie ai buoni uffici del clero tebano. Ma queste distruzioni rientravano nelle lotte per la testimonianza d’un potere personalizzato, come sempre il potere è stato e come continua a essere.

L’idea che il Califfo Al-Baghdadi e suoi seguaci mostrano dell’autorità sembra basata sulla frantumazione dell’altrui potere, ossessionati dalla sostanza che idee, fedi, credenze differenti dalla propria riescano a far emergere. Timorosi del confronto di culture, incapaci di stabilire rapporti o affrontare conflitti anche oppositivi senza disintegrare il nemico. Intolleranti verso la diversità degli altri che dev’essere annullata fino a sparire. Assolutisti nell’unicità del modello proposto. Per questo frantumano a bruciano, statue, uomini, libri. Dissolvono vestigia, come hanno fatto e fanno anche i guerrafondai d’Occidente. In quella culla del genere umano che sono le pianure fra Tigri ed Eufrate, nel tragico aprile 2003 l’umanità aveva già perso il museo archeologico e la biblioteca di Baghdad. Tesori inestimabili, un milione e mezzo di libri, opere d’arte sumera, assiro-babilonese finiti sotto bombe e razzie di saccheggi. Il dolore delle anime sensibili allo scempio urlò da ogni parte del globo per limitare i danni, raccogliere e mettere a sicuro i reperti che si potevano salvare. Non fu fatto. La guerra e l’abbandono sono andate a braccetto, incuria e furti sono proseguiti per anni, abbandonando quel ch’era distrutto, portando sul mercato nero pezzi trafugati. L’Iraqi Freedom statunitense ha sostituito la satrapìa di Saddam Hussein con un caos socio-politico che portava morte nel corpo e nelle menti. L’attuale panorama, aggiunge sangue e angoscia ed è difficile preservarsi con la saggezza che faceva a dire a Marguerite Yourcenar: “Costruire biblioteche è come edificare granai, per ammassare riserve contro un possibile inverno dello spirito”.

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Responsabilità civile dei magistrati e funzionalizzazione del “sistema giustizia”

Tre giorni fa è stato approvato anche dalla Camera il testo della nuova legge sulla responsabilità civile dei magistrati. Le novità introdotte, molto brevemente, sono le seguenti:

- viene soppresso il filtro del controllo di ammissibilità e non manifesta infondatezza della domanda di risarcimento;

- la responsabilità rimane indiretta (cioè il cittadino ricorre contro lo Stato), ma viene introdotto l'obbligo di rivalsa nel caso di dolo o negligenza inescusabile, ed aumenta la soglia della rivalsa (fino a metà dello stipendio annuo, lo stipendio nella sua interezza in caso di dolo);

- vengono ampliati i casi ricompresi nella fattispecie della colpa grave (includendovi anche il travisamento del fatto o delle prove);

- la clausola di salvaguardia, per cui il magistrato non è chiamato a rispondere dell'attività di interpretazione della legge o delle prove, non può essere applicata ai casi di dolo, colpa grave e violazione manifesta del diritto.

Il tema, estremamente sensibile, ha immediatamente suscitato reazioni contrastanti. Il ministro della giustizia ha dichiarato che ora "la giustizia sarà meno ingiusta" (la frase, in bilico tra l'ossimoro e la litote, fa venire i brividi); l'Anm, Magistratura Indipendente e Magistratura Democratica hanno invece lamentato a gran voce il valore politico della legge e la perdita di autonomia del potere giudiziale.

Le polemiche e il dibattito che sono seguiti all'approvazione del testo non colgono nel segno, poiché vogliono interpretare la legge nel solco di quel "conflitto" ventennale tra magistratura e potere esecutivo (Berlusconi e simili) che sembra, purtroppo, non abbandonare mai l'analisi politica e che impedisce di comprendere il quadro generale.

Partiamo dalla fine, onde evitare possibili fraintendimenti: la legge sulla responsabilità civile dei magistrati riguarda un conflitto tutto interno alla classe dominante, una stabilizzazione degli assetti di potere e una funzionalizzazione della macchina giudiziaria alle esigenze del sistema economico (sia delle imprese italiane, sia di quelle straniere che vengono ad investire in Italia). Lo specifichiamo subito non per sminuire l'importanza della questione, come se non ci riguardasse, ma per evitare che si assuma un atteggiamento da tifosi per una delle due parti, o che si creda di poter ravvisare un'istanza di classe da uno dei lati dei “contendenti”, pensando che da una parte si trovi la “giustizia” equa ed attenta alle esigenze di tutti i cittadini, e dall'altra invece una “giustizia” iniqua e   rispondente agli interessi di pochi (siano questi, a seconda della fazione scelta, i magistrati stessi o le parti processuali più forti).

