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31/01/2017

Genova: la determinazione dei lavoratori blocca la delibera di privatizzazione dell’AMIU


Alle 13,30 il portone del Comune di Genova è presidiato dalle forze dell'ordine in assetto antisommossa. Sono state chiuse anche le vie laterali per impedire che i lavoratori AMIU si avvicinino al portone blindato al cui interno la giunta Doria vorrebbe far votare la delibera che privatizza l'azienda dei rifiuti AMIU cedendola alla multiutility IREN.

L'atmosfera era tesa da settimane ma si è ulteriormente riscaldata ieri mattina quando i lavoratori in assemblea hanno bocciato per l'ennesima volta la bozza accettata da Cgil, Cisl, Uil e Fiadel che, con qualche modifica di contorno, accettava di fatto la svendita della partecipata pubblica.

Questo ha creato scompiglio in una una maggioranza di centrosinistra sempre più risicata in quanto un paio di consiglieri, che fino a questo momento avevano comunque sostenuto le peggiori nefandezze contro i lavoratori, hanno annunciato voto contrario.

L'ultimo tentativo della Giunta Doria incontrava la complicità dei sindacati confederali che, fino all'ultimo secondo, hanno cercato di far digerire un accordo che i lavoratori hanno continuato a rifiutare. La forza dei lavoratori ha però prevalso e, nonostante la precettazione del Prefetto, oggi si sono presentati sotto il Comune scavalcando ogni burocrazia.

La giunta Doria aveva, con tutta probabilità, i numeri per procedere con la privatizzazione. Il PD era compatto, la “sinistra” che sostiene il Sindaco subiva un paio di defezioni ma continuava incredibilmente a sostenere le politiche fallimentari della giunta. La destra e i centristi si sarebbero astenuti o avrebbero votato a favore.

Contrari solo le due frazioni del 5 stelle (che nel frattempo ha subito una scissione interna) e i consiglieri di sinistra all'opposizione.

Evidentemente, nel rinvio hanno pesato la netta contrarietà dei lavoratori e la sollevazione delle associazioni dei commercianti, preoccupati per l'aumento della tassa sui rifiuti inserita come condizione dall'acquirente privato per risanare i conti di AMIU a spese dei cittadini.

Per l'ennesima volta, la giunta Doria è stata quindi bloccata nel tentativo di portare a termine una privatizzazione in un settore strategico della città.

Ci avevano già provato con l'azienda dei trasporti causando la reazione nelle 5 giornate di AMT. Questa volta sembravano a un passo dal risultato, ma i lavoratori hanno risposto con la lotta.

La delibera è stata però solo rinviata di una settimana, necessaria per nuove trattative. Trattative che però vedranno come protagonisti quei lavoratori che hanno sconfessato sul campo i dirigenti confederali e non si sono arresi segnando una prima vittoria parziale.

In piazza i lavoratori hanno valutato positivamente il rinvio della delibera e si sono dati appuntamento per la settimana prossima.

Il Sindaco e il PD oramai sono allo sbando. Ogni tentativo di ingannare i lavoratori non ottiene risultati e la politica delle privatizzazioni convince sempre di meno i cittadini.

Questo è l'alimento della forza dei lavoratori che non hanno ceduto di un millimetro nonostante le manovre dei sindacati di regime e di un quadro politico che occorre far saltare in aria il prima possibile.

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"Unified Trident" attacco simulato all'Iran

di Michele Giorgio il Manifesto

Si chiamano “Unified Trident” e si svolgeranno a partire da oggi davanti alle coste del Bahrain, quindi non lontano da quelle iraniane, le manovre navali che vedranno la Marina britannica guidare per tre giorni navi da guerra americane, francesi e australiane. Obiettivo principale delle manovre è simulare un attacco all’Iran, con il rischio di aggravare la tensione nel Golfo, salita da quando Donald Trump è stato eletto presidente degli Stati Uniti e ha caratterizzato i suoi primi giorni alla Casa Bianca con una raffica di decreti esecutivi. Tra questi, il “muslimban”, che colpisce direttamente i cittadini iraniani, oltre a quelli di diversi paesi arabi.

Le manovre inviano un avvertimento a Tehran, in linea con l’approccio duro che tanto piace al Segretario alla difesa Usa James Mattis, uno dei comandanti militari americani che avrebbero fatto la guerra all’Iran e non certo firmato l’accordo sul nucleare voluto dall’ex presidente Barack Obama. Il Golfo di recente è stato teatro di diversi episodi che hanno fatto temere una escalation dalle conseguenze devastanti. Ad inizio gennaio il cacciatorpediniere USS Mahan ha sparato colpi di avvertimento in direzione di quattro motovedette iraniane. La stessa unità assieme alla USS Hopper, alla nave ammiraglia britannica HMS Ocean e al cacciatorpediere HMS Daring, alla fregata francese FS Forbin e a unità da guerra australiane, prenderà parte a “Unified Trident”.

Non è chiaro se Donald Trump e il re saudita Salman abbiano discusso delle manovre militari nel Golfo, durante la telefonata che i due hanno avuto tra domenica e lunedì. Trump e Salman, secondo le notizie disponibili, hanno parlato della creazione di “zone sicure” per i civili in Siria. Tuttavia è impensabile che non abbiamo discusso anche di Iran, avversario dell’Arabia saudita, nei confronti del quale Trump ha promesso il pugno di ferro e il boicottaggio dell’accordo sul programma nucleare che ha firmato con i Paesi membri del Consiglio di Sicurezza dell’Onu (più la Germania) nell’estate del 2015. In questo quadro il minuscolo Bahrain, che ospita la V Flotta Usa e il Navcent (United States Naval Forces Central Command), rivestirà un ruolo strategico ancora più importante. E re Hamad bin Isa al Khalifa, già protetto dalla monarchia saudita e dagli altri petromonarchi, potrà garantirsi il silenzio di Washington, Londra e delle altre capitali occidentali sui crimini che commette contro i suoi sudditi.

Proprio ieri a Manama sono divampati nuovi scontri, tra manifestanti e la polizia, durante la prima udienza del processo che vede sul banco degli imputati il leader religioso sciita, Isa Qasim, accusato di essere “un agente” dell’Iran. Accusa che re Hamad rivolge a tutti gli oppositori per guadagnarsi il sostegno di Riyadh e dell’Occidente. La frustrazione della popolazione, in maggioranza sciita, intanto cresce e qualcuno ha già preso le armi. Due giorni fa un poliziotto è stato ucciso in un agguato delle “Brigate Ashtar”, un sedicente gruppo armato sciita che ha già rivendicato altri attacchi.

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Eurostop: dal No sociale all’Italexit, un percorso politico e sociale

Sabato 28 gennaio a Roma si è svolta l’assemblea nazionale della Piattaforma Sociale Eurostop. E’ stata grande e partecipata con 25 interventi. Apprezzati i contributi anche di personalità e strutture ancora esterne al percorso – come il vicepresidente emerito della Corte Costituzionale Paolo Maddalena, di Mimmo Porcaro, Dino Greco e del sindacato di base Unicobas – ma con i quali crescono i punti di convergenza e di azione comune intorno ai tre NO all’euro, all’Unione Europea, alla Nato. E' stato letto anche un messaggio di Nicoletta Dosio dei NO TAV della Val di Susa.

L'Assemblea ha provato a fare – eda rivendicare – il bilancio dell'anno trascorso dalla prima assemblea nazionale di Eurostop (novembre 2015): le due mobilitazioni nazionali contro la guerra e la Nato del gennaio e marzo 2016, il convegno di Napoli del maggio 2016 che ha lanciato la campagna per l’Italexit e le mobilitazioni dell’autunno sul referendum sulla controriforma costituzionale e che hanno animato quel No Sociale rivelatosi decisivo per la vittoria. Un passaggio decisivo di quella campagna (confermata dalla composizione sociale della vittoria del No nel referendum) sono state le due giornate di mobilitazione del 21 e del 22 Ottobre (Sciopero generale e Manifestazione nazionale).

Il risultato del Referendum del 4 novembre si è inserito in un quadro internazionale ed una situazione politica e sociale del paese completamente diversa dalla precedente, caratterizzata dalla Brexit in Gran Bretagna e dall'elezione di Trump negli USA.

L’assemblea ha sostanzialmente approvato lo spirito e i contenuti dei documenti politici preparatori (le sedici tesi, il documento sull’Italexit e quello con la proposta di modello organizzativo di Eurostop). E’ apparso evidente come per Eurostop diventi necessario un passaggio politico sul piano della configurazione e del programma con cui agire politicamente e socialmente nel paese e nei rapporti con le forze analoghe negli altri paesi. L’ipotesi di mettere in campo un movimento politico, popolare e radicale sui tre NO, capace di declinarli in programma di azione sociale, politica, sindacale, è ormai all’ordine del giorno. Senza precipitazioni che mettano in difficoltà le organizzazioni aderenti (sia politiche che sindacali) ma operando un passaggio da piattaforma sociale a fronte e/o coalizione sociale Eurostop.

Il consolidamento di Eurostop sul piano politico e organizzativo è fondamentale per poter affrontare con efficacia una situazione di estremo interesse sul piano della possibilità del conflitto ma anche di eventi politici rapidamente mutevoli. Nessuna mediazione o ulteriore perdita di tempo è più accettabile con la sinistra europeista, perché è ormai evidente sia l’irriformabilità dell'UE sia l’indebolimento dell’egemonia delle classi dominanti emersa dal referendum del 4 dicembre che spinge i processi di lotta verso una completa rottura e fuoriuscita dall'Unione Europea, dall'Euro e dalla Nato.

L'Assemblea ha deciso quindi di costruire un percorso di rafforzamento della Coalizione Sociale Eurostop, anche attraverso un lavoro più intenso ed articolato a livello territoriale da strutturarsi a livello regionale. Per questo si è riconvocata in una nuova assise nazionale per domenica 26 marzo a Roma per formalizzare le scelte fatte nell'assemblea del 28 gennaio.

Sul piano dell’iniziativa l’assemblea ha riconfermato la mobilitazione per i giorni del vertice dell’Unione Europea in occasione dell’anniversario del Trattato di Roma. Quindi una manifestazione nazionale a Roma il 25 marzo preceduta da una giornata di iniziativa sindacale il 24 marzo contro il vertice tra Ces, Confindustria Europea e governi della presidenza di turno della Unione Europea. Inoltre l'assemblea ha dato la propria adesione alla manifestazione a sostegno del popolo kurdo dell’11 febbraio a Milano, ha aderito anche alla mobilitazione contro il vertice del G7 dei ministri economici e finanziari che si terrà tra l'11 ed il 13 maggio a Bari e la partecipazione diretta alle mobilitazioni contro il G7 che si terranno a Taormina il 26 e 27 maggio. Infine Eurostop ha dato il proprio sostegno allo sciopero della scuola del 17 marzo indetto da USB, Unicobas, Cobas e alle mobilitazioni delle donne per l'8 marzo. Si lavorerà con spirito unitario e inclusivo alla riuscita delle mobilitazioni, ma senza più rinunciare ai contenuti dirimenti espressi dal percorso di Eurostop.

