di Chiara Cruciati il Manifesto
Cinque milioni di
abitanti, un milione di sfollati iracheni e 200mila rifugiati siriani,
700mila persone sotto la soglia di povertà con meno di 90 dollari al
mese (il 14%, erano il 4% nel 2013), un tasso di disoccupazione balzato
in sei anni dal 4,8% al 14%, mezzo milione di barili di greggio al
giorno, l’80% del Pil derivante dal petrolio e un miliardo di dollari di
ricavi petroliferi scomparsi nel nulla, 18 miliardi di deficit.
È la storia in numeri del Kurdistan iracheno. Poi ci
sono le vite: quella di Akhbar, laureato in economia, arrivato a Erbil
in cerca di lavoro e ancora disoccupato; quella di Mahmoun, receptionist
in un hotel a due stelle, che in una guerra tra poveri dà la colpa ai
profughi che lavorano a metà prezzo; quella degli insegnanti in sciopero
per mesi, costretti a riaprire le scuole per il bene degli studenti.
Fuori, sfondo alle crescenti tensioni sociali, ci sono i palazzi
della capitale del governo regionale del Kurdistan (Krg), cantieri
aperti e grattacieli che disegnano un orizzonte da petromonarchia del
Golfo. Stridono con i mercati dove gli anziani posano un cartone a terra
e vendono una qualche mercanzia, cinture, accendini, caramelle. Eppure è
questo il modello che il governo cerca di imporre, forte delle
ricchezze sotterranee. Alla base i due clan, i Barzani e i Talabani,
da decenni detentori del potere politico ed economico, famiglie che
fondano il consenso su unità militari, una galassia di imprese, voto di
scambio, nepotismo.
Momento di passaggio è il 2003, l’invasione Usa dell’Iraq, la nuova Baghdad senza Saddam e l’ingresso nella rete di alleanze occidentali: «Nel
2003 la società kurda ha assistito ad una significativa avanzata
economica – ci spiega Kamal Chomani, giornalista kurdo iracheno per Al
Monitor e Foreign Policy – Dopo Saddam, il Krg ha ricevuto un
flusso ingente di denaro da Baghdad che ha apparentemente migliorato le
condizioni di vita.
La popolazione, “liberata” dalla miseria, ha cominciato a
chiedere cambiamenti radicali del sistema politico, democrazia e
partecipazione alla vita socio-economica. Ma i due principali
partiti, il Kdp di Barzani e il Puk di Talabani, hanno stretto il
controllo sul flusso di denaro in arrivo dal governo centrale. E sui
ricavi petroliferi: nel 2007 iniziano ad arrivare compagnie straniere
per esplorazione e estrazione».
Il decennio di prosperità apre le porte ad un capitalismo
selvaggio, un neoliberismo sfociato nell’ampliamento del gap tra ricchi e
poveri. In pochi anni esplode il conflitto tra popolo e
partiti in una società di stampo tribale, dove esistono diversi centri
di potere informale: le famiglie più potenti generano gruppi sociali ed
economici, spesso divisi per area geografica (con i poli di Erbil,
Duhok, Suleimaniya), in cui nessun partito-clan riesce ad imporsi come
potere unico e fonte di un’univoca visione socio-economica.
A sostenere la ribellione sociale, palese nel 2007 con le prime manifestazioni, è la presa di coscienza popolare unita alla nascita di media indipendenti e alla diffusione di internet. La repressione colpisce subito:
Puk e Kdp usano la forza per silenziare le voci critiche, far sparire
attivisti e giornalisti, sopprimere le proteste. E anche per forzare il
sistema economico: «È il modello-Dubai, il modello-Golfo: un’economia
basata sul greggio che annulla le altre forme di produzione. Barzani lo
ha detto più volte: faremo di Erbil la nuova Dubai».
Le luci dei nuovi palazzi illuminano la crisi, esplosa nel
2014 con il taglio del budget deciso da Baghdad in reazione alla vendita
di greggio in autonomia da parte di Erbil. Gli stipendi dei
dipendenti pubblici sono tagliati di due terzi e sospesi per mesi; le
manifestazioni si moltiplicano; il tasso di disoccupazione triplica in
sei anni e la classe media, appena nata, inizia a morire: «Dal 2003 al
2013 si era sviluppata una nuova classe media, per l’incremento
consistente di impiegati pubblici – aggiunge Chomani – Di 5 milioni di
abitanti, oltre un milione lavora nel pubblico. Ma i posti di lavoro sono stati tagliati, insieme ai salari.
Un dipendente pubblico guadagna 450mila dinari iracheni al mese, 350
dollari. Come può permettersi una vita dignitosa in un paese in cui un
affitto costa almeno 250 dollari, non esiste un sistema di trasporto
pubblico, i servizi pubblici ci sono solo sulla carta?».
Se da una parte aumentano le proteste contro un sistema
clientelare che per decenni ha tenuto compatta la società, dall’altra si
moltiplicano rapine, prostituzione, omicidi. «Un boom di
disagio sociale mai vissuto prima del 2013. La società è sempre stata
legata a valori tradizionali, tribali e religiosi che garantivano
controllo sociale. La risposta del governo è il modello Dubai che alza i
prezzi e divora il potere d’acquisto delle classi medio-basse».
C’è chi torna alla terra, tradizionale fonte di sussistenza
il cui volto è stato trasformato dalla caccia al greggio: se alla fine
degli anni ’90 la popolazione si era spostata verso le città, oggi va
all’inverso. «Torna nei villaggi, tra mille difficoltà: il
governo non investe, non compra i prodotti locali (come faceva Baghdad) e
importa dall’estero annullando il potenziale agricolo interno».
È la faccia del Kurdistan iracheno, tra crisi e minaccia islamista.
Daesh è “alle porte”, spauracchio sfruttato dalla leadership per
mascherare le disuguaglianze sociali con la necessità di sostenere le
forze armate. Un’altra peculiarità: il Krg non ha un esercito nazionale,
ma unità di peshmerga affiliate ai partiti politici. 200mila uomini, 36
brigate, dipendenti da Kdp o Puk, un legame tribale usato come
strumento di consenso e indiretto soffocamento dello scontento: «Sono
pagati dallo Stato, ma controllati dai due partiti – conclude Chomani –
Quelle uniformi servono ad arginare la disoccupazione, mantenere
centinaia di migliaia di famiglie, generare affiliazione politica, voti,
silenzio».
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