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29/02/2016

Tangerine


Genova - Come si è stinto (ed estinto) l'arancione del sindaco Doria

Ancora la grande stampa nazionale non si è accorta del “caso politico” Genova. La Liguria ha fatto notizia, è diventata emblematica lo scorso anno quando primarie spurie, provocando profonde fratture nel PD e l’uscita dal partito di Sergio Cofferati, finirono col portare nelle successive elezioni regionali al rovesciamento di un quadro politico che sembrava consolidato attorno alla figura del dominus, il governatore Claudio Burlando, alle cui spalle peraltro reggeva l’entente cordiale con l’altro Claudio, l’ex-ministro forzista Scaiola.

Prima però di questa crisi relativamente recente, a livello cittadino si era verificato, giusto quattro anni fa, un evento eclatante agli occhi di un corpo politico avvezzo per tradizione a coltivare il “primato del Partito”, e cioè la sconfitta alle primarie per il Comune di Genova tanto del sindaco uscente Marta Vincenzi quanto dell’allora deputata Roberta Pinotti, entrambe PD. Marco Doria, professore universitario, convinto da un ristretto gruppo di amici intellettuali in larga parte di provenienza PCI, si presentò e vinse, favorito anche dalla doppia candidatura che gli si contrapponeva. Molto fu lo sconcerto, da una parte, e la speranza di una discontinuità, dall’altra.

Alle elezioni, forte dell’influenza grande di don Andrea Gallo sulla “sinistra diffusa” e godendo palesemente del suo appoggio, Doria vinse, portando in consiglio comunale ben sei eletti della sua lista. Un trionfo, una maggioranza più che sicura.

Tornando all’oggi o a ieri l’altro, non è un caso che, prima ancora dei dissapori del costituendo partito della Sinistra Italiana nei confronti dell’arancione più eminente, Giuliano Pisapia, uno dei componenti della triade nazionale (assieme a Zedda cagliaritano), Doria, per l’appunto, venisse per amor patrio omesso dall’onore delle cronache, espunto dai presunti fasti di stampo arancione. Che cosa è successo nel frattempo, che ne è stato di un programma elettorale discusso anche con la sinistra, per così dire, istituzionale, che conteneva, oltre a posizioni ambigue o “aperte”, anche punti pregevoli?

Un processo a senso unico, maledettamente unico, costituito da rotture via via più laceranti col corpo vivo della società e destinate a ripercuotersi cumulativamente sulla rappresentanza comunale, tanto che oggi la Giunta Doria non gode più della maggioranza consiliare e qualcuno fa balenare l’eventualità dello scioglimento e di elezioni anticipate, che verrebbero accorpate con le amministrative previste in primavera per alcune grandi città.

C’è da premettere che nel Consiglio siedono, in varia collocazione esponenti (alcuni fino all’altro ieri ufficialmente membri della maggioranza, altri collocati nel gruppo del Movimento 5 Stelle) che sono stati e sono espressione più che di partito, delle lotte sul territorio (il contrasto alle grandi opere: terzo valico, gronda autostradale ecc.).

Andando la politica amministrativa in senso sostanzialmente opposto alle speranze degli elettori, il confronto pubblico si fece aspro, tanto che in diverse occasioni (vertenza degli autisti del trasporto pubblico AMT, scontro con i lavoratori delle aziende partecipate considerati dei privilegiati, e quindi atteggiamento di supponenza, se non di dispregio, nei confronti della stessa CGIL), le sedute del Consiglio furono sbarrate al pubblico “contestatore” e si tennero a porte chiuse.

Diciamo che nei primi sei mesi del mandato, Doria, forte del suo gruppo consiliare e dei rappresentanti della sinistra (Federazione della Sinistra e SEL) entrambi in maggioranza, avrebbe potuto giocarsi la partita da posizioni di forza. Così non fu, mentre il PD nutriva nei suoi confronti un atteggiamento diffidente (bruciava ancora la sconfitta alle primarie!), Successivamente, le parti si ribaltarono e fu Doria a lasciarsi condizionare pesantemente; oggi, il PD segnala una presa di distanza, temendo, a ragione, di finire schiacciato da un “abbraccio mortale”, al culmine di un’esperienza fallimentare.

Sintetizzando, è mancata una idea di città, nessun progetto di riconversione ecologica e sociale: un assessore è giunto ad affermare che non è il traffico privato ad essere un problema, bensì la mancanza di parcheggi; non vengono contrastati progetti edilizi, come il Nuovo Ospedale Galliera, che impattano fortemente sul tessuto urbanistico; procedono le privatizzazioni, che si preannunciano come dequalificazione dei servizi; si lascia mano libera in fatto di progettazione ai poteri forti e alle multinazionali sui nodi fondamentali (porto, cantieri navali, aziende elettroniche).

In vista di elezioni che, al più tardi, si dovranno tenere nel 2017, il gioco, la simulazione cui si assiste, è quella di prefigurare il nome di un candidato di prestigio, cui la sinistra-sinistra organizzata, sostanzialmente assente dallo scontro politico cittadino, non possa dire di no: pronti comunque a far scattare il ricatto del “voto utile”. La ricerca non sarà facile: Luca Borzani, presidente di Palazzo Ducale (attività culturale) ha immediatamente rinviato l’invito al mittente.

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Governo&Banche: cambia la direttiva sui pignoramenti. Agevolata l'espropriazione della casa

Il comportamento del Governo nei confronti delle fasce deboli di questo paese sta superando ogni limite di decenza e sopportabilità e si rivolge a strati sociali che avviluppati da una crisi che non fa altro che acuirsi, vengono colpiti in ogni aspetto della vita quotidiana. Tagli, razionalizzazioni e revisioni di spesa, fanno parte ormai delle parole d’ordine che il Governo Renzi adotta non appena si tratta di colpire settori come scuola, sanità, lavoro e così via.

In questo caso il colpo che si vuole mettere a segno riguarda un aspetto divenuto spinoso in Italia, ma non per questo al riparo da questi attacchi: la casa.

Poter comprare una casa, per milioni di italiani ed italiane, resta un passo molto importante. Anche se tuttavia è sotto gli occhi di tutti come questo passo stia diventando sempre più proibitivo al giorno d’oggi. Nonostante stipendi da fame e condizioni lavorative precarie, per una buona parte di popolazione, soprattutto con l’aiuto determinante della buonuscita dei genitori pensionati, per molti poter accedere ad un mutuo è ancora possibile.

Proprio per questi ultimi il Governo ha ideato un piano tutto suo. Utilizzando il recepimento di una direttiva europea, per mano del Ministro Boschi, l’esecutivo si appresta a fare l’ennesimo regalo alle sue care amiche banche ed ai relativi speculatori a seguire. Nella fattispecie, la Direttiva Europea 2014/17, che dovrebbe teoricamente aumentare le tutele per i consumatori nei contratti di credito, viene stravolta nei fatti, diventando uno strumento di maggiori garanzie per le banche nelle loro attività di recupero dei crediti detti “inesigibili”. Nel decreto legislativo viene cancellato l’art. 2744 del Codice Civile, che vieta il “patto commissorio”. Il superamento di questo divieto permette quindi alle banche di entrare direttamente in possesso dell’immobile e di metterlo in vendita per soddisfare il proprio credito, qualora il mutuatario dovesse risultare in ritardo con il pagamento di 7 rate, anche non consecutive.

In questo modo le banche acquisiscono subito la proprietà della casa e di fatto l’immediata possibilità di metterla all’asta. Un recupero del credito a favore delle banche che il Governo sta sostenendo in un’ottica che lo vede in prima persona garante sulle sofferenze bancarie. Si prevede esplicitamente che: “Le parti del contratto possono convenire espressamente al momento della conclusione del contratto di credito o successivamente, che in caso di inadempimento del consumatore (il ritardo nel pagamento di 7 rate anche non consecutive) la restituzione o il trasferimento del bene immobile oggetto di garanzia reale o dei proventi della vendita del medesimo bene comporta l’estinzione del debito, fermo restando il diritto del consumatore all’eccedenza”.

Tutto ciò accadrà anche per quanto riguarda i mutui già in essere, visto che si parla di modifiche unilaterali, quindi nessun salvataggio anche per chi ha già aperto un mutuo in passato.

Nello stesso tempo la banca che ha acquisito la casa potrà venderla al prezzo che vuole, decidendo meglio per se stessa il prezzo di mercato, così da estinguere presto il debito e disinteressarsi della reale quota di vendita sul mercato, visto che questo le imporrebbe un dividendo del di più con il debitore.

In questo caso sarà normale vedere case vendute in fretta e furia solo per ripianare il debito bancario, con l’aggravante che saranno le stesse banche, con le loro agenzie immobiliari satelliti, ad essere dall’altra parte del tavolo. Un conflitto di interessi chiaro come il sole.

Ed infine, la ciliegina sulla torta. Chi acquisisce gli immobili nell’ambito di vendite giudiziarie per poi rivenderli a un’acquirente finale a pagare un’imposta sostitutiva di appena 200 euro, contro la tassazione ordinaria del 9%. “La norma – si dice – ha la finalità di agevolare il collocamento degli immobili in sede di vendita giudiziaria, così come in caso di assegnazione degli immobili stessi ai creditori”

Non è una novità del resto che questo Governo vada a braccetto con le banche, tuttavia l’azione di Renzi tenta sempre di lanciare il sasso più in là rispetto al limite. Si tratta di un ennesimo processo di stravolgimento del diritto; di una riscrittura dei codici, che lede le prerogative costituzionali, in nome dell’accelerazione dell’attuazione degli accordi TTIP, che sovra determinano e distruggono, nella loro furia iperliberista, non solo il Welfare, ma la stessa democrazia, in nome del profitto a tutti i costi.

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Mai così tante armi in medio Oriente dalla Guerra Fredda

di Giovanni Pagani

Negli ultimi cinque anni, il mercato bellico in Medio Oriente ha registrato un’espansione del 61%; e l’Arabia Saudita, assieme alla coalizione sempre più marcatamente sunnita da lei incoraggiata, ne è stata protagonista indiscussa.

Secondo un report pubblicato questo mese dall’International Peace Institute di Stoccolma, Riyadh è infatti la seconda importatrice mondiale di armi dopo l’India e primo acquirente di Washington e Londra, per le quali accoglie rispettivamente il 9.7% e il 46% delle esportazioni nel settore militare.

Dal 2011, le importazioni del regno hanno dunque registrato un aumento del 275% rispetto ai cinque anni precedenti, mentre uno studio prodotto da ATT monitor rivela che solo negli ultimi 12 mesi Riyadh ha acquistato forniture militari per 25 miliardi di dollari, da Canada, Francia, Germania, Olanda, Sud Africa, Spagna, Svezia, Svizzera, Turchia, Regno Unito e Stati Uniti. Tali armamenti sono confluiti sia in Siria, a sostegno delle milizie islamiste anti-Assad, sia in Yemen, dove vengono indiscriminatamente utilizzati dal marzo 2015.

Da questa prospettiva, la proposta di embargo votata dal parlamento europeo in settimana, con lo scopo di interrompere le forniture di armamenti verso Riyadh per la sua cattiva condotta in Yemen, non ha potuto non sollevare lo scetticismo di molti osservatori; tanto per il tempismo con cui tale mozione ha visto la luce, quanto per la sua dubbia effettività. Formalizzato il 25 febbraio scorso con 359 voti favorevoli e 212 contrari, il provvedimento non avrà infatti natura vincolante per i singoli paesi membri dell’Unione e nonostante Richard Howitt – eurodeputato laburista formulatore della proposta – l’abbia definito “un chiaro appello umanitario che spera di fermare lo spargimento di sangue in Yemen”, è legittimo credere che esso non inciderà sugli sviluppi del conflitto.