Prima di proporre la nostra analisi, servono però due parole di commento alla legge e al dibattito che ne è seguito.

Innanzitutto, tale legge è ritenuta necessaria poiché, di tutti i ricorsi proposti in base alla precedente legge, meno di una decina avevano portato ad un risarcimento per colui che si riteneva danneggiato. Di per sé, in un sistema giudiziario che funzioni adeguatamente, questo non dovrebbe sembrare sorprendente (specie se si considera che l'errore del giudice deve essere macroscopico per essere sanzionato), ma dovrebbe essere reputato un segno di affidabilità del sistema. Pensare che vi possano essere molti ricorsi ben fondati per casi di dolo o colpa grave del magistrato dovrebbe invece condurre chiunque a chiedersi il perché di così tanti errori, e a cercare in primis un modo per correggere tali errori, oltre che a sanzionare i giudici negligenti.

Purtroppo pensiamo che chiunque abbia avuto la sventura, per le più svariate ragioni, di frequentare le aule dei tribunali possa condividere l'idea che i ricorsi accolti siano decisamente troppo pochi. Il punto, su cui torneremo più avanti, dovrebbe portare a cercare una soluzione per la non eccelsa qualità del sistema giudiziario, ancor prima di pensare al possibile risarcimento per il danno subito.

Inoltre sottolineiamo che il successivo ricorso deve essere valutato da altri magistrati: dopo dieci anni di processo e una sentenza inficiata da dolo o colpa grave del magistrato, la parte dovrebbe proporre un altro ricorso davanti ad un altro magistrato affinché quest'ultimo sanzioni l'errore del precedente magistrato?!? (ripetizioni volontarie) Sembra un incubo kafkiano...

In secondo luogo si paventa che la nuova legge mini l'autonomia dei magistrati a favore delle parti processuali più forti. La critica coglie senz'altro nel segno perché l'ulteriore ricorso per il risarcimento del danno da “malagiustizia” può essere intentato, dati i costi processuali, solo da chi  abbia le risorse necessarie; il fatto che, generalmente, questo possa essere proposto solo dalla parte più forte influenzerà sicuramente il giudice. Sul magistrato che vorrà prendere decisioni o esercitare azioni penali “scomode” penderà sempre la spada di Damocle del possibile ricorso. Peraltro, con la solita deplorevole tecnica legislativa italiana, non è assolutamente chiaro cosa ammonterà a travisamento dei fatti o delle prove, rendendo i confini della responsabilità quanto mai incerti.

Dall'altro lato, tuttavia, l'assenza di responsabilità civile dei magistrati non è mai stata garanzia di indipendenza e autonomia del sistema giudiziario dalle influenze delle parti processuali più forti. Sabelli (Anm) ha affermato che la legge “è una strada pericolosa verso una giustizia di classe”; se la legge di sicuro rischia di accentuare questo carattere, noi chiediamo: quando mai la giustizia non è stata di classe? Oppure marxianamente: come può la sovrastruttura non essere di classe?

Fatte dunque le dovute premesse, proviamo a proporre un'analisi differente.

A nostro avviso la legge non può essere letta come l'atto di uno scontro tra due fazioni che, avvalendosi dei propri poteri, si fanno reciproci dispetti e sgarbi, ma deve essere interpretata all'interno del processo di riforme del “sistema giustizia” in atto ormai da molti anni.

È necessario constatare che il sistema, così come è ora, non funziona. Non funziona poiché i processi durano periodi di tempo spropositati (e questo è uno dei principali fattori che frena gli investimenti in Italia secondo molti analisti), poiché in un periodo di tagli ai bilanci pubblici la macchina giudiziaria è troppo costosa (gli stipendi dei magistrati sono altissimi), poiché non è funzionale alle esigenze che gli si vorrebbero imporre, ossia una “giustizia” rapida e di qualità per le imprese e gli investimenti.

Se si volesse effettuare una riforma della “giustizia” nel solco tracciato dalla costituzione, ossia una “giustizia” autonoma, rapida, equa, accessibile a tutti i cittadini in condizioni di parità, servirebbe un aumento della spesa pubblica enorme (non certo le ridicole e incostituzionali riforme che di anno in anno vengono proposte per il processo civile).

