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31/03/2016

Il ministro Guidi e l’emendamento per gli affari del fidanzato

L’interesse privatissimo come criterio guida per la politica. Quel che sembrava un fatto indiscutibile, ma dimostrabile solo facendo illazioni con prove soltanto logiche, emerge come uno sbocco di liquami dalle intercettazioni tra il ministro dello sviluppo economico – Federica Guidi, figlia di Guidalberto per una vita vicepresidente di Confindustria, lei stessa in carriera come presidente dei giovani industriali – e il suo fidanzato e convivente, Gianluca Gemelli.

L’indagato, per conto della procura di Potenza, era lui. Gemelli. Il suo nome è uscito nell’inchiesta per “traffico di influenze illecite” che ha portato a cinque arresti, stamattina, nell’impianto Eni di Viggiano, in Basilicata. I cinque sono funzionari e dipendenti del centro oli dell’Eni, il cuore estrattivo dei giacimenti petroliferi della Val d’Agri.

Il capo di imputazione redatto dal procuratore è però molto più interessante: Gemelli è accusato di aver “sfruttato la relazione di convivenza che aveva col Ministro allo Sviluppo Economico […] indebitamente si faceva promettere e otteneva da Giuseppe Cobianchi, dirigente della Total le qualifiche necessarie per entrare nella “bidder list delle società di ingegneria” della multinazionale francese, e partecipare alle gare di progettazione ed esecuzione dei lavori per l’impianto estrattivo di Tempa Rossa”.

Ed è questo progetto – sbloccato dal governo Renzi, a dicembre del 2014, tramite un emendamento alla legge di stabilità (la ex “finanziaria”) – al centro dell’indicibile scambio di favori tra il ministro e il fidanzato. Un progetto di sfruttamento del giacimento petrolifero situato nell’alta valle del Sauro, in piena Basilicata, che prevede l’apertura di otto pozzi – cinque nel comune di Corleto Perticara (PZ), un sesto nel comune di Gorgoglione e altri due pozzi da individuare a seconda delle autorizzazioni. A regime la Total prevedeva che l’impianto avrebbe una capacità produttiva giornaliera di circa 50.000 barili di petrolio, 230.000 m³ di gas naturale, 240 tonnellate di GPL e 80 tonnellate di zolfo.

Inutile aggiungere che l’opposizione a questo progetto era stata subito fortissima, tale da bloccare a lungo le autorizzazioni all’estrazione.

Poi arriva il governo Renzi, con la Guidi nel posto chiave – allo sviluppo economico – ed ecco arrivare il classico “sblocca Italia”, con un emendamento scritto su misura per la Total e Gemelli, che si era già accordato con la compagnia francese per ottenere, una volta messa in moto la pratica, appalti per due milioni e mezzo a favore delle sue aziende (è un imprenditore anche lui, ci mancherebbe…).

Qui di seguito la telefonata registrata che inchioda entrambi, oltre al rappresentante della Total:
Guidi: “Dovremmo riuscire a mettere dentro al Senato se… è d’accordo anche Mariaelena la… quell’emendamento che mi hanno fatto uscire quella notte. Alle quattro di notte… Rimetterlo dentro alla legge… con l’emendamento alla legge di stabilità e a questo punto se riusciamo a sbloccare anche Tempa Rossa… ehm… dall’altra parte si muove tutto!“.

Gemelli le chiede se la cosa riguardasse i suoi amici.

Il ministro: “Eh certo, capito? Per questo te l’ho detto“.

Subito dopo Gemelli chiama un rappresentante della Total.

Gemelli: “La chiamo per darle una buona notizia... ehm... si ricorda che tempo fa c’è stato casino..che avevano ritirato un emendamento…ragion per cui c’erano di nuovo problemi su tempa rossa … pare che oggi riescano ad inserirlo nuovamente al senato..ragion per cui..se passa…e pare che ci sia l’accordo con Boschi e compagni…(…) se passa quest’emendamento… che pare… siano d’accordo tutti…perché la Boschi ha accettato di inserirlo… (…) è tutto sbloccato! (ride ndr)…volevo che lo sapesse in anticipo! (…) e quindi questa è una notizia…“.
Lo è certamente. Anche “di reato”. Quale sia l’arco dei reati contestabili al ministro (e alla Boschi, chiamata in causa dalla collega), lo deciderà la Procura. Si va ovviamente dall’interesse privato in atti di governo (non solo “di ufficio”) alla corruzione, e chi più ne ha più ne metta.

Sul piano politico, però, non c’è da attendere indagini della magistratura: questo governo deve scomparire dalla scena, immediatamente. Non c’è neanche da indicare un ordine di priorità (prima la Guidi e la Boschi, ecc). Tutti, subito, prima che questo paese crolli sotto il peso di affari sporchi travestiti dal “rinnovamento”, prima che il cosiddetto premier metta a capo della security e dei servizi segreti il suo ex padrone di casa, Carrai. Prima, insomma, che le intercettazioni le faccia soltanto lui.

Questa è volta buona, Matteo!

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Le guerre che l’Europa si prepara a combattere

Le guerre del XXI Secolo si caratterizzano per due fattori: l’uso e la sperimentazione delle tecnologie più avanzate in funzione militare, che riducono al minimo il numero di perdite tra i soldati, e specularmente la mattanza di civili in proporzione assai superiore rispetto al passato. Le guerre moderne diventano così un’orgia tecnologica e un concentrato di terrore/terrorismo puro tra la gente normale.

L’Unione Europea sta facendo i conti con entrambi i fattori, ma solo il secondo – a causa degli attentati di Parigi prima e di Bruxelles poi – sta ottenendo la meritata attenzione. Il primo fattore, quello dello sviluppo delle tecnologie di guerra, continua a passare inosservato o sottovalutato ed invece proprio su questo terreno la tabella di marcia innestata dalle classi dominanti europee e dalle istituzioni di Bruxelles, sta bruciando le tappe superando ritardi e arretratezze di anni. Nel prossimi Consiglio Europeo di giugno, verrà presentato da mrs. Pesc Federica Mogherini il documento sull’European Union Global Strategy (Eugs). Poco più di un mese fa invece un gruppo di esperti nominato dalla Commissione Europea, ha presentato il suo Report sull’European Defence Research.

Cosa c’è di nuovo, interessante e inquietante in questi documenti? In primo luogo il fatto che il complesso militare-industriale europeo si candida a promuovere e svolgere “un ruolo determinante per contribuire ad una migliore e più efficace politica di sicurezza e difesa del continente europeo”. Non è un dettaglio, perché – affermano gli esperti – detenere e gestire un vantaggio tecnologico “è un elemento fondamentale di ogni politica di deterrenza così come di ogni intervento volto ad assicurare la stabilità internazionale e contrastare ogni minaccia alla sicurezza e alla convivenza”. Non solo, essi sottolineano anche come “Ogni eventuale azione di tipo militare o di sicurezza in senso lato poggia sulla necessità di un rafforzamento delle capacità tecnologiche e industriali europee volte a garantire un livello minimo di autonomia strategica dell’Europa”.

Molti, troppi osservatori continuano a guardare con distrazione e sufficienza a quanto si muove dentro le industrie tecnologiche e nelle istituzioni europee che ne agevolano in ogni modo i progetti. Sarà perché molti progetti di carattere militare vengono occultati dalla ricerca, sperimentazione, produzione formalmente di tipo civile. Ma già dalla metà del XX Secolo attraverso la categoria del “dual use” moltissimi brevetti e applicazioni hanno avuto, hanno ed avranno ricadute sia sul piano civile che militare. Gli unici ad averlo sottovalutato, e spiace dirlo, furono i dirigenti sovietici che hanno sottovalutato le ricadute sociali e civili delle innovazioni tecnologiche realizzate in campo militare, protraendo il segreto e la limitazione delle applicazioni nello sviluppo delle forze produttive oltre ogni ragionevole tappa.

Il dual use è quella sottilissima soglia che consente di utilizzare le tecnologie e le loro applicazioni sia per scopi civili che militari in pochissimo tempo e in moltissimi campi. Lo sono stati la cibernetica prima e internet poi. Il nucleare è uno di questi, ma lo sono anche i droni, i sistemi satellitari come il Gps, i nuovi motori a propulsione etc. Ed infatti gli esperti nominati dalla Commissione Europea hanno gioco facile nel rivendicare che “la dualità delle tecnologie avanzate e l’interazione col crescente settore della sicurezza avvalorano sempre di più il ruolo del settore della difesa nello sviluppo di una nuova Europa tecnologicamente avanzata”.

L’ambizione degli stati europei di affrancarsi da decenni di dipendenza tecnologica, politica e militari degli Usa, sta producendo passi in avanti notevoli. Lo segnala un autorevole membro dell’Istituto Affari Internazionali quando descrive bene come “In realtà l’Europa è uno strano animale che evolve per approssimazioni successive, spingendo l’integrazione là dove risulta più necessaria e, quindi, politicamente più sostenibile”. E non è irrilevante, come segnala appunto Michele Nones consigliere scientifico dello IAI in un suo breve saggio, che questa accelerazione sia avvenuta negli ultimi dieci anni, introducendo anche un significativo cambio di paradigma dal semplice concetto di “difesa” ereditato dalle promesse post seconda guerra mondiale affinché l’Europa non fosse più teatro di conflitti devastanti, a quello più offensivo di “Sicurezza e Difesa” che allude anche alle capacità di proiezione all’esterno. “Per fortuna l’allargamento della “difesa” alla più ampia “sicurezza e difesa”, lo sviluppo della nuova dimensione duale nell’innovazione e nella realizzazione di equipaggiamenti ad alta tecnologia, la necessità di una comune capacità di proiezione internazionale” scrive Nones “hanno consentito di far rientrare dalla finestra quello che era stato buttato fuori dalla porta: l’Unione Europea ha, quindi, potuto, soprattutto in questo decennio, occuparsi di alcune problematiche della difesa” Va in questa direzione la Preparatory Action on Csdp related research con cui, per la prima volta, la Commissione Europea finanzierà direttamante e sperimentalmente alcuni progetti di ricerca nel campo della difesa.

Quello che per anni abbiamo definito come keynesismo militare, trova proprio nell’Unione Europea il terreno fertile per realizzarsi, sia economicamente che ideologicamente. “Una prima barriera, anche ideologica, è stata rimossa con l’entrata in vigore, nel settembre 2014, del nuovo sistema di contabilità europeo Esa 2010 che considera le attività relative alle acquisizioni e R&T militari come investimento e non più come consumi intermedi” ammette entusiasticamente il dirigente dello IAI.

“Questo significa riconoscere che le spese per acquisizione di equipaggiamenti e R&T militare rappresentano veri e propri investimenti con conseguente creazione di ricchezza”. Alcuni dati parlano chiaro: con un giro d’affari di 96 miliardi di euro nel 2012, 400.000 dipendenti diretti e 960.000 posti di lavoro indiretti, l’industria europea della difesa è un settore industriale ormai di primaria importanza. Per chi volesse saperne e capirne di più, dal 22 al 24 giugno ad Amsterdam si svolgerà la conferenza europea Industrial Technologies 2016. Si tratta del più grande evento Ue nel campo delle nuove produzioni di materiali tecnologici, nanotecnologie, biotecnologie e digitale. Gli organizzatori prevedono la partecipazione di più di 1.250 delegati di alto livello.