I bombardamenti contro i ribelli Houthi in Yemen proseguono ininterrottamente dal marzo 2015, quando una coalizione formata da nove paesi arabi e guidata da Riyadh – con la tacita benedizione della comunità internazionale –, è intervenuta militarmente nel paese in difesa del presidente Abd Rabbuh Mansour Hadi. In un anno, il conflitto ha provocato almeno 7.000 vittime, 35.000 feriti e 2 milioni di sfollati; oltre che danni irreparabili a uno dei patrimoni storico-architettonici tra i più antichi nel mondo islamico. In questo contesto, almeno tre degli otto paesi alleati di Riyadh in Yemen hanno aumentato esponenzialmente le proprie importazioni di materiale bellico, sia dal 2011 sia nell’ultimo anno.

Gli Emirati Arabi Uniti – che si riforniscono soprattutto da Washington, Parigi e Roma, e importano grandi quantitativi di armi già dal 2001 – hanno incrementato la spesa bellica del 35%, ma sono i secondi importatori regionali dopo l’Arabia Saudita. Anche il Cairo, che già beneficiava d'ingenti finanziamenti statunitensi sotto Mubarak, ha registrato un incremento più ridotto negli ultimi cinque anni (37%), ma nel 2015 ha importato armamenti per un valore di 1.47 miliardi di dollari. Uno scarto notevole rispetto ai 368 milioni dell’anno precedente. Infine il Qatar, già molto attivo nel finanziare la ribellione siriana dai suoi inizi, ha aumentato la propria spesa bellica del 279% in cinque anni; proporzionalmente di poco superiore all’Arabia Saudita.

I dati registrati dall’International Peace Institute di Stoccolma – che esegue rilevazioni quinquennali sul mercato delle armi – prendono in esame il periodo compreso tra il 2011 e i 2015, aperto dall’instabilità seguita alle rivoluzioni arabe e chiuso dalla riabilitazione internazionale della Repubblica Islamica Iraniana a seguito degli accordi raggiunti sul nucleare. In questi cinque anni, il collasso di entità statali in Libia, Siria, Iraq e Yemen, unito al progressivo indietreggiamento statunitense, ha aperto nuovi spazi per le ambizioni regionali di Arabia Saudita e Iran; favorendo l’inasprirsi di uno scontro per procura che assume tinte sempre più nitidamente settarie. Dalla Siria all’Iraq, e dal Libano allo Yemen.

Tale polarizzazione dello scontro è dunque riflessa da una ‘corsa agli armamenti’ iniziata nel post-2011; e mai stata così serrata nella storia della regione dai primi anni ’80. In altre parole, nonostante Riyadh abbia sempre sottolineato il carattere pan-arabo della coalizione da lei guidata, non è un caso che questa raggruppi 8 paesi arabo-sunniti – Marocco, Egitto, Sudan, Emirati Arabi Uniti, Qatar, Kuwait, Bahrein, Giordania – ai quali, in cambio di aiuti economici, si sono aggiunte truppe di terra da tre paesi africani della stessa confessione: Senegal, Mauritania e Somalia.

Ed è altrettanto significativo che quando Re Salman chiese al Pakistan di contribuire con un contingente militare nell’aprile 2015 – richiesta poi rifiutata da Islamabad – mise come condizione che quest’ultima inviasse in Yemen soltanto soldati sunniti. Al contrario, se il sostegno iraniano alle milizie Houthi – appartenenti a una setta minoritaria dello sciismo – non è stato mai apertamente riconosciuto da Tehran, vari carichi d’armi provenienti dalla Repubblica Islamica e diretti in Yemen sono stati intercettati in questi mesi; l’ultimo pochi giorni fa da forze statunitensi. Mentre non è un caso che il leader spirituale Houthi, Abdel-Malek Al-Shami, rimasto ferito agli inizi del conflitto nell’aprile 2015, sia morto in ospedale a Tehran e sepolto a Beirut; nel Giardino dei due Martiri, assieme agli alti vertici di Hezbollah.

A tal proposito, l’annuncio fatto da Riyadh la scorsa settimana, in base al quale l’Arabia Saudita potrebbe smettere di finanziare la fornitura di armi francesi all’esercito libanese (3 miliardi di dollari) se Hezbollah non ritirerà il proprio appoggio alle milizie Houthi in Yemen e il regime di Bashar al-Assad in Siria, non fa che corroborare tale scenario.

In questo quadro, nonostante il voto al parlamento europeo e le minacce saudite al Libano facciano luce sul conflitto yemenita, la partita principale si combatte proprio in Siria. Dove, transitando per la Turchia, è arrivata gran parte degli armamenti venduti da Stati Uniti, Francia, Gran Bretagna, Spagna, Germania e Italia ai paesi del Golfo tra il 2011 e il 2014. Dove la presenza di armi e soldati iraniani al fianco di Hezbollah e di altre milizie sciite irachene è ormai candidamente dichiarata da Tehran. E dove, quasi in spregio del precario cessate il fuoco contrattato da Washington e Mosca nei giorni scorsi, Riyadh sembra sempre più intenzionata a intervenire al fianco della Turchia. Turchia che – per chiudere il cerchio – sebbene sembri meno influenzata delle logiche settarie proposte dalla sua alleata, dimostra sempre maggiore irrequietezza e ambizioni interventiste; oltre ad essere il secondo esercito NATO per numero di uomini e terzo importatore di armi nella regione.

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I linguaggi della Narcoguerra

La “guerra alla droga” è lo strumento politico attraverso cui gli Stati Uniti mantengono il controllo amministrativo ed economico di alcuni Stati dell’America Latina e centrale. Non è una lotta del “bene contro il male”, soprattutto laddove il primo è rappresentato dagli Usa o, peggio ancora, dalle sue particolari agenzie repressive (Cia, Dea, Nsa); l’obiettivo non è quello di estinguere il problema, sia perché questo è il prodotto di una domanda incontrollabile dei paesi occidentali, sia perché droga e narcos costituiscono privilegiati strumenti di controllo di territori e dinamiche sociali da utilizzare come “agenti di prossimità”; è, infine, una questione eminentemente politica e non semplicemente criminale, d’ordine pubblico, militare o in qualche modo tecnica: è politica perché deriva da specifiche cause sociali che la determinano; perché è prodotto diretto degli accordi neoliberisti di libero scambio tra paesi subalterni all’economia Usa; perché serve ai politici locali per costruire legittimazione che poi riversano contro le popolazioni povere dei rispettivi contesti e per facilitare gli accordi di libero scambio di cui sopra. Sebbene scomparsa dai radar dei media occidentali, la lotta alla droga costituisce uno dei più rilevanti ambiti di gestione imperialista dei territori. In questi anni è soprattutto il mondo della cultura di massa ad essersene occupata, con linguaggi e obiettivi differenti, a volte opposti. E’ interessante capire come avviene il racconto della “guerra alla droga”, alla luce di alcuni specifici lavori usciti in questo anno, che contribuiscono a dare una panoramica degli interessi e delle sensibilità sul tema in questione.


Dei due imprescindibili romanzi di Don Winslow (qui e qui) ce ne siamo occupati tanto in passato e di recente. Al di là del livello letterario, molto alto, costituiscono dei lavori capitali perché rompono uno schema narrativo sia giornalistico che politico altamente tossico e pacificante: secondo tale visione, i cartelli della droga costituivano il sottoprodotto di economie povere in mano a signori locali che gestivano un’economia informale illegale, economia capace di condizionare la politica locale in maniera anche molto incisiva e che creava disturbi al corretto sviluppo economico di questi Stati e delle loro relazioni con gli Usa. La conseguenza è che ad un certo punto gli Stati Uniti dichiarano guerra al narcotraffico durante la presidenza Nixon, mettono in campo uomini e finanziamenti, ma gli apparati onesti targati Usa si scontrano con la corruzione delle società al sud del Rio Bravo fallendo l’opera di rimozione definitiva del problema.

Lo schema è manicheo nella sua contrapposizione tra bene (la Dea, e più in generale la politica di fondo degli Usa, anche quando viene criticata) e male (le società, nel loro complesso, del centro e sud America); è impolitico laddove rimuove tutte le cause sociali che producono l’economia della droga; e mira, infine, a colpevolizzare le società latinoamericane tutte invariabilmente corrotte, e l’unico sogno degli uomini onesti lì residenti consiste nella fuga verso gli Usa alla ricerca della tanto agognata “carta verde”. L’unica onestà possibile coincide coi valori statunitensi. Don Winslow capovolge la questione. Non esiste bene e male: l’economia narcotrafficante è il prodotto di precise scelte politiche degli Stati Uniti, e le agenzie preposte al contrasto sono corrotte tanto quanto le politiche nazionali degli Stati latinoamericani; lo scontro è tra due mali, e soprattutto – qui sta l’importanza dei lavori dell’autore newyorkese – anche l’agente onesto è costretto a corrompersi perché inserito dentro una dinamica di per sé corrotta potremmo dire ontologicamente; soprattutto ne Il potere del cane, Winslow traccia l’origine del commercio illegale, le politiche agricole imposte dagli Usa, le ragioni sociali dello sviluppo del mercato della droga, ed è lì che inserisce la sua critica sociale e politica più rilevante, legando cioè il fenomeno alle cause economiche che lo determinano.

Nel 2015 sono usciti però altri due lavori che affrontano la questione. La serie tv prodotta da Netflix, Narcos, che ha spopolato in tutto il mondo ed è stata evento mediatico anche in Italia, che ha portato le vicende dei narcotrafficanti al grande pubblico. E il libro di Fabrizio Lorusso, Narcoguerra, edito da Odoya nel giugno dello scorso anno, anche questa opera capace di raggiungere il grande pubblico nonostante i mezzi chiaramente più ristretti tanto di Netflix quanto di Winslow. Si tratta di due lavori agli antipodi, che descrivono bene la varietà di linguaggi e di schemi mentali ancora persistenti sul fenomeno.

Narcos racconta della storia di Pablo Escobar. Sebbene quindi ambientato in Colombia e concentrato sulle vicende colombiane, si propone di parlare, attraverso l’esempio particolare, della vicenda droga nel suo complesso. E’ in tal senso allora che va affrontato e su cui bisognerebbe riflettere. La serie è il concentrato più plateale del manicheismo deviante imposto dalla narrazione liberale-liberista del fenomeno droga. La Dea, l’attività diplomatica statunitense e, per estensione, l’intera politica americana di lotta alla droga, sono inequivocabilmente il bene. Sono il bene soprattutto laddove vengono impercettibilmente criticate. Ogni critica è su aspetti superficiali, irrilevanti rispetto al quadro generale: il modo di condurre un’operazione; l’atteggiamento reprensibile di questo o quel poliziotto; le lungaggini burocratiche che impediscono azioni veloci ed efficaci; e via dicendo. Gli eroi sono gli agenti Usa, il bene risiede nei valori americani della libertà e del rispetto della legge, gli agenti della Dea novelli Clint Eastwood magari un po’ bruschi nei modi ma, diamine, contro i signori della droga non possiamo certo badare alle formalità giuridiche. Di converso, il male è la società latinoamericana. Attenzione, non Pablo Escobar, con cui, come in ogni pessimo lavoro che si rispetti, si arriva ad “empatizzare”. Escobar è, implicitamente, uno che “ce l’ha fatta”, ricco perché intelligente, arguto, coraggioso. E’ un criminale, ma gli si rende l’onore delle armi. Quell’onore che invece viene recisamente negato alla società colombiana nel suo complesso. La povertà è colpa della politica locale nonostante gli aiuti Usa. Soprattutto, nessuna liberazione è possibile senza l’aiuto Usa. Lo scimmiottamento della guerra rivoluzionaria delle Farc supera ogni decenza anche agli occhi di un onesto liberale: i combattenti sono pedine dei narcotrafficanti, al più idealisti pronti a vendersi per qualche dollaro di mancia, al soldo e al servizio degli interessi narcos, studentelli a cui piace l’avventura e che finiscono male per stupidità propria. I più pragmatici appena passano dalla parte dei buoni chiedendo un bel visto per gli Usa e tanti saluti. La chiesa colombiana è una sezione dell’internazionale marxista, proto-terrorista, fiancheggiatrice della violenza e, in ultima analisi, degli stessi narcotrafficanti.