Il sistema attuale non corrisponde né a quest'ultimo, né ad una “giustizia” rapida e funzionale alle imprese, è un sistema ibrido che non accontenta nessuno (tranne che nel “settore repressivo”). Per dare un'idea della disfunzionalità della macchina “giustizia” basti dire che l'Italia riceve ogni anno moltissime condanne dalla Corte Europea dei Diritti dell'Uomo a causa del mancato rispetto dei diritti legati alla sfera per così dire “processuale”.

Si aggiunga che la differenziazione tra ius divitum (ossia il diritto praticato dai collegi arbitrali, molto costosi, ma veloci, competenti ed efficaci) e ius pauperum (il diritto dei tribunali, meno costoso, ma estremamente lento e spesso carente delle competenze adeguate), già intravista da Galgano più di dieci anni fa, non si è ancora pienamente compiuta in Italia, sia perché moltissime piccole e medie imprese non hanno enormi risorse da investire nella gestione dei propri affari legali, sia perché i lodi arbitrali presentano comunque il problema dell'esecuzione, non sempre agevole.

Il processo che è in corso da anni, che sta portando allo stravolgimento dei principi costituzionali teoricamente alla base del sistema giudiziario, tenta (malamente e con scarsissimo successo) di risolvere tutti questi problemi. Stiamo assistendo infatti ad un innalzamento spropositato delle spese processuali, specie nel settore amministrativo (ora ricorrere contro un provvedimento della pubblica amministrazione è proibitivo, e le spese per i ricorsi possono essere affrontate quasi esclusivamente dalle imprese nel contesto delle gare d'appalto), si limita il diritto di appello contro le sentenze di primo grado, si rendono obbligatorie varie forme di risoluzione alternativa delle controversie; in linea generale si comprime la possibilità dei cittadini di far valere un proprio diritto in sede giurisdizionale. Ciò che si mira d'ottenere, sulla linea del modello anglosassone, è una diminuzione drastica dei processi (sperando che dunque si accorcino pure i tempi), facendo sì che sopravvivano le uniche controversie che valga la pena di decidere, ossia quelle legate alla sfera dell'imprenditoria.

Come si inserisce in questa cornice la nuova legge sulla responsabilità civile dei magistrati? Essa ha, per così dire, un effetto “disciplinare”. Innanzitutto mira a ridurre l'indipendenza e il consenso politico che la magistratura si è arrogata/ha ricevuto nel corso degli ultimi anni, quando si è auto-incaricata o un legislatore incapace e pauroso dell'opinione pubblica le ha devoluto la decisione di questioni politiche. In secondo luogo ha l'effetto suaccennato di garanzia per la parte forte del processo, nelle controversie che vedano un grande squilibrio tra le parti. Infine, insieme ad altri piccoli provvedimenti (come il prepensionamento dei magistrati o la nomina di Tesauro, figura di spicco nel campo del diritto dell'UE, a presidente della Corte Costituzionale) mira a decostruire il   comune quadro dei principi costituzionali all'interno del quale si sono formati molti magistrati (al riguardo ricordiamo che, in un periodo di veloce dismissione della Carta nata dalla Resistenza, l'opposizione più forte a tale processo, all'interno del quadro istituzionale, è stata probabilmente praticata dalla Corte Costituzionale stessa).

Tassello dopo tassello il sistema “giustizia” viene mutato e funzionalizzato ancora di più per le esigenze della classe dominante.

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Libia. La Nato esclude intervento militare. L'Unione Europea pensa a un “piano B”

“Al momento un intervento militare della Nato in Libia non e' in agenda”.

E' quanto ha assicurato il Segretario generale della Nato uscente, Jens Stoltenberg, che ieri ha incontrato a Roma la presidente della Camera, Laura Boldrini.

“Si tratta piuttosto - ha spiegato - di sostenere gli sforzi di mediazione attualmente in atto da parte delle Nazioni Unite e del rappresentante speciale Leon. Gli interventi militari - come quello svolto dalla Nato in Libia nel 2011 su mandato delle Nazioni Unite - possono avere effetti limitati”. Per Stoltenberg, riferiscono le agenzie è “indispensabile fare seguire a tali interventi un'azione di ricomposizione politica che, nel caso della Libia, non è stata portata avanti dalla comunità internazionale con sufficiente energia”.

La situazione in Libia sarà il primo punto all'ordine del giorno dell'incontro informale dei ministri degli Esteri dell'Unione Europea in programma per il 6 marzo a Riga, in Lettonia. L'incontro serve a valutare se l'ultimo tentativo dell'inviato Onu Bernardino Leon di portare a un tavolo le diverse milizie libiche avrà ottenuto qualche risultato. Sulla base di questo si decideranno le prossime iniziative europee sulla Libia.