Scopriamo così che il Programma europeo “Horizon 2020” dovrebbe attivare circa 80 miliardi di euro nei sette anni programmati, ed anche destinando una relativa percentuale di risorse, potrebbe consentire all’Europa un “salto tecnologico senza precedenti nel settore dell’aerospazio, sicurezza e difesa, recuperando l’attuale preoccupante ritardo”.

Sui sistemi satellitari ad esempio, il sistema Galileo sarà operativo tra pochissimo tempo – se non ci sono incidenti si parla di fine 2016 – consentendo a tutti gli europei ma anche alla Cina di sganciarsi definitivamente dal monopolio del Gps statunitense. E’ l’Agenzia Spaziale Europea a indicare la tabella di marcia. Alla fine del 2015, il 17 dicembre, sono stati lanciati i satelliti 11 e 12. Il lancio dei satelliti 13 e 14  è in agenda a maggio 2016. In autunno è previsto il primo lancio con il vettore Ariane 5 appositamente concepito per portare in orbita  un carico utile di 4 satelliti. Nei primi sei mesi del 2016 il sistema sarà sottoposto a una campagna di test che porterà all’avvio dell’operatività con la fase denominata Initial Services, obiettivo della Commissione Europea per la fine dell’anno. Un sistema satellitare globale e autonomo europeo, consente una montagna di applicazioni, sia in campo civile e commerciale che, ovviamente, militare.

Gli Usa per anni hanno cercato di dissuadere o bloccare il progetto satellitare europeo affermando che si trattava di una inutile duplicazione. Poi hanno accusato gli europei di un atteggiamento di sfiducia verso gli Usa e la loro storia di messa a disposizione dei partner delle tecnologie statunitensi.  Adesso devono fare buon viso a cattivo gioco. A meno che la vittoria di Trump non produca quelle variabili impazzite che fanno saltare anche le relazioni storiche e precipitano il mondo nei buchi neri. Insomma, le grandi ambizioni della “piccola Europa” stanno crescendo sotto il naso dei molti distratti.

L’Unione Europea non sta solo praticando una politica di austerità che si rivela una vera e propria “guerra contro i poveri”, ma si sta pienamente sintonizzando sulle caratteristiche delle guerre del XXI Secolo. Da un lato ci abitua alle mattanze di civili innocenti, liquidandoli come danni collaterali o male necessario a secondo di dove muoiono, dall’altro sviluppando e finanziando con crescenti risorse pubbliche (che da altre parti proprio per questo vengono tagliate) lo sviluppo di tecnologie dual use, quelle che servono a farsi percepire come una potenza globale. Il keynesismo militare in Europa è decisamente di casa.

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La dignità di un paese

Ancora un articolo di Alberto Negri? Sì, perché la perseveranza nell’informare correttamente, in un panorama devastato come quello attuale (vedi 1 e 2), va non solo segnalata (l’editorialista de IlSole24Ore non ha bisogno dei nostri complimenti) ma recepita fino in fondo.

In questo articolo tutta la vicenda di Giulio Regeni viene letta e inquadrata nel modo più spietato. Cioè corrispondente al vero.

La serie della balle egiziane – un continuo mettere pezze su versioni incredibili, buttate lì nella convinzione che nessuno avrebbe smosso le acque più di tanto – acquisisce senso. E noi, che abbiamo visto esattamente le stesse dinamiche per la strage di Piazza Fontana e per tutte le altre stragi venute in seguito, capiamo perfettamente come poliziotti, agenti dei servizi, magistrati accomodanti, possano lasciare in giro troppe tracce della propria azione. In fondo non sono dei “delinquenti di professione”, non sono allenati a dover evitare la galera. Anzi. Sono convinti che la loro parola, un rapporto scritto in modo sciatto e frettoloso, sia più che sufficiente a coprire tutto. Presi in castagna, ne devono inventare un’altra, ancora più squilibrata. Fino a quel borsello con i documenti di Giulio, un po’ di droga per infamare il morto e sminuirne l’importanza, buttato lì tra le cose sequestrate a cinque cadaveri che non potranno mai testimoniare.

Cose che fanno tutti gli sbirri del mondo, certo. Ma che proprio per questo, nelle discussioni tra sbirri di stati diversi, sono una prova di colpevolezza degli sbirri. Niente altro.

E spietata è pure la fotografia del governo italiano, tutto comunicazione e petto in fuori (“chiacchiere e distintivo”, a voler essere cinefili e precisi), spernacchiato da chiunque, fuori da questi confini.

Una domanda, che Negri ovviamente non può porre: ma se questa è la considerazione di cui gode un governo italiano recente (diciamo dalla fine della Prima Repubblica a oggi) presso governi di paesi di seconda fila, come l’Egitto, quale sarà mai l’atteggiamento con cui viene accolto nelle riunioni di Bruxelles o della Nato? Non ci fate ridere, please...

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La dignità di un Paese

Alberto Negri

Come si concluderà questa storia ignobile di Giulio Regeni? Dipende da noi. Possiamo richiamare l’ambasciatore, progettare sanzioni e magari provare anche a recuperare la dignità del Paese.

Doveva essere già finita. Al Sisi è molto irritato, non si aspettava che gli italiani e il presidente del Consiglio Renzi facessero tutte queste storie. Regeni è stato ammazzato probabilmente dalla polizia egiziana, che fosse italiano è secondario: lavorava per un’istituzione accademica britannica, aspetto importante che però non è così decisivo. La polizia ha l’ordine di tenere d’occhio gli stranieri che ficcano il naso negli affari interni: per sostituire l’islamismo serve un nazionalismo ferreo, implacabile, anche stupido, esercitato in ogni direzione. Il sistema conta più delle persone o dobbiamo ricordare tutti i morti egiziani che ha fatto Al Sisi?

L’Italia è stato il primo governo in Europa a sdoganare il generale golpista. Consegnando il corpo e facendo fuori quattro criminali da strapazzo, Al Sisi pensava di chiudere il caso: un “incidente” che ha coinvolto il cittadino di un Paese sempre pronto a corteggiarlo pur di fare affari, non diversamente peraltro da russi e francesi che vendono caccia e incrociatori. Loro, peraltro, sono anche suoi alleati in Cirenaica, in contrasto evidente con i nostri interessi in Tripolitania.

I misteri? Ce ne sono ma non così fitti. Il più evidente è perché abbiano gettato il cadavere in un fosso quando anche i più stupidi tra “i bravi ragazzi” l’avrebbero occultato sotto tre metri di cemento. La scena è questa: Al Sisi avrà chiesto a un suo sottopancia perché un ministro italiano dell’Economia invece di parlare con lui solo di affari avesse chiesto dove fosse finito un suo connazionale. I raìs non gradiscono imprevisti.

Il capo si è inferocito e scendendo per i rami gerarchici e dell’apparato di sicurezza gli autori dell’omicidio, impauriti, si sono liberati in giornata del cadavere pensando di simulare un incidente. Perché questa era la prima versione con cui speravano di cavarsela con il Capo, non con noi che per loro non contiamo nulla.

Da qui è partita una sequela di errori e giustificazioni. Persino il Capo nell’intervista procurata a un giornale italiano cerca di accreditare la teoria del complotto: un sabotaggio agli affari dell’Eni. Musica per noi giornalisti che sulle dietrologie non ci batte nessuno.

Ma questa è una storia sbagliata, dove la sorte terribile di una vittima ingigantisce l’infamia e la stupidità dei suoi assassini. E ora cerchiamo “soddisfazione” da chi non può darcela, tentando di montare un intrigo internazionale perché non sappiamo cosa fare.

Fateci caso. I due marò, Regeni, la Libia di Gheddafi: siamo diventati i campioni delle fregature, noi, il Paese dei furbetti. Di Regeni in molti dissero, prima di correggere il tiro con la consueta eleganza, che forse non doveva ficcare il naso tra gli operai e i sindacati, ora è diventato un eroe “italiano”, la maschera sanguinante dove nascondere le nostre meschinità e indecisioni. È questa, come cantava Guccini, la piccola storia ignobile del nostro Paese e gli altri la conoscono bene. Cambiarla dipende da noi, non dal generale Al Sisi.

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L’accerchiamento della Russia e i sogni del terrorismo ariano

La Russia non partecipa al summit sulla sicurezza nucleare in corso a Washington oggi e domani. Le ragioni della decisione sono state ribadire ieri dal vice Ministro degli esteri Sergej Rjabkov, che ha definito assurde le dichiarazioni USA a proposito di un presunto “auto isolamento” di Mosca per tale scelta.

“Le ragioni di questa decisione sono ben note agli americani e sono state comunicate più volte a Washington, a partire dall’ottobre 2014. Dato che ora la questione viene politicizzata e posta in modo poco adeguato, è il caso di ribadire alcuni punti”, ha detto Rjabkov, sottolineando che il vertice di Washington non ha nulla a che vedere con l’obiettivo di rafforzare la sicurezza nucleare.

Tra l’altro, ha detto, a Washington “sarà rappresentata una minoranza della comunità internazionale”; inoltre, “cercare di formulare – nei fatti: imporre – ad altri paesi delle soluzioni ristrette e monche, nella sfera della sicurezza nucleare, come propongono gli USA e un gruppo di loro alleati, indirizzando la discussione su questioni su cui noi avremmo qualcosa da obiettare, significa voler dettare in partenza considerazioni che non hanno nulla a che fare con il compito della sicurezza nucleare”. Mosca, ha detto Rjabkov, “giudica l’agenda dei lavori del summit da lungo tempo già esaurita”; dunque “è assurdo dire che la Russia si stia isolando. Al contrario, noi collaboriamo attivamente, anche in sede IAEA (International Atomic Energy Agency), in cui è già fissata per il prossimo dicembre una conferenza proprio su questo tema. E non rinunciamo nemmeno a discutere tali tematiche con gli Stati Uniti”.

In precedenza, il portavoce presidenziale Dmitrij Peskov aveva dichiarato che la Russia ha rifiutato di partecipare al vertice a causa della carenza di collaborazione con i partner. “A Mosca si ritiene che lo studio delle questioni relative alla sicurezza nucleare richieda sforzi comuni e reciproca considerazione di interessi e posizioni. Si è invece registrata un’innegabile mancanza di interazione nella messa a punto preliminare delle problematiche del vertice. E’ quindi per questo che la parte russa non vi partecipa”.

Vestendo le piume della colomba, Barack Obama ha dichiarato, riferisce The Washington Post, che “USA e Russia, che detengono più del 90% del potenziale nucleare mondiale, devono proseguire sulla strada della riduzione degli arsenali nucleari, nell’ambito dell’accordo sulle armi nucleari strategiche, in modo che, entro il 2018, il numero delle testate nucleari americane e russe sia il più basso dal 1950”.

