di Roberto Prinzi
Il premier israeliano
Benjamin Netanyahu ne è convinto: la Regulation Bill – la “sanatoria”
che legalizzerà retroattivamente circa 4000 case costruite senza
permesso su 800 ettari di terre palestinesi – s’adda fare. Poco importa i
pareri degli esperti che definiscono la legge illegale, le eventuali
condanne internazionali (rivelatesi per la verità sempre deboli in
passato) e la recente dichiarazione della Casa Bianca secondo cui la
costruzione nei Territori Occupati “può non essere utile” per la pace.
Netanyahu tira dritto per la sua strada, ma preferisce
temporeggiare e rimandare il voto almeno a dopo il 15 febbraio dopo cioè
il suo incontro alla Casa Bianca con il neo eletto Donald Trump. Intanto per ora deve resistere alle pressioni e critiche che giungono dall’ala più estremista della sua coalizione governativa:
il partito “Casa Ebraica”, megafono delle istanze dei coloni, spinge
infatti affinché il passaggio della legge sugli insediamenti possa
avvenire oggi, al massimo entro questa settimana. Soprattutto
alla luce di quanto è avvenuto la scorsa settimana quando, per ordine
della Corte suprema, è stato evacuato l’avamposto illegale di Amona dove
risiedevano su terra privata palestinese circa 200 coloni.
Le intenzioni di Casa Ebraica sono chiare: con l’insediamento di
Donald Trump alla Casa Bianca il momento è propizio per procedere
all’annessione di parti consistenti della Cisgiordania palestinese e non
bisogna indugiare più di tanto. Il premier – in vero non molto lontano ideologicamente dal partito guidato dal ministro dell’istruzione Naftali Bennet – ha
finora mandato segnali contrastanti: da un lato ha pubblicamente
affermato il suo pieno sostegno alla Regulation Bill; dall’altro,
invece, sta cercando di prendere tempo nel tentativo di capire quanto
sia profondo e stabile il sostegno della super potenza statunitense.
Il suo attendismo – seppur strategico – risulta però sempre più
intollerabile per Casa Ebraica. E il partito di Bennet non fa niente per
dissimulare il suo malcontento. Intervistata dalla radio militare la
parlamentare Shuli Moalem-Rafaeli – una delle principali promotrici
della legge in questione – ha dichiarato che la Cisgiordania è già
punteggiata da avamposti costruiti negli anni “in buona fede” e che
pertanto ora dovrebbero essere legalizzati. “Quello che è stato
stabilito – ha detto laconicamente – non può essere distrutto”.
Il “partito dei coloni” – criticato da alcuni settler nel fine
settimana per non aver fatto tutto il possibile per impedire
l’evacuazione di Amona – non fa i conti con le conseguenze legali che
potrebbe incontrare la legge una volta approvata. Non sono
infatti pochi i commentatori locali che preannunciano una futura
bocciatura della Regulation Law da parte della Corte suprema israeliana.
Non solo: dubbi vengono anche all’interno della coalizione governativa,
precisamente dal Likud di Netanyahu. “Le persone di destra non hanno il
coraggio di dire la verità ai coloni – ha dichiarato nel fine settimana
Tzachi Hanegbi – è ragionevole che la bozza non passerà”.
Sulla stessa lunghezza d’onda è il suo collega di partito Dan Meridor
(in passato anche ministro di Giustizia) secondo cui la legge è
problematica perché inciderà sulle vite dei palestinesi che vivono su un
territorio occupato che non è parte d’Israele. Meridor non va tanto per
il sottile: “L’idea che ci prendiamo la terra da qualcuno, per caso o
meno, e ci sbarazziamo di lui senza dirgli una parola, senza che lui sia
partecipe di questa legge, è qualcosa di distruttivo che deve essere
fermato”.
Giudizi negativi sono giunti anche dall’American Jewish Congress
(una organizzazione pro-israeliana statunitense) che ieri ha invitato i
parlamentari israeliani a rigettare la proposta di legge perché mina la
soluzione a due stati con i palestinesi. Adalah (“il Centro legale per i diritti della minoranza araba in Israele”) è già sul piede di guerra: se la Regulation verrà approvata, farà immediatamente appello alla Corte Suprema.
“Questa legge indiscriminata e pericolosa permette l’espropriazione di
vasti tratti di terra privata palestinese accordando assoluta preferenza
agli interessi politici israeliani come potenza occupante e ai coloni”
ha denunciato Suhad Bishara, un’avvocata del gruppo.
Al di là dei dubbi legali, quel che frena Netanyahu sono
anche le reazioni della comunità internazionale che giudica
ufficialmente le colonie un “ostacolo alla pace”. Così come
l’Autorità palestinese che, sulla base degli accordi di Oslo, rivendica
l’intera Cisgiordania e la Striscia di Gaza come futuro stato di
Palestina con Gerusalemme est come sua capitale. Per il governo di
Ramallah è soprattutto la presenza di 600.000 coloni sul suo territorio a
impedire la fondazione di uno stato palestinese accanto a quello
israeliano.
La contrarietà agli insediamenti è stata ribadita in campo
internazionale lo scorso dicembre quando il Consiglio di sicurezza
dell’Onu (con il clamoroso veto dell’amministrazione statunitense
uscente di Obama) ha passato una risoluzione che considera illegale la
costruzione di colonie nei Territori occupati palestinesi. Vero è che ora con Trump alla Casa Bianca le cose sembrano essere cambiate:
non a caso Netanyahu ha annunciato soltanto nelle due ultime settimane
6.000 nuove unità abitative e una colonia. La reazione dell’alleato
statunitense è stata abbastanza flebile come era da attendersi: quel
“può non essere utile a raggiungere la pace” è indice della profonda
sintonia di vedute tra Washington e Tel Aviv. Tuttavia, appare essere
anche un leggero ammonimento agli israeliani a non procedere senza prima
consultarsi con loro.
Ecco perché il primo ministro israeliano prova a rimandare
l’approvazione della Regulation almeno a dopo il suo incontro con Trump.
L’obiettivo da parte del leader israeliano è capire come reagirà la
nuova amministrazione al suo piano di estensione/annessione nei
Territori occupati palestinesi e, più in generale, valutare quanto potrà
fidarsi veramente del tycoon dopo gli anni conflittuali con Obama.
Nel frattempo, però, il voto della legge è in programma al
momento per stasera dopo che Netanyahu sarà ritornato dalla visita
ufficiale di un giorno alla prima ministra britannica Theresa May.
Ieri, poco prima di salire a bordo dell’aereo che lo avrebbe condotto
nella capitale inglese, Bibi è rimasto vago sulle sue intenzioni.
“Quando dirigo il Paese, penso all’interesse nazionale e agisco solo in
base a questo” ha affermato lanciando una non troppo velata frecciatina
agli alleati di Casa Ebraica che lo pressano per il voto anche per
tranquillizzare il loro elettorato. Poche ore prima, durante la riunione
settimanale del suo esecutivo, il premier aveva fatto sapere che al centro dell’incontro con May ci sarà il contrasto “alla sprezzante aggressività iraniana di questi giorni”. Il riferimento è al test missilistico compiuto da Teheran la scorsa settimana.
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