Alcune fonti riferiscono però che esisterebbe anche un "piano B" dell'Unione Europea nel caso che questo ultimo tentativo non abbia successo. A Riga i ministri degli Esteri Ue imposteranno la politica europea sulla Libia basandosi sull'esito degli sforzi diplomatici dei prossimi giorni. Il piano europeo prevede di intervenire sulla "cassa", ossia la Banca Centrale Libica che riscuote i proventi della vendita del petrolio libico sia per il governo di Tobruk sia per il governo parallelo insediatosi a Tripoli.

Eventuali sanzioni finanziarie su questo tasto potrebbe essere la strada con cui l'Unione Europea intende costringere almeno i due governi in conflitto tra loro a trovare una mediazione. Nella settimana successiva sono in programma a Bruxelles un Consiglio Esteri e un vertice dei capi di Stato e di governo, e in tutte e due le riunioni risulta tra le priorità la discussione sulla situazione in Libia.

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Abbiate fiducia. E' un ordine!

Contrordine, italiani! Ora dovete avere fiducia, la crisi sta finendo, il paese ha cambiato verso, anzi, abbiamo fatto cambiare verso anche all'Europa...

Vien da sorridere a vedere anziani editorialisti nei panni del renzista giovanilista, ottimista a tutti i costi. Eppure più d'uno, dopo la pubblicazione dei dati Istat di ieri, ha fatto propria la retorica sbrasona e ideologica del premier: "il peggio è alle nostre spalle", "i consumatori intravedono la luce in fondo al tunnel" e via sviolinando.

Partiamo dalla realtà. Cosa di cono i dati Istat? Due cose molto diverse tra loro:
a) i consumi delle famiglie sono scesi nel 2014 per il quarto anno consecutivo, dell'1,2% (ma sarà difficile che ne troviate notizia, almeno nei titoli dei giornali di oggi);
b) gli indici della "fiducia" sono in risalita, sia sul fronte dei consumatori (110,9) sia su quello delle imprese (94,9).

Due osservazioni preliminari: la "fiducia delle imprese" resta ben sotto i 100 punti (il livello del 2005, anno di riferimento), e appare assai più contenuta di quella dei "consumatori". C'è da capirlo, del resto. Le prime fanno i conti con fatturato e ordinativi, guardano al futuro senza illusioni, ma con avidità. La rilevazione tra i consumatori è assai più aleatori, perché le risposte date dalle persone prese a campione sono inevitabilmente orientate - in parte - dalle proprie condizioni di vita e anche dal "clima" costruito dai mezzi di informazione. Senza nulla togliere alla serietà delle rilevazioni Istat, dunque, è proprio l'indice in quanto tale a essere costitutivamente "volatile".

I consumi, invece, sono dati a consuntivo, cose già accadute, incorreggibili. La differenza è alquanto grande.

Dopo di che, qualche notizia "ottimistica" si può anche trovare. Ma non viene dalle dinamiche interne a questo paese. La Germania, nonostante tutto, è "costretta" a fa crescere i salari (la domanda di forza lavoro è salita del 14% in un anno, mentre la disoccupazione è ferma al 6,5%, poco sopra il limite fisiologico). I metalmeccanici, per esempio, hanno firmato un contratto con aumenti del 3,4%; che in un periodo di moderata deflazione significa circa il 3.5% di potere d'acquisto in più.

La previsione facile facile è di un aumento dei consumi tedeschi, che dovrebbe logicamente tradursi in maggiori importazioni di merci da altri partner europei. Un po' di fiato anche per le economie dei Piigs, insomma, comunque costrette alla stretta salariale interna per favorire un modello export oriented.

La stessa decisione della Commissione europea - far slittare ad altri anni la vigenza del "fiscal compact", altrimenti l'Italia sarebbe crollata in pochi mesi ai livelli greci - contribuisce ad "addolcire" le pillole amarissime che il governo Renzi sta infilando a forza nella gola di un modo del lavoro dipendente mai così catatonico.

Mettiamoci anche il quantitative easing della Bce, che muoverà i primi passi sui mercati la prossima settimana, e abbiamo un quadro esterno meno depressivo. Non è detto che il soldi regalati alle banche in cambio di titoli di stato finiranno in percentuale significativa in prestiti alle imprese; né che le imprese stesse chiederanno prestiti per fare nuovi investimenti produttivi. Ma è un vincolo negativo in meno, certamente. Così come il calo dello spread sotto i 100 punti significa, per lo stato italiano, meno miliardi da sborsare per interessi sul debito pubblico.