Nei fatti, si registra però la continuità dell’accerchiamento, diretto o per interposti alleati, dei confini russi da parte delle forze USA e Nato. Secondo Lifenews, con riferimento alle dichiarazioni del comandante in capo delle forze Nato in Europa, il generale dell’aviazione statunitense Philip Breedlove, a febbraio 2017 una forza USA di 4.500 uomini, in stato di mobilitazione permanete, verrà schierata in maniera stabile in 6 paesi europei lungo le frontiere occidentali russe. Il Pentagono fornirà anche artiglieria pesante, 250 carri armati, trasporti truppe, obici semoventi e altri mezzi da guerra. Lifenews scrive che, secondo Breedlove, gli USA stanno dimostrando un “approccio forte ed equilibrato verso il sostegno dei propri alleati NATO e nella loro protezione dalla politica aggressiva della Russia in Europa orientale e altrove”.

Sul fronte economico, scrive Pravda.ru, il Ministro delle finanze USA, Jacob Lew ha dichiarato che lo scopo delle sanzioni in vigore contro Mosca e indirizzate “contro i suoi centri decisionali” è quello di deviare la Russia dal proprio percorso. “Non dobbiamo rinunciare alle sanzioni solo per il fatto che frenano la crescita economica”, ha detto Lew, dopo che il Dipartimento di stato aveva “invitato” le banche statunitensi ad astenersi dall’acquistare obbligazioni statali russe. Le sanzioni devono essere tolte solo nel caso in cui, il dato paese, cambi la propria politica; nel caso specifico, il riferimento d’obbligo è, come sempre, al “rispetto degli accordi di Minsk”: guarda caso nelle settimane in cui Kiev sta schierando i propri mezzi corazzati lunga la linea di separazione con le forze di DNR e LNR, sta usando artiglierie e mortai pesanti che gli accordi di Minsk avevano espressamente obbligato a ritirare lontano da quella linea e nei giorni in cui i bombardamenti ucraini (come la notte scorsa) lambiscono le periferie dei maggiori centri delle Repubbliche popolari. Poco importa che Mosca continui a ribadire di non essere parte del conflitto nel Donbass.

Ovviamente, stimolato da tanto padrino, anche Petro Porošenko è tornato alla carica, mandando ieri a esecuzione la ieratica “lista Savčenko”, l’elenco di un’ottantina di nomi di politici, magistrati e funzionari russi legati più o meno direttamente alla condanna a 22 anni della Jeanne d’Arc ucraina, riconosciuta colpevole di partecipazione in omicidio per l’assassinio dei giornalisti russi Igor Korneljuk e Anton Vološin e tentato omicidio di civili di Lugansk. Secondo NTV, le misure comprendono il divieto, per tali persone, di ingresso in Ucraina, blocco dei beni, restrizioni al diritto di utilizzare proprietà sul territorio ucraino e divieto di ritiro dei capitali.

Nel “cordone sanitario” occidentale non era mancata, proprio alla vigilia della pasqua cattolica, la genuflessione di fronte all’altare del liberalismo da parte dello showman lituano Algirdas Romanauskas che, su feisbuc, ha descritto un immaginario attentato terroristico durante il concerto del musicista russo di origini bulgare Filipp Kirkorov a Vilnius. Romanauskas ha chiamato a far saltare tutti i concerti russi e far fuori tutta la popolazione di lingua russa del paese con atti simili, riscuotendo, secondo Pravda.ru, oltre 3.500 “like” e senza che le autorità abbiano ritenuto di intervenire. Secondo le sue parole, non sarebbe male “ripulire” il paese della presenza indesiderata di tale componente della popolazione, ricorrendo a un paio di esplosioni: “una seconda bomba dovrebbe esplodere dopo qualche minuto dalla prima, quando intervengono soccorritori, medici e parenti delle vittime. Così la Lituania respirerà liberamente e comincerà la sua nuova luminosa tappa”, ha fantasticato Romanauskas. Il quale, sembra, è abbastanza vicino alla ex membro del CC del PCUS e attuale presidente lituano Dalia Gribauskajte la quale, poco più di anno fa, aveva definito la Russia “stato terroristico”. Ma Romanauskas è anche fervente adepto del partito “Unione patriottica – cristiani democratici della Lituania”.

Se simili richiami giungono da cristianissimi figli e nipoti degli ex accoliti della razza ariana baltica, cosa avranno dunque ora da dire i devoti convinti della unica e sola “matrice islamica” di ogni idea e atto di terrorismo contro il “mondo libero occidentale”?! Si dovrà risponder loro con il divino Orazio “De te fabula narratur”.

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La scala Mercalli sconvolge gli ideologi di regime

Dopo Fiorella Mannoia, tocca a Luca Mercalli, meteorologo e ambientalista, approdato alla Rai dove conduce una trasmissione (Scala Mercalli), in seguito al successo della sua presenza dalle parti di Fabio Fazio.

Mercalli è uno scienziato che ha facilità divulgativa, uno insomma abituato a studiare prima di profferire opinioni, ma anche determinatissimo nel profferirla sulla base di dati incontrovertibili. Ma ha anche la dote di saper dire cose complicate in linguaggio ordinario, accompagnando i numeri con immagini verbali e non, filmati, documentari, ecc.

Una fortuna per il servizio pubblico, diciamolo subito, da sempre afflitto dalla penosa alternativa tra intrattenimento instupidente o dotte trasmissioni per addetti ai lavori in orario notturno.

Bene, come viene trattato uno scienziato prestato alla tv? Come un nemico di classe, naturalmente. E a condurre l’attacco sono alcuni ideologi di professione – giornalisti, commentatori tv, parlamentari di quarta fila ignoti persino ai loro inconsapevoli elettori (con “Porcellum” votavi una lista decisa da altri) – che non arrossiscono neanche un attimo nell’accusare lo scienziato di fare “ideologia”. Eccezziunale veramente...

In questo attacco non poteva restare indietro Aldo Grasso, passato ormai definitivamente dal ruolo lieve di critico televisivo a combattente con l’elmetto contro i “nemici dell’Occidente”. Non pago di aver scritto oscenamente contro Fiorella Mannoia, ha fatto il bis con il buon Luca. Guai a parlar male dei combustibili fossili (petrolio, carbone, gas), guai a far sentire nello spettatore l’urgenza di cambiare modello di sviluppo (alla faccia degli impegni sull’ambiente presi al vertice di Parigi, solo tre mesi fa).

Peggio ancora se il Mercalli si mette a parlare, in tv, dell’inutilità della Tav tra Torino e Lione, magari con un servizio documentato che accompagna dati scientifici e opinioni dei valsusini, naturalmente contrari.

Immediata la reazione del senatore Pd Stefano Esposito (sì, quello dei falsi attentati contro se stesso e piazzato teoricamente come assessore ai trasporti da Ignazio Marino, e via favoleggiando), che insieme ai “colleghi” Camilla Fabbri e Fabrizio Verducci ha presentato nientepopodimeno che un’interrogazione in Commissione Vigilanza della Rai “per chiedere chiarimenti sulla trasmissione di RaiTre... in cui si è parlato della tratta Torino-Lione e che ha dedicato ben 22 minuti di propaganda ai No Tav”.

Involontariamente, certo, questi signori si incaricano di mostrare concretamente cosa sarà il regime in costruzione, benedetto dall’Unione Europea, dalla Nato e dalla finanza multinazionale. In nome, ci mancherebbe, della “libertà di opinione”...

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La paralisi delle banche centrali

Tutte le borse del pianeta hanno ripreso a scendere in questi ultimi giorni del primo trimestre. Eppure gli investitori erano stati ampiamente rassicurati dalla Federal Reserve statunitense, che nella riunione di martedì aveva non solo lasciato fermi i tassi di interesse, ma soprattutto affermato che il programma di rialzi – quattro nel 2016, secondo il programma definito a dicembre – era di fatto annullato.

Questa decisione aveva messo rapidamente fine alla temuta “divergenza” tra la politica monetaria Usa (avviata appunto a far risalire i tassi, dopo sei anni di azzeramento totale) e quelle di tutte le altre principali banche centrali del pianeta (Bce, Boj giapponese e banca centrale cinese).

Niente riduzioni della liquidità monetaria circolante, dunque.

Ma in tempi di crisi sistemica ogni buona notizia presenta un lato oscuro, anzi nerissimo. Le motivazioni addotte dal presidente della Fed, Janet Yellen, sono infatti altrettante paure. Le economia del pianeta sono in rallentamento o recessione, anche il “motore americano” segna passaggi a vuoto che solo due mesi fa sembravano impossibili, il quadro geopolitico è incerto (Siria, Libia, impazzimento turco e pressioni saudite, ecc), le stesse elezioni americane a fine anno, condizionate da due alieni su fronti opposti (Sanders e Trump) che danno voce all’ex “ceto medio bianco”... Difficile immaginare slanci di crescita a breve.

Così una decisione desiderata – non rialzare i tassi – è diventata motivo maggiore incertezza.

È ormai evidente a tutti gli operatori di mercato, dunque anche agli analisti, che i governatori delle banche centrali non costituiscono più un’ancora di sicurezza. Le loro mosse, da qualche anno, avvengono al di fuori del quadro concettuale liberista classico. I tassi di interesse negativi – il mondo alla rovescia, quello in cui chi presta denaro si vede restituire di meno, anziché di più – sono ormai realtà quasi dovunque, anche negli Stati Uniti (dove il tasso di inflazione è comunque superiore a quello di interesse). Senza che questo abbia il benché minimo effetto sulla dinamica economica.

Anzi, si cominciano solo ora ad evidenziare i problemi concreti del mondo alla rovescia. Problemi ovviamente mai studiati prima, o al massimo ipotizzati come esercizi intellettuali, per assurdo.

Il primo allarme o avvisaglia di questo nuovo mondo era stato il prezzo del petrolio, in caduta libera (da 110 a 35-40 dollari al barile, nel giro di pochi mesi) senza che si mettesse in moto un aumento dei consumi. E se questo può esser comprensibile per i normali consumatori, come gli automobilisti, stressati da anni di redditi in contrazione, è invece un segnale d’allarme sul lato delle imprese: se non si usa più energia, vuol dire che gli impianti viaggiano al solito – basso – regime.

Yellen ha dovuto dunque prendere atto che «nella misura in cui la recente turbolenza dei mercati finanziari segnala un’accresciuta probabilità di ulteriori frenate all’estero, i prezzi del petrolio potrebbero ricominciare a scendere e il dollaro potrebbe nuovamente risalire». Abituati da sempre a scaricare i propri problemi economici sul resto del mondo, ora gli americani sono obbligati a fare i conti con i rallentamenti altrui, che si rovesciano immediatamente anche al loro interno. E un contemporaneo calo del greggio (di cui sono da pochissimo tornati esportatori netti, grazie alla devastazione dello shale oil) accompagnato dal rialzo del dollaro è una iattura che questi Usa di oggi non possono tollerare.