Ma non mancano riferimenti europei. A smistare la droga in Spagna ci pensa l’Eta, organizzazione terrorista narcotrafficante dedita al taglieggiamento interno e all’economia criminale verso l’estero: ad un certo punto, quando a Escobar servono delle bombe, viene chiamato direttamente dalla Spagna un importante membro della stessa Eta che, ovviamente in cambio della cocaina, gliene fabbrica a profusione. I politici colombiani invece si dividono in due: i corrotti, al soldo dei narcotrafficanti, e che celano il loro tornaconto personale ammantandolo di retorica antimperialista; e gli onesti, tali perché diretti dall’ambasciata Usa, di cui assecondano ogni ingerenza. Un’opera talmente degradante che non dovrebbe trovare commento se non fosse che, proprio perché fatta secondo i canoni dell’estetica mainstream, rischia di produrre immedesimazione e coinvolgimento emotivo e dunque politico in larghe fasce di popolazione, persino di sinistra, che introietterebbero inconsciamente un chiaro messaggio politico reazionario. La serie è sponsorizzata, recensita, promossa, veicolata, da numerose testate trasversali, da Repubblica al Fatto Quotidiano. Va allora smontata in ogni dove, criticata senza cedimenti, perché si tratta dell’ennesima operazione massmediatica che veicola un messaggio culturalmente disarmante. Oltretutto, è pure di pessima fattura e recitata male.

Il lavoro di Fabrizio Lorusso è invece uno strumento indispensabile per comprendere le caratteristiche della guerra alla droga in Messico. E’ un’opera davvero unica nel panorama giornalistico italiano, capace di ibridare generi narrativi differenti in funzione di una comprensibilità del problema davvero a 360°: articoli e inchieste giornalistiche, racconti a cavallo tra realtà e fiction, interviste, documenti. La somma, lungi dal cedere all’eclettismo narrativo, è invece in grado di svelare un processo storico. E’ un’opera che va letta insieme ai romanzi di Don Winslow, per interpretare correttamente tutti i passaggi narrativi ma reali descritti nei due libri. Lorusso vive in Messico, quindi sa di cosa parla. E’ anche un atto di coraggio, perché generalmente chi accende fari sull’argomento, in Messico, trova la morte. Dal 2001 al 2011 la guerra civile messicana ha fatto 100.000 morti, più del doppio invece i desaparecidos e migrati oltrefrontiera. Cifre da contesto mediorientale o africano, da vera e propria guerra tra opposti eserciti. Gli eserciti concorrenti non sono però quelli della Dea e dei cartelli, ma della Dea e dei cartelli contro le popolazioni locali, oltre che fra di loro per il controllo dei territori.

Lorusso individua le ragioni sociali del narcotraffico:

Le politiche aperturiste applicate dagli anni Ottanta e Novanta in poi in America Latina, in particolare i trattati di libero commercio siglati con gli Stati Uniti, l’Unione Europea e la Cina in condizioni di asimmetria, hanno favorito solo alcuni settori dell’economia, mentre hanno penalizzato le masse di piccoli agricoltori che, quindi, hanno trovato nella coca, nell’oppio e nella marijuana delle alternative di sopravvivenza”.

Non c’è qui una “giustificazione sociale” del problema droga. C’è un’analisi della origini politico-economiche. I contadini poveri dei paesi meridionali, sudamericani quanto globali, non potevano reggere i livelli di competizione e di produttività delle economie agricole sovvenzionate dagli aiuti di Stato di Stati Uniti e Unione europea. Liberando ogni vincolo economico, doganale, statale, alla produzione, i contadini messicani si trovavano a competere direttamente coi i giganti del comparto alimentare Usa, che ne determinarono il fallimento. A quel punto le masse contadine messicane si sono trovate costrette al ricatto di lavorare nelle maquiladoras che producevano per le aziende Usa, o cedere all’economia criminale, che certamente garantiva maggiori guadagni nonché protezione. La causa dell’economia criminale va ricercata allora nei trattati di libero scambio, esattamente come quello che vorrebbero approvare tra Stati Uniti e Unione europea, il TTIP. Ma l’autore non si ferma qui, centrando la radice politica per cui la lotta alla droga è una guerra senza possibili vincitori perché in realtà a nessuno interessa la vittoria:

La battaglia contro le droghe rappresenta un affare sostanzioso per gli Usa ma non per i paesi che ne sopportano il peso sociale, umano ed economico: la droga a nord e i morti a sud. Le armi americane invadono il mercato e in America Latina finiscono in mano a narcos, poliziotti, gruppi di autodefensa e paramilitari. La “war on drugs”, lanciata da Nixon nel 1971 e ripresa da tutti i suoi successori alla Casa Bianca, è un potente discorso di legittimazione e uno strumento ricorrente nella politica estera statunitense, specialmente nei confronti del Latinoamerica, e da quasi mezzo secolo serve a giustificare azioni d’ingerenza politica, diplomatica, militare ed economica. E’ l’hard power della cocaina legato al soft power di Breaking Bad”.

Il piano politico è però multilivello. Serve a controllare le economie subalterne imponendo scelte politiche e produttive determinate. Ma serve anche per gestire proxy wars, o per portare avanti operazioni di regime change, o, infine, come strumento di controllo del territorio per i politici locali espressione del potere Usa:

Anche la Cia, per combattere il regime rivoluzionario dei sandinisti in Nicaragua, non esitò a stipulare accordi col boss Felix Gallardo e la Federaciòn, il progenitore del cartello di Sinaloa. Grazie a loro poteva ricavare dalla vendita della cocaina e della marijuana i fondi necessari per le armi delle Contras, le bande paramilitari e antinsurrezionali che operavano contro il regime nicaraguense partendo dal territorio honduregno. Le ricerche sul coinvolgimento della Cia e della Dfs messicana coi narcos sono state confermate dalle rivelazioni, riportate dalla rivista Proceso alla fine del 2013, di ex agenti della Dea che lavoravano in Messico negli anni Ottanta[…]La Cia vendeva cocaina e derivati in casa propria per finanziare operazioni segrete, vietate dal Parlamento, e forniva armamenti ai mercenari Contras che dall’Honduras conducevano una guerra contro il governo rivoluzionario sandinista di Managua”.

Ecco spiegato il problema nella sua complessità e profondità, non solo dal lato dell’offerta (cioè perché in determinati Stati latinoamericani si sia concentrata la produzione della droga), ma anche in quello della domanda: la crescente richiesta di cocaina negli Stati Uniti è funzionale al controllo degli Usa sui paesi poveri del sud, e questa funzionalità è incentivata vendendo direttamente la droga alla popolazione statunitensi. Sono gli Stati Uniti che incentivano la produzione di droga all’estero per venderne il prodotto al proprio interno al fine di generare un’economia da spendere nell’ingerenza negli affari dei paesi produttori di droga. Questo è il circolo vizioso che sta all’origine della questione droga nel continente americano. Strumenti come il libro di Lorusso aprono gli occhi e svelano protagonisti e interessi. Opere massmediatiche come Narcos contribuiscono invece alla reiterazione di una narrazione deviante, spoliticizzante, una vera e propria droga culturale che inibisce al pensiero critico su uno dei fenomeni decisivi di questi ultimi decenni. E’ importante mantenere alta l’attenzione sull’argomento anche qui in Italia, perché giornalisti e militanti politici che dicono le stesse cose in Messico trovano sovente la morte. E’ a loro, allora, che dedichiamo questi brevi appunti.

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Lisbona: “il governo delle sinistre” nella gabbia dell’Unione Europea

Dentro la vera e propria gabbia rappresentata dall’Unione Europea non c’è spazio per una alternativa all’austerità, alla dittatura del capitale, all’estensione della precarietà e della povertà e alla perdita di diritti economici e sociali per gli strati medio-bassi della popolazione. Soprattutto in quei paesi che il nucleo dominante dell’Ue ha scelto come periferia interna. Il Portogallo, tra questi, dimostra quanto fallaci siano le strategie dei partiti di sinistra che pur avendo punti di vista frontalmente opposti alle politiche imposte dalla troika negli ultimi anni, responsabili di un vero e proprio massacro sociale, una volta giunti al governo non fanno altro che riprodurle, al massimo in una versione più soft, meno truce, più razionale. Ma senza rompere la gabbia dell’Unione Europea e con la sudditanza ai vincoli imposti dall’establishment continentale, nessuna vera politica alternativa è possibile, nessun cambiamento reale di segno rispetto al passato è a disposizione di governi sotto controllo e sotto tutela, limitati da una perdita sempre maggiore e definitiva di potestà e autorità. “Questo orçamento mostra come sia effettivamente possibile distribuire meglio lo sforzo di consolidamento del bilancio ma mostra anche che all’interno delle regole europee non c’è possibilità di avere una politica che promuova in modo deciso l’occupazione perché nei fatti l’austerità di sinistra può dare un contributo minimo per la risoluzione della crisi sociale in Portogallo” afferma l’economista portoghese Ricardo Paes Mamede in una interessante intervista realizzata da Goffredo Adinolfi e pubblicata sul quotidiano Il Manifesto lo scorso 28 febbraio.

Anche apprezzando lo sforzo di parziale redistribuzione della ricchezza e dei sacrifici compiuto dal governo che comunque vede la preminenza dei socialisti, appare più che evidente che in Portogallo come negli altri Piigs senza una rottura determinata con l’impianto complessivo della governance europea, con i trattati e con l’Eurozona, non c’è alcuna possibilità di via d’uscita da una crisi che i vincoli imposti dal pilota automatico di Bruxelles e Francoforte vogliono perenne.

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La finanziaria portoghese? «È una sorta di austerità redistributiva»

Intervista. Per l’economista Ricardo Paes Mamede la manovra del governo portoghese è «il meglio possibile». Le regole europee sul deficit non consentono interventi per creare lavoro ma si è cercato di aumentare i consumi

Giovedì della scorsa settimana il governo guidato da Antonio Costa e appoggiato da Bloco de Esquerda (Be), Partido Comunista Português (Pcp) e Partido Socialista (Ps) ha approvato l’Orçamento do Estado 2016 (OE2016 – legge di bilancio). La commissione europea, pur con qualche titubanza, ha approvato e il testo è stato depositato all’Assembleia da Republica per l’approvazione. Ne abbiamo parlato con Ricardo Paes Mamede, docente di politica economica e integrazione europea presso il dipartimento di Economia Politica all’Istituto Universitario di Lisbona (Iul) e autore del libro O que fazer com este país (2015).

Finalmente, con qualche mese di ritardo, l’Orçamento do Estado 2016 (OE2016) è in dirittura di arrivo: che valutazione dare del governo delle sinistre guidato da Antonio Costa?
Lo sforzo di distribuire meglio la ricchezza è certamente l’aspetto più positivo dell’Orçamento. Questa è stata la preoccupazione centrale dell’accordo fatto tra i partiti di sinistra e questo risultato è stato ottenuto essenzialmente attraverso due vie: politica fiscale e aumento del salario minimo. L’aspetto meno positivo ha a che vedere con il fatto che si stia continuando sulla strada della riduzione severa del deficit di bilancio che passa dal 3,1% a 2,2% del Pil in un momento in cui la disoccupazione è ancora molto alta (molto di più di quanto i dati ufficiali non mostrino).

Ne è valsa la pena?

Tenendo in considerazione l’alternativa ne è valsa sicuramente la pena ma è comunque insufficiente date le condizioni in cui il paese si trova.

La destra e i media cercano di fare passare l’idea che l’aumento di imposte contenuto nell’OE2016 pregiudicherà le classi medie e le imprese.

La destra e la grande parte dei media hanno avuto una reazione che è quasi risibile. Hanno cominciato a criticare la legge di bilancio perché ritenevano i valori in essa contenuti non affidabili, dopodiché hanno detto che non rispettava le regole europee, poi hanno cercato di dire che gli aspetti redistributivi fossero quasi del tutto assenti e infine hanno sostenuto che la strategia dell’orçamento – aumentare i consumi – non avrebbe funzionato nella pratica. Questo atteggiamento pretestuoso lascia intendere che a destra si guardi con grande nervosismo alle nuove strategie austeritarie.