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Guerre, armi e armati sul “fronte russo”

Seduta straordinaria oggi del Consiglio permanente dell'Osce in Austria, in conseguenza della situazione sulla linea del fronte ad Avdeevka. Il presidente ucraino Petro Porošenko, che ieri aveva interrotto improvvisamente la visita in Germania in seguito alle notizie sulla critica situazione delle truppe ucraine nel Donbass, ha convocato per oggi una seduta straordinaria del Gabinetto di guerra del Consiglio di difesa e sicurezza.

L'attacco ucraino, iniziato sabato notte, non accenna per ora a esaurirsi, anche se le milizie delle Repubbliche popolari stanno controbattendo su tutti i punti e, come ha dichiarato oggi il portavoce presidenziale russo Dmitrij Peskov, la DNR ha già recuperato “le posizioni tenute prima dell'aggressione” ucraina, in particolare nel settore di Avdeevka e Jasinovataja, le cittadine rispettivamente poco a nord e a nordest di Donetsk, su cui si sono concentrati i colpi di esercito regolare ucraino e neonazisti di Pravyj Sektor.

Non accennano a diminuire, però, nemmeno i colpi sulla stessa capitale della DNR, Donetsk: mentre una donna è rimasta uccisa per il bombardamento di un edificio di quattro piani nel quartiere Butovka, si è riusciti a evacuare gli operai della miniera di Zasjadko, rimasti intrappolati ieri nelle gallerie in seguito al bombardamento ucraino. In una dichiarazione straordinaria del vice comandante di corpo della DNR, Eduard Basurin, è detto che, rispondendo a un attacco ucraino sulla strada Donetsk-Gorlovka, le milizie hanno messo fuori combattimento 45 soldati ucraini, tra morti e feriti. Forti perdite lamenterebbe anche un reparto di Pravyj Sektor, finito su un terreno minato. Secondo Basurin, il totale delle perdite ucraine negli ultimi due giorni sarebbe di circa 80 morti e altrettanti feriti; le milizie lamentano 4 morti e sette feriti, oltre alle vittime civili.

Attacco ucraino respinto anche contro il villaggio di Kominternovo, sulla direttrice per Mariupol. Il deputato ucraino Evgenij Dejdej, parla dell'inizio dell'evacuazione dei civili dal settore ucraino di Avdeevka; in realtà, scrive la Tass su informazioni del canale “112.Ucraina”, pare che gli abitanti non siano intenzionati ad abbandonare la città, anche se al momento sono interrotte comunicazioni, erogazione di acqua, elettricità e riscaldamento. Le ambasciatrici di USA e Gran Bretagna a Kiev, Mari Jovanovič e Judith Gough si sono dette “preoccupate” per la situazione della popolazione di Avdeevka, messa a dura prova, ovviamente “dall'attacco dei ribelli filorussi”.

Intanto, un po' più a nord, è previsto per questa settimana, a conclusione delle manovre polacco-americane, il trasferimento di parte dei carrai armati USA “Abrams” dalla Polonia nei tre Paesi baltici, in base al piano di operazioni “Atlantic Resolve” e, secondo The Wall Street Journal, vi rimarranno fino alla prossima primavera, in base alla rotazione prevista dai programmi Nato di “rafforzamento del fianco est” dell'Alleanza. Secondo quanto deciso dal summit Nato del luglio scorso a Varsavia, la brigata corazzata USA in Polonia è composta da 3.500 uomini e alcune decine di mezzi, compresi 87 “Abrams” e 18 obici semoventi da 155mm “Paladin”; il tutto è dislocato in quattro basi nell'ovest della Polonia, mentre, a partire dal mese di aprile, farà la sua comparsa il battaglione multinazionale di circa 1.000 uomini e altri tre battaglioni di 1.500 uomini ciascuno andranno a prendere posizione in Estonia, Lituania e Lettonia: di quest'ultimo, farà parte anche un contingente italiano.

Questo, per quanto riguarda il quadrante settentrionale. Al sud, invece, la Nato sta rafforzando la presenza nel bacino del mar Nero. Secondo le dichiarazioni del segretario generale Jens Stoltenberg, il piano definitivo per il dislocamento di forze navali, aeree e di terra, verrà messo a punto alla riunione dei Ministri della difesa dei 28 paesi Nato, prevista per il 15-16 febbraio a Bruxelles. Ovviamente, secondo Stoltenberg, la Nato non desidera “il confronto o una nuova guerra fredda con la Russia. Abbiamo bisogno del dialogo politico per allentare la tensione, però da posizioni di forza” e, ancora più ovviamente, le azioni della Nato non sono che “la risposta ai passi decisi della Russia e alla sua intenzione di ricorrere alla forza militare”! Il dislocamento dei sistemi antimissilistici “Aegis” in Polonia e Romania, effettuato la scorsa primavera, rientra in questo piano di “dialogo”, pur se ora, cogliendo l'occasione dei test missilistici iraniani, si torna a spergiurare che gli “Aegis” non sono diretti contro la Russia.

Ma nei piani USA e Nato rientra anche la “proposta” ai paesi membri dell'Alleanza ad armarsi con il nuovo supercaccia americano di ultimissima generazione: bisogna pur sostenere l'industria yankee, soprattutto se è lo stesso governo di Washington a rivedere i propri bilanci. Questo perché il più costoso – e anche più discusso – apparecchio nella storia dei caccia, l'americano F-35, avrebbe assestato un duro colpo al Pentagono. Secondo l'osservatore di RT, Viktor Astafev, infatti, il nuovo Segretario di stato alla difesa, generale James Mattis, avrebbe disposto un'indagine sul programma relativo al caccia-bombardiere di “quinta generazione” della Lockheed Martin e la scorsa settimana avrebbe incaricato il proprio vice, Robert Work di “determinare la possibilità di una significativa riduzione dei costi nel programma F-35” e di “verificare un'alternativa concreta ed effettiva, sul piano dei costi, al caccia-bombardiere”. Secondo Forbes (citato da Astafev), tale programma averebbe già superato 1,5 trilioni di dollari, cioè 4.500 dollari a testa per ogni americano, pur non avendo ancora esaurito la fase dei collaudi; una somma che, scrive Times, equivale a 1.027 anni di concerti quotidiani di Beyoncé, al costo di 3-4 milioni $ a esibizione e che, rinunciando al progetto, assicurerebbe 20 anni di studi al college a ogni studente USA.

Donald Trump, già nel corso della campagna elettorale, aveva richiamato l'attenzione sull'elevato costo del programma per gli F-35: “Programma e costi sono fuori controllo. Miliardi di dollari potranno essere risparmiati su spese militari e altre dopo il 20 gennaio”, aveva tuittato Trump lo scorso 12 dicembre. Nel giro di un'ora, osserva The Independent, il valore della Lockeed era sceso di 2 miliardi, così che al direttore generale, Marillyn Hewson, non era rimasto che accettare la riduzione dei costi.

E, a dispetto delle spese astronomiche, il caccia F-35, già negli anni scorsi, durante le prime fasi di collaudo, era stato giudicato costosissimo e inaffidabile, di molto inferiore – per manovrabilità, armamento, accelerazione, ecc. – rispetto ad apparecchi americani precedenti e anche a vecchi caccia sovietici. Nel settembre scorso, poi, nella base di Mountain Home, nell'Idaho, un F-35 aveva preso fuoco al momento dell'accensione del motore e decine di esemplari erano stati lasciati a terra. Su 57 velivoli si era scoperto il cattivo isolamento del sistema di raffreddamento dei serbatoi di carburante!

Ma, evidentemente, lo scopo del suo utilizzo è un altro: ne sono prova i 90 esemplari che anche l'Italia “è chiamata” ad acquistare a un prezzo unitario, è bene ricordarlo, di quasi tre volte superiore al famoso “risparmio” di 50 milioni di euro sulle spese parlamentari, reclamizzato nella campagna referendaria renziana.

Di contro, pare non avere rivali, al momento delle prime prove di volo effettuate la settimana scorsa, il nuovo caccia multifunzione russo MiG-35 (classificazione Nato: Fulcrum-F”) dotato, a detta della Tass, di nuovissime apparecchiature radioelettroniche di bordo, armato di un vasto arsenale “aria-aria” e “aria-terra” e in grado di raggiungere i 2.100 km/h. Il programma prevede la conclusione dei collaudi entro quest'anno e le consegne dei primi 30 esemplari all'aviazione russa nel 2018. Il nuovo caccia della generazione cosiddetta “4++” si differenzia dai modelli precedenti – MiG-29K/KUB e MiG-29M/M2 – per una maggior copertura di radiolocalizzazione, un superiore numero di punti di aggancio, che permetterà l'inserimento anche di armi laser, aumentata riserva di carburante e l'integrazione delle apparecchiature radioelettroniche di bordo con sistemi di puntamento di quinta generazione. Secondo i tecnici della “MiG” (la sigla riconduce ai cognomi dei due costruttori degli anni '30: Mikojan & Gurevič), il costo di un'ora di volo del nuovo apparecchio è inferiore di 2,5 volte a quella del MiG-29; il raggio d'azione, con missili “aria-aria” teleguidati a medio raggio P-77 e corto raggio P-73 e tre serbatoi supplementari è di 1.000-1.400 km (a seconda dell'armamento e dell'altezza di volo) e di 800-1.100 km con l'arsenale d'attacco completo. E' dotato di antenne “Žuk-AME" che consentono di condurre combattimenti oltre il raggio visivo, mirando 30 bersagli contemporaneamente e colpendone 6 di essi in aria e 4 a terra. Oltre ai missili “aria-terra” X-31P, X-31PK e altri, l'aereo è armato di cannoncino da 30mm. A proposito della capacità del MiG-35 di disporre di armi laser, il Comandante dello StratCom statunitense, generale John Hyten, ritiene che la Russia stia mettendo a punto un tipo di laser antisatellite e che, in generale, le armi russe e cinesi rappresentino una concreta minaccia per i satelliti statunitensi.

Pare insomma che, se Washington risparmierà sugli F-35 e ne riverserà i costi sugli “alleati”, si impegnerà però su altri tipi di armamenti: ovviamente, per contrastare le “minacce russe e cinesi”.

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Strage di Viareggio. Condannati Moretti ed Elia

L'ex amministratore delegato delle Ferrovie dello Stato, Mauro Moretti, è stato giudicato colpevole nella sentenza di primo grado per la strage di Viareggio del 29 giugno 2009. Sette anni, come per Michele Mario Elia (sette anni e sei mesi), suo successore e al tempo della strage amministratore delegato di Rete Ferroviaria Italiana.

Attualmente Moretti – che al tempo definì la strage uno "spiacevole episodio" – ricopre lo stesso incarico in Leonardo (nuovo nome di Finmeccanica, holding controllata dallo Stato che si occupa tra l'altro di produzioni militari).
7 anni e 6 mesi anche per Vincenzo Soprano, ex ad di Trenitalia e di Fs Logistica. Tutti erano accusati di disastro ferroviario, incendio colposo, omicidio colposo plurimo, lesioni personali. Quel treno carico di gpl che esplose (soltanto un vagone) non era sicuro e non poteva viaggiare.

L’accusa aveva chiesto per Moretti 16 anni e per Elia 15. In pratica, sono stati condannati i vertici delle Ferrovie dello Stato (scorporate in quattro divisioni) e i manager delle Gatx, la società tedesca proprietaria del carro deragliato responsabile della manutenzione dei carri cisterna.