Anche perché non dispongono più di strumenti analitici in grado di fornire previsioni attendibili, neppure a breve termine. Un’ammissione di impotenza scientifica venuta dalla stessa Yellen: le previsioni dell’istituto centrale «non sono un piano scritto nella pietra», «è ancora troppo presto» per dire se l’inflazione stia aumentando, il ritmo della crescita globale «è motivo di preoccupazione» e «probabilmente sarà quest’anno più lenta di quanto previsto in precedenza». Si naviga a vista, insomma, ma la nebbia è fitta…

D’altro canto, tra i paradossi della prima potenza tecnologica globale, va annoverata la caduta della produttività media nelle imprese Usa, giunta ormai a quasi la metà di quanto registrato negli anni ’90. Vero è che la Silicon Valley è il volto dell’innovazione parossistica, del continuo innalzamento della produttività. Ma solo in quel settore, con ricadute più limitate a monte e a valle. Il grosso della nuova occupazione statunitense è in settori a bassissima composizione organica del capitale, ovvero in aziende con poco capitale fisso (macchinari, ecc.) e molto lavoro umano: ristorazione, sanità, distribuzione, pulizie, ecc. Settori in cui la produttività è bassissima e quasi impossibile da migliorare (ritmi e orari sono infatti già vicini al limite fisiologico).

Torna dunque in primo piano una legge economica che, soprattutto in Italia, si tende a dimenticare: la produttività dipende dagli investimenti, non dagli orari di lavoro, da salari ridotti, dalla presenza o assenza di diritti del lavoratore. E se le imprese non investono, la produttività non aumenta, se non di quello zero virgola che si può spremere non pagando contributi, straordinari, maternità, malattia, ferie, ecc.

E proprio i tassi di interesse a zero sono, in questo quadro, un disincentivo ad aumentare la produttività investendo in tecnologie di processo. Un rialzo dei tassi eliminerebbe molte delle imprese più arretrate, ma senza che queste vengano sostituite da altre più avanzate. Come constatava alcuni giorni fa Carlo Bastasin, autorevole editorialista de Ilsole24Ore, “il tradizionale meccanismo di distruzione creativa attraverso il quale le imprese più innovative sostituiscono quelle più tradizionali sembra essersi incagliato”. Il panorama aziendale si divarica, con poche isole di eccellenza e una marea crescente di piccolezze senza ambizioni che vadano al di là della semplice sopravvivenza.

Il sistema nel suo complesso dunque si arresta, vivacchia, sopravvive, ristagna. Gli aumenti di produttività concentrati in pochi settori fanno crescere le disuguaglianze e quindi comprimono indirettamente i consumi di massa (dipendenti dal salario medio nei settori meno competitivi). Le banche centrali si vengono perciò a trova nella classica situazione per cui “comunque fai, sbagli”, che non è solo il titolo di un serial televisivo, ma il manifestarsi pratico di una contraddizione. Paralizzante.

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Egitto - Nel canale di Suez affondano le ambizioni di al-Sisi

di Michele Giorgio – Il Manifesto

Abdel Fattah al Sisi con il raddoppio parziale del Canale di Suez aveva sognato di passare alla storia, proprio come era avvenuto al suo illustre predecessore Gamal Abdel Nasser che, nazionalizzando lo strategico passaggio tra Mar Mediterraneo e Mar Rosso, costrinse alla resa le potenze coloniali.

Al Sisi lascerà la sua impronta, ma solo per aver instaurato un regime brutale, persino più oppressivo di quello di guidato per 30 anni da Hosni Mubarak. Non certo per aver dato una vita migliore e dignitosa agli egiziani. Il raddoppio del canale di Suez (avvenuto l’anno scorso) che, attraverso il passaggio giornaliero di quasi cento navi, doveva moltiplicare gli introiti, si è rivelato molto deludente rispetto alle ambizioni del rais egiziano.

Gli ultimi dati disponibili dicono nelle casse egiziane è entrato il 3% in meno rispetto all’anno precedente. Il costo elevato del pedaggio a Suez, l’instabilità del Sinai in parte controllato da “Wilayat Sina” (Isis) e, più di tutto, il crollo del prezzo del petrolio, spingono tante compagnie marittime ad ordinare ai comandanti di mercantili e portacontainer di circumnavigare l’Africa lungo la rotta del capo di Buona Speranza. Un salto all’indietro nel tempo, a come si era fatto fino all’apertura del canale nel 1869.

SeaIntel Maritime Analysis, che segue i flussi commerciali via mare, riferisce che nell’ultimo trimestre del 2015 decine di mercantili di grosso tonnellaggio che dall’Asia navigavano verso l’Europa hanno scelto di non passare per Suez approfittando del calo del prezzo del petrolio del 70%. Tenendo presente che le navi commerciali di grandi dimensioni quasi sempre hanno bisogno di pagare anche un pilota ad hoc per attraversare il canale e che devono versare un pedaggio all’Egitto che varia dai 250.000 a 465.000 dollari, il costo totale di un viaggio, carburante incluso, supera i 700.000 dollari. Passare per il capo di Buona Speranza comporta un viaggio più lungo di almeno 10 giorni e un consumo extra di carburante di 328.000 dollari ma, tirate le somme, alla fine del viaggio le compagnie registrano un risparmio di oltre 300.000 dollari.

Il canale resta il passaggio preferito per l’8% del traffico commerciale mondiale e l’Egitto, comunque sia, nel 2015 ha incassato da Suez 5.36 miliardi di dollari. Eppure il sogno di al Sisi è già svanito. Il raddoppio del canale, costato ben otto miliardi di dollari (pagati tutti dal popolo egiziano) potrà rivelarsi una miniera d’oro solo se il prezzo del petrolio tornerà oltre i 70 dollari al barile. Una possibilità lontana di fronte all’abbondanza di greggio sul mercato mondiale causata dall’eccesso di produzione e dalla recessione economica.

Per il presidente egiziano è un colpo duro che rallenta piani di sviluppo, anche edilizio, che dovrebbero alleggerire la disoccupazione (nel 2015 era intorno al 14-15%), la conseguenza più grave della crisi dell’economia egiziana che non cresce quanto dovrebbe per creare un numero sufficiente di posti di lavoro in un Paese che presto avrà cento milioni di abitanti.

A tenere in affanno al Sisi e il suo entourage è anche la sofferenza del turismo, tra le voci principali per le casse statali, figlia della instabilità e della violenza. Già prima del sanguinoso colpo di stato che ha deposto il presidente Mohammed Morsi nel 2013 e della feroce repressione della Fratellanza Islamica, il “Washington Institute” aveva calcolato in 2,5 miliardi di dollari le perdite del turismo. Poi è giunto il colpo durissimo dell’attentato dell’Isis, lo scorso novembre, a un aereo della Metrojet decollato da Sharm el Sheikh in cui hanno perduto la vita oltre 200 turisti russi. In questo clima è utopistico pensare che possa avere successo il piano quinquennale che punta ad raggiungere venti milioni di presenze turistiche e 26 miliardi di dollari entro il 2020.

Certo al Sisi punta anche allo sfruttamento, assieme alla italiana Eni, dell’enorme giacimento di gas scoperto davanti alle sue coste. Tuttavia che questa risorsa finirà per rivelarsi un tesoro per l’Egitto è ancora da dimostrare. Per ora mancano i fondi per dare una risposta a decine di milioni di egiziani che non hanno un lavoro o sono sottopagati e riescono a malapena a sopravvivere.

L’aiuto esterno è fondamentale per tenere a galla il regime ma i i sauditi, generosi finanziatori di al Sisi, che hanno puntellato l’economia egiziana dopo il colpo di stato del 2013 (Riyadh da sempre guarda con sospetto ai Fratelli Musulmani), non appaiono più disposti a regalare o a investire i loro miliardi di dollari senza una sicura contropartita politica. Il Cairo pur aderendo alle alleanze e alle iniziative proposte dalla monarchia sunnita contro l’Iran e i suoi alleati, negli ultimi tempi ha migliorato i rapporti con Damasco nemica di Riyadh. I sauditi perciò hanno fatto sapere che la promessa di investimenti per otto miliardi di dollari e di forniture di petrolio a costo stracciato, sarà mantenuta solo se l’Egitto seguirà senza esitare la linea dettata da re Salman.

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Brasile - I centristi abbandonano la maggioranza, traballa il governo

Sta rapidamente degenerando la situazione politica in Brasile sull’onda dell’offensiva lanciata dalle forze politiche e dai media di destra contro il PT e la presidente Dilma Rousseff. Ieri il principale alleato di governo del Partito dei Lavoratori, il centrista Pmdb – Partito del Movimento Democratico del Brasile – ha annunciato il suo ritiro dalla maggioranza parlamentare che sostiene l’esecutivo. La direzione nazionale del partito del vicepresidente Michel Temer, che dovrebbe succedere a Rousseff nel caso in cui il processo per impeachment dovesse andare in porto, ha anche fatto appello ai suoi ministri affinché rassegnino le dimissioni. Alcuni hanno già restituito il mandato. L’abbandono del Pmdb rende la posizione di Dilma sempre più debole, anche perché altri partiti minori del cosiddetto “Grande centro” potrebbero seguire l’esempio e uscire dalla coalizione di governo privandola dei numeri necessari per governare. “L’uscita del Pmdb chiude la bara del governo agonizzante, che ha perso le condizioni minime per guidare il paese e rilanciare l’economia” ha tuonato ieri Aecio Neves, leader dell’opposizione di destra.

Dilma Rousseff, alle prese con la crisi economica, gli scandali per corruzione, le proteste spontanee o pilotate e la crescente stretta giudiziaria per la sua messa in stato di accusa insieme all’ex presidente Lula da Silva, aveva incontrato nei giorni scorsi i ministri del Pmdb per convincerli a restare, ma senza ottenere alcun risultato.

A causa delle crescenti difficoltà del governo la presidente ha annullato la sua visita prevista per questa settimana negli Stati Uniti. La leader del PT avrebbe dovuto recarsi a Washington oggi e domani per partecipare al summit mondiale sulla sicurezza nucleare, ma ha deciso di farsi sostituire dal suo vice Michel Temer, il leader di quel Pmdb che le ha voltato le spalle.

Intanto l’Ordine degli avvocati del Brasile (Oab) ha presentato al Congresso una nuova richiesta di impeachment per la presidente che si aggiunge alle 11 già registrate (con entusiasmo) dal presidente del Parlamento, Eduardo Cunha, avversario di Rousseff e a sua volta sotto inchiesta per corruzione. La nuova denuncia riguarda il presunto utilizzo di fondi pubblici per la campagna elettorale della leader petista del 2014 e cita anche la nomina a capo di Gabinetto dell’ex presidente Lula da Silva, anch’egli coinvolto in una inchiesta per corruzione, allo scopo di sottrarlo all’arresto.

Dal 18 marzo scorso, intanto, una speciale commissione di 65 deputati di tutti i partiti sta esaminando il procedimento di impeachment a carico della presidente Rousseff; secondo voci diffuse dalla stampa, 32 membri della commissione sarebbero a favore della destituzione, 31 contrari e 2 indecisi.