L’OE2016 rispetta i criteri imposti dall’Unione europea, quindi vuol dire che l’austerità può anche avere una interpretazione di sinistra?


In parte è vero, ma ci sono comunque dei limiti, ovvero questo orçamento mostra come sia effettivamente possibile distribuire meglio lo sforzo di consolidamento del bilancio ma mostra anche che all’interno delle regole europee non c’è possibilità di avere una politica che promuova in modo deciso l’occupazione perché nei fatti l’austerità di sinistra può dare un contributo minimo per la risoluzione della crisi sociale in Portogallo.

Contrariamente a quanto si poteva pensare, la commissione, dopo avere richiesto numerose misure compensative, ha comunque avallato il bilancio del governo Costa, è segno che qualche cosa anche a Bruxelles stia cambiando?

No, io non credo ci siano stati dei grandi cambiamenti, la commissione europea ha avuto in tutto questo processo un atteggiamento estremamente aggressivo con il governo portoghese e le cose non sono andate anche peggio solo perché la posizione negoziale della commissione europea non è delle migliori in questo momento. Sarebbe un errore pensare che la commissione abbia avuto un atteggiamento transigente. A Bruxelles c’è grande preoccupazione per quel che riguarda sia gli esiti del referendum britannico che sul problema dei rifugiati. Inoltre la Commissione europea ha dovuto tenere conto degli errori commessi durante il periodo di aggiustamento. Uno dei più importanti emerso nel contesto di negoziazione dell’Orçamento è stato il fatto di avere considerato come permanenti misure che in realtà erano solo temporanee, come ad esempio il taglio dei salari della funzione pubblica, la cosa ha creato non pochi problemi a Mário Centeno il ministro delle Finanze.

Alcune critiche sono arrivate anche da sinistra, nello specifico è stato detto che le misure favoriscono principalmente la classe media …

Io credo che la grande maggioranza delle persone e delle organizzazioni di sinistra vedano questo Orçamento come il minore dei mali possibile. È in parte vero che il tipo di misure adottate beneficerà principalmente la classe media ma questo succede anche perché è stata proprio la classe media a essere la più penalizzata durante il periodo di aggiustamento. Però occorre considerare che ci sono anche misure importanti che hanno l’obiettivo di sostenere i redditi più bassi: l’aumento del salario minimo, l’aumento dei trasferimenti sociali e l’alterazione dei benefici fiscali diretti ai dipendenti. Per cui non è del tutto vero che l’OE2016 penalizzi le classi più basse a favore delle classi medie. Detto questo va comunque sottolineato che per ridurre gli elevatissimi livelli di disuguaglianza che esistono in Portogallo occorrerebbe fare molto di più.

Uno degli aspetti essenziali che sta emergendo con forza soprattutto negli ultimi mesi è quello relativo al salvataggio delle banche da parte dello stato che secondo alcuni calcoli, ammonterebbe a circa 40 miliardi di euro…

Sostanzialmente due sono i motivi che hanno portato al fallimento di 4 banche, tra cui una era la terza più grande del paese: da una parte ci sono stati certamente casi di cattiva gestione ma i 15 anni di crescita economica mediocre sono stati sicuramente il fattore che più ha determinato l’accumularsi di un’enorme quantità di crediti inesigibili. È un fenomeno differente rispetto a quello dei subprime o di altri attivi tossici. Qui il dissesto dipende semplicemente dal fatto che in un paese che è da molti anni in crisi anche la sua attività bancaria finisce con l’essere penalizzata.

È possibile calcolare quanto lo stato dovrà spendere ancora per le conseguenze dei fallimenti bancari?

No, è molto difficile perché c’è il sospetto che nei bilanci delle banche i crediti inesigibili non siano ancora stati del tutto contabilizzati e che pur di mantenere i ratio di solvibilità si sia omesso di contabilizzare situazioni in cui difficilmente si rientrerà dei crediti, ma a quanto ammontino queste disparità è tutt’ora un’incognita.

Il governo Costa potrebbe quindi dovere ridurre ulteriormente le aspettative…

È uno dei molti rischi che il governo deve e dovrà affrontare, a questo occorre aggiungere l’evoluzione molto incerta dell’economia internazionale, della politica monetaria europea e dalla risposta che l’economia portoghese darà agli stimoli contenuti dall’OE2016.

Quali sono stati i risultati di 4 anni di Troika?

Il programma di aggiustamento portoghese aveva tre obiettivi fondamentali: creare sostenibilità nei conti pubblici, migliorare la competitività dell’economia e stabilizzare il sistema finanziario. Oggi quel che capiamo è che il successo nei due primi assi – conti pubblici e competitività – è molto questionabile e per quel che riguarda la stabilità del sistema bancario sembrerebbe che sia ancora tutto da fare.

Dici che l’OE2016 ha numerosi aspetti positivi ma che tuttavia è ampiamente insufficiente per risolvere i problemi strutturali…

Nel contesto attuale portoghese è tecnicamente impossibile simultaneamente creare lavoro, pagare il debito nei termini previsti e adempiere alle regole di bilancio europee, è quello che chiamo il triangolo delle impossibilità della politica fiscale. L’opzione della troika e del governo anteriore è stata quella di concentrarsi sul rispetto delle regole di bilancio e sul pagamento del debito pubblico lasciando che la disoccupazione crescesse. Un governo che voglia creare lavoro dovrà abdicare ad adempiere a uno dei due altri obiettivi a meno che le condizioni di pagamento del debito vengano alterate o vengano alterate le regole dell’unione europea, fare queste tre cose allo stesso tempo non è possibile…

… quindi?

Quindi o prendiamo l’iniziativa di rinegoziare il debito o quella di non rispettare le regole di bilancio assoggettandoci alle enormi pressioni da parte delle leadership europee così come si è visto anche per il caso greco, oppure dovremmo rinunciare alla crescita e vedere l’economia portoghese passare per altri 15 anni di stagnazione con effetti drammatici sull’occupazione e sull’emigrazione.

Uno dei tre assi, il rapporto debito pubblico/Pil, è passato in questi ultimi 4 anni da 100 a 130% è sostenibile?

Il Portogallo paga ogni anno circa il 4,5% del Pil in tassi di interesse sul debito. Questo significa che affinché il bilancio sia in equilibrio le spese statali debbano essere annualmente decurtate di un’ampia fetta. Nei fatti non c’è nessun paese che sia riuscito a pagare tanto senza che vi fosse una consistente crescita economica…

…ma dopo l’aggiustamento non ci sarebbe dovuta essere la crescita?

Il Portogallo non riesce a crescere anche perché non avendo nessun controllo sulla sua moneta non può promuovere le esportazioni e questo in un contesto in cui si deve anche mantenere una politica di contenimento del bilancio. Per questo motivo la ristrutturazione del debito diventa un aspetto fondamentale e credo che in realtà tutti lo riconoscano senza volerlo dire apertamente.

Per ristrutturazione del debito cosa intendi: riduzione dello stock o dilazione dei pagamenti?

Dal mio punto di vista è poco rilevante come ci si arrivi, l’obiettivo è quello di ridurre significativamente il montante degli interessi che è necessario pagare ogni anno. L’economia portoghese non può reggere se il 4,5 del Pil deve essere destinato a pagare gli interessi del debito. Questo è un suicidio lento e quindi la soluzione – riduzione dello stock o dilazione – deve essere trovata indipendentemente da quale essa sia.

Pensi sia possibile ristrutturare il debito? C’è una sensibilità in questo senso o l’alternativa è l’uscita dall’euro?

L’uscita dall’euro o una situazione di confronto aperto unilaterale di un paese di fronte alla Ue è uno scenario molto improbabile, questo per due motivi: primo perché la forza negoziale di un paese della dimensione del Portogallo è molto limitata. Poi perché i costi di una uscita dall’Euro sono molto più visibili all’opinione pubblica di non quanto lo siano quelli determinati dall’attuale contesto austeritario. Non mi sentirei di escludere del tutto la possibilità che il Portogallo in breve entri in una rotta di collisione che porti a un abbandono della moneta unica. In ogni caso i problemi fondamentali provocati dalla disfunzionalità della zona euro continueranno e determineranno un aumento delle tensioni politiche nella comunità europea i cui risultati sono di difficile previsione.

Qual è la logica sottostante una politica economica suicida?


Il Portogallo ha tre tipi di disequilibrio macroeconomici fondamentali: finanza pubblica, debito esterno ed elevati livelli di disoccupazione. Non è possibile risolverli tutti e tre allo stesso tempo. L’Fmi privilegia la diminuzione del debito estero ancora più che non il debito pubblico. Nella prospettiva dell’Fmi il debito estero si riduce attraverso la svalorizzazione interna che ha un duplice effetto: da una parte permette di guadagnare competitività/prezzo nelle esportazioni e dall’altro lato porta a una riduzione delle importazioni perché il consumo e l’investimento interno diminuiscono.

Con quali conseguenze?


Gli effetti di queste politiche sono devastanti non solo sull’occupazione, dato che creano una condizione di recessione permanente, ma anche sui conti pubblici perché l’impatto del commercio esterno sulle finanze pubbliche è molto ridotto. Lo stato guadagna di più quando i prodotti delle imprese vengono venduti internamente, attraverso le imposte sul consumo, di non quando vengano venduti all’estero. Quindi l’opzione per correggere il debito esterno mette in causa la prosecuzione degli altri due obiettivi – crescita dell’occupazione e finanza pubblica.

Se le conseguenze delle politiche austeritarie sono chiare a tutti, dal tuo punto di vista perché si perpetra l’errore?


Non è possibile avere economie con strutture produttive così differenti come quelle che ci sono nella zona europea e al contempo vivere con le stesse regole di politica monetaria a meno che non succeda una delle due cose: o c’è un’enorme trasferimento di risorse come quelle che ci sono ad esempio dal nord al sud Italia o attraverso un impoverimento accelerato e duraturo delle economie che hanno strutture produttive meno competitive. La maggior parte delle istituzioni internazionali considera irrealizzabile la prima ipotesi e probabilmente non hanno del tutto torto. La soluzione più semplice quindi è quella di promuovere flessibilizzazione e misure di svalorizzazione interna delle economie più deboli.

La coalizione di Pcp, Ps e Be ha mostrato in queste settimane grande compattezza, cosa ci si può aspettare in futuro?


Il fatto di avere oggi in Portogallo una destra convintamente neoliberista è la maggiore assicurazione di vita per questo governo perché nessuno dei partiti di sinistra vuole essere visto come il responsabile di un ritorno a politiche estremamente aggressive per la popolazione che la destra continua a promuovere. Quindi, nonostante Be e Pcp sottolineino la loro posizione di critica rispetto al compromesso del Ps con le regole di bilancio europee, fino a che sarà possibile ottenere politiche più favorevoli ai lavoratori e all’insieme della popolazione io non prevedo ci sarà una rottura della coalizione che ha permesso la formazione di questo governo.

Come è percepita dall’opinione pubblica la nuova legge di bilancio: entusiasmo, contrarietà o indifferenza?

Per il momento non riscontro né una grande contrarietà né un grande entusiasmo io credo ci siano buoni motivi perché non ci sia né una cosa né l’altra perché quello che abbiamo è il minore dei mali e il minore dei mali non ha mai suscitato mai molti odi né molti amori.

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Intervista - "Sulla questione curda, Erdogan vuole silenzio"

di Chiara Cruciati – Il Manifesto

Il rilascio dei giornalisti Dundar e Gul, direttore e caporedattore di Cumhuriyet, ordinata giovedì dalla Corte Costituzionale turca, segna un importante passo in avanti per la libertà di stampa in Turchia e, contemporaneamente una sconfitta per le politiche mediorientali del presidente Erdogan, a partire dalla strategia di escalation militare in Siria. Ma gli attacchi contro la stampa non cessano: nel mirino resta soprattutto l’informazione indipendente pro-kurda, spiega al manifesto Irfan Aktan, editorialista kurdo per al-Monitor.

Con la scarcerazione di Dundar e Gul si è aperta una breccia nel muro della repressione interna?

