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31/12/2017

Meglio e peggio del 2017 secondo Frusciante


Alla Redox vincono i lavoratori dopo un mese di occupazione della fabbrica

Ad un mese esatto dall’occupazione dello stabilimento Redox Group di Trieste, è stato sottoscritto un accordo che accoglie tutte le richieste dei lavoratori in merito al loro passaggio in VA Crane Italia, l’azienda che è subentrata nelle lavorazioni di Redox Group Srl e che aveva proposto loro condizioni di passaggio inaccettabili, che si configuravano nell’assunzione col jobs act, il taglio degli stipendi e l’azzeramento dell’anzianità.

L’accordo siglato tra USB e VA Crane Italia Srl prevede l’assunzione di tutti questi lavoratori con la clausola di mantenimento dell’art.18, inoltre l’accordo garantisce l’anzianità di servizio e prevede il passaggio dei lavoratori allo stesse condizioni salariali di prima attraverso una serie di indennità fisse in paga oraria.

Il merito di questo accordo, va dato tutto a questi lavoratori che hanno sostenuto con convinzione per 30 giorni una protesta straordinaria, in una forma che a Trieste non si era mai vista.

La prima vertenza “vera” che ha visto impegnata USB Industria – Lavoro privato nella provincia di Trieste ha visto anche una prima grande vittoria, a dimostrazione come la struttura del comparto industriale di USB, nata a settembre 2017, stia già concretizzando l’affermazione ottenuta su tutto il territorio della provincia di Trieste in questi primi mesi di attività, che continua a vedere una crescita esponenziale in termini di adesione da parte delle lavoratrici e dei lavoratori ad USB e che ha visto il determinarne l’ingresso nelle principali aziende della provincia di Trieste (Wartsila, Flex, Sincrotrone, EBM, Insiel) con una sua rappresentanza eletta dai lavoratori.

La vittoria dei lavoratori Redox e di USB infine, è il chiaro segnale che il vento sta cambiando. Nei luoghi di lavoro c’è la richiesta di una rappresentanza che sia veramente dei lavoratori, che esca dalle logiche concertative che hanno visto in questi decenni ridurre il sindacato confederale tradizionale ad un soggetto privo di rappresentanza, autoreferenziale e suddito della classe politica liberista di questo paese.

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Iran - L’anno si chiude su piazze contrapposte

Manifestazioni contro in Iran. Partite dapprima in sordina giovedì nella conservatrice Mashhad, ma già ieri cresciute e debordate nei bazar di parecchie città e poi nelle strade fra la gente che protesta per gli aumenti dei prezzi e i giovani che gridano contro la propria disoccupazione, “calmierata” nei comunicati del governo Rohani, ma che secondo osservatori s’aggira ormai oltre il 40%. Colpa anche d’un embargo che di fatto prosegue poiché, nonostante i famosi accordi sul nucleare, tante aziende non riescono ad attivare investimenti per i blocchi tuttora esistenti in un sistema bancario internazionale che impedisce o rallenta le transazioni fra quel Paese e i mercati soprattutto occidentali. E’ il veleno che l’America, non solo trumpiana, riversa su un nemico storico, influenzando gli organismi finanziari mondiali. Così al centro delle ire delle piazze che rianimano rimostranze finisce il presidente Rohani, riconfermato nel maggio scorso con un ampio consenso di moderati e riformisti, più il voto della gioventù ribelle dei grandi centri, capitale in testa, capace di sostenerlo oltre il primo mandato, quello agitato col simbolo di una chiave: apertura alle riforme, all’Occidente, a un nuovo corso. Una chiave che scardinava diplomaticamente ciò che il clero iper tradizionalista non voleva attuare e con lui l’ala dura del partito dei Pasdaran. Una componente nient’affatto ridimensionata nel peso economico-politico che, comunque, ha giocoforza ceduto il passo nelle consultazioni di quest’anno.

Quindi il presidente uscente ha prevalso sui due cavalli di battaglia del fronte conservatore, inizialmente il laico Qalibaf e nel rush finale il chierico Raisi. Sconfitti entrambi grazie all’ennesimo compromesso fra i sostenitori dei mai dimenticati “apostoli delle riforme”: Moussavi, Karoubi e il presidente delle promesse. Però quest’ultimo sta incespicando sull’impossibilità di rilanciare l’economia, sul blocco del piano di diversificazione che ripropone alla nazione una dipendenza dal mercato degli idrocarburi, di per sé soggetto a tempeste geopolitiche, e si vede offuscata l’immagine interna, nonostante i buoni risultati in politica estera. Certo, ieri a sostegno del presidente e della Guida Suprema Khamenei, cui gli oppositori hanno gridato di andarsene, bruciandone addirittura le foto, sono intervenute centinaia di migliaia di persone. A Teheran c’è stata una gigantesca contromanifestazione che ricordava quella di otto anni addietro, quando dopo mesi di agitazioni dell’Onda Verde, con migliaia di conseguenti arresti, l’Iran khomeinista fedele alla Guida Suprema e al secondo mandato di Amadinejad, pur sotto l’accusa di brogli, occupò fisicamente le strade per controbilanciare lo spazio preso dai contestatori. Già all’epoca si parlò di ‘mano americana’ per mettere in difficoltà un regime incrinato da varie spaccature. Quelle interne al clero, anch’esso diviso fra conservatori e innovatori, quelle fra il gruppo di potere dei Pasdaran, che per un periodo con lo stesso Amadinejad pensava di potersi emancipare dal tutoraggio degli ayatollah.

E quelle di una parte della popolazione, prevalentemente giovane, la quale pur in osservanza alla fede sciita, vorrebbe mettere la parola fine al velayat-e faqih, creatura khomeinista contestata da altri sayyid. Cui s’aggiunge il modernismo dei diritti di My Stealthy freedom, attivo sui social network. A questo sfondo politico che persiste, s’aggiunge la realtà degli ultimi tempi che mostra un recrudescenza unilaterale dei rapporti fra Washington e Teheran per esplicito volere della Casa Bianca. Ora, sostenere che anche le proteste di questi giorni siano ‘pilotate’ può essere un retropensiero o un azzardo, di fatto certe mancate aspettative possono incendiare le delusioni. E al tempo stesso è normale che diversi nemici dell’attuale nazione iraniana – non dunque dell’attuale establishment come possono essere soggetti folkloristici tipo Pahlavi jr, piazzato nella capitale statunitense o la sedicente rivoluzionaria Rajavi, oppositrice dai boulevard parigini – osannino le contestazioni antigovernative. Infatti puntuale è giunto il cinguettìo speculatore, o peggio, del presidente statunitense che si rivolge a ‘un popolo sofferente’. Invece occorrerà capire se le due piazze sono frutto di lotte intestine, una riapertura dei cicli avviati con Khatami e i riformisti suoi successori o altro ancora. Oppure, come sottolineano commentatori vicini al governo, si tratta di mal di pancia legati al carovita, all’inflazione crescente, ai tagli di taluni sussidi che colpiscono i ceti più poveri. Però l’aria si scalda e appaiono i morti. Chi dice tre, chi sei per sparatorie delle Guardie della Rivoluzione nella località di Doraud.

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Aumentano le tariffe di luce e gas. Ritorna il carovita?

Questi ultimi dieci anni di deflazione, di crollo dei salari e dei consumi, di prezzi bassi perché nessuno aveva i soldi per comprare, ci avevano fatto perdere di vista un parametro con il quale le generazioni precedenti avevano sempre dovuto fare i conti: il carovita, cioè il continuo aumento dei prezzi, soprattutto delle tariffe dei beni di prima necessità.

Fino al 1985 questa divaricazione tra aumento dei prezzi e andamento dei salari era compensata dalla scala mobile (o contingenza) che adeguava le retribuzioni ai prezzi. Poi, parzialmente nel 1985 e totalmente nel 1993, questo meccanismo è stato eliminato dai diktat dei governi (Craxi nell’85, Amato/Ciampi nel 1993). Il risultato è stata la riduzione sistematica dei salari e del loro rapporto con l’aumento dei prezzi. Dopo anni d'inflazione pressoché inesistente, la Bce e la Commissione Europea, da tempo stanno sollecitando misure tese a far aumentare proprio l’inflazione, cioè lo spauracchio di marca tedesca contro cui negli anni ’90 sono stati creati proprio i trattati come quello di Maastricht. Nati per “combattere l’inflazione” oggi devono cercare di farla ripartire con ogni mezzo, incluso l’aumento dei prezzi ma con i salari sostanzialmente fermi (come ha confessato recentemente lo stesso Draghi e la Bce).

Il Sole 24 Ore, informa che dal primo trimestre del 2018 aumenteranno le bollette dell’elettricità e del gas e neanche di poco. Aumentano anche, come sempre, i pedaggi delle autostrade con effetti evidenti sul costo dei trasporti delle merci e delle persone.

Dal prossimo 1° gennaio la famiglia tipo registrerà un incremento del +5,3% per le forniture elettriche mentre per quelle gas del +5%. L’aumento delle tariffe elettriche è legato ad una serie di fattori concomitanti, che hanno portato ad una decisa crescita dei prezzi all’ingrosso nell’ultimo trimestre (+20% del Prezzo Unico Nazionale solo a novembre rispetto ad ottobre): la ripresa dei consumi (+1,6% la domanda elettrica in Italia nei primi 11 mesi del 2017), da confermare nel 2018, positiva come segno della ripresa delle attività produttive, ma con l’effetto parallelo di una risalita dei prezzi all’ingrosso; l’indisponibilità prolungata di alcuni impianti nucleari francesi, con una crescita delle quotazioni dell’elettricità all’ingrosso nel mercato d’oltralpe, che influenza al rialzo anche quello italiano e ne riduce i volumi importati dalla Francia; alcune limitazioni nei transiti di elettricità nella rete italiana, soprattutto nel Sud-Italia, comportando una riduzione complessiva dell’efficienza del sistema; la minore disponibilità della generazione idroelettrica nazionale per la scarsa idraulicità del periodo (il 2017 è l’anno più “arido” degli ultimi 200 anni), sostituita dalla più onerosa produzione delle centrali a gas; l’aumento stagionale dei prezzi all’ingrosso del gas a livello europeo (e quindi anche italiano) che ha contribuito a far innalzare i prezzi elettrici.

Oltre a questi fenomeni peserà sui consumatori domestici anche l’aumento degli “oneri generali di sistema dovuto al rafforzamento delle agevolazioni per le industrie manifatturiere energivore”, deciso con decreto del Ministro dello Sviluppo economico in attuazione della recente Legge europea che ha recepito il via libera della Commissione europea della scorsa primavera al Piano di adeguamento predisposto dal Governo italiano.

Per il gas invece l’aumento è sostanzialmente determinato dalle attese dinamiche legate alle stagioni invernali, con consumi e quotazioni in aumento a livello europeo, che – in un mercato unico – implicano la crescita dei prezzi anche nei mercati all’ingrosso italiani.

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Questo articolo compare in contemporanea su Contropiano e L’Antidiplomatico

Da quando la coalizione Cambiemos guidata dall’imprenditore Mauricio Macri è andata al potere in Argentina, l’ortodossia neoliberista è ripiombata drammaticamente nella vita del popolo argentino. Con il suo corollario, ampiamente previsto, fatto di repressione e miseria crescente.

Dopo due anni di neoliberismo selvaggio il bilancio è catastrofico: le principali tariffe, ossia acqua, energia elettrica e gas hanno subito forti rincari che vanno dal 200% al 2000%. L’inflazione ha fatto registrare un’impennata che l’ha portata al 50%, mentre la moneta nazionale, il Peso, si è svalutato del 40%.