I familiari delle vittime hanno ascoltato le parole del giudice in assoluto silenzio, liberando la tensione con un brevissimo cenno di applauso alla conclusione della lettura. Per domani è stata convocata una conferenza stampa da parte dei familiari, riuniti nell'associazione "Il mondo che vorrei". L'annuncio è stato dato da Daniela Rombi e Marco Piagentini, coordinatori dell'associazione. Stasera si ritroveranno insieme ai loro legali alla "Casina dei ricordi".

Il rappresentante dell'accusa, il procuratore capo di Lucca, Piero Suchan, ha annunciato comunque appello contro la sentenza, che non ha accolto per intero le richieste. "Le procure non si accontentano mai, avevamo chiesto 33 affermazioni di responsabilità penale, il Tribunale di Lucca, al quale va il riconoscimento di aver espresso una sentenza forte, ha condannato 23 imputati e assolto i restanti. Siamo però contenti perché abbiamo avuto una pronuncia da parte di un giudice collegiale che afferma la responsabilità penale, quindi che non è stato un incidente o un episodio accidentale".

Sull'effettività della condanna pesa comunque il fattore tempo. Ci sono voluti otto anni per arrivare alla sentenza di primo grado. Dunque esiste – ed è forte – il rischio della prescrizione. E sarebbe una violenza inaccettabile, per la seconda volta, nei confronti di tutte le vittime e dei loro familiari.

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Surfin' USA


Il lavoro vero fatica a passare in tv

Stasera (ieri, ndr) siamo andati in onda su Presa Diretta, un interessante servizio sullo stato del lavoro in Italia. All'Ex OPG sono venuti perché cercavano storie di lavoratori a nero, e quale posto migliore di Napoli? Noi abbiamo detto ok, però non facciamo la cosa pietistica che i poveri lavoratori si lamentano e pregano che qualcuno gli dia una mano, noi vogliamo parlare soprattutto della lotta, della campagna contro il lavoro nero che stiamo facendo, delle vittorie che stiamo ottenendo. La giornalista dice ci sto, e aggiunge che per quanto la pagano e per come deve lavorare forse anche lei si rivolgerà al nostro sportello. Era seria, non era una battuta.

Ovviamente alla fine la puntata va in onda senza l'intervista al compagno che spiega quali risultati, inediti in città, abbiamo già ottenuto. Questioni di tempo, ci dicono. Vabbè però almeno un'inquadratura al nostro manualetto la potevano fare. O dire che erano venuti dentro a un centro sociale. cioè fare uscire che, mentre i sindacati se ne fottono dei giovani a nero, c'è qualcuno che sta provando a organizzarli.

Poi si capisce perché: Iacona fa il resto del servizio in Svezia, dove per i lavoratori sarebbe una pacchia perché imprese, governo e sindacati si mettono d'accordo e il "valore del lavoro" è riconosciuto. Passa il tempo a fare improbabili paragoni fra l'Italia (60 milioni di persone, eredità storiche pesanti) e la Svezia (8 milioni di abitanti e tanta bambagia), ignora che le multinazionali svedesi saccheggiano e depredano in tutto il mondo e poi si lavano un po' la coscienza in casa propria. Ignora cioè che il welfare svedese è fondato sull'imperialismo e che i corsi di formazione che il sign. Ericsson paga per dare una possibilità ai suoi lavoratori licenziati sono finanziati con il pluslavoro dei lavoratori Ericsson italiani.

Ma ok, è la televisione, uno si dice. E Iacona mica è Lenin, lo sapevamo. E tutto sommato la parte di denuncia del servizio è fatta molto bene. Però la scelta politica di tagliare su Napoli mi pare evidente. Iil messaggio che la trasmissione vuole mandare infatti è: facciamo come in Svezia, o meglio, come Iacona pensa funzioni in Svezia: gli imprenditori devono essere meno ladroni, i sindacati più responsabili, il governo più buono. Soluzione del tutto moralistica, irrealizzabile, tipica dei piccolo-borghesi.

Il messaggio che invece volevamo mandare noi è: autorganizzati, lotta, imponi da subito le tue istanze agli organi proposti al controllo, sfrutta tutti i margini di azione nel quadro delle leggi borghesi, unisciti con i tuoi simili. Soluzione certo non facile, faticosa, ma storicamente vincente.

Comunque, se uno ora va sulla pagina di Presa Diretta trova il servizio con su scritto "Napoli capitale del lavoro nero". Noi avremmo voluto scritto sopra: "Napoli capitale del riscatto", perché crediamo che sia questa, in realtà, la vera notizia.

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Le “riforme” renziane fanno esplodere la disoccupazione giovanile

Il venditore di pentole toscano è momentaneamente sparito dai radar, ma gli effetti delle sue “riforme” ci gravano addosso come macigni.

I dati sull'occupazione pubblicati stamattina dall'Istat demoliscono definitivamente la retorica renziana – proseguita molto più sommessamente dal governo-fotocopia – per cui l'eliminazione di una lunghissima serie di tutele per i lavoratori fosse “necessaria per dare più lavoro ai giovani”. Sono le stesse frasi che hanno usato nel tempo Dini, Ciampi, Prodi, Berlusconi, D'Alema, Monti e Letta (tutti i premier degli ultimi 25 anni, di fatto). E il risultato è qui, inoppugnabile, davanti agli occhi di tutti: la disoccupazione giovanile supera nuovamente il 40%, attestandosi al 40,1.

E questo nonostante l'Istat abbia adottato per la prima volta “un'analisi dell'effetto della componente demografica sulle variazioni tendenziali dell'occupazione per classe di età”. Da cui risulta che “sul calo degli occupati di 15-49 anni (-168 mila unità) influisce in modo decisivo la diminuzione della popolazione in questa classe di età”.

La statistica è una disciplina seria, ancorché ostica come tutte le discipline matematiche; e quindi occorre imparare a distinguere. Gli occupati tra i 16 e i 49 anni sono infatti – per motivi demografici, causa la diminuzione del numero di figli per famiglia – in calo diciamo, così, “naturale”. Ma se in questa amplissima fascia di età anche i disoccupati vanno aumentando, allora significa che di posti di lavoro ne vengono creati davvero pochi...

Il tasso di occupazione (la percentuale di lavoratori in servizio sul totale della popolazione in età da lavoro, 15-65 anni) è definita stabile al 57,3%. Il che significa che circa il 42,7% è senza un'occupazione retribuita di qualsiasi genere. Possiamo anche “scremare” questa percentuale abissale di disoccupati reali togliendo gli inabili al lavoro per qualsiasi ragione (invalidi, carcerati, ecc), ma resta comunque una cifra agghiacciante.

I criteri statistici europei impongono però una distinzione che vorrebbe essere “tranquillizzante” tra disoccupati ufficiali (le persone in cerca di lavoro, iscritte ai Centri per l'impiego) e gli inattivi, che neanche lo cercano ma – presumibilmente – non rientrano tra i felici pochi che vivono di rendita. In questo modo il tasso di disoccupazione si ferma al comunque terribile 12% (senza variazioni rispetto al mese scorso), mentre anche il tasso di inattività è stabile al 34,8%. Con lo stesso criterio, negli Stati Uniti, si “minimizza” una disoccupazione reale che sfiora ormai i 100 milioni di persone...

La cosa sorprendente, in tanta stabilità, è che invece si sono verificati spostamenti rilevanti tra le diverse componenti. Ad esempio, “Nel periodo ottobre-dicembre alla sostanziale stabilità degli occupati si accompagna la crescita dei disoccupati (+2,6%, pari a +78 mila) e il calo delle persone inattive (-0,6%, pari a -78 mila)”. Si deve sottolineare la perfetta identità della cifra assoluta (78.000) tra meno inattivi e più disoccupati; come se quelle persone si fossero decise finalmente a cercare un lavoro, ma con esiti totalmente negativi. Naturalmente nella realtà sociale non si tratta esattamente delle stesse persone, ma i numeri totali segnalano un fenomeno di questo tipo.

Ma è su base annua che i numeri della statistica mettono in imbarazzo la logica comune: “Su base annua, a dicembre si conferma la tendenza all'aumento del numero di occupati (+1,1% su dicembre 2015, pari a +242 mila). La crescita tendenziale è attribuibile ai lavoratori dipendenti (+266 mila, di cui +111 mila i permanenti, +155 mila quelli a termine) e coinvolge sia le donne sia gli uomini, concentrandosi tra gli ultracinquantenni (+410 mila). Nello stesso periodo aumentano i disoccupati (+4,9%, pari a +144 mila) e calano gli inattivi (-3,4%, pari a -478 mila).”

Come fanno ad aumentare simultaneamente – nel corso dell'anno – sia gli occupati che i disoccupati? Con il calo degli inattivi, appunto. Si può infatti notare che in cifra assoluta (478mila) questo calo è superiore alla somma di nuovi disoccupati e nuovi occupati (242.000+144.000=386.000). In altri termini, se la maggioranza degli inattivi decidesse di mettersi sul mercato del lavoro il numero e la percentuale dei disoccupati ufficiali esploderebbe, avvicinando la realtà statistica alla società reale.

Le ultime due tendenze rilevanti certificate dall'Istat riguardano il calo dell'occupazione femminile in qualsiasi fascia di età (ad eccezione delle 25-34enni) e l'aumento dell'occupazione tra gli ultra cinquantenni. Qui i criteri balzani della statistica europea c'entrano poco. Questo aumento, che data ormai da qualche anno, è l'effetto di due processi diversi ma convergenti: da un lato le “riforme delle pensioni” che hanno innalzato l'età pensionabile oltre i 66 anni (con la Fornero), dall'altro il carattere per molti versi “antico” della manifattura italiana, per cui i lavoratori esperti sono preferiti dalle imprese rispetto a quelli più giovani. Tranne che per le mansioni di pura fatica, ovviamente, a bassissima specializzazione e velocissima sostituzione.

Il rapporto completo dell'Istat: CS_Occupati_e_disoccupati_dicembre_2016

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Quale cultura umanistica?

Insieme agli altri decreti attuativi della cosiddetta Buona Scuola, è appena arrivato alla Camera anche quello «sulla promozione della cultura umanistica, sulla valorizzazione del patrimonio e delle produzioni culturali e sul sostegno della creatività».

Per la redazione di questo testo, la ministra senza laurea né maturità Valeria Fedeli si è avvalsa della collaborazione dell’ex ministro, ex rettore, professore emerito e plurilaureato ad honorem Luigi Berlinguer: e il risultato dimostra che il punto critico non è il possesso di un titolo di studio.

Sul piano pratico, la principale obiezione al decreto (che tra 60 giorni sarà legge) è che si tratta di un provvedimento a costo zero (art. 17, comma 1): e dunque anche a probabile efficacia zero. Ma, una volta che se ne considerino i contenuti, c’è da rallegrarsene.

L’articolo 1 chiarisce i principi e le finalità del provvedimento: «Il sapere artistico è garantito agli alunni e agli studenti come espressione della cultura umanistica ... Per assicurare l’acquisizione delle competenze relative alla conoscenza del patrimonio culturale e del valore del Made in Italy, le istituzioni scolastiche sostengono lo sviluppo della creatività».