Dundar e Gul sono stati rilasciati, ma ci sono ancora 31 giornalisti dietro le sbarre e 20 di loro sono kurdi. E poche ore dopo il rilascio l’ufficio del procuratore ha chiesto alla Turksat, la compagnia statale di telecomunicazioni, di interrompere la messa in onda del canale pro-kurdo Imc-Tv. Inoltre il caporedattore di un quotidiano pro-kurdo, Azadiya Welat, è stato ucciso insieme ad altri civili nella città sud-orientale di Cizre durante scontri tra combattenti kurdi e forze armate turche. Per questo temo che la Turchia stia cercando di far calare la pressione rilasciando Dundar e Gul per poter aumentare la repressione contro la stampa kurda. Sebbene la loro scarcerazione sia un passo importante per la libertà di stampa in Turchia, potrebbe anche essere frutto di una decisione calcolata.

Come viene percepita dall’opinione pubblica turca la campagna anti-kurda in atto nel paese e fuori?

L’opinione pubblica turca è spaccata. Una parte condivide la politica islamista e nazionalista dell’Akp e non si oppone ai bombardamenti contro le Ypg in Siria. C’è però una parte che, seppur conservatrice e vicina al partito di Erdogan, non è convinta di un tale livello di aggressività sia contro Rojava che contro il sud-est turco. Infine c’è quella sezione di pubblico (che è o di origine kurda o che si oppone per ragioni politiche e ideologiche all’Akp) fortemente contraria. È molto probabile che i kurdi turchi reagiranno ad un eventuale intervento di Ankara in Rojava, così come reagirono nel 2014 quando lo Stato Islamico attaccò Kobane e la Turchia rimase a guardare: nella sollevazione kurda che seguì all’assedio di Kobane oltre 50 civili furono uccisi. E anche stavolta le conseguenze potrebbero essere terribili.

Oggi una campagna militare in Siria è già in corso: l’artiglieria turca sta bombardando le postazioni kurde ad Azaz. Un intervento di terra è immaginabile?

Nonostante le posizioni di Russia e Stati Uniti, l’Akp ha fatto capire che non cambierà la sua attuale politica siriana. Ma, avendo il solo sostegno dell’Arabia Saudita, dovrà pagare un prezzo alto. L’intervento militare in Siria complicherebbe il conflitto, avrebbe effetti devastati perché è ovvio che non solo la popolazione kurda non accetterebbe un intervento, ma avrebbe contro anche la coalizione occidentale, la Russia e l’Iran. Provocherebbe una reazione interna alla stessa Turchia e non penso che il governo voglia assumersi questo rischio. Senza un segnale positivo di Usa e Russia, Erdogan non oserà muoversi.

Quindi Ankara agisce da sola, senza l’avallo degli Stati Uniti e della Nato?

Non ci sono indicazioni che la mano della Nato muova la politica turca contro i kurdi siriani. Al contrario, è Ankara che sfrutta l’appartenenza alla Nato per dare vita ad una coalizione che sia anche anti-kurda. Ma non sta ottenendo l’appoggio che sperava. Se si guarda alle politiche interne dell’Akp, è ovvio vedere come l’approccio anti-kurdo sia il risultato delle radici nazionalistiche e islamiste del partito. L’Akp non tollera il movimento kurdo perché di sinistra, laico, volto all’autonomia territoriale. Questi caratteri, tipici di Pkk e Pyd, contraddicono i piani di Erdogan che punta ad implementare le sue politiche nazionalistiche e turco-centriche sia nel paese che in Medio Oriente.

E per farlo non esita a sostenere anche lo Stato Islamico, come dimostrato da molti giornalisti e attivisti kurdi ma anche dagli stessi Dundar e Gul.

Qualche anno fa il presidente ha provato a realizzare il suo progetto nazionalista con il “sostegno” kurdo, ovvero sfruttando a proprio favore il negoziato del 2013 con il Pkk. L’obiettivo era stravolgere i progetti di autonomia kurdi e assorbirli nei piani del governo. Aveva invitato all’epoca anche il Pyd per persuaderlo del progetto. Tuttavia il movimento kurdo ha resistito e non ha voluto abbandonare la propria strategia laica e di auto-governo. L’Akp ha puntato allora sullo Stato Islamico sperando che schiacciasse i kurdi e li costringesse, per salvarsi, a rivolgersi alla Turchia. Non è successo e Ankara ha cominciato a colpire direttamente Rojava.

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Carneficina a Baghdad, 92 morti mentre l'Iraq si sbriciola tra sunniti e sciiti

Il bilancio definitivo è arrivato stamattina: 92 morti in una serie di attacchi dentro e intorno Baghdad. L’ennesima strage targata Isis si è abbattuta ieri sulla capitale irachena a dimostrazione della libertà di movimento di cui godono tuttora le cellule del gruppo islamista. L’Isis non è chiuso nelle roccaforti a ovest, da Mosul a Fallujah, ma si spinge oltre sfruttando le difficoltà che le forze di sicurezza irachene hanno nel frenarne l’avanzata.

Ieri l’esplosione di una motocicletta parcheggiata ha colpito il mercato Mredi, nel quartiere sciita di Sadr City, subito seguita da un attentatore suicida che si è fatto saltare in aria mentre arrivavano i primi soccorsi: 73 vittime. Contemporaneamente altri attacchi colpivano la periferia della capitale (7 morti) mentre le forze di sicurezza si scontravano con miliziani islamisti intorno Abu Ghraib (12 morti): l’Isis ha preso il controllo di un silos di grano e ha attaccato una vicina base militare.

Ha poi rivendicato l’attacco a Sadr City, con un comunicato online nel quale ripeteva di avere nel mirino gli apostati, ovvero la comunità sciita. Risponde il premier al-Abadi, su Facebook: “Non ci fermeranno”. Ma la preoccupazione è concreta: lo Stato Islamico sa arrivare con i kamikaze nel cuore di Baghdad, ma soprattutto è in grado di organizzare operazioni coordinate ad Abu Ghraib, territorio alle porte della provincia di Anbar a ovest ma anche primo passo verso la capitale, ad est, a metà strada lungo la direttrice Fallujah-Baghdad. A fermarne l’avanzata sono state ancora una volta le milizie paramilitari sciite Hashed Shaabi, semi indipendenti dal governo e sempre  più potenti nel paese, sia dal punto di vista militare che politico.

Un’altra fronte di preoccupazione perché il più efficace freno al sedicente califfato non è ancora l’esercito di Baghdad, ma le decine di migliaia di miliziani sciiti, controllati dall’Iran e responsabili di numerose violazioni nei confronti della popolazione sunnita. La frattura interna al paese è visibile a occhio nudo e prospetta un futuro di divisione. L’ultima settimana ne è stata la dimostrazione: prima la proposta sunnita di federalismo amministrativo e poi la manifestazione di massa dei sostenitori del religioso sciita Moqtada al Sadr.

Venerdì un milione di sciiti sono scesi in piazza Tahrir a Baghdad per protestare contro la corruzione del governo centrale, portati in strada da al-Sadr, leader dell’Esercito del Mahdi che combatté l’occupazione statunitense dieci anni fa e ora a capo delle cosiddette Brigate della Pace, ricostituite in chiave anti-Isis e protagoniste della ripresa di Tikrit.

Al-Sadr resta una figura centrale nel panorama politico iracheno, uomo di grande carisma capace di mobilitare centinaia di migliaia di civili e combattenti. Una forza che gli giunge anche per la posizione assunta nei confronti del governo di Baghdad, accusato di fondarsi su un sistema di corruzione quasi istituzionalizzata. Venerdì ne è stato un esempio: i sostenitori di al-Sadr hanno mandato su spinta del leader un ultimatum all’esecutivo di al-Abadi perché concretizzi le riforme che da mesi promette di realizzare. Un pacchetto di leggi che al-Abadi ha enormi difficoltà a far diventare realtà a causa delle resistenze interne, di un sistema istituzionale che per decenni si è fondato su corruzione e clientelismo e che ha fatto dell’Iraq uno dei primi paesi al mondo nella poco onorevole classifica del radicamento della corruzione interna.

Ma al-Sadr non punta solo alle riforme interne. Tra le richieste mosse al governo c’è l’inclusione delle milizie sciite nell’esercito nazionale, che se da una parte le renderebbe più controllabili, dall’altra darebbe loro una legittimizzazione politica in grado di influenzare direttamente le scelte del futuro Iraq.

Dall’altra parte sta il blocco sunnita che inizia a muoversi per ottenere l’autonomia necessaria a seppellire le discriminazioni che da anni denuncia. La scorsa settimana l’Hcc, l’Alto Comitato di Coordinamento, blocco di 13 partiti sunniti presenti in parlamento, ha proposto un piano di divisione federale del paese, ovvero la creazione di una regione autonoma sunnita a ovest. Un modello simile a quello del Kurdistan iracheno: “Questo garantirebbe stabilità, unità e la continuazione dell’attuale sistema politico e rimedierebbe ai problemi e gli errori”, ha detto Osama al-Nujaifi, presidente dell’Hcc, che sottolinea come province autonome permetterebbero di riorganizzare i rapporti con il governo centrale e di distribuire l’autorità.

Un’autorità, dice l’Hcc, che finora è stata esercitata esclusivamente dal governo sciita, negando diritti fondamentali alla componente sunnita in campo politico, economico, commerciale. Per molti, discriminazioni che hanno spinto ex baathisti e giovani sunniti tra le braccia dell’Isis.

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“Stop Technion”: le risibili argomentazioni dei rettori italiani contro la campagna

Da alcune settimane circola un appello firmato da centinaia di docenti delle università di tutta Italia che invitano a boicottare gli accordi di cooperazione fra l'accademia israeliana e le università italiane, a partire dall’Istituto israeliano di tecnologia “Technion”. L'appello, che si pone all'interno della cornice della campagna BDS (Boicottaggio Disinvestimento Sanzioni), spiega infatti come le università israeliane collaborino “alla ricerca militare e allo sviluppo delle armi usate dall’esercito israeliano contro la popolazione palestinese, fornendo un indiscutibile sostegno all’occupazione militare e alla colonizzazione della Palestina”.

Contro l'appello si sono da subito schierati non solo i vari esponenti del sionismo italiano, ma anche i rettori di molte delle università che hanno attivi rapporti di collaborazione col Technion.

Ad esempio il rettore del Politecnico di Torino (che aveva già subito nello scorso Ottobre una contestazione per via dei suoi accordi col Technion) pochi giorni dopo l'uscita dell'appello argomentava sulla “Stampa”:  “[...] uno dei valori cardini dell’Università è l’indipendenza dalla politica, in base alla quale possiamo collaborare con tutto il mondo”. E ancora: i progetti del Technion con l’esercito? “Non ne sono al corrente, io rispondo per i progetti che portiamo avanti noi: vertono sull’acqua, le nanotecnologie e le energie. Nulla che abbia a che vedere con politica o guerra”. Argomentazioni simili sono state utilizzate anche dai rettori di alcune delle altre grandi università coinvolte in accordi con il Technion, come il Politecnico di Milano e l'Università Roma Tre.

A smontare queste argomentazioni ci ha pensato Joseph Halevi, uno dei promotori dell'Appello Stop Technion, con due post pubblicati questa mattina su Facebook che riportiamo.
In risposta all'appello dei 320 universitari contro gli accordi col Technion i tre Rettori più coinvolti (POLITO, POLIMI, UNITO, ROMATRE) hanno risposto dicendo, tra l'altro, che i rapporti col Technion sono su cose pacifiche come l'acqua e le nanotecnologie. Mi soffermo ora sulla questione dell'acqua. L'uso della risorse idriche della zona da parte di Israele e' uno dei pilastri principali del sistema di Apartheid israeliano nei confronti dei palestinesi. Israele ruba l'acqua ai palestinesi sin dal 1948-49. Ad esempio nei confronti dei villaggi e cittadine palestinesi che nel 1949 all'armistizio erano dentro i nuovi confini di Israele, il governo ha sempre erogato molta più acqua per abitante agi insediamenti ebraici. Con l'occupazione di tutta la Palestina storica e del Golan dopo la guerra del giugno 1967, il divario è diventato abissale. Nel West Bank e a Gaza la disponibilità d'acqua pro-capite è inferiore alla quantità giornaliera raccomandata dagli organismi dell'ONU. Nel West Bank ai Palestinesi e' proibito scavare pozzi e se lo fanno rischiano la prigione. Israele controlla anche il sottosuolo della terra dei palestinesi. Lo strumento principale per l'attuazione dell'Apartheid israeliano nel campo idrico è la società israeliana MEKOROT (http://stopmekorot.org/Italy). Il fatto che i Rettori abbiano menzionato le ricerche sull'acqua come prova di ricerche non connesse al complesso militare e di occupazione israeliano mostra la loro ignavia. Essi Rettori devono essere condannati senza appello all'omonimo girone dantesco.