La politica di austerità selvaggia imposta dal regime macrista ha avuto un impatto drammatico sulle classi popolari, la vita economica e lo sviluppo del commercio. Secondo la Chiesa Cattolica 1,4 milioni di argentini sono scesi sotto la soglia di povertà. Nella capitale Buenos Aires, il tasso di povertà è passato dal 20% al 33%. Secondo dati resi noti dall’Istituto Nazionale di Statistica e Censimento (INEC), il 32% della popolazione vive in povertà – quindi parliamo di 8,7 milioni di persone – mentre 1,3 milioni di persone, il 6,3% degli argentini, vive in condizioni di povertà estrema.



Il Fondo Monetario spinge l’Argentina verso il baratro

Mentre davanti agli occhi abbiamo ancora le immagini della repressione scatenata contro chi ha osato contestare una riforma pensionistica che porta l’età per il ritiro dal lavoro attivo a 70 anni.

Questo, evidentemente, non è abbastanza per il Fondo Monetario Internazionale. L’istituzione che professa di «promuovere la cooperazione monetaria globale, assicurare la stabilità finanziaria, facilitare il commercio internazionale, promuovere un alto tasso di occupazione e una crescita economica sostenibile e ridurre la povertà in tutto il mondo», mentre impone scellerate misure economiche che gettano i popoli nella povertà più nera, favorendo, al contempo, gli interessi delle élite.

Dunque, nelle sue raccomandazioni per l’economia argentina, il Fondo chiede alla nazione sudamericana di operare una «diminuzione della spesa pubblica», accompagnata da privatizzazioni per «aumentare la produttività».

Insomma, si chiede a Macri di implementare in maniera ancora più selvaggia le politiche che negli ultimi due anni hanno affossato l’economia dell’Argentina. A tal proposito, senza attendere le raccomandazioni del Fondo Monetario Internazionale, i politici argentini hanno votato la scorsa settimana per ridurre l’aliquota dell’imposta sulle società del paese dal 35 al 25% e aumentare l’età pensionabile a 70 anni per uomini e donne. Le misure introdotte, inoltre, prevedono una riduzione drastica degli investimenti pubblici nei piani pensionistici nazionali e nel welfare state.

Il rapporto del FMI chiede di «ridurre i posti di lavoro nella pubblica amministrazione, congelando le assunzioni per i prossimi due anni». In linea con le raccomandazioni dell’organizzazione internazionale, il governo, ha deciso di non rinnovare il contratto a 15.000 lavoratori della pubblica amministrazione. I sindacati hanno risposto annunciando uno sciopero generale il 4 gennaio.

La scure neoliberista è calata anche sul diritto del lavoro con Macrì che minaccia di approvare una legislazione che vuole ridurre il potere di contrattazione collettiva sindacale. L’FMI chiede di tagliare le indennità e «semplificare le procedure per il licenziamento collettivo».

Lo scenario è il medesimo che ha prodotto il dramma della Grecia e di gran parte dei paesi dell’Europa del sud costretti a languire sotto il tallone di ferro di un’ottusa austerità che stritola le economie. Nonostante i governi, come quello italiano, parlino di crescita economica. Intanto la povertà continua a crescere in maniera esponenziale,


Negli ultimi trent’anni i critici del Fondo Monetario Internazionale hanno denunciato che l’organizzazione costringe i governi ad applicare politiche economiche draconiane che cancellano la sovranità nazionale. In Europa, attraverso la moneta unica, è stata cancellata anche la sovranità monetaria.

Nel caso dell’Argentina, il Fondo Monetario Internazionale, spinge il paese verso il baratro. Da dove il paese era stato faticosamente tirato fuori grazie agli anni di governo kirchnerista.

Fonte: TeleSur

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Decreto intercettazioni, un semi-golpe in stile felpato

In silenzio, secondo il suo stile felpato, il “pacato Gentiloni” ha piazzato una delle “riforme” semi-golpiste che hanno caratterizzato tutta la legislatura guidata dal Pd. Certo, Renzi l’avrebbe sparata forte, ma – rumore a parte – la sostanza è la stessa.

Parliamo del decreto sulle intercettazioni, approvato in via definitiva dal Consiglio dei ministri.

Cosa c’è di semi-golpista? Intanto il metodo. A Camere sciolte dal presidente della Repubblica, il governo prende una decisione che il Parlamento non può discutere, approvare o emendare. E’ il metodo con cui governa l’Unione Europea – ricordiamo sempre che il “Parlamento” di Starsburgo è l’unico al mondo formalmente privo del potere legislativo; dunque porta il nome, ma non è un parlamento – mettendo da parte la solenne “tripartizione dei poteri” che dovrebbe caratterizzare la democrazia parlamentare in regime capitalistico.

Vero è che questo decreto entrerà in funzione soltanto tra sei mesi, ma intanto è stato varato. Se a quella data non ci sarà ancora un governo dotato di maggioranza parlamentare (non lo si può escludere, vista la frammentazione politica esistente), o peggio ancora ci sarà un “governo del presidente”, con tutti dentro, quel decreto diventerà legge dello Stato. Senza mai esser stato approvato dall’organo legislativo.

Una logica semi-golpista anche nel merito. Tra le molte misure messe nero su bianco ce n’è una che espropria il potere giudiziario di una prerogativa fondamentale: la formazione delle prove da presentare in giudizio.

Secondo il decreto, infatti, la polizia giudiziaria assume il potere di decidere quali intercettazioni sono rilevanti ai fini dell’inchiesta e quali no. Finora questo potere era affidato al pubblico ministero, ovvero a un magistrato. Quindi a un potere formalmente indipendente dal governo (potere esecutivo). Inutile qui stare a considerare i diecimila casi di magistrati legati a questa o quella cordata politica, ai “magistrati in prima linea” che hanno spesso surrogato il potere politico nella “guerra” a questa o quella “emergenza”, fino ad arrivare al cortocircuito costituzionale di magistrati che si scrivono le leggi che dovranno poi applicare (compito che la Costituzione affida al Parlamento).

In questa nuova norma, infatti, l’ordine dei poteri viene rovesciato: il governo decide – tramite la polizia giudiziaria, quindi con la filiera di comando agli ordini del ministro dell’Interno – cosa andrà a costituire prova giudiziaria.

Si tratta insomma della sottomissione anche formale delle funzioni giudiziarie – o almeno di una tra le più importanti – al potere esecutivo.

La cosa sorprendente è che nessuno abbia sollevato il problema, che è anche una misura del degrado della cultura politica “democratica” di questo paese. Il presidente dell’Associazione Nazionale Magistrati, Eugenio Albamonte, ha colto ovviamente la novità spaventosa – “lo strapotere della polizia giudiziaria nella selezione delle intercettazioni”. Ma la sua critica è stata espressa con una prudenza che la dice lunga sui rapporti di forza oggi in campo, limitandosi a sottolineare aspetti quasi solo tecnici. Per esempio, la norma prevede che le intercettazioni giudicate irrilevanti non vengano trascritte ma “Senza che venga indicato un minimo di contenuto dell’intercettazione ritenuta irrilevante, diventa impossibile un vero controllo da parte del pm. È paradossale che, avendo vissuto da poco il trauma di intercettazioni mal trascritte e gli echi politici e istituzionali che ne sono derivati, si creino le condizioni per ulteriori errori che, diversamente dalla vicenda a cui faccio riferimento, non saranno verificabili ex post”.

Non siamo degli appassionati delle intercettazioni, com’è noto, ma ci sembra rilevante che l’esautorazione di un potere della magistratura avvenga su questo terreno delicato.

Che si tratti di un rafforzamento del potere del governo, quindi di un enorme allargamento dei poteri repressivi è confermato anche dalle critiche sollevati dagli avvocati (solitamente sul fronte opposto dei magistrati, in questa e altre materie).

Rinaldo Romanelli, componente della giunta del sindacato degli avvocati, giudica “estremamente negativo” – per esempio – che i colloqui tra difensore e assistito possano essere intercettati, anche se non trascritti. “Perché cosi quei colloqui non finiranno sui giornali, ma saranno ascoltati dalla polizia giudiziaria”, con la possibilità di mettere a conoscenza anche il pm della strategia difensiva di chi è indagato. Alla faccia della “terzietà” del giudizio... E resta anche “il vulnus di questa riforma: non dare copie agli avvocati di tutto il materiale intercettato. Tanti processi si fanno sulla base delle intercettazioni: ma il 98% per cento del materiale intercettato è irrilevante, non bastano 10 giorni per trovare invece le conversazioni utili alla difesa”. Una ricerca che dunque sarà possibile solo ai grandi studi legali, con tanti assistenti, cui possono ricorrere soltanto gli indagati che possono permetterseli.

A fronte di questa verticalizzazione del potere di indagine, il ministro Orlando prova a cavarsela con le battute sulla privacy: “Abbiamo un Paese che utilizza le intercettazioni per contrastare la criminalità e non per alimentare i pettegolezzi o distruggere la reputazione di qualcuno”. Solo che sarà il ministro di polizia a decidere quali reputazioni saranno da proteggere e quali da indicare come “criminali”. Non proprio un piccolo dettaglio...

Non è soltanto un “decreto salvapolitici” (come finge di aver capito Luigi Di Maio), ma un decreto per salvaguardare tutta la squallida “classe dirigente” italiana. Perché, per quanto “i politici” di oggi siano complessivamente ignobili, lo schieramento degli imprenditori (capitale finanziario e multinazionale compresi) è un teatro dell’orrore.

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1922-2017: dall’URSS alle privatizzazioni capitaliste in Russia

Nel giorno in cui, 95 anni fa, il 30 dicembre 1922, si tenne il primo Congresso dei soviet dell’URSS, nel corso del quale i rappresentanti di RSFSR, USSR, BSSR e Federazione Socialista Sovietica Transcaucasica sottoscrissero la dichiarazione sulla formazione dell’URSS, non è fuori luogo ricordare come tutt’oggi, a 26 anni dalla fine dell’Unione Sovietica, alcuni dei suoi affossatori si vantino pubblicamente, anche in trasmissioni televisive, di non aver rimpianti per quanto accaduto, grazie anche al loro personale e diretto contributo.

E’ il caso di colui che, sin dai primi anni ’90, veniva definito il “primo privatizzatore” di Russia, quel Anatolij Čubajs, tra i delfini di Boris Eltsin ed esponente dell’ala più sfrenata del passaggio al capitalismo. In un confronto televisivo con l’ex membro del PCUS, Sergej Kurghinjan (fisico-matematico, nonché regista e leader del movimento “L’essenza del tempo”, la cui sezione regionale ha ottenuto di recente l’annullamento della decisione di inaugurare a Rostov sul Don un monumento a Solženitsin) andato in onda pochi mesi fa e ora riproposto da vari canali, Čubajs afferma che “Non ho mai rinnegato e non ho intenzione di rinnegare una mia sola parola. In cosa consistono le pretese accampate dal popolo nei confronti della privatizzazione? La risposta è semplice: che essa non fu onesta. E la mia posizione in proposito è che tali pretese siano legittime: la privatizzazione fu in effetti ingiusta... Naturalmente, avremmo voluto che fosse fatta in maniera onesta, con una grande massa di denaro, dando a tutti la possibilità di comprare, seguendo le norme adottate dai migliori paesi occidentali, secondo i canoni classici, ecc, ecc. Ma c’era un piccolo dettaglio: non esisteva più uno Stato. Esso era stato per metà distrutto prima dell’agosto 1991 e si era ridotto in macerie dopo l’agosto ’91 e il GKČP...”. Certo, i vari Čubajs non sono stati casuali, afferma Kurghinjan; e non sono stati nemmeno messi al loro posto dagli americani, anche se sono stati ben addestrati dagli USA. No, essi sono stati messi al loro posto dalla nostra burocrazia di partito. Di fronte alla “raffica di miti e fandonie” sparati dall’occidente contro l’URSS, dice Kurghinjan, il cittadino sovietico avrebbe dovuto esser difeso dalla sezione ideologica del PCUS: ma tale sezione era diretta da Aleksandr Jakovlev, il quale, invece di ergere una barriera contro tali miti, o respingerli, era fermamente convinto di doverli importare”.