Cultura umanistica, creatività e made in Italy (rigorosamente in inglese) sarebbero dunque sinonimi: per conoscere il patrimonio culturale, la Ferrari e il parmigiano (tutto sullo stesso piano) bisogna essere creativi. Si stenterebbe a credere alla consacrazione scolastica di questo ‘modello Briatore’ se la relazione illustrativa del decreto non fosse ancora più chiara: «Occorre rafforzare ... il fare arte, anche quale strumento di coesione e di aggregazione studentesca, che possa contribuire alla scoperta delle radici culturali italiane e del Made in Italy, e alla individuazione delle eccellenze già a partire dalla prima infanzia». Insomma: fin da bambini bisogna saper riconoscere (e, inevitabilmente, desiderare) una giacca di Armani o una Maserati. E visto che si raccomanda «la pratica della scrittura creativa», la via maestra sarebbe fare il copywriter per gli spot, o scrivere concept per reality show, per rimanere alla lingua elettiva del Miur.

Ora, anche ammesso che tra la nostra storia dell’arte e il ‘made in Italy’ esista un rapporto genetico, ciò non si traduce in un’equivalenza culturale, e tantomeno in un orizzonte formativo. E non è solo un problema di confusione concettuale: la domanda più urgente riguarda il tipo di società prefigurata da questa idea di scuola. Una società in cui non si riesca nemmeno più a distinguere la conoscenza critica dall’intrattenimento, l’essere cittadino dall’essere cliente, il valore delle persone e dei princìpi dal valore delle ‘eccellenze’ commerciali. Una società dello spettacolo a tempo pieno, un enorme reality popolato da ‘creativi’ prigionieri di un eterno presente, senza passato e senza futuro.

Già, perché la creatività ha preso il posto della storia dell’arte, che continua a non essere reintrodotta tra le materie curricolari da cui la Gelmini l’aveva espulsa in vari ordini di scuole.

Più in generale, l’identificazione tra cultura umanistica, creatività e mercato nega e soppianta la vera funzione della vera cultura umanistica: che è l’esercizio della critica, la ricerca della verità, la conoscenza della storia. «Il fine delle discipline umanistiche sembra essere qualcosa come la saggezza», scrisse Erwin Panofsky nel 1944. Negli stessi mesi Marc Bloch scriveva, nell’Apologia della storia: «nella nostra epoca, più che mai esposta alle tossine della menzogna e della falsa diceria, che vergogna che il metodo critico della storia non figuri sia pure nel più piccolo cantuccio dei programmi d’insegnamento!». Di fronte al nazismo e all’Olocausto la cultura umanistica sembrava ancora più necessaria: Bloch – fucilato dalla Gestapo perché membro della Resistenza – la definisce «una nuova via verso il vero e, perciò, verso il giusto».

È su questo fondamento che, nel dopoguerra, sono state ricostruite le democrazie europee. È per questo che la nostra Costituzione impone alla Repubblica di promuovere «lo sviluppo della cultura e la ricerca». La necessaria scommessa di un umanesimo di massa è infatti quella di riuscire a praticare tutti, anche se in dosi omeopatiche, le qualità della ricerca: precisione, desiderio di conoscere e diffondere la verità, onestà intellettuale, apertura mentale. Per secoli si è creduto, a ragione, che queste virtù non servissero solo a sapere più cose, ma anche a diventare più umani: e che dunque non servissero solo agli umanisti, ma a tutti. E oggi sono il presupposto necessario perché le democtrazie abbiano un futuro.

Essere umani – ha scritto David Foster Wallace nel 2005 – «richiede attenzione, consapevolezza, disciplina, impegno e la capacità di tenere davvero agli altri ... Questa è la vera libertà. Questo è imparare a pensare. L’alternativa è l’inconsapevolezza, la modalità predefinita, la corsa sfrenata al successo». Formare gli italiani del futuro al marketing del ‘made in Italy’; indurli a coltivare la scrittura creativa e non la lettura critica di un testo; levar loro di mano i mezzi culturali per distinguere la verità dallo storytelling, o per smontare le bufale che galleggiano in internet; annegare la conoscenza storica in un mare di dolciastra retorica della bellezza: tutto questo significa scommettere proprio sull’inconsapevolezza, sulla modalità predefinita, sulla corsa sfrenata al successo.

La cultura umanistica è un’altra cosa: è la capacità di elaborare una critica del presente, di avere una visione del futuro e di forgiarsi gli strumenti per costruirlo. Siamo sicuri di non averne più bisogno?

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Strage di Viareggio, oggi la sentenza. Intervista a V. Antonini


Riccardo Antonini è stato un ferroviere per tutta la vita, sempre impegnato sul fronte sicurezza, come sindacalista della Filt-Cgil. Per la sua competenza ha prestato gratuitamente la sua consulenza tecnica a favore delle famiglie delle vittime della strage di Viareggio (29 giugno 2009) nell'incidente probatorio iniziato nel marzo 2011. Rete Ferroviaria Italiana – Rfi, una delle quattro società in cui è stata scorporata Ferrovie dello Stato sotto la direzione di Mauro Moretti (ex segretario della Filt-Cgil!) – ha considerato quella consulenza gratuita un “conflitto di interesse”, equiparando di fatto il rapporto di lavoro a un legame tra complici in un reato. Quindi lo ha licenziato, a un anno dalla pensione, e il processo per il reintegro è ancora in corso.

Ci sembra dunque che sia una delle persone più titolate a parlare del processo per la strage, che oggi arriverà alla sentenza di primo grado. Intervista realizzata da Radio Città Aperta.

Buongiorno Riccardo

Buongiorno a voi.

Grazie per essere con noi, prima di tutto. Domani, dopo sette anni e sette mesi, arriva finalmente questa sentenza tanto attesa sulla strage del 2009. Che giornata può essere?

E’ una giornata clou rispetto a tutta la vicenda processuale, perché questa vicenda ha visto circa 140 udienze. Vi è stato l’incidente probatorio, poi l’udienza preliminare e dal 13 novembre 2013, quindi oltre tre anni fa, è iniziato il processo vero e proprio. Quindi diciamo che per i familiari, ma anche per i cittadini, i lavoratori, i ferrovieri che hanno seguito costantemente questa vicenda, è stato un impegno enorme, di grandi mobilitazioni, di iniziative quotidiane. In questi giorni stiamo facendo un lavoro ora per ora. Questa mattina (ieri, ndr) eravamo in stazione a volantinare ai pendolari; il giorno prima eravamo a Pisa, e quello precedente a Lucca. Stiamo facendo un lavoro enorme perché ci auguriamo che ci sia una buona partecipazione domani (oggi, ndr) al tribunale, e quindi diciamo che è la giornata un po’ decisiva per quanto riguarda il processo. Verrà celebrato il 1° grado, dopo sette anni e sette mesi, esattamente, e siamo fiduciosi che ci sia una sentenza che rispecchia la mobilitazione, la partecipazione, l’impegno, come forma di deterrenza nei confronti del responsabili di questa immane tragedia.

Responsabilità che devono assolutamente essere accertate, perché qui ci sono le famiglia di 33 vittime; 33 famiglie che aspettano di sapere perché i loro cari sono scomparsi nel 2009...

Sì. Noi abbiamo ovviamente impostato questi anni di attività innanzitutto perché questo disastro ferroviario, che si è trasformato in una strage, non sia dimenticato, come purtroppo avviene in tante stragi di questo paese. Perché non rimanga impunita. A pochi chilometri da qui abbiamo avuto anche la vicenda della nave Moby Prince, 25 anni fa: 140 vittime, 0 colpevoli. E poi ovviamente per creare le condizioni perché non si ripetano tragedie come queste. Quindi bisogna togliere gli ostacoli che hanno permesso tutto questo. Noi abbiamo sempre detto che si è trattato di una strage annunciata; un disastro ferroviario che ha provocato così tante vittime, feriti gravissimi – non dimentichiamolo mai, alcuni ne porteranno le conseguenze per tutta la vita – e famiglie distrutte. Quindi questo è un appuntamento importante. Abbiamo fatto appello alla mobilitazione, saremo come sempre numerosi lì fuori del processo; è la prima volta che vengono ammesse le telecamere in aula, e anche questo è un fatto molto singolare, e vengono ammesse solo al momento della lettura della sentenza. Diciamo che è il processo più importante che si celebra da anni in questo paese ed è un processo che è stato costantemente oscurato dai mass media perché sul banco degli imputati vi sono figure eccellenti di aziende di stato. Mi riferisco alla figura apicale, quella del cav. Moretti, che è stato amministratore delegato della holding dal 2006 al 2014, rinominato più volte nonostante fosse stato indagato e rinviato a giudizio nel processo di Viareggio; fin quando, ovviamente dal governo Renzi, è stato promosso a Finmeccanica dal 2014 e ha preteso che a sostituirlo fosse Elia, allora amministratore delegato di Rfi. Quell'Elia che era come lui imputato in questo processo. Sono tra l’altro i due imputati per i quali sono state fatte le richieste più alte. Per Moretti sono stati chiesti 16 anni e per Elia 15 anni.

E’ incredibile che un manager su cui pende un procedimento penale con una possibile condanna a 16 anni venga promosso, come hai detto giustamente tu, ad un incarico se possibile ancor più importante e, addirittura, gli venga data la possibilità di scegliere il proprio successore... Parliamo con te di questa vicenda perché tu l’hai seguita molto da vicino, ed anche perché è una vicenda che poi è finita per riguardarti anche personalmente...

Sì. Personalmente come vicenda privata però, nel senso del licenziamento che ho subito per l’impegno sulla strage ferroviaria di Viareggio. Ma in ferrovia ci sono stati altri casi di licenziamento di lavoratori, addirittura delegati Rls, impegnati sul fronte della sicurezza e della salute nel nostro ambiente di lavoro. Il problema è che il mio licenziamento – come hanno detto più volte i familiari, l’associazione Il Mondo che Vorrei, anche in un recente documento che è stato approvato da numerosi consigli comunali della zona – è legato strettamente e indissolubilmente alla tragica vicenda di Viareggio, perché senza quella notte, quel 29 giugno 2009, non ci sarebbe stato motivo per il mio licenziamento. Hanno tentato di impormi – ovviamente non vi sono riusciti, quando io ero impegnato in questa battaglia – di cessare immediatamente l’attività per essermi posto addirittura in un “evidente conflitto di interessi”. Io ho respinto al mittente questa provocazione, sono stato prima sospeso 10 giorni e infine licenziato. E la cosa altrettanto grave è che il giudizio di primo grado, nel tentativo di conciliazione che non vi fu, perché pretendevano che facessi abiura del mio impegno e della mia attività con i familiari, addirittura è stato detto che avevo “violato il dovere di fedeltà all’azienda”. Cioè: il dovere di esser fedele a personaggi che dirigevano la holding come amministratori delegati di Rfi o Trenitalia, imputati con gravi responsabilità – e questo mi sento di affermarlo, perché la magistratura ha chiesto numerosi anni di condanna – e capi di imputazione pesanti in una vicenda come la strage di Viareggio, che ha visto decine e decine di vittime e numerosi feriti. Il paradosso è questo: loro sono stati rinominati e promossi da imputati, ed io, per essermi messo al servizio dei familiari nella ricerca di verità e sicurezza, sono stato ricattato, minacciato e poi licenziato. Ovviamente non ho subìto queste minacce perché ho sempre detto quello che pensavo e ho sempre risposto fino in fondo alla mia dignità di persona nel sostenere i familiari in questa battaglia dolorosa, ma estremamente importante, perché riguarda la sicurezza, la verità e la giustizia.