Presentare – come hanno fatto i Rettori – la cooperazione sulle nanotecnologie come un’area pacifica non collegata al complesso militare israeliano esula dalla sfera dell’ignavia e li precipita in gironi ancor più  moralmente infamanti. È impossibile che i Rettori non sappiano che le tecnologie militari forniscano un campo di applicazione non secondario delle ricerche sulle nanotecnologie. Nel caso del Technion poi il rapporto tra la ricerca ivi effettuata ed il sistema militare-industriale israeliano è diretto, senza mediazione alcuna. Il dirigente cui si deve l’enorme sviluppo del Technion nel campo delle nanotecnologie e’ Yitzhak Apeloig, biochimico, Presidente dal 2001 al 2009. Nel 2005 egli fondò presso il Technion il Russell Berrie Nanotechnology Institute. L’Istituto si basa sul governo d’Israele e sulla Russell Berrie Foundation, ed è uno dei più importanti al mondo in materia. Il Russell Berrie Nanotechnology Institute del Technion mantiene stretti legami con Elbit che è la seconda compagnia militar industriale israeliana e produce droni ad uso militare. Il Russell Berrie Nanotechnology Institute del Technion lavora anche per la Israel Aircraft Industry. L’istituto delle nanotecnologie del Technion è in tutto e per tutto un braccio del sistema militare di occupazione israeliano.
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A Panebianco…

Negli ultimi 3 giorni il Corriere della Sera ha dedicato complessivamente ben cinque pagine alle contestazioni subite da Angelo Panebianco. Per avere un’idea delle proporzioni e dell’unità di misura con cui pesa le notizie il principale quotidiano italiano, basti pensare che poche settimane prima, la strage di 86 nigeriani a Dalori per mano di Boko Haram si era meritata niente di più che un trafiletto nascosto nelle pagine interne. Cosa sarà successo allora di così grave all’Università di Bologna da meritare tanto inchiostro? Forse uno dei reati più gravi in un Paese come il nostro: quello di “lesa maestà”. Come dimostrano le immagini circolate in rete, Panebianco non ha subito alcuna “aggressione”, ma si è visto contestare, giustamente e legittimamente, le proprie opinioni guerrafondaie da un gruppo di studenti e compagni. E questo è inaccettabile, anzi, è pericolosissimo, perchè crea un precedente. Eppure la possibilità di dire pubblicamente la propria e contestare le idee di chi esercita il potere dovrebbe essere il sale di quella democrazia liberale che tanto sta a cuore proprio al professor Panebianco e a quelli come lui. Anche perchè ciò che gli viene contestato non è il suo ruolo di docente universitario (ed anche in questo caso sarebbe più che legittimo farlo), ma quello che scrive come opinionista politico dalle colonne del più influente organo di stampa italiano. Lo strumento che insieme ad altri contribuisce ad orientare l’opinione pubblica in merito ad una possibile guerra il Libia, quella si “violenta”. Quindi se c’è una libertà d’opinione da difendere è proprio quella degli studenti (per cui oggi vengono invece richiesti a gran voce provvedimenti disciplinari e penali) e non certo quella di un barone che oltre alle idee guerrafondaie ha dimostrato di conservare una concezione autoritaria e gerarchica dell’insegnamento. Con sprezzo del ridicolo, dopo aver rievocato il ’77, le intimidazioni, la violenza politica, ecc. ecc. ieri il Corriere titolava a tutta pagina che finalmente erano stati identificati gli autori del raid contro Panebianco. Verrebbe da rispondergli che i raid, quelli veri, sono proprio quelli che evocava Panebianco in Libia. Quelli in cui muoiono migliaia di persone per tutelare gli interessi dei padroni del giornale su cui Panebianco scrive. Ma tanto già sappiamo che sarebbe fiato sprecato.

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Abbraccio renziano tra Psoe e Ciudadanos. Iu e Podemos nel pallone

Continua a Madrid la trattativa – e la polemica – tra i maggiori partiti per la formazione del futuro esecutivo a più di due mesi ormai dalle elezioni generali del 20 dicembre. Negli ultimi giorni il leader del Partito Socialista Operaio (!) Spagnolo ha ottenuto dalla militanza un ampio sostegno al patto di governo siglato con la nuova destra di Ciudadanos, dopo il repentino voltafaccia nei confronti di Podemos, con il quale il Psoe stava negoziando un improbabile accordo. Ben il 79% dei militanti e degli iscritti che hanno partecipato alla consultazione interna ha detto sì alla linea del quarantenne Sanchez, con un tasso di partecipazione di circa il 50%. Spiazzata, per ora, la fronda interna al Psoe, guidata da alcuni ras locali del partito come Susana Diaz, che rimproveravano a Sanchez la disponibilità verso Podemos e le sinistre e che ora sono stati privati dei loro argomenti di polemica. Ora la palla passa alle Cortes, dove mercoledì è previsto il primo voto di investitura. Che non ci sarà, visto che la prima votazione richiede la maggioranza assoluta mentre al massimo Sanchez può contare sui 90 deputati del Psoe, sui 40 di Ciudadanos e forse di una manciata di indipendenti ed esponenti di liste locali. Ma neanche venerdì Sanchez dovrebbe farcela, nonostante che in seconda votazione il quorum per la formazione del governo si abbassa alla maggioranza semplice; all’aspirante premier servono comunque 176 voti. In mancanza di un sostegno da parte del Partito Popolare o di una astensione dei parlamentari di Podemos e delle altre liste di centrosinistra-sinistra catalane, valenzane e galiziane il traguardo appare lontano, irraggiungibile.

E in molti credono che si dovrà tornare alle urne, anche se i sondaggi per ora sembrano riprodurre rapporti di forza simili a quelli usciti dalla giornata del 20 dicembre, con al massimo una lieve crescita dei partiti maggiori, un piccolo cambiamento non in grado di determinare schieramenti netti ed in grado di garantire la governabilità. Se entro il 3 maggio non si troverà la quadra il Re Felipe VI dovrà sciogliere le camere e indire nuove elezioni per il 26 di giugno. Ma sottobanco il negoziato tra le forze politiche prosegue.

Podemos aspetta i socialisti al varco. Per la formazione di Pablo Iglesias i socialisti diventano ‘forza di cambiamento’ in caso di alleanza a sinistra ma restano un partito del sistema se continueranno a insistere nell’alleanza con i liberisti e centralisti di Ciudadanos. Un punto di vista politicista che mette in evidenza la crisi di prospettive per un movimento che sembra giunto all’apice della sua popolarità ma prigioniero di dinamiche istituzionali tutte interne ad un sistema politico bloccato. Il Psoe ha firmato con la nuova destra un programma di governo di chiaro stampo liberista e centralista, pienamente in linea con i diktat dell’Unione Europea, dimostrando quali sono le sue priorità in campo economico, politico e istituzionale. Un “patto di legislatura” di stampo renziano che riprende le brutture del Jobs Act e prevede la trasformazione delle province in organismi non più elettivi ma composti da sindaci.

Eppure Iglesias e compagni continuano a illudere la propria base che il Psoe possa essere ‘recuperato’ all’interno di un’alleanza plurale di formazioni che dovrebbe mettere invece in discussione l’austerità, i tagli, i dogmi del nazionalismo spagnolo contro le rivendicazioni catalane e basche. Nei giorni scorsi Podemos ha di nuovo invitato il Psoe renziano a tornare alla trattativa con quello che in molti, impropriamente, continuano a descrivere come la rappresentanza politica del movimento e della stagione degli ‘Indignados’. Alla politica della ‘mano tesa’ nei confronti dei socialisti si è aggiunto anche Alberto Garzòn, leader dell’alleanza di sinistra imperniata su una Izquierda Unida mai così debole.

Che il decalogo liberista firmato da Pedro Sanchez e Albert Rivera venga semplicemente cestinato dai socialisti, come chiede Iglesias, in caso di riapertura delle trattative con Podemos, appare altamente improbabile. Tanto Unidad Popular quanto Podemos lo sanno bene, e infatti parlano ‘responsabilmente’ di una ampia revisione delle 66 pagine sottoscritte da Psoe e Ciudadanos. Il che vuol dire che al massimo si andrebbe ad emendare, in caso di accordo ‘a sinistra’, qualche aspetto più truce del patto di legislatura.

Il rischio è che Podemos diventi l’ennesima stampella di sinistra a un governo targato Troika. Gettando così alle ortiche anni di mobilitazione popolare, di lotte, di scioperi, di ragionamenti su un altro mondo possibile.

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Heartbreaker


Ucraina - Le mire di Kiev sulla Crimea

Torna l'attenzione sulla Crimea. Ieri Petro Porošenko ha parlato del suo ultimo viaggio nella penisola, nella primavera del 2014, alla vigilia del referendum che, con il 96,77% dei suffragi, la riportò nella compagine della Federazione Russa. Il presidente ucraino ha detto che, con quel tour, egli intendeva dimostrare come “anche un uomo solo sarebbe stato in grado di dissolvere le nebbie della propaganda russa. Da allora le mie intenzioni non sono cambiate”.

A quanto pare, non sono però mutati nemmeno i propositi di quel 96,77% di crimeani. E ciò, a dispetto di ogni tentativo, “legale” o terroristico, di gruppi armati del medžlis dei tatari, di reparti neonazisti o di pretese internazionali della junta di Kiev, di far tornare la penisola in mano ucraina. Porošenko si dice convinto che Mosca stesse pianificando la riunione della Crimea alla Russia sin dal 1991 (l'anno della finale dissoluzione dell'Urss a opera dei presidenti di Russia, Ucraina e Bielorussia, El'tsin, Kravčuk e Šuškevič) e non ci sia riuscita solo “grazie agli sforzi eroici del popolo ucraino”. Ora, Porošenko chiede al Ministero della difesa e allo stato maggiore di rafforzare i controlli lungo tutta la costa del mar Nero e sostenere ogni focolaio di resistenza sulla penisola, ricordando che “ovviamente l'Ucraina non riconosce e non riconoscerà mai de-jure come cittadini russi i crimeani che hanno ricevuto il passaporto russo”.

Ciò avviene nel momento in cui, sullo sfondo di tali mire ucraine, la Russia, dopo aver annunciato la costruzione di un ardito ponte autostradale sull'istmo di Kerč che conduce in Crimea, sta già iniziando i lavori per una nuova linea ferroviaria di circa 122 km che congiungerà le regioni russe di Rostov sul Don e di Voronež, evitando il precedente percorso ucraino. La linea dovrebbe essere inaugurata nell'autunno del 2017, in barba alle pretese di Kiev.

E ieri, in risposta alle dichiarazioni del direttore del Dipartimento di politica sociale e umanitaria del Ministero della difesa ucraino, Valentin Fedičev, secondo cui, “in caso di guerra su larga scala” tra Ucraina e Russia, quest'ultima lascerebbe sul terreno “come minimo 20mila soldati”, l'agenzia Novorosinform riportava il sarcastico commento del presidente dell'amministrazione municipale di Sebastopoli, Sergej Menjajlo. Curiosamente, ha detto il capo di Sebastopoli, “la dottrina militare ucraina è dettata non dallo stato maggiore, ma dai finanzieri. Non appena si stanziano soldi per le necessità militari, i piani di guerra con la Russia vengono messi a punto in qualche villa a cinque piani sulle rive dei Caraibi e i soldati ucraini rimangono con gli scarponi rotti e i vecchi mitragliatori”.