E, oggi, di cosa si vanta ancora Čubajs? In frammenti di diverse interviste racconta: “cedemmo le proprietà a coloro che vi erano più prossimi: banditi, segretari dei Comitati regionali di partito, direttori di fabbriche. Proprio questo evitò il bagno di sangue. Perché, se avessimo cercato di non dar loro le proprietà, essi se le sarebbero comunque prese; le avrebbero prese e basta, senza alcuna procedura legittima. Invece, così, essi le presero seguendo una procedura legittima. E ciò, per quanto appaia risibile, diede una certa stabilità politica alla costruzione”. Così che, a ragione, Kurghinjan nota “lo abbiamo creato noi questo tipo di capitalismo”. Con una “procedura legittima”!

Ancora Čubajs: “I dirigenti comunisti detenevano un potere immenso: politico, amministrativo, finanziario. Ce ne dovevamo sbarazzare, ma non avevamo abbastanza tempo... Non potevamo scegliere tra una privatizzazione “onesta” e una “disonesta”, perché una privatizzazione onesta presuppone delle regole precise, stabilite da uno Stato forte, in grado di assicurare l’osservanza delle leggi. All’inizio degli anni ’90 non avevamo né uno stato, né un’ordine legale; dovevamo scegliere tra un comunismo banditesco e un capitalismo banditesco”.

In un’intervista del marzo 2010 a Forbes, Čubajs sostiene che “Principale base di sostegno del movimento democratico era in primo luogo l’intellighentsja , scientifica, tecnica, creativa. A quel tempo, eravamo perfettamente consapevoli che la maggior parte di essa lavorava nel complesso militare-industriale e che il paese non aveva risorse sufficienti a mantenere quel complesso al precedente livello. Ciò significava che la stabilizzazione finanziaria avrebbe colpito inevitabilmente e con particolare durezza proprio quella categoria sociale”.

I fili che tengono insieme tutte queste perle, li aveva tessuti già a suo tempo, negli anni ’90, il Ministro degli esteri yankee di Boris Eltsin, Andrej Kozyrev, a uso e consumo del settimanale all’epoca circondato dell’aureola di “rivista della perestrojka”, Moskovskie Novosti: “Credo che non ci sia altro interesse per la società se non quello di viver bene, bene come vivono in Occidente... Tutta l’aristocrazia russa, i commercianti, gli scrittori, l’intellighentsja, tutti loro vivevano nell’Europa occidentale. E non a caso. Tutto il resto è demagogia a uso dei disgraziati. Se non avete soldi per comprare una villa sulla Costa azzurra, allora cominciano a raccontarvi la favola che non ne avete bisogno, che vivete bene in questa “Asiropa””.

Evidentemente, come ci vivono bene oggi i Mikhelson, i Mordašov, i Lisin, i Timčenko, per citare solo i primi quattro russi della classifica 2017 di Forbes, sebbene occupino posti dal 41° al 58° nel rating mondiale, con “appena” 16 o 18 miliardi di dollari. Non certo quei 20 milioni di russi – cifra confermata anche dalla Corte dei conti – che, secondo Moskovskij Komsomolets, sarà difficile sollevare dalla povertà senza un qualche “regalo” pre elettorale. Venti milioni di persone che, secondo le stime governative, dispongono di meno di 10.000 rubli al mese, quando il minimo ufficiale di sopravvivenza è considerato 10.328 rubli.

Ora, il Ministro del lavoro, Maksim Topilin ha promesso di dimezzare, nel giro di 6-7 anni, l’attuale 13-14% di popolazione considerata al di sotto della soglia di povertà. In che modo? Innalzando il minimo salariale al livello del minimo di sopravvivenza, ha detto; aumentando in generale i salari; aggiungendo bonus demografici. Per il primo obiettivo, si cita la data del 1 gennaio 2019. L’aumento dei salari, invece, in teoria è già iniziato: ad esempio, per i dipendenti pubblici, già nel 2017 è stato del 7% (3% reale, considerata l’inflazione), ma i redditi reali generali sarebbero diminuiti del 1,3%. Obiettivi non del tutto reali, commenta Moskovskij Komsomolets, dato un aumento del PIL del 1,8%, a fronte, ad esempio, di India e Cina, con crescite del 6-7%.

Oggi, stando ai sondaggi del VTsIOM, per condurre un livello decente di vita a Mosca o a Piter, una famiglia dovrebbe poter disporre di almeno 56.600 rubli a persona, mentre la cifra media per tutta la Russia è invece di 39.404 rubli. E va peggio per i pensionati.

Secondo il Fondo pensioni russo, nel 2017 la media annuale della pensione di vecchiaia per i pensionati non occupati è stata di 13.800 rubli; quella della pensione sociale, di 8.800 rubli. Lo stesso Fondo assicura che in Russia “non ci sono pensionati sotto la soglia di povertà: nessun pensionato dispone di un reddito mensile inferiore al livello considerato quale minimo di sopravvivenza nella regione in cui vive. Il direttore del Fondo, Anton Drozdov ha dichiarato che nel 2018 l’assegno medio dei pensionati non occupati sarà portato a 14.300 rubli e, per il 2020, a 15.500 rubli. Nella conferenza stampa di fine anno, Vladimir Putin ha accennato al fatto che l’attuale età pensionistica (55 anni per le donne e 60 per gli uomini) sia stata fissata negli anni ’30, quando la durata della vita era diversa, e ha parlato del possibile innalzamento dell’attuale minimo lavorativo di 15 anni per accedere alla pensione; nulla di nuovo, dunque: da tempo i Ministeri finanziari parlano dell’innalzamento dell’età pensionabile.

Se questa è la situazione dei pensionati, a livello generale Russkaja Vesna si dice “sorpresa” di scoprire che il divario tra ricchi e poveri sia identico in Russia e in America, quantomeno nel senso che in ambedue i paesi l’élite benestante detiene la stessa quota di ricchezza nazionale. Rusvesna riporta i dati pubblicati in questi giorni da World Inequality Report, secondo cui la quota di redditi del 10% di popolazione USA più ricca sia passata, tra il 1980 e il 2014, dal 22 al 39%, grazie soprattutto alla deregulation reaganiana. In Russia, dal 1995 al 2015, è balzata dal 22 al 43%, grazie anche alla “privatizzazione ingiusta” degli anni ’90, quando i “direttori rossi” facevano man bassa dei čubajsiani “voucher di privatizzazione” distribuiti a tutta la popolazione, accaparrandosi colossi industriali da svendere poi sui mercati esteri.

E’ forse anche con gli oboli attinti da tali ricchezze (sin dagli anni ’90, i ricchi russi amano mostrarsi generosi nelle elargizioni alla chiesa, forse a espiazione delle “ingiustizie della privatizzazione”) che, nella sola diocesi di Mosca, nel 2017, il numero di templi e cappelle si è ulteriormente arricchito di 24 unità, attestandosi a quota 1.154. Che dio renda merito a Čubajs & Co.

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30/12/2017

Assalti Frontali. “Piazza Indipendenza”

Antonello Sotgia, compagno, architetto, amico, appena usciva una canzone o un video di Assalti scriveva un articolo per DinamoPress e che articolo!... Ce lo spiegava lui quello che stavamo facendo... Quando è uscita “Piazza Indipendenza” ha scritto questo, forse il suo ultimo articolo (e poi ci disse: “Aspetto il video”)... Eccolo... (Luca)

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“Succede d’estate. Sei al mare. In quei giorni riesci a giocare con tuo figlio. Magari stai su un’isola. Hai iniziato a raccontargli le storie che conosci. Lui come tutti i bambini si fa ripetere sempre le stesse. Ora ce n’è una nuova. Credi che lui la debba assolutamente sapere. Non puoi non dirglielo.

Non tutti arrivano su una spiaggia scendendo da una nave, come è successo a te e a lui qualche giorno prima. Per molti, anche piccoli come lui, quel mare, quella tanta acqua che improvvisamente si trovano di fronte, non è una vacanza. Mette paura. Loro la attraversano ammassati in barche che ondeggiano, anche se il mare è calmo, per quanto sono stipate di persone. Scappano dalla fame e dalla guerra.

Quando arrivano chiedono solo di stare sotto il nostro stesso cielo. Alle volte trovano casa entrando in una delle tante che nessuno usa più, ma che sta ben attento a tenere chiuse. Loro, quelli che arrivano dal mare, le riaprono. Iniziano a fare quello che facciamo tutti. A vivere con noi. Quelli come te, gli dici, vanno a scuola. Questo lui lo sa perché quella loro casa, ora aperta, è tornata a far parte di quella via, di quella piazza. Forse lì vive anche qualche suo amico.

Poi succede che... Roma. È il 19 agosto. I 400 eritrei, somali, etiopi che vivono da tre anni in un palazzo di via Curtatone, all’alba di quel maledetto giorno, vengono scaraventati giù dai letti. Inizia un’altra storia. Quella di chi viene cacciato anche dalla strada, dove è stato gettato, a forza di idranti. «Roma bolle e questo è il terzo sgombero di agosto». Ti senti esplodere. Ti senti maledettamente lontano. Succede nella tua città. Tu vuoi urlare tutta la tua rabbia. Inizi a parlarne con chi hai conosciuto in questi giorni sulla spiaggia, con chi magari «hai condiviso il vino».

Succede che a loro, a questi tuoi nuovi amici, la dignità di quei bambini che, forti dei loro libri e delle loro cartelle, si sono messi davanti la polizia per difendere la scuola di tutti (anche dei figli dei poliziotti) non interessa. Quello che succede intorno l’abitare è oggi il fenomeno più divisivo che attraversa chi la città abita. Così sono in molti magari a sentirsi in dovere di difendere un palazzo che neanche conoscono. Non sono mai entrati lì. Non sanno che ospitava, perché questo nessuno lo ha detto, un carrozzone del potere democristiano che ha prodotto un deficit spaventoso. Neppure una commissione parlamentare d’inchiesta è riuscita mai a conteggiarlo.

Non sanno che quel fallimento ha lasciato sul lastrico centinaia e centinaia di famiglie di agricoltori. Non sanno che quelle catene, che entrando quei 400 hanno fatto saltare, si sono trasferite intorno anche a loro avvolgendoli con la storia, una vera narrazione asfissiante, che le occupazioni sono il veleno della città.

Loro parlano. Non sanno che quel palazzo è in mano alla finanza, che ora è di una banca. La stessa magari che sta stritolando la loro vita. La stessa che chiede di indebitarti fino a che potrai, per poi una volta che non sarai più capace di farlo, buttare te e i tuoi figli in qualche discarica dell’abitare.



Su quella spiaggia, lontano da Roma, quel maledetto giorno c’è Militant A. Lui sa che le catene, anche quelle che sembrano serrate fino a stritolarti come sono quelle mentali, possono essere strappate. Loro lo hanno fatto.

Loro sono: chi occupa quel palazzo di quella piazza inghiottita da un dedalo di strade che la toponomastica paradossalmente ha dedicato ai luoghi della libertà del nostro paese.

Loro sono: le oltre 10.000 persone che vivono nelle occupazioni.

Loro sono: i «bastardi».

Loro «sono gajardi». Si gajardi perché, venendo sotto il nostro cielo, sono riusciti a trovare le parole per dire che il nemico non è tra noi, ma in chi vuole tenerci divisi. Che anche se vivere in occupazione è duro, non sarà venendo deportati in tende di plastica, come si è messa in testa la sindaca di questa città, che si risolve il problema dell’emergenza abitativa. Che la città si costruisce nel mettere in comune le storie di tutti i noi. Nel costruire, a partire dalla vita quotidiana forme di cooperazione sociale basta sulla solidarietà.