C'è da aver fiducia? Diciamo che "driver" per la crescita, o "locomotive", non se ne vedono. Né come settori produttivi, né come aree geopolitiche. Anzi, i segnali che arrivano dagli Stati Uniti - dove la Federal Reserve sembra sul punto di far ripartire al rialzo i tassi di interesse, ancora una volta in controtendenza rispetto all'Europa - ripropongono scenari meno lineari.

E quindi, su cosa pretendete di sollevare "speranze"?

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Rai-Set. Renzi senza più la maschera


Cinquant'anni fa, nel manuale del perfetto golpista, al primo punto c'era la presa del palazzo della televisione. Una volta riuscita quella, il paese era conquistabile facilmente giostrando le truppe militari sul terreno e contando sull'assenza di informazioni "neutre", che costringeva gli oppositori a muoversi a casaccio.

Cinquant'anni dopo, gli eventuali oppositori si muovono a casaccio per decisione propria (evitateci di dover fare l'elenco delle stronzate che albergano nelle teste della sinistra radicale e/o antagonista italiana...), ma i golpisti procedono con l'identico copione. Solo che ora le televisioni sono molte, anche se quelle principali fanno capo a due soli gruppi - la Rai, di proprietà pubblica, e Mediaset berlusconiana -, e quindi è quasi impossibile bloccare contemporaneamente tutte le redazioni in grado di diffondere notizie "dirizzanti" rispetto alle veline di regime.

L'obiettivo diventa dunque il controllo della catena dei ripetitori attraverso cui viaggiano i segnali. Anche in questo caso le catene sono due - RayWay e EiTower, che fanno capo sempre ai due gruppi prinicipali - e l'idea berlusconiana è semplice fino alla banalità: mi compro l'altra e le fondo, in modo da avere il monopolio. Poi, controllando l'autostrada del segnale, faccio gli affari miei (impedisco ai concorrenti di competere sul piano degli affari, creo un regime vero sul piano politico futuro, a chiunque tocchi la governance autoritaria di questo paese).

Lo pseudo presidente del consiglio, tal Matteo Renzi da Pontassieve, stavolta ha fatto vedere in modo lampante di essere il complice principale del Caimano, o addirittura una sua creatura messa a capeggiare il campo teoricamente opposto.

“Dovete considerare le operazioni di mercato per quelle che sono: non operazioni politiche, ma di mercato. Per questo serve la libertà di chi è sul mercato e il rispetto delle regole. Il governo ha messo delle regole su Rai Way e non intende modificarle. E sono le regole che riguardano il 51%. Punto. Per me la discussione è finita qui”.

Una menzogna pura e semplice, nascosta dietro una presuntissima "neutralità". Da quando in qua il controllo delle telecomunicazioni è una "pura questione di mercato"? In qualsiasi paese, sotto qualsiasi regime politico, il monopolio in questo settore è dirimente proprio sul piano politico. O c'è un regime in senso stretto (che può essere persino progressista o rivoluzionario), per cui controllo delle reti e controllo dell'informazione vanno a braccetto sotto la proprietà pubblica; oppure c'è una separazione netta tra controllo pubblico del "monopolio naturale" (la rete dei ripetitori) e creazione dei contenuti (ogni soggetto privato li diffonde su quella rete pagando un affitto). In nessun luogo, però, il monopolio delle telecomunicazioni è lasciato a un privato. Per ovvi motivi commerciali (impedisce la concorrenza) e politici (un "regime privato" è intollerabile per i capitalisti come "classe").

Stabilito che il premier anche questa volta ha mentito, resta da valutare i dettagli. Massimo Mucchetti, deputato Pd ma soprattutto ex giornalista economico di assoluto valore, ricostruisce con poche parole perché quel "limite del 51%" sia una foglia di fico. In primo luogo perché significa accettare una "minoranza di blocco" con pari forza, al 49%, tale da impedire qualsiasi decisione strategica possa danneggiarla anche involontariamente; insomma, una "coabitazione condominiale" perenne tra soggetti che dovrebbero invece competere fra loro. In secondo luogo perché una decisione sul mantenimento o meno di quel limite sarebbe sempre nella disponibilità di qualunque governo futuro, anche di un eventuale nuovo Berlusconi o apparentati (Salvini, per esempio). Impossibile, dunque, che chi ha deciso di "scorporare" la rete dei ripetitori in una società per azioni, quotata in borsa, non sapesse che la "privatizzazione integrale" era una possibilità tutt'altro che teorica.