Nell'epos nazionalistico si è inserito anche il leader del gruppo rock “Vopli Vidopljasova” (più o meno: Urla di Vidopljasov, personaggio del dostoevskiano Il villaggio di Stepànčikovo e i suoi abitanti), Oleg Skripka, il quale ha dichiarato a Ukraina.ru che sapeva da tempo che la Crimea sarebbe tornata a far parte della Russia. “La Crimea non tornerà mai più a essere ucraina” ha detto Skripka; “in Ucraina non c'è sufficiente volontà politica per questo. E cosa dovremmo fare con quei milioni di traditori in Crimea? Deportarli? Essere amici? Non ci riusciremo… Per qualsiasi persona normale era chiaro che ci avrebbero preso la Crimea. Per me era chiaro sin dall'inizio del 2000; già allora noi avremmo dovuto prenderci la “debole” Transdnistria, requisire tutti gli armamenti che vi erano concentrati e andare a riprenderci la Crimea”.

Per la soddisfazione di Skripka, c'è da dire che, comunque, Porošenko non demorde. Anatolij Baranov, del PC russo, scriveva ieri su Forum.msk.ru di come il presidente ucraino abbia in programma una riunione speciale del Consiglio di sicurezza e difesa in cui mettere a punto un piano di tutela degli interessi ucraini contro la Russia di fronte ai tribunali internazionali. Sembra un progresso, scrive Baranov: finora il Consiglio di difesa studiava il metodo di riacquisizione della Crimea con la forza; appena pochi giorni fa, il Ministro degli interni Arsen Avakov aveva annunciato la formazione di reparti speciali atti allo scopo. Sinora, Kiev si è limitata a interrompere parzialmente le forniture di acqua ed energia elettrica, ma la cosa non ha influito sugli umori prorussi del 97% della popolazione, come sperava Kiev. Baranov scrive di come, nonostante gli accenti critici dei cittadini di Sebastopoli per l'operato di Menjajlo, le osservazioni critiche di Baranov stesso suscitino disappunto e lo si sospetti di essere “una spia ucraina”.

E, comunque, appena pochi giorni fa, EurAsia Daily scriveva di come gruppi mobili di sabotatori stiano passando dal blocco economico della Crimea – coi conseguenti introiti dal contrabbando delle merci sequestrate agli autotrasportatori – al terrore aperto verso gli abitanti della regione di Kherson, confinante a ovest con la penisola, eletta al ruolo di avamposto dal medžlis dei tatari dopo la fuga dalla Crimea. Avamposto in cui il battaglione musulmano “Noman Čelibidžikhan” (primo Mufti dei musulmani di Crimea, che avversò il potere sovietico) si va rimpinguando per l'afflusso di “gruppi radicali da tutto il mondo” e i lauti sostegni in armi del governo di Ankara. A detta del vice premier della Crimea, Ruslan Bal'bek, nel battaglione ci sarebbero ben pochi tatari e quasi solamente mercenari stranieri, per lo più dell'Isis. Secondo EurAsia Daily, la spina dorsale del battaglione sarebbe composta da islamisti dei “Lupi Grigi” fuggiti dalla Siria, insieme a elementi provenienti dall'Africa settentrionale e da altre parti del mondo.

D'altronde, che l'ipotesi militare sia sempre stata presa in considerazione, sin dall'inizio del colpo di stato a Kiev, lo conferma ora la pubblicazione sul sito di Komsomolskaja Pravda del lunghissimo stenogramma della riunione del Consiglio di sicurezza e difesa ucraino, tenutasi il 28 febbraio 2014, relativa alla questione della Crimea. La possibilità di entrare in guerra con la Russia fu discussa dall'allora speaker della Rada, Aleksandr Turčinov, insiema al capo del Consiglio di difesa Valentin Nalivajčenko, i Ministri di interni, difesa ed esteri, Arsen Avakov, Igor Tenjukh e Andrej Deščitsa, il premier Arsenij Jatsenjuk, vari capi del controspionaggio, Julija Timošenko e altri. Accanto all'appoggio di massa dei crimeani per le possibili azioni russe, si metteva l'accento sulla demoralizzazione delle truppe e della flotta ucraine in Crimea, sulla diserzione di vari reparti del Ministero degli interni e sulla possibilità di inviare non più di 5.000 uomini nella pensola, ma sulla impossibilità di controllare l'intera frontiera con la Russia che, in caso di attacco, in meno di un giorno avrebbe raggiunto Kiev.

Jatsenjuk riconosceva che Kiev non era pronta a operazioni militari e, ricordando che anche Washington non aveva una posizione ferma, proponeva una soluzione “federativa” per la penisola. In quella riunione, Jatsenjuk appare il “più ragionevole”, ricordando che nessun intervento militare, come prospettato da Turčinov – che proponeva la legge marziale l'arresto dei capi “separatisti” – sarebbe arrivato in quel momento in aiuto dalla Nato e che la legge marziale avrebbe significato una dichiarazione di guerra alla Russia. Come suo solito, “l'eroina” dell'Occidente, Julija Timošenko mostra scrupoli solo formali: “Se noi avessimo anche una sola chance su cento di vincere Putin, sarei la prima ad appoggiare un'azione energica. Ma la nostra situazione militare è disastrosa e dobbiamo invocare l'aiuto occidentale a nostra difesa, vestendo i panni della colomba della pace”. Particolarmente efficaci le parole di Turčinov: “I nostri partner occidentali ci chiedono di non fare bruschi movimenti”. In definitiva, solo la consapevolezza dell'inadeguatezza delle proprie forze militari, fermò la junta dalla guerra aperta con Mosca, anche se non impedì poi, un mese e mezzo più tardi, ai golpisti di Kiev, di iniziare i bombardamenti e l'offensiva sul Donbass. Se Turčinov, conclude l'osservatore di Komsomolskaja Pravda, fosse veramente stato convinto della presenza di reparti russi nel Donbass, anche in quel caso a Kiev sarebbero rimasti, secondo la colorita espressione russa, “più cheti dell'acqua e più bassi dell'erba”; e non a caso la Timošenko ha già denunciato come “delitto” la pubblicazione di quello stenogramma.

Come scriveva il grande Tolstoj, Napoleone era convinto che non è bene ciò che è bene, ma è bene quello che a lui passa per la testa.

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Ma perché devono fare il referendum nel Regno Unito?

L’accordo siglato tra Cameron e Bruxelles che verrà sottoposto a referendum nel Regno Unito il 23 giugno di quest’anno è un accordo per certi versi infame in quanto, come sempre, in caso di difficoltà si fanno volare gli “stracci”; il prezzo questa volta lo pagheranno gli immigrati comunitari i quali non potranno più usufruire del welfare inglese almeno per sette anni e verranno assistiti alle condizioni dei loro paesi di origine.

Va comunque ricordato in questo caso che anche gli emigrati italiani subiranno lo stesso trattamento e va fatto non solo per rimarcare le discriminazioni ma per evidenziare che in Italia il fenomeno dell’emigrazione è ripreso da tempo vedendo oltre quattro milioni di lavoratori e giovani andare in altri paesi, fenomeno questo sistematicamente rimosso dalla stampa e dall’azione della politica.

Un accordo che ribadisce che in Europa la “spartizione” viene fatta come sempre tra potenti i quali stabiliscono le condizioni per l’intero continente e fa emergere con evidenza la differenza di trattamento verso paesi quali la Grecia ed i cosiddetti PIGS, vedi le lamentele di Renzi che rischia di fare la fine di Berlusconi, ai quali vengono riservati diktat e lettere di “ammonimento” piuttosto che confronto e mediazione. D’altra parte questa è la natura imperialista della UE ed il danno politico che si evidenzia da questo tipo di situazioni è che l’idea sbandierata dell’Europa dei diritti e dei popoli non è nient’altro che una operazione di facciata ideologica sempre più debole e scoperta.

L’accordo rappresenta non la causa ma gli effetti di processi più profondi e non molto palesi da analizzare bene per capire le future evoluzioni della UE. La scelta di fare il referendum è una scelta pesante che potrebbe far saltare i calcoli di chi ha sottoscritto l’accordo nel consiglio europeo. Infatti se nella UE grandi contraddizioni non si manifestano, se non i malumori dei paesi dell’est Europa che hanno emigranti nel Regno Unito, in Inghilterra c’è una spaccatura evidente che parte dal mondo degli affari e delle imprese britanniche.

E’ stata firmata una lettera da parte di 36 imprenditori inglesi del Ftse 100 (un indice azionario delle 100 società più capitalizzate quotate al London Stock Exchange) a sostegno dell’accordo firmato, preoccupati per il possibile avvio di una fase di instabilità economica e finanziaria che si potrebbe determinare con la Brexit come conseguenza della vittoria del NO al referendum di Giugno. In questi decenni di integrazione i legami tra le imprese britanniche ed il mercato unico europeo si sono rafforzati grazie alla libertà di circolazione di merci e capitali ed uno stop a questa libertà peserebbe sull’attività di tali imprese. Ma va detto che le rimanenti imprese dell’indice Ftse 100 non hanno firmato la lettera, rivelando una spaccatura tra le maggiori aziende che in gran parte, comunque, non hanno preso posizione. Ma esiste una spaccatura che pesa politicamente anche nel resto del mondo economico del paese, con le medie e piccole imprese.

Infatti la rottura politica maggiore riguarda proprio il partito conservatore di Cameron il quale vede il sindaco di Londra, Boris Johnson, ed altri cento parlamentari Tory contrari all’accordo. Anche alcuni parlamentari laburisti sono contrari, come contrari sono le sinistre politiche e sindacali ed i movimenti populisti come l’Ukip di Farange. Insomma l’accordo ha spaccato la società inglese mettendo la grande borghesia imprenditoriale e finanziaria in contrapposizione politica ed ideologica ad altri settori di borghesia nazionale e settori popolari variamente collocati sul piano politico.

D’altra parte non si può non ricordare che lo stesso Cameron ha assunto negli anni scorsi posizioni fortemente euroscettiche e dunque questo accordo in realtà è l’espressione di una contraddizione che il Regno Unito si trascina da tempo in relazione al progetto europeo scegliendo di non entrare nell’Eurozona e di mantenere una forte indipendenza statuale rispetto agli altri paesi principali che hanno dato vita alla UE.

Quali sono i motivi di questa contraddittorietà inglese? Certamente contano le caratteristiche finanziarie del paese che da sempre è un’importante piazza finanziaria, per certi versi autosufficiente, e che il Regno Unito ha sempre fatto parte della “placca” geopolitica nordatlantica assieme agli USA. La crescita economica e politica dell’UE, nonostante le sue difficoltà, evidentemente ha prodotto una diversificazione degli interessi in quel paese producendo una spaccatura non di poco conto.

Si conferma cosi che il nocciolo duro dell’UE, il potere economico della Germania più quello militare e atomico della Francia, è in grado di sviluppare una forza centripeta che modifica gli equilibri precedenti; non solo, ma è anche possibile che si renda necessaria un’accelerazione del processo federativo del nocciolo duro che dia più potere al polo imperialista europeo nella competizione globale, come Il Sole 24 Ore predica quotidianamente dalle sue pagine. Competizione globale tra imperialismi (che qualcuno continua a mettere in dubbio) confermata ad esempio dalle vicende spionistiche degli USA verso l’UE, che dimostrano che le “buone” relazioni tra i due soggetti non sono affatto scontate.

In questo caso però l’incoerenza di Cameron ha bisogno anche di un’altra spiegazione che ha un carattere più politico che strategico. La necessità di ricontrattare i termini del rapporto tra il Regno Unito e la UE, da parte sua, e le caratteristiche economiche e sociali di chi si oppone all’unione continentale, nascono e si accentuano dall’inizio della crisi economica che dal 2008 ha coinvolto tutti i paesi imperialisti. Crisi che sta producendo una opposizione diffusa dei settori popolari e nazionali, magari in forme politiche reazionarie, ma che stanno rimettendo in discussione l’equilibrio che le borghesie imperialiste voglio imporre. Non è un caso che tutti i referendum fatti in Europa sulla UE, dalla Danimarca alla Francia, sono stati sempre persi dalle frazioni filo europee delle diverse borghesie nazionali e non è un caso che nel nostro paese l’ipotesi del referendum sia totalmente rifiutata da tutti i partiti, escluso il M5S.