Volevo ricordare agli ascoltatori che hai messo a disposizione le tue conoscenze per una consulenza tecnica per l’incidente probatorio per la famiglia di una delle vittime e questo è stato l’elemento che ha scatenato, secondo Rfi, un conflitto di interessi che poi ha portato, appunto, al tuo licenziamento. Interessante il paradosso che evidenziavi: tu vieni licenziato per aver contribuito alla ricerca della verità e invece chi è alla guida dell’azienda ed ha un processo in corso, anche molto importante, viene promosso. Ed è veramente incredibile...

La realtà è questa, quindi dobbiamo prenderne atto e ovviamente – come noi sosteniamo – l’errore umano sarebbe non ribellarsi a questo stato di cose. Di fronte a una politica di abbandono sulla sicurezza, quello è il vero errore disumano nei confronti dei lavoratori e purtroppo, dopo Viareggio, anche nei confronti dei cittadini che a causa di un incidente ferroviario hanno perso la vita mentre stavano riposando nelle proprie abitazioni in una calda serata d’estate. Questo è quanto è avvenuto a Viareggio. Per quanto riguarda l’incidente probatorio, ovviamente, è un pretesto che hanno utilizzato. Io mi sono messo a disposizione gratuitamente, tra l‘altro, dei familiari e del sindacato per concorrere alla ricerca di verità rispetto alle responsabilità per quanto è accaduto il 29 giugno, nei confronti dei 33 imputati e delle nove società coinvolte che questi stessi dirigevano come proprietari, amministratori delegati o dirigenti.

Chiaro, chiarissimo. Bene Riccardo, ti ringraziamo per il tuo contributo e magari torneremo a sentirci nei prossimi giorni per commentare la sentenza, se avrai voglia.

Va bene. Io ringrazio voi, buon lavoro e un saluto a tutti.

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La sentenza della Corte Costituzionale ed i suoi effetti: un commento a mente fredda

Non abbiamo, ovviamente, ancora il testo delle motivazioni della sentenza che permetterebbero una valutazione più penetrante e completa, ma già ora possiamo tentare una riflessione più a freddo degli scorsi giorni.


Scrivendo subito dopo la notizia della sentenza, e sulla base di frettolosi commenti di agenzia, sono caduto in errore: non è affatto vero che la Corte abbia bocciato i capilista bloccati ma, molto più semplicemente, ha limitato la loro libertà di optare per un collegio, in caso di candidature plurime, ed ha introdotto il sorteggio. Cose che accadono quando si è costretti a scrivere a tamburo battente. D’altro canto, avvertivo sin dal titolo che era solo un primissimo commento, necessariamente incompleto e provvisorio. Adesso veniamo al merito.

Partiamo dai due difetti di origine di questa sentenza: il non avere considerato la legge nel suo complesso e il restare in una confortevole vaghezza sul tema del principio di rappresentanza.
Mi spiego meglio: la Corte, normalmente, risponde a quesiti più o meno particolari e, pertanto, spesso non prende in considerazione le leggi nella loro interezza a meno che questo non sia nel quesito passato al vaglio della giurisdizione ordinaria. E questa volta c’erano cinque diverse ordinanze di remissione di altrettanti tribunali che puntavano l’attenzione su singoli aspetti della legge.

A proposito: il lavoro non è finito, perché ci sono altri 14 tribunali che devono decidere su altrettanti ricorsi e su punti diversi da quelli decisi, per cui è largamente probabile che almeno una parte di essi trasmetta  il rispettivo ricordo alla Corte e che, dunque, debba esserci una ulteriore sentenza.

Tornando a quel che dicevamo, ne è scaturita una sentenza che opera una serie di isolati  interventi tecnici, ma non tiene conto del risultato di insieme, un po’ come se una equipe di chirurghi intervenisse su singoli organi, ma trascurando i valori clinici complessivi: l’operazione è riuscita, ma l’ammalato è morto. Una legge elettorale è per sua natura una legge organica, nella quale è essenziale il combinato disposto fra le sue varie parti e va considerata anche dal punto di vista dei suoi effetti sul sistema costituzionale nel suo complesso.

Ad esempio: può benissimo darsi che tanto un premio di maggioranza quanto le soglie di sbarramento per l’accesso alla rappresentanza siano costituzionalmente corrette, ma l’adozione contemporanea delle due cose può determinare un effetto cumulativo che porta il livello di disrappresentatività a livelli decisamente inaccettabili.

E qui veniamo al secondo punto di cui dicevamo: l’ambiguità della Corte sul punto della rappresentatività. Come si ricorderà, nella sentenza n 1/2014, la Corte aveva sancito l’eccesso di disrappresentatività del “Porcellum” che, non avendo una soglia minima, garantiva il 54% dei seggi alla coalizione che avesse avuto un voto in più di tutte le altre, con il risultato che la coalizione Pd – Sel, con il 29% dei voti prese il 54% dei seggi, raddoppiando la sua rappresentanza. Che un simile risultato fosse abnorme era solare, ma la Corte era rimasta vaga sulla soglia massima di disrappresentatività ammissibile. Ora non precisa ancora quale essa debba essere, ma, implicitamente, lascia intendere che un premio del 14% (poco meno di 90 seggi) sia accettabile e boccia il ballottaggio proprio perché non fissa una soglia minima per l’accesso ad esso (ad esempio il 30%).

E così crea due problemi: in primo luogo lascia aperta la possibilità di abbassare la soglia che fa scattare il premio al primo turno, per cui la si può portare al 35% (e Casini già lo propone) o anche meno, purché non inferiore al 30%, per rispettare l’indicazione della sentenza precedente. In secondo luogo, lascia impregiudicato l’effetto cumulativo del premio più le soglie di esclusione che, peraltro possono essere anche aumentate (e al Senato sono già dell’8% per i singoli partiti e del 20% per le coalizioni). Ad esempio, con soglie di esclusione come quelle del Senato, se un partito ha il 40% e prende il premio del 54%, ed insieme ci sono otto partiti che, avendo in media il 5% dei voti restano sotto la soglia di esclusione, abbiamo che il 40% dell’elettorato non ha rappresentanza e il rimanente 60% distribuisce i seggi dandone 340 ad un partito che ha il 40% dei voti e 260 agli altri partiti che rappresentano il restante 20% dell’elettorato: vi sembra un esito decente dal punto di vista della rappresentatività?

Queste due pecche di origine producono un incomprensibile sistema elettorale che non ha riscontri nel mondo: proporzionale o maggioritario a corrente alternata, a seconda se uno dei contendenti superi o meno il 40% dei voti. Il “Proporzionario”.

Per di più con un sistema che prevede coalizioni al Senato e liste singole di partito alla Camera, per cui alcuni partiti potrebbero essere alleati al Senato e concorrenti alla Camera, alcuni con lo stesso simbolo nei due rami del Parlamento, altri con simboli diversi, con la possibilità che un partito vinca alla Camera ed i suoi avversari vincano al Senato.

La scienza giuridica e quella politologica non hanno un termine che possa definire un sistema del genere; sopperisce il linguaggio comune che suggerisce il termine “papocchio” e papocchio senza precedenti.

Vediamo gli effetti di una simile normativa alla Camera: i partiti maggiori, che possono realisticamente aspirare a raggiungere il 40%, ovviamente, punteranno a quel risultato, anche se in questa occasione non pare ce ne siano le condizioni, ma potrebbero formarsi in seguito. I partiti intermedi (stile Lega e Fi) sicuri si essere oltre la soglia, ma non in grado di competere per il premio, punteranno a presentarsi da soli o ad assorbire qualche alleato minore, cercando di erodere ai fianchi i maggiori, per evitare che uno arrivi al 40%.

Ai partiti più piccoli, col rischio di restare sotto soglia, restano due vie: o coalizzarsi fra loro per una lista comune (che potrebbe essere ripetuta al Senato) o confluire in una di quelle maggiori (ad esempio FdI nelle liste della Lega, o Pisapia in quelle del Pd). In questo modo, avremmo tre tipi di strategia asimmetrici, destinati a condizionare le trattative post elettorali per la formazione di maggioranze, anche perché al Senato, è plausibilissimo che nessuno abbia la maggioranza dei seggi.

Quindi abbiamo tutti i difetti del maggioritario con tutti i difetti del governo di coalizione proporzionalista, senza i vantaggi di nessuno dei due. Quale sistema politico può funzionare in questo modo?

Veniamo poi ad un altro punto dolente: i capilista bloccati che restano. La sentenza 1/2014 era stata piuttosto ambigua sul tema, lamentando l’assoluta assenza di voti di preferenza, per cui consigliava, molto maldestramente, di risolvere il problema o con i collegi uninominali o con liste più piccole in cui fosse possibile per gli elettori conoscere i singoli candidati. Anche qui, i supremi giudici hanno mostrato di non avere visione di insieme: rimpicciolire i collegi – come Renzi ha fatto – non serve affatto a garantire un migliore rapporto fra eletti ed elettori, nella presunzione che più corta è la lista e più l’elettore conosce i candidati.

D’altra parte, a che serve conoscere i candidati se poi non  hai possibilità di scegliere ed alterare l’ordine di arrivo? Peraltro, nessun partito prende tutti i seggi in palio in un collegio: realisticamente, si aggiudicherà al massimo un  terzo di essi, nel caso di partiti di ampie dimensioni, ed eccezionalmente qualcosa in più. Per cui sapere che all’ultimo o penultimo posto ci sia Caio piuttosto che Mevio non serve assolutamente a nulla in caso di liste bloccate. Ed ecco che una Corte poco accorta non ha notato che, con cento collegi, bloccare i capilista produce, allo stesso modo di prima, un Parlamento in grande prevalenza di nominati. Infatti, i partiti di dimensioni ridotte, che prendono solo un seggio in ciascun collegio avranno solo nominati, quelli intermedi (dal 15 al 20%) avranno in gran parte nominati e in qualche raro caso di un secondo eletto in qualche collegio (è il caso della Lega), avrà qualche eletto con le preferenze e solo nei partiti con più del 30% dei voti ci sarà una quota di circa la metà degli eletti con preferenze. Morale: il totale è di un 60-70% di nominati. Almeno, con l’Italicum, era garantita una quota di 240 (38%) di eletti con preferenze che, in questo caso, raggiungeranno a stento i 200.

L’avvocatura dello Stato ha difeso la norma sui nominati sostenendo che non c’è una norma costituzionale che lo impedisca e la Corte gli è andata dietro, anche qui dimostrando di non avere applicato un’interpretazione sistematica della Costituzione: in fondo non esiste neppure una norma che dica che il principio di rappresentanza prevalga su quello di governabilità, ma la sentenza precedente lo aveva ricavato, appunto, da una interpretazione sistematica del testo. E la norma da cui ricavare il diritto dell’elettore a scegliersi non solo il partito, ma anche il singolo eletto, a ben vedere, c’è ed è l’art. 67che sancisce che “ogni singolo membro del Parlamento rappresenta la Nazione ed esercita le sue funzioni senza vincolo di mandato” il che implica che il mandato elettorale non sia conferito al solo partito (nel qual caso non avrebbe senso parlare di “ogni singolo membro”) ma anche al singolo eletto, che fonda la sua indipendenza – anche dal partito di appartenenza – proprio sul mandato ricevuto personalmente.