Mentre molti analisti fanno notare che l’attuale ambasciatrice statunitense in Brasile, Liliana Ayalde, è la stessa che in Paraguay coordinò qualche anno fa il ‘golpe istituzionale’ contro l’allora presidente progressista Fernando Lugo – destituito e sostituito da un esponente dell’oligarchia locale senza tanti complimenti – Rousseff e Lula, così come anche i settori sociali e politici di sinistra critici con il governo per la sua linea moderata e la mancata attuazione delle riforme promesse, denunciano la volontà da parte degli ambienti reazionari del paese di portare a termine un colpo di stato per via giudiziaria, sostenuti da Washington.

L’ex presidente Lula da Silva, accusato di occultamento di patrimonio e frode fiscale, continua a dichiararsi innocente e denuncia il carattere politico dell’inchiesta in corso su Petrobras, l’azienda energetica statale. “Onestamente, non ho alcun bisogno di una corte speciale perché non verrò mai processato, dal momento che non sono colpevole di alcunché”, ha dichiarato nei giorni scorsi. “L’impeachment senza basi legali, senza alcun crimine, è un colpo di Stato. Questa è la definizione esatta. Quello a cui stiamo assistendo è il tentativo di bloccare il mandato della presidente Dilma Rousseff grazie a un colpo di Stato, il cui solo obiettivo è di natura politica. Se il popolo brasiliano intende restare alla guida della Repubblica, deve esercitare la stessa pazienza che ho dimostrato io”, ha concluso Lula.

Scrive a questo proposito Bernard Guetta – non proprio un commentatore bolscevico – sull’edizione online de L’Internazionale di oggi:

“Otto brasiliani su dieci non vogliono più la presidente Dilma Rousseff, che rischia di essere destituita dai partiti d’opposizione e da una forza con cui governava fino a due giorni fa. Il motivo è il degrado della situazione economica e le rivelazioni sulle vicende di corruzione e finanziamenti illeciti dei partiti politici. Salvo nuove rivelazioni, però, Rousseff non è personalmente responsabile di alcuna malversazione, e l’unico rimprovero che le si può fare è quello di aver “truccato” i conti pubblici nel 2014, anno della sua rielezione, e di averlo fatto nuovamente nel 2015. Eppure, oltre al fatto che ci sono modi diversi di presentare un bilancio, la crisi dell’economia brasiliana non deriva dall’operato della presidente quanto piuttosto dalle difficoltà della Cina, che hanno provocato un crollo delle materie prime e messo in crisi tutti paesi con cui ha scambi commerciali. Non soltanto Dilma Rousseff non ha colpe per la crisi cinese, ma il suo Partito dei lavoratori, lo stesso dell’ex presidente Luiz Inácio Lula da Silva, può vantarsi di aver tirato fuori, nel primo decennio del secolo, quaranta milioni di persone dalla povertà e di aver garantito a lungo una forte crescita economica. Certo, questo cambiamento delle condizioni richiede nuove politiche e nuove teste, ma la presidente brasiliana non ha torto quando definisce “colpo di stato” la procedura di destituzione a cui è sottoposta, perché per quanto possa essere profondo, un momento di difficoltà economica non può giustificare l’interruzione forzata di un mandato presidenziale.

Questa procedura non ha nulla di illegale, ma è prevista dalla costituzione soltanto in caso di crimini commessi dal capo dello stato nell’esercizio delle sue funzioni, non certo per una gestione contestabile. Se siamo arrivati a tanto è perché si stanno avvicinando le elezioni locali e tutti i partiti vogliono sfruttare la rabbia popolare per trarne vantaggio e conquistare il potere, cacciando la presidente.

Questo modo di distorcere la costituzione è assolutamente irresponsabile, perché anziché costruire un’alternativa credibile i partiti si stanno già spartendo gli incarichi per arrivare alla maggioranza parlamentare dei due terzi che permetterebbe di destituire Dilma Rousseff, mentre il partito della presidente si limita a promettere portafogli e alti incarichi agli eletti che sceglieranno di appoggiare Rousseff”.

Assai più impietosa, invece, l’analisi proposta qualche giorno fa dalle pagine del Manifesto da Ricardo Antunes, sociologo e militante della sinistra brasiliana, a lungo membro del Partito dei Lavoratori e da qualche anno vicino invece al PSOL – Partido Socialismo e Liberdade – nato da una scissione di sinistra del PT.

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La crisi profonda del Brasile

Ricardo Antunes (da Il Manifesto del 24 marzo 2016)

I governi del PT (Lula e Dilma) sono stati un esempio eccezionale di rappresentazione degli interessi delle classi e frazioni dominanti, collegata a un progetto di miglioramenti specifici come la  Borsa-Famiglia, per i salariati e i settori più impoveriti. Fino a quando lo scenario economico è stato favorevole, il paese sembrava camminare verso l’universo delle economie avanzate. Ma, con l’aggravarsi della crisi economica, sociale e politica, il mito è cominciato a crollare e oggi sta vivendo i suoi ultimi giorni.

È bene ricordare che il governo Dilma ha potuto contare sul significativo appoggio delle classi dominanti borghesi (delle frazioni industriale, finanziaria, dell’agrobusiness ecc.), soprattutto durante buona parte del suo primo mandato. Con l’intensificarsi della crisi, specialmente nel 2014, anno conclusivo del primo mandato, questo quadro ha cominciato a modificarsi. Già nelle elezioni di ottobre 2014 era possibile percepire una divisione maggiore tra le frazioni borghesi, una volta che il nuovo quadro recessivo anticipava la necessità – che i grandi capitali esigevano – di cambiamenti profondi nella politica economica per aggiustarsi al nuovo scenario.

Già alla fine del suo primo mandato, Dilma ha sperimentato una politica di riduzione degli interessi (che in Brasile sono tra i più alti del mondo), attraverso l’azione delle banche statali. Questo è stato più che sufficiente per cominciare a scontentare pezzi del capitale finanziario speculativo. E’ stato per questo che, subito dopo la vittoria elettorale (ottobre 2014), all’inizio del secondo mandato nel gennaio 2015, Dilma ha nominato come Ministro dell’Economia, principale responsabile della politica economica, un personaggio proveniente dalle maggiori banche private del paese. Ed è toccato a Joaquim Levy realizzare un aggiustamento fiscale profondamente recessivo, che è iniziato con l’appoggio di tutte le grandi frazioni del capitale, ma che, con l’intensificarsi della recessione e l’aumento esplosivo degli interessi, ha cominciato a risvegliare una crescente scontentezza dei settori industriali che vedono ridursi significativamente i propri profitti, nella misura in cui il PIL brasiliano si contrae e aumentano i livelli di indebitamento.

Veniamo ad oggi, marzo 2016, constatando che l’insoddisfazione degli imprenditori è divenuta totale e si è convertita in un forte blocco di opposizione politica al governo. Tutto questo accentua la crisi in tutte le sue dimensioni e il governo Dilma si trova completamente senza indirizzo. Da una settimana all’altra presenta proposte a cui non viene dato seguito, accrescendo ancor più la scontentezza in tutte le classi sociali – anche se spesso per motivi opposti – vedendo la sua base sociale, politica e parlamentare che si erode a ogni nuova misura. E, più questo succede, più il governo si piega a tutte le imposizioni del capitale. Di conseguenza, si sfilaccia ancora di più il già ristretto appoggio militante dei movimenti sociali, sindacali e politici, oggi praticamente ridotto ai militanti che agiscono nel PT, nella CUT e in alcuni movimenti sociali che danno un appoggio critico al governo Dilma, ma che sono contrari – come la quasi totalità dei partiti di sinistra (come PSOL e PCB) – al golpe parlamentare – con appoggio giudiziario – basato su una specie di giuridizzazione della politica che ha portato il Brasile a una variante di stato di  eccezione giudiziaria.

Quel che si può dire quindi è che l’appoggio che Lula e Dilma hanno incontrato nei periodi precedenti è in una fase di completa corrosione in tutte le classi sociali. Nelle classi medie il quadro è abbastanza avverso al governo Dilma. I segmenti più conservatori – le classi medie tradizionali – stanno dirigendo le manifestazioni di strada che raggruppano dai settori liberali, ai conservatori, fino ai sostenitori della dittatura militare del 1964, passando per protofascisti e fascisti. E quanto più le classi medie si trovano ad un livello alto della scala sociale, più fortemente si oppongono – attraverso l’odio – al governo Dilma e al PT (e, di conseguenza) alle sinistre in generale.

Nelle classi medio basse il disincanto è totale: i salari si riducono, l’inflazione cresce, la disoccupazione sta tornando ad aumentare e, praticamente, non c’è più nessun segmento di questa  classe medio bassa che si dia da fare nell’appoggiare il governo. Al contrario, sempre di più, aderiscono alle manifestazioni di opposizione al governo Dilma.

Nella classe lavoratrice il disincanto è esplosivo: nei settori che sono stati o ancora sono parte costitutiva del PT e, di conseguenza, base sociale dei suoi governi, ogni giorno c’è un processo di corrosione maggiore e quindi di perdita di questo appoggio. Chiaramente, molti di questi settori temono un golpe, con la possibile crescita elettorale della destra esplicitamente elitista, privatistica e finanziaria. Ma, diminuisce sempre più il numero di quei salariati, uomini e donne, che prima appoggiavano il governo del PT e che percepiscono che, le misure assunte dal secondo governo Dilma, penalizzano in modo via via più pesante la classe lavoratrice. Ci sono, quasi ogni giorno, numerose manifestazioni nelle periferie, chiaramente contrarie alle misure recessive e antipopolari del governo. Perfino negli strati più impoveriti, fuori da qualsiasi organizzazione (sindacale, sociale o politica), dove troviamo quelli che dipendono dall’assistenzialismo statale, favorito dalla concessione della Borsa-Famiglia, perfino in questi gruppi perde vigore in modo significativo l’appoggio precedentemente fornito al governo Dilma.

Non è difficile constatare che la crisi è di alta densità e profondità: sociale, perché l’insoddisfazione permea tutte le classi e frazioni di classe, anche se in modo differenziato e perfino antagonistico;  politica, perché ha aperto una frattura (che sembra irreversibile) nella base partitica di appoggio al governo, visto che vari partiti e raggruppamenti politici, che poco tempo fa appoggiavano il governo, ora partecipano alla campagna aperta per l’impeachment. E istituzionale, perché ha portato al collocamento di settori del Parlamento brasiliano su posizioni di chiara opposizione al Governo, essendo quindi capace di aprire in qualsiasi momento un processo per la deposizione di Dilma Rousseff, con rischi di scontro tra potere Legislativo, Esecutivo e Giudiziario, oltre ad avere conseguenze dirette sul Supremo Tribunale Federale, chiamato quasi ogni giorno a dare l’interpretazione giudiziaria sul processo di impeachment, viste le tensioni  e fratture all’interno del Parlamento. E, se tutto questo non bastasse, la crisi ha una forte matrice economica, che accrescerà la disoccupazione nei prossimi anni, con una forte riduzione dei salari e la creazione di un clima di incertezza che non può che finire per rivolgersi contro il governo e alimentare ulteriormente la crisi.