Luchino trova così le parole per dire anche a suo figlio che in quel palazzo di questo parlano quei «bambini che scrivono lettere alle loro nonne». Sono loro gli unici a sapere come finirà questa storia: farla finita «con un mondo di soprusi e codardi, sti bastardi so’ gajardi».

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Libertà per Ahed Tamimi. Una campagna internazionale


Chiunque sia stato ai piccoli ma determinati cortei di Nabi Saleh in Cisgiordania ha conosciuto e scherzato coi ragazzini e le giovani splendide, coraggiose ragazze della famiglia Tamimi, molto attive nella resistenza non violenta del loro piccolo villaggio partigiano.

Ahed Tamimi, 16 anni, attivista della resistenza palestinese nel villaggio di Nabi Saleh, è stata arrestata. Il suo crimine, affrontare con dignità, determinazione e la forza delle sue parole i soldati armati fino ai denti a difesa delle terre rubate, della costruzione delle colonie, dello sfruttamento delle risorse in territorio palestinese. La mattina del 19 dicembre lei e la sua famiglia sono diventate l’obiettivo delle forze di occupazione israeliane a seguito della protesta per il grave ferimento di Mohamed Tamimi, il cugino di Ahed, colpito alla testa da uno di quei micidiali proiettili di metallo ricoperti di gomma e ora in coma. I soldati hanno fatto violentemente irruzione in casa, confiscato telefoni, macchine fotografiche, computer, picchiato la madre di Ahed e arrestato la ragazza. Anche sua madre Nariman e sua cugina Nur (21 anni) sono stati arrestate nelle ore e giornate successive.

Non è la prima volta... a turno i ragazzi e specie le ragazze di questa famiglia vengono picchiate e arrestate e alcuni mesi fa ad Ahed era stata impedita la partecipazione alla carovana di solidarietà “Palestina- Movimento Nero uniti nella lotta” negli Stati Uniti insieme all’attivista e scrittore Nadya Tannous e all’attivista per la liberazione nera Amanda Weatherspoon.

Denunciamo l’arresto di Ahed, Nariman e Nur, gli ultimi dei 450 arresti di persone palestinesi dopo la decisione di Trump di riconoscere Gerusalemme come capitale di Israele.

Da tutto il mondo stanno chiedendo la loro scarcerazione.

Di seguito la petizione che potete firmare

Campagna Firma per liberare Ahed Tamimi e tutti i minori palestinesi in prigione.
https://secure.avaaz.org/campa ign/en/free_ahed/?kVdCKdb

https://israelpalestinenews. org/israeli-forces-imprison- 16-year-old-palestinian-girl- mother-cousin-shooting- another-cousin-face/
http://www.yashebron.org/free_ tamimi_family
https://nycsjp.wordpress.com/ 2017/12/20/demand-an-end-to- child-detention-free-ahed-tamimi-and-all-palestinian- political-prisoners/
https://secure.avaaz.org/ campaign/ar/free_ahed/?kDPEYbb (102,000 signed this avaaz petition)
For those of you in the US, Israeli Embassy and Consulate contact information is here: https://embassy-finder.com/ israel_in_usa
For those of you in other parts of the world, Israeli Embassy and Consulate contact information is here: https://embassy-finder.com/ israel_embassies

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Weah presidente della Liberia. Un’occasione per parlare d’Africa? No, di Calcio

Dicono che Georges Weah, 51 anni, forse il miglior calciatore che abbia avuto l’Africa, e neo Presidente della Liberia sia molto sensibile ai problemi sociali della sua terra in particolare a quelli dei bambini e alla loro scolarizzazione.

Però sul Presidente neo eletto alla guida di uno dei Paesi più tormentati del continente africano avremmo piacere di conoscere qualcosa di più.

In che cosa consiste quel CDC, il partito per il cambiamento, per il quale ha concorso e vinto, oltre ad essere un gruppo che si occupa di questioni umanitarie? Certo siamo certi che non finanzia la tratta dei bambini soldato, un tragico mercato che proprio tra Liberia e Sierra Leone ha avuto modo di svilupparsi in non lontani tempi di guerra, ma quali sono i lineamenti del suo programma politico?

Certo se ne sa di più del partito che ha sconfitto, al secondo tentativo, e di chi lo ha guidato nei tempi passati, il Partito dell’Unità.

Si sa che era guidato da una donna, da Ellen Johnson-Sirleaf, ex impiegata della World Bank, un’economista di stampo liberista nominata nel 2011 Premio Nobel per la pace per avere guidato il paese in anni relativamente tranquilli. Si sa che ha azzerato il debito estero del paese a caro prezzo per la popolazione più povera. Si sa che il suo vice, Joseph Boakai (vicepresidente della Liberia dal 2005), da un po’ di tempo non andava d’accordo con lei, e questa frattura ha indubbiamente giovato a Weah per ribaltare il risultato di una precedente consultazione.

Sì, ma al di là di questo? Ci piacerebbe conoscere come la pensa il neoeletto in materia di politica estera. Una variabile che ha inciso sul paese fin dalle sue origini se è vero che venne di fatto costruito da schiavi liberati negli Stati Uniti, non tanto graditi dagli indigeni doc, ma fortemente legati al paese che li aveva prima messi in catene e poi liberati dalle medesime.

Un paese, politicamente parlando “born in the Usa”, i cui Presidenti però non sempre si erano allineati a Washington. Senza tener conto che, quando si erano verificate beghe tra i liberiani e i vicini della Sierra Leone l’esercito francese gravitava non molto lontano.

E ancora, quali sono i residui di una delle epidemie più devastanti degli ultimi anni (l’Ebola) che le sue tracce più mortifere le ha lasciate proprio in Liberia, Sierra Leone e Guinea?

Basta a tranquillizzarci una percentuale di votanti sufficientemente elevata e l’assenza di guerre civili, nonché elezioni pluripartitiche da una dozzina d’anni? Sono sufficienti per garantirci che Weah avrà vita facile e che ci possiamo comunque fidare di lui sulla parola?

A nostro avviso, da parte dei media, si poteva cominciare meglio. Parlare, analizzando la sua vittoria, dei problemi in cui si sta dibattendo l’Africa, magari limitandoci a quelli della sua zona. Non mi pare che lo si stia facendo molto.

In compenso sappiamo tutto e tutti del suo Pallone d’oro.

E che ha giocato, Milan ovviamente a parte, nel Chelsea, nel Manchester City, nell’Olympique di Marsiglia e nel Paris St. Germain. Oltre a ciò fatichiamo appena a sapere che è musulmano.

Comunque sia, auguri Presidente, a lei, al suo popolo e all’Africa tutta.

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Bombe dall’Italia ai sauditi per le stragi in Yemen. Il governo sapeva tutto

Partivano da Domusnovas, in Sardegna e arrivavano a Ta’if e Jeddah, in Arabia Saudita, poi venivano utilizzate per bombardare e uccidere i civili houthi nello Yemen. Le bombe in dotazione all’aviazione saudita che hanno provocato finora più di 10mila vittime in Yemen riportano spesso lo stesso codice di fabbricazione: A4447. La produzione è italiana, negli stabilimenti della tedesca Rwm, a Domusnovas, vicino a Iglesias. A denunciarlo, oltre ai militanti antimilitaristi sardi e italiani che lo hanno fatto per mesi, è una inchiesta sintetizzata in un video del New York Times “Bombe italiane, morti yemeniti”. E’ un affare che vale 440 milioni di euro nel solo 2016.

L’inchiesta ricostruisce il viaggio degli ordigni Mk-80 dalla Sardegna fino all’Arabia Saudita, e coinvolge tutte le più alte autorità del governo. Il Nyt riporta le immagini del primo ministro Paolo Gentiloni e del ministro della Difesa Roberta Pinotti.

Fonti della Farnesina di fronte allo scandalo reso pubblico dal New York Times hanno provato a replicare con una forte dose di ipocrisia che: “L’Italia osserva in maniera scrupolosa il diritto nazionale ed internazionale in materia di esportazione di armamenti”. Una modalità smentita però dagli esperti che hanno esaminato le informazioni raccolte dal quotidiano statunitense secondo i quali: “Queste vendite violano le leggi italiane e internazionali sul commercio di armi”.

Attraverso dei controlli incrociati sui documenti di spedizione ai quali hanno avuto accesso, i reporter americani hanno scoperto che gli ordigni sono stati trasportati con dei tir dal luogo di fabbricazione – Domus Novas – fino all’aeroporto di Elmas o al porto di Cagliari. Sempre scortati da volanti della polizia o da mezzi dei vigili del fuoco che “solo in quelle occasioni” avevano accesso anche alle aree riservate degli scali. Prova questa del fatto che il governo era perfettamente informato di queste vendite offrendo copertura e sostegno alla spedizione delle bombe in Arabia Saudita.

Dai vari scali le bombe vengono poi caricate su aerei, destinazione Ta’if, oppure su navi cargo che, passando dallo Stretto di Suez, attraccavano al porto saudita di Jeddah.

Sulla vicenda è intervenuto il senatore del M5S Cotti rivelando che “Dopo mesi di stretta collaborazione con il NYT, a cui ho fornito video, foto, documentazione, contatti, ecco ora l’inchiesta della prestigiosa testata americana”. In una nota, il senatore del M5s Roberto Cotti ha sottolineato come. “La denuncia è forte, le prove schiaccianti, le responsabilità del Governo italiano evidentissime. Un Governo che continua ad autorizzare l’export delle bombe nonostante le mie denunce, con ben 6 interrogazioni parlamentari a cui non si sono degnati di rispondere per cercare di giustificare il loro operato. Un impegno, il mio, finalmente premiato. Sono orgoglioso – ha aggiunto – di avere collaborato all’inchiesta giornalistica, evidenziando l’importante ruolo del M5s nella denuncia di questo immane crimine”.

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Il ritorno coloniale dell’Italia in Africa. La vergogna di un italiano nel Niger

Confesso che sento vergogna a passeggiare sulle strade di Niamey. Proverò vergogna a parlare del mio paese di origine, quello che ho lasciato con una certa irregolarità in questi ultimi 25 anni. La Costa d’Avorio, la Liberia della guerra civile e il Niger da sette anni. In mezzo a tutto ciò l’Argentina e il Centro Storico di Genova, ecco la fortuna che mi ha accompagnato in tutti questi anni fino ad oggi. La fortuna di ‘sguardare’ il mondo dal SUD che poi è un altro mondo, un mondo che apre gli occhi sulla realtà che ci avviluppa. E’ solamente dal punto di vista dei poveri si può scoprire la verità delle cose e della storia.

Vivere al SUD di Lampedusa, l’isola diventata il simbolo della frontiera tra l’Italia e l’Africa, mi ha insegnato tante cose. Una di queste è la scoperta che la frontiera dell’Italia mi ha seguito, si trova nel Niger, ad Agadez. Questa città, un tempo crocevia di carovane si è trasformata in un fortino di difesa del movimento migratorio verso l’Algeria, la Libia e... l’Italia.

Avrò vergogna, venendo da un Paese che all’articolo 11 della carta costituzionale, ...ripudia la guerra come strumento di offesa alla libertà degli altri popoli e come mezzo di risoluzione delle controversie..., per il prossimo tradimento di questo principio che dovrebbe guidare l’etica delle relazioni internazionali dell’Italia. D’altra parte non sarebbe la prima volta, siamo già recidivi! Basterebbe ricordare l’invasione della Libia, della Somalia, dell’Etiopia e la creazione dell’Eritrea. In questi paesi sono stati perpetrati dei massacri, sia durante il Regno che durante il ventennio fascista di Mussolini. Un caso per tutti è il massacro di Addis-Abeba nel febbraio del 1937. Secondo Ian Campbell, autore di un recente libro sull’argomento, tra il 19 e il 21 febbraio sono state uccise circa 20.000 persone. Questo massacro è sempre stato riconosciuto in Etiopia ma dissimulato dal governo britannico alla comunità internazionale.