Insomma, soppresso il doppio turno, confermato il premio di maggioranza, anche se con la soglia del 40%, confermato in gran parte il principio dei parlamentari nominati quello che viene fuori è un Porcellum un po’ rivisto.

Questa sentenza, salvo che per aver stabilito la possibilità di impugnare una legge elettorale davanti alla Corte anche prima della sua applicazione, è un passo indietro rispetto alla 1/2014. E, da un punto di vista politico è una sentenza di gusto spiccatamente renziano. Infatti, Renzi auspicava due cose: il mantenimento del premio di maggioranza e la conferma dei capilista bloccati (con cui epurerà le liste del Pd da tutti i dissidenti), vero è che è caduto il ballottaggio, ma quello non stava più bene neanche a Renzi perché, contro le previsioni quando fu fatta la legge, giocava a favore del M5s e quindi andava abrogato.

La Corte ha risparmiato al Pd l’imbarazzo di doverlo far lui. Dunque una sentenza che andasse più incontro ai desiderata del fiorentino non si poteva fare.

Un risultato decisamente deludente dopo la spallata del 4 dicembre che autorizzava ben altri risultati. Ma questo non è certo colpa del collegio degli avvocati che ha fatto miracoli, spendendosi con grande generosità. Il punto è che, dopo il 4 dicembre, complice l’arrivo del Natale, non c’è stata nessuna mobilitazione a sostegno dell’azione di incostituzionalità e questo sia perché le forze politiche del no si sono disperse su cento altre minuzie (il M5s si è concentrato nella difesa dell’indifendibile Raggi o nelle capriole strasburghesi; sinistra italiana e la sinistra Pd si sono ripiegate a guardare il proprio ombelico, quanto a Lega e Fi non è materia per loro). Ma di questo riparleremo.

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Ho la vaga impressione che di questi tempi la visione d'insieme, un po' per limiti cultursli, un po' per interessi particolari divenga la prima vittima di ogni questione.
Effetti di quella competizione globale che si dipana anche sul "fronte interno".

30/01/2017

Siria - Wadi Barada e la guerra a bassa intensità

Le operazioni militari in Siria non si fermano nonostante la tregua siglata il 30 dicembre scorso. Dal cessate il fuoco mediato da Russia, Turchia e Iran sono rimasti fuori i gruppi considerati ufficialmente terroristi da entrambi i fronti, Isis ed ex al-Nusra.
 
Proprio i qaedisti sono stati oggetto dell’ultima controffensiva dell’esercito governativo siriano a Wadi Barada, valle vicino Damasco che le scorse settimane è diventata tanto centrale da rischiare di far collassare la fragile tregua e il negoziato organizzato in Kazakistan da Mosca, Ankara e Teheran. Perché a Wadi Barada non ci sono solo gli uomini di Jabhat Fatah al-Sham (ex al-Nusra) ma anche formazioni armate che prendono parte al dialogo.

Ieri le truppe di Damasco hanno ripreso la valle, strategica per la vicinanza alla capitale ma soprattutto perché sede della sorgente d’acqua e del fiume che riforniscono i damasceni della gran parte delle risorse idriche che consumano. Dopo l’accordo di cessate il fuoco stipulato poco prima dell’apertura del tavolo negoziale di Astana (lo scorso 23 gennaio) che ha permesso di riparare le condutture e le pompe e far tornare così a Damasco l’acqua che mancava da prima di Natale, si è ripreso a combattere.

“Le nostre forze armate hanno portato a termine la missione di restaurare sicurezza e stabilità nella regione di Wadi Barada”, si legge nel comunicato dell’esercito siriano, emesso dopo l’ingresso – dopo 4 anni di guerra civile – nella stazione idrica della valle e la ripresa di tutti i villaggi dell’area.

È stato quindi siglato un altro accordo con i gruppi armati presenti: chi vuole può restare nell’area abbandonando le armi. Oppure sarà trasferito a Idlib, provincia nord-occidentale in mano alla milizia qaedista dove da tempo vengono convogliati tutti i miliziani evacuati dalle zone riprese dal governo. Qui sono arrivati in massa i gruppi sconfitti ad Aleppo, andando a creare un vero e proprio “bubbone” jihadista. Da Wadi Barada dovrebbero partire a breve 400 miliziani insieme a circa mille familiari.

È probabilmente questo il modello di conflitto a cui la Siria assisterà nell’immediato futuro: una guerra a bassa intensità in zone chiave, intorno Damasco e ai confini nord e sud, in parallelo con un negoziato ancora indefinito dove le posizioni delle parti appaiono tuttora inconciliabili. Da una parte sta il fronte pro-Damasco, stretto intorno al presidente Assad, rafforzato dalla vittoria di Aleppo ma ancora incapace di controllare una buona parte del paese. Dall’altra stanno le opposizioni e i loro sponsor sconfitti – Turchia e Arabia Saudita in primis – mai così deboli ma in grado di posporre l’inizio di un’eventuale soluzione politica.

Tanto deboli da finire invischiate in una seria faida interna, esplosa nei giorni scorsi: Jabhat Fatah al-Sham ha attaccato e distrutto intere unità dell’Esercito Libero Siriano, con cui esisteva un’alleanza militare ad Aleppo e un patto di non belligeranza, e ora punta agli islamisti “ribelli”, distaccatisi dall’orbita qaedista accettando di sedersi al tavolo kazako. Ma nel mirino c’è anche Ahrar al-Sham, che ad Astana non è andata.

A riprova della fragilità del negoziato c’è l’annuncio del rinvio della conferenza di Ginevra prevista per l’8 febbraio sotto l’egida dell’Onu. Tutto rimandato alla fine di febbraio, ha detto pochi giorni fa il ministro degli Esteri russo Lavrov. Resta da vedere quale impatto avrà la nuova presidenza degli Stati Uniti, marginalizzati dall’intervento a gamba tesa del trio Russia-Turchia-Iran. Trump non ha mai nascosto l’apprezzamento per il presidente russo Putin con cui ha parlato al telefono – per la prima volta dalla Casa Bianca – sabato scorso.

Interrogato sulla questione siriana, Trump ha paventato l’idea di creare “zone sicure” nel paese, in cui infilare gli sfollati. Un progetto molto simile a quello desiderato dalla Turchia che sta tentando unilateralmente di realizzarlo a suon di carri armati nel nord della Siria e che ora riceve il plauso del Golfo. Perché per Arabia Saudita, Qatar e Emirati Arabi potrebbe essere l’occasione di istituzionalizzare l’egemonia sunnita in determinate aree in chiave anti-Assad, in vista di un’eventuale frammentazione settaria del paese, e permettere ai gruppi islamisti di riorganizzarsi e reclutare forze fresche in mezzo ad una popolazione allo stremo.

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Continuano i bombardamenti ucraini sulle repubbliche popolari

Per il terzo giorno consecutivo continua l'offensiva terroristica di truppe regolari e battaglioni neonazisti ucraini contro il Donbass. Cannoneggiamenti e tiri di mortaio colpiscono soprattutto centri della Repubblica popolare di Donentsk, ma non risparmiano nemmeno le zone industriali della LNR. Ieri anche una troupe del canale russo NTV era finita sotto il fuoco dei mortai ucraini, mentre sabato scorso, a Krasnogorovka, una trentina di km a ovest di Donetsk, un civile era stato ucciso da un militare di Kiev in stato di ebbrezza, con cui era venuto a diverbio.

L'offensiva ucraina, iniziata nella notte tra sabato e domenica, sembra per ora arrestata dalle milizie popolari, ma a prezzo di forti perdite per entrambe le parti. I neonazisti di Pravyj Sektor ieri avevano aperto il fuoco anche contro soldati regolari ucraini che, fallita l'offensiva, tentavano di ripiegare: almeno 5 soldati di Kiev sarebbero rimasti uccisi.

Sempre ieri, il canale ucraino TSN aveva mostrato alcune immagini dalla linea del fronte, fornendo ovviamente la versione del Ministro della difesa Stepan Poltorak, secondo cui l'attacco nel settore della zona industriale di Avdeevka sarebbe partito dalle milizie della Repubblica popolare di Donetsk, causando la morte di tre militari ucraini. A proposito della medesima battaglia, Interfax riportava che, secondo la DNR, l'attacco ucraino sarebbe costato la vita a un comandante di battaglione delle milizie e a 15 soldati ucraini, oltre a una ventina di feriti; a oggi, il totale delle perdite ucraine sarebbe di 25 morti e più di 40 feriti, mentre le milizie lamentano tre morti e 4 feriti.

Secondo rusvesna.su, oggi, intorno alle 13 (ora italiana), le artiglierie ucraine da 152 mm e i mortai da 120 mm hanno colpito anche il settore russo del Centro Unificato (Kiev e milizie insieme) di Coordinamento e Controllo a Jasinovataja. Nelle ultime 24 ore, le artiglierie ucraine avrebbero violato il “regime del silenzio” per ben 2.000 volte, causando stamani la morte di due addetti alla stazione di riscaldamento dell'ospedale di Makeevka. Il bombardamento sarebbe avvenuto intorno alle 9.30 e, nell'area adiacente, in cui è situata una scuola elementare, bambini e insegnanti hanno fatto appena in tempo a scendere nel rifugio.

Il martellamento ucraino, tuttora in corso, sarebbe stato particolarmente intenso su vari quartieri di Donetsk, Makeevka, Jasinovataja e Gorlovka. Secondo il vice comandante di corpo della DNR, Eduard Basurin, i comandi ucraini parlano senza ritegno di attacco da parte ucraina, ammettendo così apertamente la violazione degli accordi di Minsk e, continua Basurin, sarebbero costretti all'attacco per tener dietro alle offensive provocatorie di Pravyj Sektor, che fanno registrare anche scaramucce a colpi di mortaio tra neonazisti e truppe regolari di Kiev. Per lo scoppio delle munizioni, ieri sarebbero morti i serventi ucraini di due obici da 152 mm “Ghiatsint-B”. La ricognizione della DNR continua a registrare il concentramento di grossi calibri lungo la linea del fronte, cosa di cui sono a conoscenza anche gli osservatori dell'Osce.

Reparti di Pravyj Sektor hanno preso di mira anche alcuni punti della linea ferroviaria che unisce DNR e LNR, nel tratto Lugansk-Lisičansk-Popasnaja: la notizia è stata diffusa, vantandone la paternità a “ucraini coscienti”, da uno dei comandanti del battaglione neonazista “Dnepr”, Vladimir Parasjuk.

Ieri era stata colpita duramente la stazione degli autobus del rione Kujbišsvskij di Donetsk.