Un passaggio, insomma, che getta un'ombra nera sul "decreto" minacciato dallo stesso Renzi per "riformare" i criteri di governance della Rai. E che sembra in qualche misura anticipato dalla decisione dell'attuale consiglio di amministrazione di viale Mazzini: ridurre le testate giornalistiche interne da sei a due, "per risparmiare". A nessuno sfugge che la pluralità di testate interna alla Rai è un'eredità dell'antico "consociativismo", con tanto di lottizzazione partitica. Ma, appunto, la riduzione a due significa esplicitamente anche la riduzione della molteplicità di voci a due soltanto.

Un "piano" inclinato che nessuno sembra in grado di - o interessato a - contrastare. Neanche i grillini, ipnotizzati con lo straccio del "taglio agli sprechi". E' così che i golpisti avanzano...

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Cipro apre i suoi porti alla Marina Russa. Ue e Nato in allarme

La Russia ha firmato un accordo con Cipro per dare accesso ai porti ciprioti alla marina russa e sta discutendo la possibilità di appoggio su una base aerea a Cipro, formalmente per le “missioni di soccorso umanitario”. Il leader del Cremlino Vladimir Putin ha stretto l'accordo dopo i colloqui con il presidente cipriota Nikos Anastasiades, dando non poche preoccupazioni alla Nato impegnata in un braccio di ferro senza precedenti con Mosca sulla questione Ucraina e non solo.

Il leader russo ha detto che altri paesi non devono "preoccuparsi" e che l'uso principale del porto sarà per la lotta al terrorismo e anti-pirateria. Sbeffeggiando, coscientemente o meno poco importa, le argomentazioni di copertura per le proprie missioni militari all’estero da sempre utilizzate dalle potenze occidentali.

Ma l'isola di Cipro, nella sua parte greca (l’altra è occupata dalla Turchia), ospita già alcune strategiche basi militari britanniche e Londra ha annunciato che insieme agli Stati Uniti manderà presto propri consiglieri militari in Ucraina per contribuire all’addestramento e alla formazione delle forze armate ucraine.

Se è vero come dice qualcuno che Cipro rappresenta "un'enorme portaerei nel Mediterraneo", continua a sollevare molti punti interrogativi l'accordo di cooperazione militare russo-cipriota. Un accordo verbale era stato raggiunto oltre un anno fa, prima che il golpe filoccidentale a Kiev facesse esplodere la crisi ucraina. Ed era stato un dossier portato avanti dal ministro della difesa Sergey Shoigu con grande caparbietà. Una "scommessa rischiosa" l'aveva definita la stampa occidentale. E gli analisti della NATO già esprimevano preoccupazione per un accordo che ancora non è stato firmato.

Nonostante il fatto che tale accordo preveda per l'Aeronautica e la Marina russa delle possibilità molto limitate, alcuni analisti lo hanno già giudicato come un esempio di un inedito e originale tipo di "soft power" da parte di Mosca. Il tutto in un contesto politico molto confuso, con legami tra Atene, Nicosia e Mosca - ma anche lungo un asse più lungo fino all'Egitto - che allarmano Ue e Stati Uniti. All’inizio di febbraio infatti il capo del Cremlino è volato al Cairo per incontrare il generale al Sisi, con il quale ha stretto numerosi accordi commerciali e prefigurato la creazione di una zona comune di libero scambio. Inoltre Mosca costruirà una centrale nucleare finalizzata alla produzione di energia elettrica, l’unica dell’intero continente africano dopo quelle esistenti in Sud Africa.

Unite dalla fede ortodossa, da tradizionali solidi legami diplomatici e dagli anni '90 da crescenti interessi finanziari russi sull'isola, la Russia e la Repubblica di Cipro sono state associate da partenariati stabili nella sfera della diplomazia, in quella dell'economia, e della cooperazione tecnico-militare (MTC). Nel 1992, Cipro ha riconosciuto la Russia come successore dell'Urss, e quattro anni più tardi i due Paesi hanno firmato il loro primo accordo in materia di cooperazione tecnico-militare.

La Russia ha fornito a Cipro elicotteri da trasporto e d'attacco, i veicoli corazzati da combattimento BMP-3, carri armati T-80, sistemi di artiglieria reattivi Grad, e alcuni sistemi di difesa aerea, tra cui anche il famoso S-300. La crisi finanziaria cipriota del 2012-2013 è costata cara ai correntisti e agli imprenditori russi che avevano scelto Nicosia per i loro affari e i loro depositi all'estero. Evidentemente Mosca ha deciso di fare un passo in più per evitare un bis in futuro e nel frattempo ha concesso a Nicosia un prestito di circa 2.5 miliardi di dollari ad un tasso di interesse assai più favorevole rispetto a quelli concessi alla Grecia dagli strozzini dell’Unione Europea e del Fondo Monetario Internazionale.