Oggi, concludendo questo testo, non abbiamo la benché minima possibilità di prevedere quale sarà il domani di Dilma: potrà mantenere il suo mandato fino al 2018? Questa ipotesi oggi sembra difficilissima, data l’intensità e la simultaneità delle crisi indicate sopra. Subirà un processo di impeachment? Sopporterà le pressioni esplosive a cui è sottoposta praticamente da tutte le classi sociali, dalle multiple frazioni della borghesia con il ruolo decisivo – nello spingere alle rivolte conservatrici –  che hanno i media dominanti (televisione, giornali, radio ecc.)? Rinuncerà? O incontrerà forze che oggi non esistono per risollevarsi e superare la crisi attuale?

Il fatto che il più importante partito di sinistra della storia recente in Brasile, il PT, venga fagocitato e inghiottito dall’immenso ventaglio degli alleati politici di centro e di destra, che hanno ora cambiato posizione per distruggerlo, è insieme una tragedia e una farsa.

(Traduzione di Serena Romagnoli)

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Visioni Militant(i): Mr. Robot, di Sam Esmail

Anche i meno attenti si saranno accorti che campeggiano ovunque cartelloni pubblicitari di presentazione di quella ormai già definita come la serie innovativa dell’anno: Mr. Robot. Il protagonista, Elliot, è raffigurato con il volto seminascosto dal cappuccio di una felpa nera… asociale, misterioso, in perenne conflitto con il mondo. Un conflitto che durante la serie (per i meno pazienti, i meandri di internet nascondono gradevoli sorprese), si esprime non soltanto a livello soggettivo e individuale, dunque personale, ma anche dal punto di vista di una dimensione collettiva, sociale. Se da un lato appunto abbiamo una storia incentrata su un personaggio introverso, scontroso, affetto da dipendenze fisiche e mentali, che talvolta agisce quale giustiziere personale nella vita di tutti i giorni di coloro che lo circondano, gli echi delle sue azioni finiscono per avere una ricaduta per tutta la società. Storie di hackeraggio e di odio verso il “sistema” da chi ha potuto vederne i meccanismi virtuali dal di dentro, in tutti i loro tecnicismi asettici ma fortemente umani: dietro ogni numero, dietro ogni formula e ogni codice violato si nasconde la matrice capitalista di un rapporto sociale, una vita che si distrugge pubblicamente, un conto in banca che si volatilizza, un’azienda che chiude i battenti. Elliot lavora infatti in un’agenzia di sicurezza informatica che tutela una famosa società che egli sogna di distruggere, la E-Corp soprannominata Evil-Corporation: grazie a una serie fortuita di eventi passerà dal sogno a occhi aperti alla realtà.

Mr. Robot è la nostra storia contemporanea: vi sono numerosi richiami che permettono facilmente di identificare lo “Steve Jobs” di turno, il gruppo di Hacker denominato “F-society” che presenta modalità e dinamiche estremamente simili agli Anonymous, ma soprattutto la sensazione da “fine del mondo” che ci accompagna dallo scoppio della “crisi del 2008” a oggi. La sensazione di essere sull’orlo di un precipizio, di dover fare qualcosa per distruggere una società malata che non può più essere corretta senza però porsi un’alternativa: in questo senso il sentimento di “rivoluzione” che anima la serie è politicamente primitivo, spontaneista, quasi nichilista, in cui tutti però, almeno una volta nella vita, ci siamo potuti riconoscere. Altrettanto emozionale è la caratterizzazione dei personaggi in giacca e cravatta, la descrizione dei piani alti, del “mondo di sopra”, che sebbene non siano mai identificati con precisione si stagliano freddamente durante la serie: le loro abitudini, le considerazioni che hanno della “gente normale” con un lavoro “ordinario” e una vita “banale” non sono politiche nella loro espressione ma colpiscono comunque allo stomaco per il sentimento di classe che rappresentano... il senso di appartenenza a un mondo privilegiato.

Durante la serie lo spettatore ha mille occasioni per sviluppare un odio verso questo tipo di figure che finiscono per rappresentare l’archetipo dei supermiliardari che schiacciano e opprimono la povera gente: un po’ un cliché immaturo ma che va più che bene per una serie che si distingue comunque dalla maggioranza di quelle proposte dai vari siti e canali. Ovviamente si tratta pur sempre di un prodotto commerciale che deve vendere, che ricalca alcuni stereotipi di “alternativismo” per conservare un certo appeal, ma in sostanza è fatto molto bene e rappresenta comunque una boccata d’aria che offre molteplici spunti per gli occhi che sanno guardare.

Chicca per gli esperti, al di là di voci su leggendarie collaborazioni con gli “Anonymous” sulle quali non ci sono ovviamente conferme, è indubbio il fatto che le operazioni di hackeraggio della serie siano rappresentate con estremo realismo tecnico, aggiungendo un’ulteriore nota di merito per questa serie tv. Di più non possiamo e non vogliamo spoilerare.

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Libia - Il governo “riconosciuto” rinchiuso in una base navale. Tripoli non lo vuole

Blocchi stradali, sparatorie e colpi d’arma da fuoco hanno accolto ieri a Tripoli il premier libico designato Fayez al Sarraj, che era dovuto arrivato via mare nella capitale insieme con altri membri del cosiddetto governo di  unità nazionale.

Al Sarraj si è dovuto rifugiare nella base militare navale di Abusita senza poter entrare nella città. Le arterie principali di Tripoli erano state bloccate da membri di gruppi armati a bordo di mezzi militari. In serata, un gruppo armato ha fatto irruzione con la forza nella sede di al Nabaa, un’emittente satellitare libica vicina alle autorità islamiche che controllano Tripoli, sospendendo le trasmissioni e cacciando i dipendenti.

Secondo un giornalista di al Nabaa, citato dall’agenzia Askanews, gli uomini che hanno occupato la sede dell’emittente “sembravano favorevoli al governo di Sarraj”. Il Congresso libico, cioè il governo di Tripoli (Gnc), ha lanciato un “appello a tutti i rivoluzionari a schierarsi contro questo gruppo di intrusi, che infiammerà la situazione a Tripoli e ci imporrà la tutela internazionale”. L’appello è leggibile in un comunicato emesso dal Gnc, che bolla come “illegale” l’ingresso di Fayez al Sarraj, il premier designato del governo di unità nazionale sotto egida Onu.

Intanto il premier del governo di Tripoli, Khalifa Ghwell, in una conferenza stampa ha detto che Sarraj “ha due opzioni: consegnarsi alle autorità oppure tornare a Tunisi”. Sarraj – ha aggiunto Ghwell – “è pienamente responsabile del suo ingresso illegale” a Tripoli. “Coloro che sono entrati illegalmente e clandestinamente devono ritirarsi o tornare indietro sui loro passi” se non vogliono “assumersi le conseguenze legali” delle loro azioni, ha minacciato in un discorso televisivo.

Lo stesso Khali Ghwell ha annunciato ieri sera che l’aeroporto della capitale, continuerà a rimanere chiuso come ha fatto a più riprese negli ultimi due giorni. Lo scrive il sito Libya Herald riferendo sulle tensioni a Tripoli seguite all’arrivo del premier designato del governo di unità nazionale, Fayez Al Sarraj. Tutti i voli vengono dirottati su Misurata.

Secondo il corrispondente de La Stampa, la prima delle richieste che Tripoli potrebbe avanzare alla comunità internazionale, è il dispiegamento su territorio libico del “Liam” ossia, il Libya International Assistance Mission, prevista dalle Nazioni Unite nell’ambito della missione Unsmil. 

Una misura che significa l’invio di “addestratori militari” sul terreno da parte di circa trenta Paesi (Usa, europei, arabi) ufficialmente “per ricostruire le forze armate e di polizia della Libia”.

L’operazione è stata pianificata due settimane fa a Roma, nella sede del COI (Comando Operativo Interforze situato nell’ex aereoporto di Centocelle).

Secondo fonti raccolte da La Stampa, in quella riunione, presenti i rappresentanti militari di una trentina di paesi, molti si espressero sulla necessità di «fare presto», dichiarando di essere pronti a rispondere immediatamente alle prime richieste di al-Sarraj.

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Finanziato con centinaia di milioni di dollari, l'Esercito libero siriano è svanito nel nulla

di Amer Mohsen – al Akhbar

(traduzione di Romana Rubeo)

Nella rapida catena di eventi che riguardano la Siria, tra gli slogan, le ostentazioni e l’esibizionismo di varia natura, i media e gli intellettuali che parlano a nome dell’opposizione siriana non sono riusciti a spiegare all’opinione pubblica la conseguenza più significativa e importante della tregua entrata in vigore qualche settimana fa: ovvero, il totale ritiro dell’Els (Esercito libero siriano) dalla guerra contro il regime.

La tregua prevede che, d’ora in poi, le fazioni dell’Els potranno concentrarsi nella lotta contro l’ISIS e il Fronte al Nusra, ma perderanno il diritto di sparare anche un solo colpo contro l’esercito siriano o di avanzare verso le zone tuttora sotto il controllo statale.

È questo il vero significato della tregua, un cessate il fuoco incondizionato e a tempo indeterminato. L’Els, dunque, ha consapevolmente e deliberatamente acconsentito a rinunciare al confronto militare contro il regime in cambio di una sua rappresentanza nel futuro governo. Ma nessuno, tra le fila dell’opposizione, ha presentato i fatti con questa chiarezza all’opinione pubblica.

Per essere più espliciti: non importa quanto dureranno ancora le negoziazioni, né se avranno un esito favorevole per l’Els. Il punto è che per le sue fazioni, la guerra è finita. ‘Il cambiamento di regime’ è ormai solo una richiesta di natura ‘politica’. Le trattative, infatti, potrebbero protrarsi per anni senza portare a risultati concreti. Ora che le cause della tensione tra le parti in campo sono state neutralizzate ed è subentrato il nuovo obiettivo della ‘lotta al terrorismo,’ nessuna [super] potenza ha interesse a raggiungere in fretta un accordo. E il nuovo piano De Mistura ne è la dimostrazione.

In questo senso, i nemici dell’Els che militano con l’ISIS o con al Nusra hanno ragione ad accusarlo di aver posto fine alla guerra contro il regime in cambio di un ritorno politico, e a dire che questo faciliterà le cose per l’Esercito Arabo Siriano impegnato su più fronti, con un grande dispendio di uomini e risorse, e che d’ora in poi potrà concentrarsi sull’ISIS e su al Nusra. Perché le Forze Armate Siriane e i loro alleati hanno più possibilità, rispetto agli oppositori (‘Tredicesima Brigata’ o ‘Sunni Lions’) di sfruttare la situazione, di penetrare in profondità nelle zone sotto il controllo dell’ISIS e di riconquistare le province orientali, in cui sono concentrate le maggiori risorse naturali e agricole.