Nella LNR, colpite con mortai da 82 e 120 mm la cittadina mineraria di Irmino e il villaggio di Kalinovo. Anche su questo tratto di fronte, si registrerebbero scontri tra reparti neonazisti e truppe regolari ucraine. Secondo i comandi della Repubblica popolare di Lugansk, la lunga permanenza al fronte e il basso morale delle truppe porterebbe al forte abuso di alcol tra le forze di Kiev, con conseguenti scontri a fuoco all'interno dei reparti e anche numerosi episodi di autolesionismo e suicidio.

Commentando il bombardamento, ieri, da parte di Pravyj Sektor, della stazione di filtraggio dell'acquedotto di Donetsk, (che aveva provocato l'interruzione dell'erogazione dell'acqua per alcune ore e, solo per un caso, non aveva colpito il deposito del cloro) le fonti della DNR denunciano la volontà terroristica dei neonazisti ucraini, che si accaniscono soprattutto su obiettivi civili e rischiano di provocare anche disastri ambientali.

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Sul fenomeno Bello Figo, ovvero: ma quanti sono gli analfabeti massmediali in Italia?

Su Bello Figo potremmo avanzare le peggiori interpretazioni sociologiche, filologiche o culturali. A prescindere dalla qualità della sua musica, i suoi versi smascherano (o vorrebbero smascherare) l’universo dei pregiudizi comuni sulla vita dei migranti in Italia: vengono spesati dallo Stato; non pagano l’affitto; vogliono il Wi-Fi gratis; eccetera. E’ uno svelamento spiazzante, per varie ragioni: perché avviene da un migrante, per giunta nero; perché procede per antifrasi, costringendo chi ascolta a chiedersi costantemente se ciò che sente ha un significato diretto o ironico; perché ribalta e demolisce il buonismo in cui sono confinati i migranti quando parlano della propria esperienza. Bello Figo ci dice invece che l’arma del cinismo e del sarcasmo caustico può essere impugnata anche dall’africano, dal migrante arrivato col barcone, dal nero. Che piangersi addosso non è l’unico linguaggio possibile per quelle popolazioni, anche loro alla ricerca di una lingua nuova per farsi riconoscere. Tutto ciò, converrete, è terrificante: tanto per il razzismo dominante quanto per la carità cristiana, le due forme ideologiche dell’accoglienza migrante.

Ciò che però è evidente di tutta l’operazione di Bello Figo è la sua manifesta volontà di provocare denunciando una mentalità razzista trasversale e bigotta. Perché, allora, questa manifesta, lampante, diretta volontà di provocare non è stata immediatamente colta, e anzi ancora oggi le destre di tutto il paese (e quindi anche molta “sinistra”) si affannano ad insultarlo come se i suoi versi volessero davvero affermare ciò che dicono direttamente? Possibile che nel vasto corpo della cultura massmediatica italiana, dopo decenni di studi – senza stare qui a scomodare Eco e certa semiologia – ancora si possa cadere nel tranello di scambiare un messaggio ironico per reale presa di posizione? Sembra incredibile, ma è proprio così: gli analfabeti massmediali, in uno dei paesi  (una volta) all’avanguardia nella decostruzione semiologica e politica della comunicazione di massa, sono ancora la maggioranza della popolazione. Di più: sono ancora la maggioranza nel mondo della cultura. Ancora peggio: sono la maggioranza nel mondo della stessa informazione di massa, nel giornalismo, nella televisione. In Rai, su Repubblica o sul Corriere della Sera capita ancora di trovare qualcuno che non capisce un linguaggio retorico antifrastico. Nel 2017. Perché? Per due ragioni, almeno ci sembra. La prima: il razzismo. Sembra scontato ma è così. Perché se Antonio Albanese interpreta Cetto Laqualunque, riconvertendo un tipico e realistico linguaggio politico, cogliamo immediatamente l’ironia sottointesa, mentre se lo fa Bello Figo ci chiediamo cosa voglia davvero dire? Perché non siamo abituati, perché quel livello di denuncia lo possiamo consentire solo da qualche “connazionale”, ma non da un immigrato che prende per il culo degli “italiani”. Destabilizza un frame in cui proviamo a incasellare quello che ci aspettiamo dalle persone-ruoli: il nero può al massimo piangere sulla sua condizione, non prendere – e prendersi, attenzione – per il culo. La seconda: il razzismo, nuovamente. Al migrante è concesso, e unicamente per volontà istituzionale, il raggiungimento dei bisogni primari (casa e cibo, quando va di lusso); ma l’universo dei bisogni secondari? E l’universo dei bisogni superflui? Anche qui, ad uscirne demolito è certo razzismo buonista per cui il migrante ci sta simpatico se ha perso moglie e figli, viene da qualche territorio martoriato dalla guerra e chiede solo un luogo dove vivere. Se invece le sue richieste si avvicinano pericolosamente a quelle che potrebbe avere un “italiano”, ecco scattare il riflesso pavloviano: ma come si permette! Gli diamo cibo e un tetto e quello vuole pure magari una donna (o un uomo); vuole la connessione internet, il negro; non gli basta avercelo lungo e la musica nel sangue? Vorrebbe uscire la sera, magari ubriacarsi, la scimmia? A lavorare. Il problema è che quei migranti non chiedono altro: un lavoro. Ma in sua assenza, non si accontentano di una vita di privazioni. D’altronde, ancora non si è visto un “italiano” disoccupato che si priva della sua uscita con gli amici, bevendo, magari drogandosi, solo perché senza lavoro. Ci si arrangia. Ma se ad arrangiarsi è il negro, crolla tutto lo schema culturale che abbiamo stabilito nella testa. E allora ce la prendiamo con le canzoni volgari(!), con gli atteggiamenti sessuali(!!), con la strizzatina d’occhio alla criminalità(!!!). Queste sono cose da Fedez, non da migrante. Non capovolgiamo i ruoli sociali, per favore.

Ma questo analfabetismo massmediale assume dimensioni astronomiche nel caso delle destre scese in campo contro i concerti di Bello Figo. Che fino a ieri era un anonimo youtubers cliccato migliaia di volte nel sottobosco virtuale della rete dove nascono, prosperano e muoiono nel giro di pochi mesi i più improbabili personaggi in cerca di visibilità. E invece, nella più classica eterogenesi dei fini, la mobilitazione delle destre ha reso Bello Figo non solo un simbolo dell’antirazzismo e addirittura dell’antifascismo (questione, la seconda, a lui probabilmente ignota), ma un fenomeno mediatico di massa, invitato in televisione, nei concerti, intervistato e ascoltato. Hanno fatto di Bello Figo un simbolo, e coi simboli bisogna andarci cauti. Ogni concerto impedito moltiplica la popolarità del cantante ghanese, rendendo macchiettistico e anacronistico ogni tentativo reazionario di silenziarlo. Nell’epoca della viralità massmediale l’unico strumento possibile per censurare un dato contenuto è spezzarne la viralità, appunto. Non moltiplicarla, riempiendola addirittura di significati mitopoietici. Ma tutto questo, il razzismo sottoculturale del paese ancora non riesce a capirlo. Stupefacente. E’ un analfabetismo funzionale che innalza un muro di incomprensibilità tra una generazione ormai avvezza a certe forme comunicative (che investono sia il contenuto che il mezzo attraverso cui viene veicolato un messaggio) e un elefantiaco apparato politico e mediatico ancorato a forme ormai preistoriche della comunicazione di massa. Soprassediamo sulla natura artistica di Bello Figo. Ma in quanto alla politicità, il rapper ha vinto la partita, trasformandosi in un simbolo.

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L’Amerika che non dimentica lo schiaffo iraniano

“Lo spirito razzista presente negli Stati Uniti è stato celato dietro pronunciamenti democratici e pretese di diritti umani”. “Menzionare l’Iran fra le nazioni che introducono azioni terroriste ha il sapore di uno scherzo” ha affermato il portavoce del parlamento iraniano Ali Larijani. Una reazione tutto sommato diplomatica alla sortita del presidente Donald Trump che, incurante dell’intera popolazione americana, del Congresso, delle tendenze presenti nel suo stesso partito, ha firmato quel decreto che vieta per tre mesi l’ingresso nel Paese ai musulmani di sette nazioni: Iran, Iraq, Siria, Libia, Yemen, Sudan, Somalia. Mentre monta la protesta degli americani anti Trump dall’Iran, con cui la politica statunitense aveva negli ultimi mesi trovato una distensione grazie all’azzeramento delle sanzioni economiche, giungono commenti vari. Sibillino quello del ministro degli Esteri Javad Zarif “Un magnifico regalo agli estremisti” che possono essere individuati nei jihadisti sparsi per il mondo, e pure nella componente conservatrice interna. Quella teologica di certi ayatollah e quella laica del partito dei Pasdaran che riprenderebbero il braccio di ferro con l’Occidente ora che s’approssimano la campagna elettorale e la battaglia contro i riformisti (le presidenziali sono previste per il 18 maggio). La rimozione delle sanzioni sta avendo un effetto rigenerante per l’economia iraniana, con 10 miliardi di dollari di progetti legati all’energia che sono stati stipulati con varie compagnìe estere.

Se quelle di sponda russa e cinese non saranno coinvolte in nuovi scossoni geopolitici, i marchi giapponesi, sud coreani, turchi e poi tedeschi, inglesi, belgi, danesi, olandesi, spagnoli potrebbero vedersi piovere addosso la mannaia di ennesimi embarghi cui allinearsi in virtù della vicinanza strategico-militare con Washington che riporterebbe ai recenti anni dello scontro sul nucleare o quelli remoti della crisi con la fatwa khomeinista. Sul tema interviene proprio il ministro iraniano dell’Energia Hamid Chitchian, che ha sollevato la questione alla vigilia dei dieci giorni di festeggiamenti per l’anniversario della Rivoluzione iraniana in programma dal 1° al 10 febbraio. Ha ricordato come per alcuni progetti energetici nel marzo prossimo è attesa la definizione di contratti per 2 miliardi di euro con alcune compagnìe europee, mentre nei dieci giorni della memoria khomeinista ben 5.000 piani per l’energia, in gran parte riguardanti il settore elettrico anche con energie rinnovabili, dovranno trovare attuazione. Alcuni investimenti riguardano nazioni contigue come l’Iraq, altri lo stesso territorio interno e offrirebbero libertà d’iniziativa ad aziende private della più varia provenienza. Anche per questo l’attuale dirigenza di Teheran vicina al presidente Rohani non ha alcun interesse a rompere il clima di collaborazione miracolosamente ripristinato e spenderebbe a suo favore nelle urne il fiume di denaro che i contratti possono introdurre nelle casse statali o nelle bonyad di clerici e Guardiani della Rivoluzione, visto che diverse aziende interne afferisco a tali proprietà.