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Viviamo in anni di tutti contro tutti, di alleanze e accordi geopolitici a geometria fin troppo variabile, al punto che spesso diventa arduo anche solo comprendere chi sta con chi e in quale misura rispetto agli altri partner che insegue.
Di sicuro c'è che un ring così mutevole e aperto ad ogni competizione/competitore è potenzialmente un campo minato su cui tutti rischiano di saltare ma con una dirigenza di classe di spessore potrebbe rivelarsi anche una grande opportunità (che mi auguro il nuovo governo greco sia in grado di cogliere).

La resa del più forte sindacato d’Europa. Per questo sabato si va in piazza

Il 28 febbraio a Milano ci sarà la prima manifestazione sindacale contro il Jobsact dal varo dei decreti attuativi, fatta apposta nella città ove si sperimenta quella schiavitù a tempo determinato che è il lavoro gratis per Expo. Nello stesso giorno a Roma scenderà in piazza il popolo antifascista e antirazzista per contestare il lepenismo in salsa leghista e Casapound. Una settimana fa a Torino decine di migliaia di persone hanno sfidato un tempo inclemente per ribadire il proprio sostegno al movimento No Tav. In tutti questi appuntamenti la Cgil era ed è assente, a parte la sua piccola corrente di opposizione interna. È un dato costante di tanti momenti di lotta di questi mesi: la Cgil non vi partecipa. Dopo lo sciopero generale del 12 dicembre, che aveva suscitato una mobilitazione persino inaspettata nel mondo del lavoro, il gruppo dirigente del principale sindacato italiano è ripiombato nella passività neghittosa che ne aveva caratterizzato tutti i comportamenti precedenti. Così il mondo del lavoro italiano continua a precipitare di gradino in gradino, in una caduta che sembra inarrestabile e che ci ha fatto diventare il paese portato ad esempio nella distruzione dei diritti. In poco tempo abbiamo avuto il sistema pensionistico più feroce del continente, con l'età pensionabile più elevata. La nostra si avvicina sempre più ai 70 anni, mentre l'austera Germania la fa scendere a 63 e la Francia la mantiene a 60. Mentre consolidiamo 6 milioni di disoccupati, l'orario di chi un lavoro ancora ce l'ha cresce inesorabilmente. Lavoriamo quasi 200 ore all'anno più dei tedeschi e 100 in più dei francesi. I salari italiani hanno avuto la dinamica peggiore del continente, cioè son calati di più come reale potere d'acquisto e a volte anche in valori assoluti, se si fa eccezione della Grecia. Che per altro se dovesse davvero definire per legge il salario minimo a 750 euro mensili, sopravanzerebbe molte regioni del nostro Mezzogiorno. Infine con il Jobsact abbiamo raggiunto la meta di avere il mercato del lavoro più flessibile del continente. La libertà di licenziamento, la precarizzazione diffusa ed incentivata, il potere di degradare il lavoratore e di controllarlo a distanza, l'appalto selvaggio e le cooperative di sfruttamento, l'elenco degli atti di ferocia  contro il lavoro autorizzati qui da noi è interminabile. I provvedimenti di Renzi chiudono un percorso durato decenni, che alla fine ha portato il dipendente alla completa mercè dell'impresa. Come ha detto Crozza in TV, i padroni non erano così felici dall'epoca di Kunta Kinte. La nostra caduta è stata la più rovinosa del continente, siamo diventati un esempio negativo per i diritti e le lotte sociali, siamo diventati il paese crumiro d'Europa.

La Cgil non pare intenzionata ad interrogarsi sulle ragioni di questa disfatta, ma soprattutto neppure a riconoscerla e a reagire ad essa. Il sindacato considerato più forte d'Europa vive in una ritirata permanente che non può che condurre alla resa. Eppure non è che consenta con Renzi, come a volte invece fa la Cisl. Neppure con il primo ispiratore delle politiche del lavoro del presidente del consiglio, neppure con Sergio Marchionne, a differenza della Cisl che invece lo applaude,  la Cgil va d'accordo. Tuttavia il dissenso Cgil appare sempre più impotente.