La vergogna che anche il popolo italiano avrebbe dovuto provare è stata per decenni coperta dal diniego dei fatti per la versione di un’Italia ‘brava gente’ durante l’epopea coloniale italiana. Nulla di più lontano dalla realtà. L’autore citato ricorda che la violenza fascista in Etiopia è stata il precursore della violenza nazista in Europa. Ciò è vero per le tecniche quali i massicci bombardamenti aerei di civili, la guerra chimica e i lancia-fiamme, così per le operazioni di contro-insurrezione sotto forma di repressioni esemplari come l’esecuzione di ostaggi e l’uso dei campi di concentramento. Non è dunque per caso che l’autore ponga questo titolo al libro citato: Il massacro di Addis-Abeba.Una vergogna nazionale italiana. Certo, il fascismo è stato vinto e così il nazismo tedesco, ma non i ricordi dei fatti che ancora permangono. Chi non impara dagli errori (e orrori) della storia è destinato a ripeterli nel tempo.

Avrò vergogna dei poveri, dei migranti che incontro dal mio arrivo a Niamey, della Chiesa del Niger, dei contadini e degli amici della società civile coi quali lavoriamo assieme per scoprire la dignità nascosta nella sabbia della politica del Paese. Avrò vergogna di passare davanti alla nuova ambasciata del mio Paese di origine, perché le missioni di pace sono condotte da militari, con mezzi e armi. Chi scrive ha scelto di arrivare in questo Paese con le mani nude e col desiderio di camminare assieme a questo popolo che non dovrebbe essere tradito una volta di più. Sappiamo quanto contino gli interessi legati alla mobilità delle persone e in specie il piano di ritagliarsi un posto nella geopolitica del Sahel. Ciò l’ha bene ricordato il Presidente della Repubblica italiana nel presentare l’invio del contingente militare. L’Africa è al cuore dei nostri interessi strategici. Strategie militari e colonialismo sono dei sinonimi. Ecco quanto una persona mi ha scritto... Rimpiango tutto ciò e ho vergogna di essere italiana... Sapevo bene che non sarei stato il solo.

Niamey, dicembre, 017

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“Voi avete l’orologio ma noi possediamo il tempo”. Perché in Afghanistan non si potrà mai vincere

L’analisi di Alberto Negri. “L’Afghanistan è una prova del fuoco, per nulla metaforica, di tutte le contraddizioni occidentali.”

di Alberto Negri* – Tiscali

Forse qualcuno si ricorderà che nell’aprile scorso gli americani sganciarono sull’Isis in Afghanistan la “madre di tutte le bombe”, un ordigno ad altissimo potenziale. In realtà si trattava più di un colpo pubblicitario che altro. I talebani, i vecchi padroni che ospitavano Osama Bin Laden, fondatore di Al Qaida e stratega dell’11 settembre 2001, controllano ancora circa il 40% del territorio fuori dalle città ma anche il Califfato è presente, come testimonia l’ultimo attentato a Kabul con oltre 40 morti contro la sede di un’agenzia di notizie e un centro sciita.

L’Afghanistan, dove gli italiani stanno diminuendo i contingente di Herat per spostarlo in Niger sulle rotte dei migranti, è ancora fuori controllo e il governo del presidente Ashraf Ghani, sostenuto dalle truppe occidentali, appare un creatura fragile con forze armate poco affidabili e inefficienti.

I jihadisti del Califfato inoltre si stanno specializzando in una vecchia tattica già sperimentata in Iraq e in Siria: colpire la popolazione sciita per creare una spaccatura con i sunniti. Le divisioni locali ci sono già e hanno antiche radici storiche e religiose, ma i jihadisti non esitano a sfruttarle a loro vantaggio.

Dell’Afghanistan, la cui instabilità è strettamente collegata quella del Pakistan – 160 milioni di abitanti e potenza nucleare in eterna competizione con l’India per il Kashmir – si parla sempre di meno perché è evidente a tutti che se le truppe occidentali si ritirassero, cadrebbe di nuovo in mano ai radicali islamici, se non peggio. Eppure dall’Afghanistan non si esce fuori, quasi a volere confermare che questa terra affascinante è ancora la tomba degli Imperi.

Come mi disse una volta un capo talebano: “Voi avete l’orologio, ma noi possediamo il tempo”. Gli afghani sanno aspettare e logorano qualunque avversario, soprattutto quando si tratta di occupanti stranieri. Lo sanno bene i britannici che vi restarono impantanati nel 1800, come pure i russi che 38 anni fa invasero il Paese per sostenere un governo filo-sovietico.

L’Afghanistan è una prova del fuoco, per nulla metaforica, di tutte le contraddizioni occidentali.

Nel 2010 gli Stati Uniti annunciarono che in quattro anni sarebbero stati “completamente fuori” dell’Afghanistan. Nel 2014 Barack Obama dichiarava invece avrebbe lasciato circa ottomila soldati americani e che avrebbe siglato un accordo con Kabul per prolungare la loro permanenza “fino alla fine del 2024 e anche oltre”.

Il nuovo presidente Donald Trump era contrario su tutta la linea a rimanere con le truppe sul campo. In uno dei suoi celebri tweet affermava: “I nostri soldati vengono uccisi dagli afghani che noi stessi addestriamo e in quel paese sprechiamo miliardi di dollari. È una cosa insensata! Ricostruiamo gli Stati Uniti”.

Ma i generali Mattis e MacMaster, rispettivamente il capo del Pentagono e quello della Sicurezza nazionale, che in Afghanistan hanno combattuto, lo hanno indotto a cambiare posizione. In agosto Trump ha annunciato l’invio di altri marines e che ci resteranno per tutto il tempo necessario. Accompagnando la decisione con questa frase: “Non si tratta più di ricostruire una nazione. Uccideremo i terroristi”. Come se gli altri presidenti, da Bush junior a Obama, non ci avessero pensato.

Sono frasi come queste che fanno dubitare che le decisioni di Trump siano ispirate a una strategia razionale. Il picco della presenza statunitense in Afghanistan è stato nel 2011 con centomila soldati. Se all’epoca questo non è stato sufficiente a conseguire la vittoria, perché mai dovrebbe esserlo oggi un incremento delle truppe da 8mila a 12 mila uomini? Né l’Unione Sovietica né l’impero britannico al suo apice hanno avuto la meglio sulla resistenza afghana, e gli ultimi sedici anni ci dimostrano che nemmeno gli Stati Uniti ce l’hanno fatta. Questa rimane la più lunga guerra ingaggiata dagli Usa nella loro storia.

Certo se gli Usa mollassero la presa il ritorno di talebani sarebbe quasi inevitabile. Ma i talebani sono anche i principali rivali sul piano militare dei jihadisti dell’Isis: non hanno l’ambizione di creare un Califfato internazionale ma di riprendere soprattutto il controllo dell’Afghanistan, sono in fondo degli iper-nazionalisti con un’ideologia da radicali islamici.

In realtà gli americani possono solo evitare il crollo di un governo sostenuto dall’Occidente, esattamente come fecero i sovietici invadendo il Paese nel dicembre 1979 per poi ritirarsi dieci anni dopo, appena prima della fine del Muro di Berlino. Allora – ricordiamo anche questo – i combattenti afghani e i jihadisti anti-sovietici alla Bin Laden erano gli “eroi” dell’Occidente, una generazione dopo diventarono i “barbari” degli attentati in Europa.

Vale quindi ancora il vecchio detto del premier britannico Anthony Eden che negli anni Trenta disse: “Prima regola della politica: mai fare la guerra in Afghanistan”.

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Il nesso tra l’austerità e l’ascesa del nazismo nel 1933


Questo articolo compare in contemporanea su Contropiano e L’Antidiplomatico

“Migliaia di storici, economisti, sociologi e altri ricercatori hanno trascorso più di 80 anni cercando di dare un senso all’improvvisa ascesa al potere del partito nazista.” Scrive Dylan Matthews su Vox presentando il rapporto pubblicato dal National Bureau of Economic Research da parte di Gregori Galofré-Vilà dell’Università Bocconi, Christopher M. Meissner della UC Davis, Martin McKee della London School of Hygiene & Tropical Medicine e David Stuckler sempre Bocconi che indica come l’austerità sia l’elemento che aiuti a colmare alcune lacune nella tradizionale narrativa della Grande Depressione come motivo fondante dell’ascesa dei nazisti. In particolare, gli economisti si concentrano sul pacchetto di dure tagli alle spese e aumenti delle tasse che il cancelliere conservatore tedesco Heinrich Brüning ha promulgato dal 1930 al 1932.

Gli economisti, in altre parole, non pensano che sia solo la Grande Depressione a spiegare il nazismo. Anche molti altri paesi hanno sofferto durante la Depressione, senza crollare in dittature totalitarie. “Durante gli anni ’20, non vi erano differenze sostanziali nelle prestazioni economiche delle nazioni che, a metà degli anni ’30, erano regimi democratici o dittature”, osservano gli autori. “La profondità della depressione era solo leggermente maggiore in Germania che in Francia o nei Paesi Bassi, ed era anche peggiore in Austria (e in altre nazioni dell’Europa orientale) e negli Stati Uniti.” Di questi paesi, l’Austria ha visto anche una dittatura di estrema destra venire al potere sotto Engelbert Dollfuss, nel 1932. Ma la Francia, i Paesi Bassi e gli Stati Uniti non vedono radicali i partiti di destra che entrano in carica.

Altrettanto preoccupante per la spiegazione economica più semplicistica è il fatto che i disoccupati non erano particolarmente propensi a votare per i nazisti. Gli autori citano risme di ricerche che dimostrano che i disoccupati erano più propensi a votare per i comunisti o i socialdemocratici. “Non è che Hitler non abbia cercato di appellarsi alle masse disoccupate”, notano, “ma era il Partito Comunista percepito come il partito che tradizionalmente rappresentava gli interessi dei lavoratori”.

Un fattore unicamente tedesco che potrebbe aiutare a spiegare l’ascesa dei nazisti sono le dure riparazioni di guerra, pari al 260 percento del PIL della Germania del 1913, che i vincitori della prima guerra mondiale imposero sotto il trattato di Versailles. Già nel 1920, John Maynard Keynes avvertiva che il dolore economico causato costringendo la Germania a pagare quel debito poteva portare all’ascesa di una dittatura. Ma gli autori osservano che il debito della Germania non è stato per lo più ripagato; Il presidente degli Stati Uniti Herbert Hoover aveva annunciato una moratoria sui pagamenti nel 1931, e poi sono stati sospesi dagli Alleati alla Conferenza di Losanna nel 1932.

E allora? Secondo gli autori del rapporto, la Germania era l’unico grande paese occidentale ad attuare l’austerità. L’entità dei tagli imposti da Brüning dal 1930 al 1932 è davvero sbalorditiva. Gli autori stimano che Brüning tagliò le spese del governo tedesco di circa il 15% nel periodo considerato. Le conseguenze economiche furono terribili. Il PIL crollò del 15%, così come le entrate del governo. La disoccupazione è aumentata dal 22,7% al 43,8%. E Brüning divenne noto come il “Cancelliere della fame”.

“Sebbene la Germania non sia stata l’unico paese colpito dalla Depressione, è stato l’unico grande paese ad attuare misure di austerità prolungate e profonde”, scrivono gli autori. Galofré-Vilà, Meissner, McKee e Stuckler non sono certo i primi a legare il dolore causato dall’austerità all’ascesa dei nazisti, conclude Matthews, ma sono tra i pochi ad aver provato a quantificare l’effetto. Per prima cosa stimano il livello di austerità in ogni stato e distretto in Germania utilizzando l’aliquota fiscale media di ciascuna zona locale.