Ma per mister Trump ideologia ed energia hanno una rima che conduce a quell’interesse americano carezzato anche prima del suo arrivo. L’esempio delle concessioni governative alle volontà della lobby dei propri petrolieri è lampante. Trump non c’era, Obama subiva questi voleri e la produzione statunitense negli ultimi anni ha raggiunto vette mondiali contro qualunque accordo sull’estrazione, in faccia a qualsiasi buon rapporto con le amiche petromonarchie; e pure contro qualsiasi logica di guadagno, visto gli altissimi costi della scellerata tecnica della 'frantumazione idraulica' oltre che la pessima qualità degli idrocarburi estratti bisognosi di un'altrettanto costosa lavorazione. Però così l’America è diventata autosufficiente, anzi è in testa alla produzione mondiale, compete coi colossi di gas e petrolio. L’Iran è fra questi, e com’era già accaduto, creare fratture ed embarghi economici è un gioco perverso che non provoca ripercussioni sul colosso d’Oltreoceano, ma fra iraniani e partner commerciali europei. Che il business personale e le propensioni politiche del neo presidente americano abbiano la meglio sulla stessa ideologia sarebbe dimostrato dall’esclusione dai divieti d’ingresso in territorio Usa di Arabia Saudita, Emirati Arabi Uniti, Libano, Egitto. Taluni analisti sostengono che non sarebbe questo il motivo: altre inaffidabili nazioni islamiche (il Pakistan su tutte) non rientrano nella lista nera. Si mira a colpire nazioni dai governi deboli o inesistenti (Siria, Iraq, Libia, Somalia) e quelle con cui amerikani che non dimenticano hanno conti in sospeso, sommando la lesa maestà del passato con gli attuali riequilibri strategici e di mercato.

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La produttività italiana


In questo post abbiamo visto come la presenza dell’euro (cioè di un accordo di cambio fisso) abbia impedito il graduale aggiustamento degli squilibri macroeconomici (commerciali e finanziari) tra i paesi dell’eurozona. In questo sistema totalmente rigido, le politiche tedesche di controllo dell’inflazione, per le quali il paese è storicamente famoso, hanno fatto esplodere il surplus commerciale della Germania nei confronti dei partner europei nel periodo 2000-2010 e portato il sistema sull’orlo del collasso. Gli squilibri commerciali, come le vostre buste paga conoscono meglio di voi, sono stati curati con l’austerità ovvero con la distruzione della domanda interna nei paesi del sud.

In questo post non mi dilungherò sulle politiche anti-inflattive (cioè di compressione dei salari) della Germania, piuttosto mi concentrerò sulla crisi della produttività italiana.

Chiarendo questo punto potremo (forse) evitare le solite obiezioni dei commentatori da bar che individuano nella scarsa produttività del nostro paese il solo motivo della stagnazione economica in cui ci troviamo.

Secondo il commentatore produttivista, nonostante quello che ormai si può leggere e sentire quotidianamente persino sulla stampa mainstream, il problema della stagnazione economica italiana sta nel fatto che siamo improduttivi. L’euro non c’entra niente e anzi la sua stabilità (?) ci avrebbe salvato da un imprecisato disastro economico. Le spiegazioni addotte per giustificare la crisi della produttività italiana variano a seconda del bar in cui vi trovate. Ci sono quelli che: non abbiamo investito in ricerca e innovazione, quelli che: gli italiani sono pigri, quelli che: il familismo amorale, la corruzione... insomma ce n’è per tutti i gusti. Qui proviamo a fare un ragionamento un po’ più coerente coi dati.

La ferrea logica del produttivista

Prima di addentrarci nel discorso però fatemi mettere in chiaro che l’obiezione produttivista alla critica della moneta unica è illogica prima ancora che sbagliata.

Se anche fosse vero che i tedeschi sono antropologicamente più produttivi di noi pigroni, scansafatiche del sud, per quale motivo dovremmo avere la stessa moneta? La Germania è brava e produce tanto? Che rivaluti la sua moneta! Se svalutare è un male (come pensano i produttivisti) i tedeschi saranno felicissimi di fare il contrario! No?

Perché un paese improduttivo deve avere la stessa valuta del paese produttivo, accumulare deficit di partite correnti per 10 anni e infine tagliare i salari per compensare questo squilibrio? Oltretutto i salari dipendono dalla produttività e tagliare i salari in un paese poco produttivo è molto più doloroso. Togliere 100 euro dalla busta paga di un tedesco è un po’ diverso che toglierli da quella di un greco, non vi pare?

Va be’ facciamo finta di niente e andiamo avanti.

Il caso italiano

I dati storici della produttività italiana sono comodamente scaricabili da tutti dal sito del OECD. La variabile a cui siamo interessati è definita come l’output per ora lavorata, cioè il PIL generato per ogni ora di lavoro. Per avere un termine di paragone concreto ho preso la misura del PIL a prezzi costanti in dollari del 2010. Il grafico che si ottiene è questo:


Guardandolo notiamo subito che effettivamente abbiamo un problema. Oggi un lavoratore italiano produce in media in un ora 15 dollari in meno di valore aggiunto rispetto al suo omologo tedesco. Il grafico però ci dice anche che fino al 1989 la produttività italiana è stata in linea con quella tedesca, anzi persino superiore. I problemi iniziano a manifestarsi dal 1989. La produttività sembra fermarsi fino al 1992 quando riparte e quasi raggiunge di nuovo quella tedesca nel 1995. Dopo la crescita si appiattisce di nuovo e questa volta senza alcun segno di ripresa fino ad oggi.

Ho sottolineato in rosso gli anni in cui la produttività italiana si arresta: i 3 anni dal 1989 al 1992 e il lunghissimo periodo che va dal 1996 ad oggi. Ora proviamo a vedere (giusto così, per curiosità) l’andamento del tasso di cambio tra la lira italiana e il marco tedesco negli stessi anni. I dati si possono scaricare dal sito della Banca d’Italia e ci dicono per ogni anno (in media) quante lire erano necessarie per comprare un marco tedesco. Ecco il grafico:


Sorpresa! I periodi di stagnazione della produttività coincidono “stranamente” con quelli in cui l’Italia ha deciso di irrigidire il suo cambio rispetto al Marco tedesco. Ripercorriamo brevemente la storia di quegli anni: il 13 Marzo 1979, nonostante il parere negativo del Partito Comunista, l’Italia entra nel Sistema Monetario Europeo (SME), ovvero un accordo di cambio semi-fisso all’interno del quale alla lira era garantita una banda di oscillazione di ±6% rispetto all’ECU, una valuta scritturale data dalla media delle valute dei paesi aderenti allo SME.

È molto “divertente” rileggere oggi l’appassionato discorso dell’onorevole Giorgio Napolitano durante la seduta della Camera dei Deputati del 13 Dicembre 1978 quando adduceva queste motivazioni contro l’entrata dell’Italia nello SME. Ne estraggo un passo tra i tanti:
“È così venuto alla luce un equivoco di fondo, [..] se cioè il nuovo sistema monetario debba contribuire a garantire un più intenso sviluppo dei paesi più deboli della Comunità, delle economie europee e dell’economia mondiale, o debba servire a garantire il paese a moneta più forte, ferma restando la politica non espansiva della Germania federale e spingendosi un paese come l’Italia alla deflazione.”
Chissà se poi Napolitano ha trovato una risposta convincente all’equivoco.

Nel Gennaio 1990 la Lira decide di entrare nella banda di oscillazione stretta del ±2.25% come la Germania, la Francia e gli altri paesi dell’area del marco.

La produttività italiana entra in sofferenza fino al 1992, quando dopo mesi di inutili sofferenze e riserve della Banca d’Italia sprecate per difendere un cambio insostenibile, la lira svaluta ed esce dallo SME.

Liberata dal giogo del cambio fisso la produttività italiana riparte e si riavvicina a quella tedesca fino al 1996 quando decidiamo di rivalutare bruscamente per poi fissare definitivamente il cambio e entrare nell’euro. La produttività italiana di fatto ha smesso di crescere da quando vent’anni fa è stata presa quella decisione

Thirlwall & Verdoorn vs. Say

Abbiamo visto come i dati ci suggeriscano una storia molto diversa di quella che sentiamo di solito dai media e al bar. La favola secondo cui gli italiani sono per indole improduttivi si squaglia di fronte al fatto che, fino alla fine degli anni ’80, era il nostro paese ad essere più produttivo della Germania. E anche dal 1992 al 1996 la produttività italiana è cresciuta più di quella tedesca. È interessante e inquietante invece notare la coincidenza tra i periodi di stagnazione della produttività e quelli in cui il cambio è stato fissato.

Un semplice caso? Le leggi di Thirlwall e Verdoorn ci dicono di no.
La legge di Thirlwall (di cui abbiamo già parlato qui) ci dice che la crescita dell’economia è proporzionale alla crescita delle esportazioni nette. La legge di Verdoorn invece ci spiega che la crescita della produttività è proporzionale alla crescita dell’economia. Mettendo insieme queste due leggi otteniamo una spiegazione convincente della stagnazione della produttività italiana.

Il cambio fissato a un valore troppo alto per l’economia italiana ha strozzato le crescita delle esportazioni. Questo ha causato un rallentamento della crescita dell’economia che ha causato infine la stagnazione della produttività. Questo è successo prima nello SME e poi con l’euro.

Indipendentemente dai dettagli tecnici il discorso è facile da capire. Se non ho prospettive di vendere per quale motivo dovrei produrre di più? Se ho un bar e ogni mattina arrivano circa 10 clienti all’ora perché dovrei mettermi a produrre 20 caffè?

La produttività dipende dalla domanda. Se aumenta la domanda dei miei beni mi metterò a produrne di più, altrimenti no.

Semplice, ma impossibile da accettare per tutti i neo-liberisti, che di neo hanno ben poco visto che si basano su teorie economiche che hanno più di 100 anni. Loro credono fermamente nella legge di Say.

Sono convinti che la produzione di beni crei necessariamente la loro domanda, quindi, per definizione si vende tutto quello che si produce e più si produce più si vende, sempre e comunque.

Noi abbiamo affidato le sorti del nostro continente a questi squilibrati.

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Canada, strage in moschea a Quebec City. Razzisti in azione?

Anche il tranquillo Canada conosce ora gli attentati. Ma al contrario. Due persone hanno aperto il fuoco nella moschea di Sainte-Foy, a Quebec City, in Canada, intorno alle 8 di sera (le due di notte in Italia). In quel momento c'erano decine di fedeli – tutti uomini, secondo l'usanza che vuole i due sessi divisi – riuniti per la preghiera della sera.

Il primo bilancio parla di 6 morti e otto feriti, ricoverati in diversi ospedali della città.

Nell'attacco sono state impiegate armi da fuoco, tra cui almeno un Ak47, meglio conosciuto come Kalashnikov. Due giovani di 27 anni sono stati fermati dalla polizia, che non ha ancora comunicato i loro nomi, né la nazionalità o la religione. L'unico indizio è arrivato dal premier canadese, Justin Trudeau, che in un tweet ha definito l’assalto un «attacco terroristico contro i musulmani».

L'unico precedente episodio di intolleranza razzista riguardante la moschea è avvenuto la scorsa estate, quando ignoti hanno lasciato una testa di maiale fuori dalla porta di ingresso.

Al momento, dunque, l'unica pista credibile è quella del razzismo a sfondo religioso. Non è un ossimoro, visto che anche in Canada – come nei vicini Stati Uniti, su scala ovviamente più grande – esistono gruppi “integralisti cristiani”, in genere sette protestanti, che raggruppano suprematisti bianchi.

Nei giorni scorsi, in aperto contrasto con la linea Trump, lo stesso Trudeau aveva invitato i migranti respinti dagli Stati Uniti a dirigersi verso il Canada. L'attentato potrebbe dunque essere il tentativo violentissimo di bloccare questa politica.

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