Per Renzi una simile opposizione è la migliore augurabile. La Cgil dice no ai suoi provvedimenti, ne lamenta tutto il male possibile, ma poi non li contrasta davvero. È il modo migliore per dimostrare che il sindacato non conta nulla e fa solo proteste di facciata per ragioni d'immagine. Renzi ci va a nozze.

La questione non è solo quella della quantità e continuità delle lotte, che pure esiste. Il problema di fondo è che il linguaggio ed i comportamenti concreti dei dirigenti della Cgil non sono di opposizione. Pensiamo allo sciopero di soli cinque lavoratori tra i comandati per lo straordinario a Pomigliano. Succedeva anche negli anni '50 che gli scioperi in Fiat fallissero clamorosamente. Ma la Cgil di allora non aveva difficoltà a dire che quei lavoratori non erano liberi di decidere perché in Fiat c'era il fascismo. Pochi giorni fa un servizio del Tg7, evidentemente sfuggito alle maglie della censura di regime, presentava una immagine agghiacciante della condizione dei lavoratori di Pomigliano. Le telecamere alle sei del mattino inseguivano operai a cui l'intervistatore chiedeva un parere sugli straordinari. Domanda cautissima, non si chiedeva né un giudizio su Marchionne, né altro di compromettente. Eppure  fuggivano tutti, come sudditi in uno stato di polizia. Nei luoghi di lavoro, non solo in Fiat, dilaga il fascismo aziendale, che con il Jobsact viene istituzionalizzato, questo la Cgil dovrebbe denunciare con tutta la forza che ha. E invece non lo fa.

Il gruppo dirigente della Cgil sostiene che il governo agisce sotto dettatura della Confindustria ed è vero, ma poi non si scontra per niente con gli autori di quel dettato. Anzi con gli industriali, Cisl e Uil continua a voler applicare l'accordo incostituzionale  del 10 gennaio 2014, che sancisce che chi non firma accordi non può neppure partecipare alle elezioni delle rappresentanze aziendali.  Alla Telecom Cgil Cisl Uil han firmato un accordo che applicava il Jobsact prima ancora dei decreti attuativi e per fortuna i dipendenti hanno espresso un clamoroso no. L' accordo scandaloso che autorizza il lavoro gratis per quella notoria impresa di beneficenza che è Expo, ha la firma di Cgil Cisl Uil. Di fronte ad un presidente del consiglio che minaccia i lavoratori della Scala perché vogliono festeggiare il Primo Maggio, le flebili parole dei dirigenti della Cgil son state più rivolte ad auspicare una sottomissione dei lavoratori che un rifiuto della prepotenza reazionaria del capo del governo.

Potremmo andare avanti a lungo nel rimarcare le contraddizioni tra i proclami ufficiali ed i comportamenti reali dei gruppi dirigenti della Cgil. Ma se veniamo alla sintesi troviamo che queste  contraddizioni hanno due radici di fondo. Una è la complicità con il sistema delle imprese, che non a caso ha fatto sì che quando la FIOM si mise di traverso in Fiat, apparisse come qualcosa di diverso dalla organizzazione di cui fa parte. La seconda, anche più forte, è che questa Cgil non può rompere con il PD neppure se il suo segretario presidente la prende ogni giorno a pesci in faccia. Il corpo della struttura e degli apparati della Cgil soffre e persino odia Renzi, ma nella condizione di spirito e di sostanziale impotenza della minoranza PD. E nelle amministrazioni locali, negli enti pubblici, nelle cooperative, ovunque la Cgil potrebbe, volendo, far vedere i sorci verdi al renzismo, si continua a collaborare come sempre. Rompere davvero con la Confindustria che festeggia il Jobsact, fare la stessa cosa con il PD renziano ed il suo sistema di potere, sono le due condizioni indispensabili per costruire una opposizione efficace alla politica che sta distruggendo i diritti del lavoro. Ma sono anche le uniche condizioni a cui l'attuale struttura della Cgil  non vuole e non può sottostare. Così dilaniata tra il voler contrastare Renzi e l'incapacità di farlo davvero, la Cgil archivia lo sciopero generale e torna all'abulia confusa che oramai la possiede. Per il mondo del lavoro italiano questo stato passivo dei grandi sindacati è parte del disastro, è un vuoto che non si riempie con altro, per cui non ci sono facili soluzioni. Intanto tocca a tutte le forze che oggi manifestano senza e nonostante la Cgil, tocca a queste forze il compito di costruire una vera opposizione a Renzi e alle sue politiche contro i diritti del  lavoro e la democrazia costituzionale.

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