Mentre il governo di Brüning aumentava le imposte sul reddito a livello generale, la maggior parte delle imposte sul reddito erano locali, quindi gli aumenti delle tasse federali hanno provocato aumenti fiscali di diverse dimensioni in diverse aree. E gli autori hanno scoperto che le aree che hanno visto aumenti più consistenti delle loro aliquote fiscali medie hanno visto anche maggiori quote di voto per il partito nazista nelle elezioni del luglio 1932, del novembre 1932 e del marzo del 1933. “Indipendentemente da come misuriamo l’austerità, la stima dell’associazione di austerità con la quota di voto nazista è positiva e statisticamente significativa nella maggior parte dei modelli, considerando le diverse elezioni tra il 1930 e il 1933”, concludono.

Secondo una stima, un aumento dell’1% dei tagli alla spesa è associato a un aumento di 1,825 punti percentuali nella quota di voto nazista. I risultati sono ancora più forti se si considerano solo i tagli alle pensioni comunali, il sostegno alla disoccupazione e l’assistenza sanitaria e se si usa l’appartenenza al partito nazista come variabile dipendente, piuttosto che come quota del voto nazista, proseguono gli autori.

Perché i nazisti e non i comunisti o i socialdemocratici beneficiarono del fervore anti-austerità? I socialdemocratici erano alleati del partito di centro di Brüning nella coalizione di governo, e furono puniti per questo sostegno. I comunisti hanno raccolto molti voti, in particolare tra i disoccupati e le classi lavoratrici, nello stesso momento in cui i nazisti stavano crescendo. Sebbene gli autori non diano una risposta definitiva alla domanda, quindi, notano che i nazisti hanno eseguito una piattaforma anti-austerità, completando i loro temi ipernazionalisti e antisemitici. Hanno promesso agevolazioni fiscali, “mantenuto il sistema di previdenza sociale”, per assicurare “una generosa espansione del sostegno per gli anziani” e per espandere gli investimenti nelle autostrade. Ciò non suscitò il sostegno dei nazisti tra i disoccupati e le classi inferiori, che invece si accalcarono verso i comunisti. Ma lo ha fatto, scrivono gli autori, in un asse “tra le classi medio-alte che, nonostante la profondità della Depressione (cioè, dopo aver controllato per il livello di produzione e occupazione) avevano ancora qualcosa da perdere.”

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Volete spingere PotereAlPopolo? Tampiniamo i media tutti i giorni

Un consiglio/proposta. Quando la stampa parla di #PoterealPopolo, che lo faccia in modo obiettivo o strumentale poco importa in questa situazione, si deve rispondere ed intervenire. Se questa cosa si fa in tanti ed in modo intelligente, spesso produce effetti positivi in termini di diffusione dell’informazione sulla nostra iniziativa.

Sebbene il Rosatellum imponga ai piccoli di accettare accordi elettorali con i ‘giganti’ (chi non è certo di superare la soglia di sbarramento del 3 per cento, infatti, deve garantirsi un minimo di rappresentatività attraverso patti nei collegi con i partiti maggiori), c’è anche chi proverà a fare corsa a sé e a misurarsi. Ci proverà il Popolo della famiglia di Mario Adinolfi, e ci proveranno anche, sulla sinistra estrema, la lista dei centri sociali ‘Potere al popolo’...
L’Avvenire

Ed ecco che cosa ho scritto al Direttore de L’Avvenire.

Buongiorno Direttore,

ho letto su Avvenire.it in data odierna un articolo a firma Marco Iasevoli, “Verso le elezioni. Coalizioni e programmi al palo: corsa al voto con mille incognite”. Tra le altre cose si riferisce alla lista POTERE AL POPOLO come “la lista dei centri sociali”.

Non è così, a questa lista aderisce soprattutto una vasta area politica di sinistra non organizzata, o sarebbe meglio dire non più organizzata in formazioni politiche e che in maggioranza non vota da anni o non ha mai votato perché giovane, forze politiche organizzate (Eurostop, Rifondazione Comunista, PCI e altri), forze e associazioni che operano nel sociale in tutto il paese, soprattutto singoli cittadini che non ce la fanno più ad arrivare alla fine del mese.

Insomma, affermare che Potere al Popolo è la lista dei centri sociali è sbagliato e non corrisponde allo spirito e alla concretezza di un’iniziativa che, lanciata dai giovani (cosa questa assolutamente positiva ed in controtendenza) del Centro Culturale napoletano Ex OPG Occupato – Je so’ pazzo , è stata ora raccolta da fasce sempre più ampie di un popolo della sinistra che vuole costruire una forte alternativa che vada anche oltre il 4 marzo e che non è soddisfatta dalla nuova/vecchia formazione di Liberi e Uguali e vede il PD come una forza politica ormai di centro.

Le chiedo quindi di rettificare l’informazione e, soprattutto, un’informazione più corretta e rispondente allo spirito e alla realtà di ciò che oggi è e potrebbe diventare Potere al Popolo.

Per correttezza volevo precisare che chi scrive non è un portavoce di questa lista (https://poterealpopolo.org/) ma soltanto uno dei tanti che la voterà. Sono infatti convinto che questa iniziativa sorprenderà molti in questo paese.

Grazie dell’attenzione

Fabrizio Tomaselli

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29/12/2017

Renzo Ulivieri ora appoggia Potere Al Popolo

Quando il gioco si fa duro, i duri cominciano a giocare... Le ironie dei servi del potere – Repubblica su tutti, per ora – non fanno presa più di tanto. La novità politica della battaglia elettorale che si apre praticamente oggi, con lo scioglimento delle Camere, è soltanto una: #PotereAlPopolo. Tutto il resto è potentati affaristici al servizio del capitale multinazionale (attraverso l’Unione Europea) oppure vecchia paccottiglia senza più senso.

Se n’è accorto un vecchio leone comunista come Renzo Ulivieri, allenatore in passato di grandi club della serie A (Bologna, Sampdoria, Napoli, Cagliari, Parma), ancora oggi in panchina con le ragazze del Pontedera. Ma anche presidente dell’Associazione Allenatori Calcio e dirigente politico (consigliere comunale e assessore, ancora negli anni ‘60). Politicamente sempre vicino alla “cosa” più di sinistra che il panorama politico-elettorale riuscisse ad offrire.

Proprio per questo lo avevano avvicinato quelli di “Liberi e Uguali”, strappandogli una dichiarazione di sostegno. Poi, non sappiamo se stanco di vecchi discorsi moderati o per la forza ruspante della nuova lista, ha cambiato idea:

“Ho provato a spiegarmelo. Anche razionalmente. Sto con Liberi e Eguali, il cosiddetto PD2, perché, più forza prende, più riuscirà a spostare a sinistra l’azione politica del PD1. Solo che per me l’interesse per la politica è sempre stato accompagnato da passione, sentimenti, emozioni. Mentre facevo questi pensieri emozione zero. Ho scelto Potere al Popolo e sarò lì“, ha scritto Ulivieri sul suo profilo. “Non è per il gioco a fare a chi è più di sinistra, che è gioco sciocco. La scelta riguarda il tipo di società nella quale vogliamo vivere. E allora o si è di sinistra o non lo si è“.

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Si è chiusa la XVIII legislatura: la peggiore della storia repubblicana

La legislatura è finita, le camere sciolte e ci si avvia a grandi passi verso la campagna elettorale.

Quella appena conclusa è stata sicuramente la peggiore legislatura della storia repubblicana e non tanto e non solo (si tratterebbe già di un argomento di una certa consistenza) per l’impazzare del trasformismo che ha portato al record assoluto nel proporsi l’antico rito del cambio di schieramento di elette/i.

Prima di tutto è necessario ricordare come i componenti delle Camera appena congedati erano stati eletti nel febbraio 2013 attraverso il meccanismo di una legge elettorale poi dichiarata incostituzionale dall’Alta Corte.

Nella sentenza in questione la Corte Costituzionale dichiarò le Camere (allora da poco elette: ci si trovava nel corso del mese di Dicembre 2013) legittime soltanto per ragione della “continuità dello Stato”: correttezza istituzionale avrebbe voluto che, a quel punto, ci si fermasse, si rispettasse la sentenza nella sua più profonda “ratio” e si procedesse al voto seguendo il sistema che era venuto fuori dalla pronuncia in questione.

Così non fu, anzi, si procedette addirittura votando la fiducia a governi, come quello presieduto dal segretario del PD Renzi (febbraio 2014) formato da un privato cittadino mai eletto in Parlamento (cosa possibile stando alla Costituzione naturalmente, ma molto stiracchiata sul piano del merito) che era riuscito, attraverso una manovra assolutamente extra parlamentare e borderline rispetto alla correttezza formale, a liquidare l’esecutivo precedente ottenendo il voto delle Camere attraverso un’operazione di rottura trasformistica del fronte avversario.

Fronte avversario con il quale il precedente presidente del Consiglio (appartenente allo stesso PD) aveva stabilito un patto di governo.

Il governo Renzi, con il costante avallo di una maggioranza parlamentare uscita da quest’operazione di stampo puramente opportunistico, ha rappresentato un vero e proprio pericolo per la democrazia repubblicana.

Fu messa in piedi una gigantesca operazione di disinformazione collettiva, con la complicità di gran parte dei mezzi di comunicazione di massa, attraverso una proposta di vera e propria demolizione della Costituzione Repubblicana.

Il tentativo era quello di stravolgere il senso della nostra Carta fondamentale proprio sul delicatissimo terreno del modello della rappresentanza politica, spostando l’asse dal Parlamento al Governo.

Questa manovra di palazzo è stata sventata da voto popolare il 4 dicembre 2016 ma rimane a indicazione degli intendimenti di vera e propria limitazione della libertà democratica da parte della maggioranza.

Egualmente attraverso il voto di fiducia e usando una procedura del tutto inaudita, essendo quella elettorale materia di pretta natura parlamentare, il governo Renzi aveva fatto approvare in seguito un nuovo modello di formula elettorale denominato “Italikum”, anch’esso immediatamente bocciato dalla Corte Costituzionale alla quale avevano nuovamente fatto ricorso avvocati e cittadini mossi da iniziative spontanee e non certo organizzati da parti politiche.

Ciò nonostante si è perseverato nel proporre un meccanismo elettorale, secondo il quale si voteranno i parlamentari della XVIII legislatura, che presenta ancora profili di evidente incostituzionalità sotto l’aspetto della possibilità per elettrici ed elettori di indicare i propri rappresentanti e di poter disporre di un voto eguale e personale come previsto dalla Carta Costituzionale: così che il rischio di un’ulteriore invalidazione della legge elettorale sarà ben presente anche nel momento in cui ci si recherà nuovamente alle urne il 4 marzo 2018.

Come se tutto questo non bastasse a definire il profilo antidemocratico assunto dalla posticcia maggioranza parlamentare formatasi nel corso della XVII legislatura vi è da aggiungere che su iniziativa del governo Renzi, stante le Camere assolutamente prive di capacità di proposta sul piano legislativo, sono stati duramente attaccati il mondo del lavoro e quello della scuola con l’introduzione, attraverso il job act, di meccanismi di ulteriore precarietà dell’occupazione (con percentuali di disoccupazione rimaste molto elevate, in particolare rispetto alle fasce più giovani d’età) e con la cosiddetta “buona scuola” verso il cui dettato legislativo si sono pronunciati la stragrande maggioranza degli operatori scolastici a tutti i livelli.

Caduto il governo Renzi dopo il voto referendario è subentrato il governo Gentiloni, fondato sulla stessa maggioranza: il peggio doveva ancora arrivare.

Peggio rappresentato dal patto promosso dal ministro degli Interni Minniti (che in pratica sta ricoprendo sia il proprio dicastero, sia quello degli esteri) con i capi di bande di predoni libici finanziandoli al fine di fermare il flusso di disperanti migranti che risalgono il deserto dal cuore dell’Africa cercando di sfuggire alla guerra, alla morte, alla fame.