Ma questo è solo l’inizio. La tregua, che interessa le aree di influenza di Jayshul Islam nel Ghouta, regione rurale a nord di Aleppo, e alcune zone meridionali (escludendo di fatto la maggior parte dei territori siriani), torna a porre i soliti interrogativi circa la natura e l’identità dell’Els.


Perché all’Els è stato attribuita una forte valenza ideologica durante il conflitto siriano: è davvero, come sostenuto a più riprese dai rapporti occidentali e dai media vicini alla ‘rivoluzione’, il frutto dell’unione di gruppi locali ‘moderati’, di ‘insegnanti, contadini e dentisti,’ che costituiscono il nocciolo duro dei combattenti contro il regime? O non si tratta invece di un raggruppamento di fazioni che rappresentano finanziatori stranieri e i loro interessi? E qual è il vero equilibrio di potere tra l’Els e le organizzazioni jihadiste?

Quando si studiano le guerre del passato, i fatti cruciali e le loro conseguenze sembrano chiari e comprensibili; tendiamo a dimenticare che la ricostruzione degli eventi è stata scritta anni dopo il loro effettivo svolgimento e che, viste ‘dall’interno’, le guerre possono essere totalmente diverse. Pochissimi trattati di storia parlano dell’opinione pubblica e dell’immagine che i media costruiscono durante un conflitto.

Oggi, gli Arabi si prendono gioco della propaganda del Nasserismo durante la Guerra dei Sei Giorni [1967]: all’epoca, gli organi di stampa avevano convinto l’opinione pubblica che le unità egiziane stavano avanzando in Palestina. Ma solo pochi ricordano che, nel pieno della Seconda Guerra mondiale, la popolazione britannica venne tenuta all’oscuro delle cattive notizie sulle sconfitte riportate e sull’effettivo numero di vittime. (Una simile censura fu imposta anche in America). Allo stesso modo, durante la Guerra delle Falklands, gli Argentini erano persuasi che il loro esercito stesse piegando la flotta britannica. E, secondo le cronache e i media occidentali, i mujahidin erano ‘combattenti per la libertà’ che sfidavano l’Impero Sovietico solo con le proprie forze.

Il conflitto siriano non fa eccezione. Il bombardamento mediatico, insieme al monopolio detenuto dall’Occidente e dai Paesi del Golfo, hanno reso impossibile qualsiasi confronto serio con molti Arabi e molti Occidentali, non tanto per divergenze di vedute su principi etici o politici, quanto perché la Siria che veniva raccontata non corrispondeva a quella reale, e la guerra di cui si parlava non era quella che si stava combattendo. Inoltre, indipendentemente dai media che seguivano, quegli Arabi e quegli Occidentali erano raggiunti solo da una narrazione ideologica, fondata sulla dicotomia tra bene e male.

Sin dai primi scontri tra Hizbollah e le forze di opposizione lungo i confini nord-orientali con il Libano, le cronache distinguevano nettamente le cosiddette fazioni dell’Els, la loro mancanza di professionalità bellica e la mancanza di formazione militare dal Fronte al Nusra (prima dell’insorgere dell’ISIS), militarmente efficiente, desideroso di combattere, con un grande ascendente sui giovani.

Fino a qualche mese fa, i media occidentali hanno continuato a parlare dell’Els come della principale fazione della ‘rivoluzione’ siriana. Un giornalista occidentale che vantava una conoscenza approfondita della Siria, mi aveva assicurato che il Fronte al Nusra era una minoranza nel nord della Siria, e che il movimento di Jamal Ma’rouf era la seconda o la terza formazione militare del Paese, solo qualche giorno prima che al Nusra sbaragliasse quel gruppo in un combattimento durato appena qualche ora.

In un rapporto del (filo-sionista) Washington Institute for Middle East Policy sulle opportunità di respingere al Nusra dalla Siria del Nord per mezzo dell’Els, l’autore ha usato termini ‘morigerati’ per concludere sostanzialmente che si trattava di una missione impossibile, e che in realtà la guerra nelle regioni settentrionali si riduceva a una competizione tra le diverse fazioni salafite, mentre l’Els, nonostante lo status attribuitogli dalla stampa, era assolutamente marginalizzato. L’autore aggiunge che l’unica differenza tra il gruppo armato Ahrar ash-Sham e al Nusra è il fatto di non aver giurato fedeltà ad al-Qa’ida, e che chi preferisce oggi i suoi membri ad al Nusra è simile a chi preferì al Nusra all’ISIS due anni fa, celebrandone le vittorie.

Al netto delle previsioni sul destino della ‘tregua’ o della ‘pace,’ un’analisi sommaria delle forze in campo in Siria lascia presupporre che la guerra continuerà a lungo e che la ‘tregua’ è solo una parentesi. Ma la ‘tregua’ non porrà fine a certi miti, compreso quello relativo all’Els, creato dal divario tra la storia raccontata dai media e la realtà.

Ad esempio, nella Siria meridionale, la lotta interna per il controllo si gioca essenzialmente tra al Nusra e l’ISIS. Lo scarso pubblico che ha partecipato alla manifestazione a Beirut nel quinto anniversario della ‘rivoluzione’ in onore dell’Els, era costituito principalmente da ‘attivisti’, molti dei quali libanesi, in un Paese in cui ci sono circa due milioni di persone che provengono da ogni parte della Siria e dai contesti più svariati.

Ma, visto che la guerra e le atrocità che comporta andranno avanti ancora a lungo, sarebbe bene combatterla senza il peso gravoso delle illusioni e dei miti.

Fonte

L’inverno del nostro scontento

Non siamo tra quelli che rivendicano la vittoria anche di fronte a una sconfitta, come una importante cultura politica insegna a fare sempre e comunque, col risultato di tramutare magicamente gli ematomi, frutto di anni e anni di bastonate, in medaglie giallastre. Lo scontro sulla Vqr – i cui dettagli tecnici qui non interessano (per questi c’è roars.it) – è stato uno scontro politico che ci ha visti uscire, per ora, sconfitti. Di qui le parole del Riccardo III di Shakespeare come contraltare alla Primavera dell’università, un’iniziativa della Crui (Conferenza dei rettori delle università italiane: un organismo privato) svoltasi il 21 marzo scorso, per provare a sedare il dissenso che si era manifestato attraverso la protesta contro la Vqr.

La sconfitta non ci rende però pessimisti, senza arrivare a dire che, in realtà, abbiamo vinto e senza nasconderci i dati della protesta. Che non sono però quelli presentati dall’Anvur, un carrozzone che costa più di quanto si sarebbe dovuto restituire ai docenti per legge e di fatto restituito a tutti gli altri comparti dello Stato: politici, magistrati, insegnanti delle scuole, forze armate e dell’ordine, medici, prefetti, diplomatici e ministeriali. I dati, infatti, sono viziati dal fatto che in molte università s’è verificato il caricamento forzato dei prodotti (sic!) dei docenti anche a fronte della loro diffida scritta a procedere in tal senso. Un fatto inaudito, probabilmente passibile di denuncia penale (visto che i prodotti sono di proprietà, almeno intellettuale, di chi li produce che, quindi, può farne ciò che vuole). Il vero dato, tra astensione reale e caricamento coatto (a fronte di minacce più o meno esplicite), si aggira attorno al 25% del personale docente e non all’8% come sostiene, in pieno stile cileno, l’Anvur, agenzia nemmeno «accreditata come membro effettivo dell’Enqa, la European Association for Quality Assurance in Higher Education».

Il 25% è un dato rilevante e su esso bisogna puntare per individuare nuove iniziative, che gli consentano di manifestarsi con più forza, prendendo il timone della protesta e resistendo alle pressioni, spesso dure e scorrette, a cui molti docenti sono stati sottoposti affinché autorizzassero il caricamento, anche da parte di terzi, dei loro prodotti. Tra l’8% di coloro che non hanno effettivamente conferito i propri prodotti e il 17% che lo ha fatto per coercizione non ci devono essere fratture: questi ultimi vanno recuperati alla lotta – in qualche università, ad esempio, alcuni hanno espresso apertamente il loro disagio di essersi trovati costretti (a volte anche per ragioni personali) a ottemperare alla procedura (che, va ricordato, è volontaria, non essendo prevista da nessuna legge), pur condividendo le ragioni della protesta. Non va dimenticato, inoltre, che l’Anvur è stata costretta a rinviare per ben due volte la data della scadenza della Vqr e che un terzo rinvio è stato rifiutato solo per evitare il ridicolo. Infine, la protesta ha avuto anche qualche risonanza nei mass-media notoriamente schierati contro quei privilegiati e fannulloni dei professori universitari. Per quanto non sembri molto – resta il 75% degli allineati, anche se, forse, pure tra costoro qualche mal di pancia c’è – in realtà è un dato importante e potenzialmente decisivo per le sorti dell’università pubblica italiana, perché delinea un orizzonte di lotta molto ampio, che non si registrava da anni, anzi da decenni.

Quello che nessuno dice, però, è che, per ora, la sconfitta non è solo dei pochi ribelli, ma di tutti, anche, se non soprattutto, degli zelanti, dei ligi al dovere imposto dall’ideologia del servizio pubblico, dei realisti più realisti del re (il cui servilismo non li rende necessariamente vincitori), dell’incapacità politica (indipendentemente dalle dichiarazioni) ormai conclamata della Crui, dei Rettori, dei Direttori di dipartimento, dei Consigli di dipartimento e di tanti ricercatori e professori, soprattutto di quelli che inizialmente avevano appoggiato la lotta e che poi si sono sottratti all’ultimo momento con argomenti pretestuosi (false proiezioni basate su dati incompleti), per ignavia, o addirittura esibendosi in promesse farsesche di una rivoluzione prossima ventura. Sappiamo da tempo che parlare di rivoluzione, di scioperi selvaggi o attacchi alla diligenza è il modo migliore per non fare nulla. Chi se ne riempie la bocca, infatti, non ne riempie la storia e tutt’al più soddisfa la propria pulsione anarcoide, effetto della sua costante assenza dai luoghi reali della lotta politica. Che è lì dove si dà un’occasione e ci sono strumenti (anche deboli) a disposizione, dove si presentano ragioni sufficienti e dove esistono realistiche prospettive di espansione della lotta. Nel caso della Vqr, da rivendicazione corporativa riguardo problemi salariali a posizione di una serie di questioni più ampie sull’università, la formazione, la valutazione, la selezione e il reclutamento (soprattutto in relazione ai precari); ma anche sul diritto allo studio (il problema delle borse è drammatico), le strutture e gli investimenti.