Questo significa che le classi (o le caste) politiche devono fare i conti con una opposizione sociale che non si esprime per adesso in modo politicamente attivo ma che mina le basi degli assetti politici esistenti producendo instabilità politica e dunque crisi di egemonia del progetto di costruzione del polo imperialista continentale. Il referendum e la mediazione raggiunta a Bruxelles hanno perciò l’obiettivo di rendere gestibile una fase estremamente precaria; ma non è detto che l’esito sia diverso da quello greco, poi piegato comunque alle esigenze dei poteri finanziari continentali, oppure che determini una instabilità più pericolosa dell’equilibrio attuale nelle relazioni UE/Regno Unito.

Comunque questa è una condizione estremamente contraddittoria della borghesia europea che va utilizzata dalle forze di classe ai fini della lotta contro il polo imperialista in quanto lo espone al pronunciamento democratico dei popoli; dunque se il referendum si convoca in Gran Bretagna perché non dovrebbe essere possibile organizzarlo anche in Italia? Inoltre rende concreta e credibile l’ipotesi della rottura della Unione Europea che come Rete dei Comunisti da tempo proponiamo e che, con la nascita di Eurostop lo scorso 21 novembre, è divenuta oggetto di battaglia politica per un fronte di forze più ampio.

Rete dei Comunisti

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Il G20 ha spento le speranze

Il G20 ha detto chiaro e tondo che i “grandi” del pianeta viaggiano ognuno per conto proprio e non riescono – non perché non vogliano – a prendere alcuna decisione coordinata circa la gestione della crisi. Che è sempre lì e spinge al ribasso tutte le previsioni di crescita. Ma ogni crisi è anche un'opportunità, ci ripetono a ogni piè sospinto, e dunque ogni soggetto politico-economico sufficientemente forte ritiene di poterne uscire prima o poi in una posizione migliore rispetto a come vi era entrato.

Di conseguenza tutte le piazze finanziari, stamattina, vanno maluccio. Non tanto, certamente, ma quanto basta per bloccare ogni tentativo di recuperare pienamente le gravi perdite subite dall'inizio del nuovo anno. Anche le borse europee, arciconvinte che la Bce, tra pochi giorni, accentuerà i suoi sforzi per iniettare liquidità nel sistema, hanno smesso di far segnare guadagni consistenti.

In questa improvvisa maggiore prudenza pesa anche il calendario. Esattamente un anno fa la Bce dava il via al quantitative easing europeo – tassi di interesse a zero e acquisti di titoli per 60 miliardi al mese – nel tentativo di contrastare la deflazione e spingere i prezzi all'insù, fino al livello considerato ottimale, intorno al 2%. Anzi, a leggere i dati Istat di stamattina, si deve registrare l'esatto contrario: dopo nove mesi, infatti l'Italia torna decisamente in deflazione con una variazione dei prezzi del -0,2% su base mensile e del -0,3% su base annua. Stessa tendenza dell'Eurozona, peraltro: il tasso d'inflazione della zona con la moneta unica è del -0,2% mensile a febbraio, contro il +0,3% di gennaio, e del -0,3% annuo.

Tentativo dunque completamente fallito, come segnalano anche alcuni indici che prevedono un tasso di inflazione – da qui a cinque anni – ancora all'1,37%. Il livello più basso mai registrato. Anche la responsabilità deflazionistica del prezzo del petrolio, precipitato in pochi mesi a poco più di 30 dollari al barile, non avrà a quel punto (ma già alla fine di quest'anno) alcun peso statistico; perché, se anche il prezzo del greggio resterà al livello attuale, non porterà comunque più un segno “meno” rispetto all'anno precedente.

Del resto alla Federal Reserve sono stati necessari ben sei anni di politica monetaria accomodante per far registrare qualche timida crescita del Pil, una modesta ripresa dell'occupazione (tenendo conto del fatto che i nuovi posti di lavoro sono in genere molto più dequalificati e a basso salario) e, anche lì, un tasso di inflazione ancora lontano dagli obiettivi.

Dunque – risultati del G20 a parte – si va facendo strada la constatazione che la sola politica monetaria non riesce in nessun modo a cambiare in meglio la situazione. Certo, l'allentamento monetario ha evitato il crollo generalizzato dell'area euro che nell'estate del 2012 sembrava vicinissimo, ma non funziona nel risollevare un'economia depressa.

Se ne sono accorti soprattutto dalle parti di Confindustria, visto che sul loro giornale il sempre lucido Vito Lops è costretto a far notare (anche ai suoi datori di lavoro...) che
E' un problema strutturale. I mercati hanno ben chiaro che l'Eurozona sta vivendo una crisi della domanda e finché non arriveranno nuove risorse alla domanda (e quindi in particolare al ceto medio-basso della popolazione) attraverso un aumento del reddito o una diminuzione fiscale che ne aumenti il potere di acquisto, sarà difficile immaginare un futuro con un'inflazione “sana” intorno al 2%.
Ma come si stimola la domanda? Se la politica monetaria della Bce non basta, l'unica via sarebbe quella classicamente keynesiana: aumentare il reddito disponibile dei consumatori-massa, ovvero di lavoratori (con ogni tipo di contratto), pensionati, ecc. Questo vorrebbe dire aumentare i salari, o almeno aumentare gli istituti del welfare (che riducono una serie di spese familiari obbligate). Ma l'Unione Europea – lo ha ripetuto anche al vertice del G20 a Shangai, per bocca del terribile Wolfgang Scaheuble, ministro delle finanze di Berlino – persegue con implacabile follia l'obiettivo opposto, abbassarli ancora, nel tentativo delirante di migliorare per questa via la competitività globale della produzione continentale.

L'accento posto sulla maggiore competizione globale impedisce logicamente qualsiasi tentativo di "cooperazione", nello sforzo disperato di far pagare a qualcun altro i costi della stagnazione, se non proprio della recessione (che c'è già in alcune aree monetarie, ma non in tutte). Competizione che esce sempre più spesso dai confini della semplice economia per sfociare sul terreno diplomatico e – pericolosamente – militare. Più imperialismi, insomma, non soltanto uno. Altrimenti, detto in parole semplici, un accordo unitario al G20 sarebbe stato trovato, pur tra molti mugugni. E invece no.

Messa così, non ci sono vie d'uscita. Per lo meno a breve termine e senza che qualcuno, alla fin fine, si faccia molto male. E i “mercati”, questo, lo capiscono prima di tutti noi.

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You shook me


Renzi vuol tagliare le pensioni fingendo di "mettere soldi in tasca"

Un governo criminale si giudica non solo per la legislazione omicida già approvata, ma soprattutto per la bulimia di provvedimenti fatali che esibisce ogni giorno.

Quello di Renzi sta battendo ogni record, ma rischia anche di vedersi “scoperto”. L'ossessiva propaganda che ci investe dagli schermi tv e dai giornali, infatti, si scontra apertamente con le condizioni di vita reali. E non c'è dunque alcun messaggio “ottimistico” che possa nascondere il peggioramento quotidiano che ognuno di noi può sperimentare. La "crescita" non si è vista, e le previsioni globali dicono che non si vedrà affatto. Semmai il contrario...

Dunque c'è bisogno di qualche “pensata” che possa – temporaneamente, almeno – sembrare una dimostrazione concreta di “benevolenza” per chi vive solo del proprio lavoro, magari stimolando a spendere qualcosa di più subito (per "alimentare la crescita", ovviamente). L'effetto degli “80 euro” è finito da un pezzo – anche perché, ci segnalano molti lettori, in busta paga non si sono più visti da gennaio – e non c'è un euro da destinare alle tasche dei lavoratori. Semmai, con i tagli promessi all'Unione Europea, ci sarà da toglierne altri.

Quindi come si può fare? Attaccando le pensioni, naturalmente! Ma facendo finta di “abbassare le tasse, così si fa anche un discorso “popolare”...

Il meccanismo è stato studiato da Tommaso Nannicini, uno dei tanti bocconiani che non ci dormono la notte su come affamare la gente, e per questo nominato tra i consiglieri economici di Matteo Renzi. Si tratta di “ridurre il cuneo fiscale”, ovvero quella quota di salario e profitto che mensilmente viene stornato all'Inps sotto forma di contributi previdenziali.

L'inganno è già nel nome che viene dato alle cose: i contributi previdenziali, infatti, non sono affatto “tasse”, ma semplicemente “salario differito”. Ossia una quota dello stipendio che viene accantonata per riceverla poi – tassata, questa volta sì – sotto forma di assegno pensionistico.

La proposta di Nannicini è insomma una truffa, vecchia come il cucco, per di più concepita nel solito modo differenziante: tagliare di sei punti percentuali i contributi (tre dal lato del lavoratore, tre da quello dell'azienda) per tutti i nuovi assunti. E per sempre.

Cosa avviene, in questo modo? Per le casse dello Stato non cambia assolutamente nulla (e infatti viene descritta come una “operazione a costo zero”), mentre per quelle dell'Inps si apre una voragine strutturale crescente nel tempo, tale da mettere in forse l'erogazione delle pensioni future.

Per le aziende si tratta di un risparmio secco, un 3% di profitti in più che verranno trattenuti.

Per i lavoratori, analogamente, c'è la possibilità di avere in busta paga qualche spicciolo in più (su uno stipendio di 1.200 euro mensili, circa 36 euro). Ma naturalmente questo significa rinunciare a una quota di pensione futura, perché – contrariamente a quanto fatto in altri casi similari – il governo Renzi non prevede di compensare l'Inps per il mancato introito. Quindi questi “soldi in più in busta paga” saranno sicuramente soldi in meno al momento della pensione (peraltro già in drastica riduzione per le generazioni future).

La botta rischia di essere così rilevante, sul trattamento pensionistico individuale, che l'”ipotesi Nannicini” prevede che il singolo lavoratore possa scegliere di non ricevere quei soldi in busta paga, destinandoli invece... alla previdenza integrativa. Ossia ai fondi pensione privati. Un modo di affossare l'Inps facendo guadagnare la finanza che si occupa di fondi...

Non è finita. Anche questa scelta avverrebbe con perdita, perché lo stesso governo Renzi, qualche mese fa, ha provveduto ad aumentare la tassazione (vera, anche questa!) sui contributi versati ai fondi pensione: dall'11,5 al 20%.

Una tripla fregatura, insomma, per cui qualsiasi cosa tu decida di fare, ci rimetti. Subito oppure dopo, ma ci rimetti.

Ultima osservazione, ma decisamente rilevante. Questo “trattamento di favore” a scapito dei nuovi assunti verrebbe a creare – come avviene dall'epoca della “riforma Dini” e del “pacchetto Treu” – un doppio regime pensionistico. Uno per i “vecchi assunti” e un altro, peggiore, per i “nuovi”. Possiamo scommettere sulla data di inizio della campagna mediatica contro i “privilegiati” che manterrebbero l'attuale sistema, sottolineando la “disparità di trattamento” e l'”ingiustizia”. Campagna ossessiva, come quella che ha poi portato all'abolizione dell'art. 18 per tutti (visto che i precari creati dal “pacchetto Treu” e dalla “legge 30” non avevano alcuna protezione dal licenziamento senza giusta causa), fin quando non sarà finalmente ristabilita “l'equità”, togliendo anche ai vecchi assunti ciò che si prevede di non dare più ai nuovi.

Strano che il presidente dell'Inps, Tito Boeri, così prodigo di suggerimenti anche non richiesti, non abbia ancora detto nulla su questa “idea” che rischia di svuotare le casse dell'istituto da lui diretto.

Non strano, invece, che il governo Renzi prepari altri provvedimenti criminali che permettano di realizzare il programma “dovete morire”.

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