Le organizzazioni dell’ONU e vari altri soggetti impegnati sul piano umanitario hanno condannato questa operazione definendola foriera di eccidi e di torture: si è trattato di un gravissimo episodio di vera e propria miseria morale che segna davvero il volto della legislatura, nel corso della quale del resto i parlamentari hanno continuato a votare le missioni di guerra al cui riguardo ci troviamo di fronte alla novità dell’impiego di truppe italiane sul fronte del Niger, a conferma della vocazione di destra colonialista che la maggioranza uscente ha continuato ad esprimere con grande continuità nel corso di questi mesi.

Infine la vicenda, davvero riprovevole nella sua modalità, riguardante lo “ius soli”: commedia finale che ha coinvolto l’emiciclo parlamentare anche attraverso il dosaggio delle assenze in modo da cercare di scaricare il barile nelle più improprie direzioni al fine di giustificare il fallimento.

Così possono essere riassunti i passaggi fondamentali verificatisi nel corso di questi 5 anni tralasciando per economia di discorso il tema europeo e quello riguardante il vero e proprio scandalo bancario che ha attraversato non solo l’Italia ma anche il governo.

Nel frattempo il tentativo di impadronirsi della cosiddetta “antipolitica” da usarsi come punto d’appoggio per una mediocre scalata al potere come nel caso del M5S, si è rovesciato in un processo aperto di “impolitica” attraverso il quale si è ulteriormente scavato un fossato profondo nella società italiana nella quale si dimostrano segnali inquietanti di disuguaglianza, volontà di sopraffazione e di sfruttamento da parte di pochi potenti “clan” di potere.

Una strada di vero e proprio degrado politico quella percorsa durante la XVII legislatura. sulla scia dal veleno inoculato nel sistema politico italiano dall’idea maggioritaria, del personalismo, del “partito proprietario”, di un modello di centrodestra razzista e qualunquista che ha governato il paese a più riprese nel primo decennio del 2000 e al quale hanno risposto confusi schieramenti contrapposti, pur essi coinvolti in una logica governativista d’accatto. Soggetti via via mutanti nella denominazione e nella composizione che nel frattempo hanno snaturato l’identità storica della sinistra italiana fino a cadere nel baratro di un PD privo di identità, tenuto assieme soltanto da una inopinata “vocazione maggioritaria” attraverso la cui espressione meramente verbale si sono avventati tutti i comprimari dell’individualismo competitivo formando cordate e “gigli magici” in certe situazioni dimostratisi anche inquinati da infiltrazioni pesanti sul piano della “questione morale”.

Quello della XVII legislatura non può che essere segnalato come un bilancio fortemente negativo dal punto di vista di una almeno minimamente accettabile proposizione etica del ruolo delle istituzioni da parte della stragrande maggioranza dei gruppi parlamentari.

Beninteso il giudizio non è morale ma – per l’appunto – etico e di conseguenza propriamente politico.

Adesso il voto, con grandi incognite sulla sorte del Paese e della pace a livello globale.

Con una certezza: servirebbe una forte opposizione di sinistra da opporre rispetto alle futuribili combinazioni parlamentari che sorgeranno sicuramente come proposta di continuità e di peggioramento con il quadro che si è cercato di presentare in questa sede.

Questo però è un discorso tutto da fare, non fidando semplicemente sulla buona volontà ma ricercando forti motivazioni da presentare ai settori più avanzati della società italiana, o almeno a quel che ne rimane sul piano della combattività sociale e dei riferimenti politici.

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Brancaccio: “Sostenere l'austerity e poi dichiararsi antifascisti? È un’ipocrisia”

Per l’economista Emiliano Brancaccio chi ha appoggiato le ricette deflazioniste di questi anni non può diffondere appelli al “voto utile” per frenare il populismo xenofobo, dato che proprio quelle politiche hanno spianato la strada all’attuale revival fascistoide: “Il vento di estrema destra è forte ed è destinato a durare: non potrà certo essere arrestato escogitando tattiche elettorali di corto respiro”.

Intervista a Emiliano Brancaccio di Giacomo Russo Spena

“Se ti dichiari antifascista, non puoi essere un ‘deflazionista’ che invoca nuove ondate di austerity e di privatizzazioni, sostiene le deregolamentazioni del lavoro e promuove la gara al ribasso dei salari e dei prezzi, perché proprio queste politiche favoriscono l’avanzata delle destre estreme”. E' il giudizio dell'economista Emiliano Brancaccio, uno studioso che da tempo richiama l’attenzione sui fattori economici alla base del rinnovato successo dell’ultra-destra. Tra raid contro gli immigrati, assalti alle redazioni giornalistiche, svastiche di moda tra i poliziotti, e soprattutto l’ingresso di forze xenofobe nei governi di alcuni Paesi d'Europa, si discute in questi giorni del ritorno di una possibile “minaccia fascista”. Da Zizek a Chomsky, vari intellettuali sono stati interpellati per cercare di capire se questo pericolo sia concreto e quali possano essere le sue cause. Su questo Brancaccio non ha dubbi: il pericolo esiste e viene accentuato dalle politiche economiche dominanti, alle quali ha dedicato studi critici la cui rilevanza è stata riconosciuta persino da Olivier Blanchard, ex capo economista del Fondo Monetario Internazionale.

Professor Brancaccio, nel 2013 Lei fu promotore del “monito degli economisti”, un documento pubblicato sul Financial Times e firmato da importanti membri della comunità accademica internazionale. Nel “monito” sostenevate che l’austerity, la flessibilità del lavoro e le altre politiche dei sacrifici non aiutano a uscire dalla crisi e possono invece aprire la via al più funesto irrazionalismo di destra. Vista l’ascesa recente di movimenti xenofobi e ultranazionalisti, possiamo dire che siete stati profetici?

L’idea che quel genere di politiche possa alimentare l’estremismo di destra non l’abbiamo certo inventata noi. Tracce di essa si trovano in alcune celebri premonizioni di Keynes, negli scritti di Maurice Dobb e di altri autori marxisti, e pure in alcuni studi mainstream dedicati al periodo tra le due guerre. Nella fase attuale questa idea trova diversi riscontri empirici: indizi su una correlazione tra le politiche “deflazioniste” di questi anni e l’avanzata delle destre estreme non mancano.

Cosa intende per politiche “deflazioniste”?

Con quel termine gli economisti intendono una strategia di gestione delle crisi che impone ai debitori pubblici e privati di rimborsare i prestiti a colpi di svendite di capitale, compressioni dei diritti sociali e del lavoro, abbattimenti delle spese e gare al ribasso sui salari e sui prezzi. Conseguenza di questa strategia è che la domanda di merci langue, gli sbocchi di mercato si restringono e la competizione globale tra capitali si fa più feroce. In questo scenario, ampie frange di piccola e media borghesia non riescono a reggere la concorrenza dei capitali più forti, risultano afflitte da erosioni dei risparmi e da problemi di insolvenza, e in prospettiva temono uno scivolamento verso forme di proletarizzazione. E’ quella che Marx definiva la “centralizzazione dei capitali” in sempre meno mani, con i piccoli proprietari che vengono via via espropriati dai più grandi.

In che modo questo tipo di politica favorirebbe l’avanzata delle destre estreme?

La centralizzazione scatena una reazione. Per difendersi dai grandi gruppi i piccoli proprietari tentano di organizzarsi politicamente. Poiché le loro ramificazioni internazionali sono limitate e i loro interessi prevalenti sono legati ai circuiti economici nazionali, la difesa politica di questi capitalisti minori assume facilmente i connotati tipici di un movimento sciovinista e al limite di estrema destra. Un movimento rappresentativo di interessi troppo deboli per diventare regime politico, ma sufficientemente forti per condizionare il corso degli eventi.

Quali sono gli altri elementi favorevoli all’ascesa delle destre estreme?

Di sicuro una classe lavoratrice disorganizzata, che sia priva di coscienza delle reali cause del proprio disagio e che si lasci sedurre da rozzi capri espiatori, come ad esempio gli allarmismi sull’avvento di orde di immigrati. In situazioni simili, basta poco ai pifferai della destra estrema per attirare frange rilevanti del mondo del lavoro.

Al giorno d’oggi, questi fattori alimentano un indistinto populismo di destra o possono fare insorgere una vera e propria minaccia fascista?

Benedetto Croce concepì il fascismo come una sorta di “ubriacatura”, una mera “parentesi” storica causata dalla guerra. Altri studiosi hanno suggerito che il fascismo sia stato una reazione alla minaccia comunista e che in assenza di questa non possa mai riaffiorare. Gli odierni liberali la pensano più o meno in questi modi, direi tutti piuttosto rassicuranti. Io però seguo una diversa storiografia. A mio avviso, sia pure in forme continuamente rinnovate, il fascismo è un virus interno alla meccanica stessa del capitale, che si alimenta delle contraddizioni innescate dalle crisi capitalistiche. Sebbene in forma blanda e mimetizzata, oggi quel virus è di nuovo attivo, la sua influenza sulle azioni di molti governi è già un dato di fatto. Ovviamente non stiamo ancora parlando di un fascismo che si fa regime. Ma se qualcuno azzardasse che già ora stiamo rischiando un’egemonia culturale di stampo neofascista non lo troverei assurdo.

Eppure Slavoji Zizek ritiene che l’odierno antifascismo europeo sia un feticcio fuorviante. E Noam Chomsky sostiene che l’antifascismo militante negli Stati Uniti è inutile, e rischia solo di favorire la reazione autoritaria del governo. Che ne pensa?

Mi sembrano posizioni miopi. Per adesso, nelle arene politiche circolano solo emuli grotteschi e persino un po’ ridicoli, ma forme surrettizie di fascismo stanno realmente fiorendo e sembrano destinate a guadagnare forza ad ogni successiva crisi economica. Si cita spesso il Marx del 18 Brumaio, dove sosteneva che la Storia tende a presentarsi prima come tragedia e poi come farsa. Io aggiungerei che a volte la sequenza si rovescia: per evitare di passare dall’odierna farsa a una futura tragedia, forse faremmo meglio a considerare la militanza antifascista un discrimine fondamentale per la politica del nostro tempo.

Se è per questo anche il presidente francese Macron ha issato la bandiera dell’antifascismo. Eppure, in un'intervista all’Espresso che fece molto discutere, Lei dichiarò che alle elezioni francesi non avrebbe votato Macron per fermare la Le Pen. Come mai?

Oggi più di ieri confermo quella mia scelta. Dobbiamo comprendere che siamo dinanzi a una doppia mistificazione: quella di chi minimizza l’evidente ascesa di una cultura politica di estrema destra, e quella di chi si illude di contrastarla sostenendo forze che portano avanti le politiche “deflazioniste” favorevoli al grande capitale. La verità è che proprio quelle politiche hanno accentuato squilibri e disuguaglianze, e hanno quindi spianato la strada al revival fascistoide di questi anni. Macron è un esempio tipico. Dopo il fallimento dei socialisti francesi, il nuovo presidente ha spostato ancor più a destra il quadro politico e la sua strategia economica si sta rivelando più “deflazionista” delle precedenti. La mia previsione è che al termine del suo mandato la Francia si risveglierà ancor più nera di oggi. E’ quello che definisco un tipico “antifascismo deflazionista”: contraddittorio e a lungo andare controproducente.

Nella stessa contraddizione cade anche il Partito democratico in Italia? Renzi è come Macron?

Questa fatale contraddizione vale per la Francia come per l’Italia, e riguarda tutti i soggetti che si dichiarano antifascisti ma che per anni si sono ritrovati ad appoggiare le politiche “deflazioniste”. Soggetti che sono rimasti fedeli a questo tipo di politiche fino all’autolesionismo, mentre al contrario si sono rivelati più volte disponibili a fare compromessi con il loro dichiarato antifascismo ammiccando ad alcune battaglie tipiche della destra estrema.

