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14/02/2017

Renzi si deve dimettere anche da segretario Pd

Se questo è un partito che può dirigere un paese in crisi da dieci anni...

Il giorno dopo la riunione della direzione – che doveva essere l’evento, il big bang di una slavina che portava dritto verso le elezioni anticipate – l’impressione è che non esista più una classe politica. Non diciamo all’altezza dei problemi, ma almeno al livello delle richieste che provengono da Bruxelles e dai mercati finanziari. Perché – è bene ricordarlo subito – parole come “popolo”, “lavoro”, “bisogni”, ecc, non hanno in quel consesso più alcun interesse.

Fa quasi paura il vuoto assoluto di idee, proposte, o anche solo slogan immaginifici. Questa gente si è abituata a governare per conto terzi, obbedendo ai diktat della Troika e di Confindustria, lasciando a se stessa giusto lo spazio per qualche clientela e il potere della “normale amministrazione”, quella che permette di gestire la corruzione e i suoi proventi. Non poco, monetariamente parlando, ma niente a che fare con la statura da statista.

La metamorfosi di Matteo Renzi è uno sketch a se stante. Lo scoppiettio di battute irridenti con cui investiva i suoi avversari, strappando qualche sorriso divertito persino a loro, si è illanguidito in giochini da terza media (“a meno che Gentiloni non dichiari guerra a San Marino”). Il “ce ne faremo una ragione” con cui liquidava le differenze di opinione – un “me ne frego” mussoliniano appena un po’ modernizzato – cancellato per sempre. E’ tutto un “distinguere i piani”, “non sono io che decido la data delle elezioni”, un florilegio di circonlocuzioni più vicine alla retorica dorotea che non al renzi-pensiero dei momenti topici.

Alla fine la spunta, certo. E con i metodi spicci che altrove portano accuse di “stalinismo”. E’ stata messa ai voti una sola mozione, la sua. Quella che “chiede” l’apertura immediata di un congresso straordinario (prima della scadenza statutaria), da concludere entro aprile. Mentre non vengono neanche messe ai voti quelle che assicuravano il sostegno al governo Gentiloni (la fotocopia del suo governo, a parte lui). Provocazioni dell’opposizione, certo, che non hanno aspettato neanche la chiamata al voto.

Ma il panorama interno al Pd, stamattina, non assicura più a nessuno la guida di questa macchina sgangherata in cui ogni pezzo sembra andare per conto proprio. E non perché siano tante le possibili alternative strategiche, ma proprio perché non ce ne sono. In altre parole: ogni divisione interna, compreso il “pericolo di scissione” ormai sul tappeto, non discende da “visioni alternative”, non affonda in radici sociali diversificate, non accompagna programmi politici con proposte chiare. Il mondo – per questa gente – è dato, ed è immodificabile. Quel che c’è da fare al governo “ce lo dice l’Europa”. L’unico problema è: chi fa il governo e, ancor prima, chi decide le liste elettorali, i capilista bloccati e certi dell’elezione.

“Un accampamento di cacicchi”, ebbe e definirlo Massimo D’alema quasi 20 anni fa. Ma la situazione è peggiorata notevolmente.

Se l’opposizione “di sinistra” (non ridete! La chiamano ancora così per abbindolare i polli...) presenta almeno tre candidati-segretari (Emiliano, Rossi e Speranza), un facitore di intrighi (D’Alema, of course) e un possibile “punto di caduta” (il ministro della giustizia Orlando, che si è smarcato dalla maggioranza renziana, pur restandovi. Come al solito, si usa dire...).

Ma è la maggioranza renziana a non esistere di fatto più. Persino a Gazebo si irride ormai alle undici o dodici correnti in cui la falange abituata per tre anni a ripetere “noi tiriamo dritto” si è spezzettata, ognuno pronto a cercar di capire prima degli altri dove andrà tirando il vento. Al punto che il fragile Cuperlo, passato dal “no” al “sì” referendario nel giro di una notte, si è permesso di ironizzare sulla situazione in modo quasi crudele prendendo spunto da una curiosità di cronaca: "Il capo branco aveva perso l'orientamento. Sta a noi decidere se fare la parte delle balene o quella dei volontari che le salvano".

Renzi è il capobranco, non c’è dubbio. Si è spiaggiato con il referendum costituzionale e ancora rifiuta di prendere atto che il paese non lo vuole più. Ma è l’unico possibile, stando a sondaggi che riflettono stupidamente le percentuali di spazio sui media di regime. Ormai, però, deve guidare un branco pronto a sciogliersi al primo problema serio.

E che non deve dargli troppa sicurezza sul futuro. È vero, ha vinto la sua mozione “congresso subito”. Ma per celebrarlo si deve dimettere anche da segretario del Pd (solo così si giustifica l’anticipo sui tempi statutari). E l'incombente "dibattito parlamentare" per omogenizzare le leggi elettorali di Camera e Senato allontana sempre di più la scadenza delle urne. Il rischio, per uno che esiste solo grazie ai media di regime, è di fare quella fine terribile: "ahò, ma to o' ricordi Renzi?"

L’assemblea di fine settimana dovrà ratificare sia le dimissioni che l’avvio del congresso. Che durerà anche poco (nemmeno due mesi), ma intanto sposta le possibili elezioni anticipate all’autunno. E da qui alla fine, con gran dispiacere dell’Unione Europea, in ogni angolo spunterà un ostacolo. O un sicario...

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