Abbiamo perso, infatti, significa – e questo interessa agli studenti e alle famiglie, al di là delle insensate regole della Vqr – che l’università pubblica italiana ha perso: forse definitivamente. E quel «forse» dipende tutto dal 25% di cui parlavamo sopra. Viene da chiedersi: ma se anche di fronte a rivendicazioni banalmente salariali, il mondo accademico non s’è mosso in modo compatto, per quale altra ragione sarà disposto a mobilitarsi? Gran parte del 75% non è mosso di per sé da alti ideali: tra chi pensa solo alla pensione, chi continua a farsi i fatti propri soddisfatto del proprio stipendio e chi addirittura ci crede, per cinismo o per fatalismo, non resta granché. Nella protesta, però, si è palesata una composizione trasversale sia generazionale sia di ruoli che speriamo non abdichi all’onere di provare a costruire l’università pubblica del futuro fuori dai canoni dell’aziendalismo e della privatizzazione. I più giovani soprattutto, si pensi ai precari, che sono la componente più dinamica dell’università e quella più fottuta dalla ristrutturazione in corso; e i ricercatori, che non sono professori, forse è il caso di ricordarlo, anche se per tenere su la baracca fanno i corsi, malpagati, e molto altro che non dovrebbe fare, lavorando come un ordinario ma con la metà dello stipendio. Questa sconfitta, dunque, potrebbe sedimentare le basi per la prosecuzione della lotta.

In caso contrario, le conseguenze saranno pesanti e non solo per i ribelli, ma per tutti. Per capirlo, basta leggere l’intervista a La repubblica  rilasciata il 4 febbraio 2012 dall’Ing. Prof. Sergio Benedetto, nella quale l’allora membro del direttivo della Vqr, col candore che riverbera dal suo cognome, sollecitato da un’ossequiosa giornalista del quotidiano che si è distinto negli ultimi anni per le continue campagne di disinformazione e demonizzazione di alcuni comparti dello Stato (scuola e università su tutti), così affermava:

G: Alla fine del vostro lavoro avremo una mappatura dell’università italiana, con indicata la serie A la serie B… e la serie Z.
B: Sì, il risultato finale sarà una classificazione delle università fatta all’interno di ogni area scientifica. Ad esempio, emergerà una graduatoria che dirà come la ricerca nella fisica sia migliore nell’ateneo A piuttosto che B, e così via. I ragazzi saranno aiutati a scegliere.

Fosse vero... Col metodo di valutazione adottato (peraltro viziato da un fatal error), la sola cosa che forse riusciranno a capire sarà il grado di notorietà di alcuni docenti piuttosto che altri, ma non certo a stabilire quale ricerca è davvero ben fatta e se è utile oggi o domani, visto che la valutazione si basa o sul grado di apprezzamento da parte della comunità scientifica o, peggio, sul gradimento espresso da alcuni kapò che si prestano a valutare, con le loro incomplete conoscenze e per 30 denari cadauno, i prodotti dei colleghi della loro stessa area disciplinare, come se dall’alto della loro statura (e «non conoscendo affatto la statura di dio» come cantava il poeta) potessero sindacare su tutto e tutti, distribuendo voti e... vendicandosi finalmente dei loro nemici accademici. Perché questo è la Vqr (per non parlare dell’Asn: l’abilitazione scientifica nazionale): un regolamento di conti interno all’università (anche quando va bene), in modo tale che la classifica delle università risulti essere il frutto di una pulizia interna.

Mentre il primo meccanismo si basa sul numero di citazioni che un certo testo totalizza nella comunità scientifica (pensate che valutazione avrebbero avuto Mendel o Einstein se si fosse ascoltata la «comunità scientifica» del loro tempo – e questo per le scienze «dure»: immaginiamoci per le altre), il secondo, il peggiore (chiamato in gergo peer review, che di una revisione tra pari ha solo il nome), è un sistema del tutto soggettivo: se ti valutano gli amici va tutto bene, se ti valutano i nemici va tutto male, altrimenti stai nel mezzo; senza contare che le valutazioni non sono motivate, ma calate dall’alto come giudizi divini. E che dire del ruolo che in tutto questo giocano l’incompetenza, l’ignoranza o le paturnie personali di qualche baronazzo di seconda fila pronto a sfogare la propria frustrazione sul lavoro altrui?

Ma il solerte burocrate prosegue nel cantare le magnifiche sorti e progressive della Vqr, perché, grazie a essa:

G: Ci saranno gli atenei che danno la laurea triennale, quelli che specializzano e le strutture dell’eccellenza con i dottorati.
B: Tutte le università dovranno ripartire da zero. E quando la valutazione sarà conclusa, avremo la distinzione tra researching university e teaching university. Ad alcune si potrà dire: tu fai solo il corso di laurea triennale. E qualche sede dovrà essere chiusa. Ora rivedremo anche i corsi di dottorato, con criteri che porteranno a una diminuzione molto netta.

Bene cari studenti e cari genitori: preparatevi a pagare (molto più di quanto non pagate oggi) per avere la qualità (se tale è)! Oppure convincetevi che, a questo punto, tanto vale andare a studiare all’estero. Questi sono i risultati dell’euro speso dal governo Renzi in cultura per ogni euro speso nella lotta al terrorismo e delle propagandistiche promesse di investire nelle università con la chiamata di 500 teste fine anche dall’estero o di qualche nuovo docente (un migliaio circa) a fronte di un sostanziale e pluriennale blocco del turnover, e una perdita di migliaia di posti di lavoro (circa 10.000 in sei anni). Ma si preparino soprattutto studenti e genitori delle università del Sud, perché saranno quelle a diventare quasi esclusivamente teaching university e, quindi, non licei o poco più, ma vere e proprie scuole professionalizzanti, la cui laurea non varrà un penny. È ovvio, inoltre, che se da ciò non deriverà l’abolizione del valore legale del titolo di studio (com’è peraltro molto probabile) ne deriverà senz’altro una diversificazione e gerarchizzazione del valore.

Le università di serie A, invece, si spartiranno la torta: a loro verrà dato di più perché a qualcun altro è stato tolto, forse anche immeritatamente, dal momento che in molte università cosiddette di serie B è probabile (statisticamente) ci sia qualche ottimo ricercatore. Nonostante l’apologia dell’individuo, infatti, ognuno è legato alla valutazione della struttura a cui appartiene, col risultato che il proprio impegno può essere vanificato da un cattivo risultato collettivo. Così la classificazione e la gerarchizzazione potranno proseguire! Come avviene già a livello internazionale, dove qualcuno, bardato di criteri discutibili, si perita di fornire ogni anno la classifica delle migliori università al mondo. E quelle italiane sono sempre in fondo! Già, ma nessuno dice che mentre le risorse attribuite annualmente all’Università italiana rappresentano circa lo 0,4% del PIL, i Paesi che sono in testa alla classifica investono più del doppio delle risorse. È la solita logica liberale: in attesa che tutti possano partire dalle stesse condizioni, si fa una bella classifica che premia solo quelli già bravi! Forse, così facendo, credono che quelli ‘scarsi’ si daranno da fare di più per raggiungere quelli bravi? Beh, qui una risata ci sta!

Se qualcuno crede poi che, in questo modo, si apriranno nuovi posti per i precari, probabilmente non ha capito l’antifona. Diminuiranno i dottorati, diminuiranno comunque i posti per la ricerca (la figura del ricercatore a tempo indeterminato è stata abolita dalla legge Gelmini), aumenteranno gli studenti per docente (soprattutto nelle università migliori), la ricerca finanziata sarà sempre più limitata ad alcuni settori, lasciando il resto al mercato, la libertà di insegnamento sempre più vincolata all’utile economico e quando le teaching university si svuoteranno (e chi ci andrà? perché pagare per avere un pezzo di carta straccia?) verranno chiuse; e si potrebbe continuare. La divisione tra serie A e B – per proseguire con la metafora calcistica, che rappresenta ormai il livello più alto di impiego del pensiero figurato in questo Paese – è uno specchietto per le allodole, dato che il campionato che conta è la Champions League e non i campionati nazionali. Sarà divertente vedere applicati criteri ancor più restrittivi alle stesse università di serie A, per distinguerle in A1 e A2 o per dare ad alcune di loro la patente di università europee e ad altre quella di semplici atenei locali.

Non è una risata che seppellirà i devastatori dell’università pubblica italiana che sono tutt’uno con gli autori in malafede della sua privatizzazione; ma merda: quanta non ne abbiamo vista mai.

Per evitare che ciò accada, bisogna proseguire nella lotta, come si sta cercando di fare pur tra mille difficoltà. La protesta contro la Vqr ha prodotto un po’ di mobilitazione interna (l’ultima di una certa consistenza risaliva a quella dei soli ricercatori contro l’approvazione della legge Gelmini: 240/2010) e molta discussione anche accesa (che fa sempre bene); inoltre, sembra si sia prodotta – e se sì va ampliata e consolidata – un’intesa trasversale tra professori e ricercatori. Coinvolgere in essa i precari facendo proprie le loro rivendicazioni – capendo la delicatezza ma anche la strategicità della loro posizione – sarebbe un passo fondamentale. Numerose iniziative sono al vaglio: dagli scioperi riguardo le sedute di laurea e gli esami ai boicottaggi delle attività non previste dal contratto, dalle pressioni sul governo al rifiuto di fare i valutatori-kapò e altro ancora. Se concertate potrebbero avere un impatto significativo sull’ordinario funzionamento delle attività universitarie.

Crediamo, però, sarebbe il caso di prendere in esame anche alcune altre ipotesi, che peraltro non escludono a priori una sinergia con quelle appena ricordate. Sappiamo che le ambiguità contenute nella legge 240/2010 riguardo agli incarichi di docenza curricolare di cui sono investiti i ricercatori a tempo indeterminato sono passibili di contestazione, come dimostra la sentenza del Tar Lombardia n. 00644/2015, che ha accolto il ricorso di alcuni ricercatori del Politecnico di Milano contro il tentativo dell’Ateneo di rendere obbligatorie 80 ore di didattica frontale all’interno delle 350 di didattica integrativa previste dalla legge. Questa fattispecie configura la possibilità di un’astensione da parte dei ricercatori incardinati dalla didattica curricolare (da rafforzare con la contemporanea rinuncia degli altri docenti ad accettare carichi didattici oltre il monte ore previsto per legge e/o a supplire i corsi lasciati vacanti dai ricercatori), mentre più delicata è la posizione di quelli a tempo determinato. Si tratta perciò di individuare terreni di lotta capaci di fungere da campo di battaglia comune per ricercatori e professori e quindi in grado di portare a un coinvolgimento più ampio e unitario di quello verificatosi sino ad ora. In particolare, sarebbero da considerare: 1) la rivendicazione del ruolo unico con conseguente abolizione della gerarchia accademica e relativo accesso gerarchizzato agli incarichi universitari (una proposta che circola da tempo nei circuiti del dibattito universitario); 2) la richiesta di porre fine alla Vqr e chiudere l’Anvur (con significativo risparmio per le casse dello Stato) ossia: a) il rifiuto di ogni paradigma meritocratico e di ogni forma di valutazione per manifesta impossibilità (con qualunque sistema) di arrivare a un esito scientifico della stessa; b) l’abolizione di un’agenzia che genera gerarchie prive di fondamento scientifico e legittima una politica di distruzione dell’università pubblica, anziché lavorare per il suo miglioramento e il suo consolidamento.

Sono modeste proposte, ma solo così «l’inverno del nostro scontento» potrà forse diventare «una radiosa estate» (sempre il Riccardo III) e riusciremo a non ridurci come Ethan Hawley, il protagonista di L’inverno del nostro scontento di Steinbeck.