Ma allora Lei cosa pensa degli appelli al “voto utile” a favore della coalizione che ruoterà intorno al Pd? Molti sostengono che quel voto sia l’unico in grado di frenare l’avanzata del populismo xenofobo.

In Italia come nel resto d’Europa, penso che il cosiddetto “voto utile” non possa frenare niente. Il vento di estrema destra è forte ed è destinato a durare: non potrà certo essere arrestato escogitando tattiche elettorali di corto respiro, che contribuiscono solo a reiterare l’ipocrisia di un “antifascismo deflazionista”.

Si potrebbe obiettare che le politiche “deflazioniste” ce le impone l’Europa e che dentro l’euro non c’è alternativa ad esse.

Che l’assetto dell’Unione sia parte del problema non è una novità: anche i più convinti sostenitori della moneta unica ammettono che i vincoli dell’eurozona contribuiscono al diffondersi della peggiore reazione nazionalista. Aggiungo solo che la questione non si risolve con un mero cambio di moneta. In condizioni di libera circolazione dei capitali, il nesso tra politiche “deflazioniste” e avanzata dell’estrema destra può manifestarsi anche fuori dall’euro.

Come si può fermare l’avanzata dell’estremismo di destra? E in quali modi si dovrebbe aggiornare il messaggio dell’antifascismo?

Avremmo bisogno di un lavoro collettivo di lunga lena, che ci aiuti a riconquistare consapevolezza delle basi materiali su cui nasce e prospera il virus neofascista. Dovremmo recuperare e aggiornare le nostre conoscenze sui nessi tra crisi capitalistica, politiche economiche “deflazioniste” e sviluppo dei movimenti reazionari di massa. Solo in questi termini si può liberare l’antifascismo da ogni ipocrisia per renderlo nuovamente efficace, moderno, all’altezza di questi tempi difficili.

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Lavorare meno, lavorare tutti. Ma a queste condizioni

«Durante tutto quell’anno gli animali lavorarono come schiavi. Ma erano felici di farlo: non lesinavano sforzi e sacrifici, nella consapevolezza che tutta quella fatica sarebbe tornata a loro vantaggio e a futuro vantaggio della loro specie, e non di una masnada di esseri umani fannulloni e ladri. In primavera e d’estate lavorarono sessanta ore la settimana. In agosto, Napoleone annunciò che bisognava lavorare anche la domenica pomeriggio: l’adesione sarebbe stata rigorosamente volontaria, ma gli assenti avrebbero avuto le razioni dimezzate».

La prima volta che ho letto La fattoria degli animali avevo dodici anni e andavo a scuola dalle suore, una privata femminile con l’obbligo della divisa. La sera, a casa, guardavamo “Ok, il prezzo è giusto!”, adattamento dello statunitense “The Price Is Right”. Scopo del quiz, condotto da una futura eurodeputata berlusconiana sulla tv del futuro presidente del Consiglio Berlusconi, era indovinare il prezzo delle cose costose. Lavatrici, tappeti, set di valigie, pellicce. Sii gentile, sempre: ogni persona che incontri potrebbe aver visto “Ok, il prezzo è giusto” e non aver mai letto George Orwell.

Ho riletto ieri La fattoria degli animali, dopo aver intervistato Babbo Natale. Era una donna, si chiamava Giulia, distribuiva volantini agli avventori del centro commerciale della stazione Termini: “Questo centro commerciale è aperto perché un bel giorno Monti, Berlusconi e il Pd di Bersani hanno pensato che nella grande distribuzione fosse giusto lavorare 365 giorni all’anno, un caso quasi unico in Europa. La chiamano liberalizzazione ma la libertà è solo quella dei proprietari della grande distribuzione di tenere i centro commerciali aperti più a lungo, la libertà quindi di fare grossi profitti sul lavoro di persone che devono rinunciare alle festività”.

Giulia non era sola: con lei c’erano decine di altri Babbi Natale davanti ai negozi aperti nel giorno di festa, in 22 città italiane: da Reggio Calabria a Torino passando per Salerno, Napoli, Roma, Pescara, Viareggio, Milano, Padova. Sono gli attivisti di Potere al popolo, la lista popolare nata dopo l’implosione del percorso del Brancaccio e che mette al centro del programma sul lavoro, oltre alla cancellazione della legge-Fornero, del Jobs act e delle leggi che hanno prodotto la precarietà e a un piano per creare occupazione, la riduzione dell’orario a parità di salario: “32 ore settimanali, tanto più necessarie a fronte dei processi in atto di automazione delle produzioni”.

“Non si può incentivare un popolo al consumo in ogni momento, è importante ricominciare a conquistare spazi e tempi per la socialità e gli affetti”. Qualcuno ha storto il naso: “Che c’è di male a lavorare nei giorni di festa se le commesse vengono pagate?”. Non conta il tempo e il diritto al riposo e alla vita ma il prezzo delle cose, delle lavatrici come delle lavoratrici: è ok se il prezzo è giusto: questo è il messaggio che veniva propagandato dalla tv di Berlusconi. Fortuna che a scuola dalle suore, inavvertitamente, c’era una biblioteca piena di libri scritti dai socialisti. Nei racconti dei mari del Sud, Jack London narrava la storia dell’apostata Johnny, che aveva la mia età: 12 anni. E da anni lavorava come operaio nella fabbrica tessile dove era stato partorito. Lavorava dall’alba al tramonto, e un giorno decise di fermarsi a contare quanti movimenti aveva fatto ogni anno: 25 milioni di movimenti. Bobina, filo, bobina, fino a diventare una sola cosa con il telaio. Decise di fermarsi per sempre: “Non sono mai stato felice prima. Non avevo tempo. Non ho fatto che muovermi tutto il tempo. Quello non è il modo di esser felice, e non lo farò mai più. Voglio stare solo tranquillo, tranquillo e riposare”.

Il volantino proseguiva spiegando gli effetti del provvedimento che ha deregolamentato gli orari dei negozi: un tempo lavoratrici e lavoratori avevano diritto alla festa e al riposo e deve tornare a essere così, contro un modello sociale in cui il profitto viene prima degli esseri umani”. Il profitto prima degli esseri umani. Come nella fabbrica di cotone descritta da Jack London nel 1906.

Ridurre l’orario di lavoro significa anche – e soprattutto – consentire a tutti di coltivare passioni e relazioni, di redistribuire l’attività di cura oggi principalmente a carico delle donne, rendere indisponibile una parte rilevante della nostra vita allo scambio commerciale e alle logiche del mercato che sono illogiche, avendoci spinto a un modello di consumo che, se fosse esteso a tutti gli abitanti del pianeta, comporterebbe lo sfruttamento delle risorse di altri due pianeti identici al nostro. Che facciamo? Continuiamo a mantenere questo stile di vita per pochi depredando le risorse naturali di tutti gli altri? Domandiamo a Iva Zanicchi quanto costa una coppia di pianeti Terra?

Ridurre l’orario di lavoro è dunque una misura di per sé in grado di produrre benefici per i lavoratori e i disoccupati? No. Dipende da come questa riduzione viene governata. O meglio: nell’interesse di chi.

La riduzione degli orari è una tendenza già in atto in tutto l’Occidente: la produttività è aumentata (a parità di lavoro, si produce di più), la tecnologia ha sostituito alcuni posti di lavoro, la domanda è in calo, i governi tagliano i servizi pubblici e dunque le assunzioni. Le leggi che hanno regolamento questa fisiologica riduzione del numero di ore lavorate hanno però tutelato gli interessi delle imprese e non i bisogni e i diritti dei lavoratori, facendo sì che si lavorasse di più in pochi e affatto tutti gli altri: l’opposto del “lavorare meno, lavorare tutti”, che si chiedeva nel Sessantotto. Obiettivo delle imprese è quello di aumentare i profitti riducendo al minimo costi e rischi, e la legge ha diligentemente assecondato questi scopi. Quali costi? Primo tra tutti, il salario: l’abrogazione dell’articolo 18 e lo smantellamento delle altre tutele ha indebolito il potere di contrattazione dei lavoratori con la conseguente compressione dei salari che, a differenza dei profitti, non hanno beneficiato dell’aumento di produttività.

Altri costi da alleggerire sono l’aggiornamento dei lavoratori e delle macchine: perché perdere tempo e soldi per insegnare ai lavoratori assunti prima dell’avvento delle nuove tecnologie a usare queste tecnologie quando la legge ti consente di mandare a casa i vecchi lavoratori e sostituirli con altri più giovani e già formati? Perché investire in macchinari che velocizzino il processo produttivo se posso far correre più veloce i lavoratori sottoponendoli al continuo ricatto del mancato rinnovo di contratto e approfittando del fatto che non sono iscritti al sindacato? Apposite leggi hanno reso i lavoratori sostituibili e precari, allontanato i sindacati sgraditi alle aziende, indebolito il diritto di sciopero, prodotto una tale quantità di disoccupati che chiunque abbia un lavoro, per un mese o per un giorno pensi a tenerselo stretto senza protestare. E quali rischi le imprese puntano a evitare? Ad esempio, il rischio di affrontare le contrazioni della domanda per intercettarne i picchi: perché assumere un lavoratore per tutto l’anno se non mi serve ad Agosto, o per tutta la settimana se mi serve solo fino al mercoledì, o per tutto il giorno se mi serve solo per mezza giornata, o per un ora se mi serve solo per i venti minuti in cui si precipita a consegnare la pizza?

Ecco allora pronte le leggi che hanno consentito alle imprese di assumere a tempo determinato e rinnovare quel contratto per anni senza l’obbligo di stabilizzarlo, di imporre il part-time verticale cambiando i turni in funzione dei bisogni dell’impresa e mai del lavoratore, di servirsi di lavoratori in somministrazione, di appaltare alle cooperative interi processi produttivi, di assumere per un giorno con i voucher, di pagare i fattorini a consegna invece che a ora, di far lavorare al fianco di camerieri e commessi gli stagisti per un anno e gli studenti in alternanza scuola-lavoro per 400 ore rimborsando ai primi solo le spese e neanche quelle ai secondi.

Grazie alle leggi dettate da Confindustria ai governi (Renzi, per saltare un passaggio, aveva addirittura appaltato a un esponente di Confindustria il ministero dello Sviluppo Economico), il rischio d’impresa è stato interamente scaricato sui lavoratori e i benefici dell’aumento di produttività – che in mezzo secolo è andata crescendo grazie all’innovazione tecnologica – sono finiti nelle tasche della grande industria e della rendita finanziaria nella quale altre apposite leggi hanno incentivato gli industriali a investire i profitti.

Ecco perché, oggi che si potrebbe lavorare di meno a parità di salario (o guadagnare di più a parità di ore lavorate) lavorano di più in pochi guadagnando di meno. Qualcuno lavora perfino gratis, appeso alla promessa di ottenere un contratto dopo mesi di stage nel negozio di borse e qualcun altro, infine, guadagna ottanta volte quel che guadagna un suo dipendente e sei volte tanto quello che guadagnava in passato: i grandi manager che hanno suggerito le riforme che li hanno resi miliardari.

Lo tenga presente il Movimento 5 Stelle, che pure sponsorizza la proposta di redistribuire il tempo di lavoro: se viene pilotata dai governi e non dai lavoratori – se viene portata avanti insieme all’attacco ai sindacati che sono lo strumento attraverso il quale i lavoratori avanzano le rivendicazioni e organizzano gli scioperi – la riduzione dell’orario avvantaggia le imprese e non i lavoratori. La conquista delle otto ore per i metalmeccanici nel 1919 e per le altre categorie nel 1923 è frutto delle lotte operaie e contadine di quegli anni. Come dice l’anziano minatore intervistato oggi e messo in musica dagli inglesi Public Service Broadcasting: “Tutto quello che le classi lavoratrici hanno ottenuto lo hanno conquistato con gli scioperi. Non penso ci sarà mai un giorno nella vita di un semplice lavoratore in cui poter dire: non avrò più bisogno di scioperare”.

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