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31/03/2017

Potter's field


Territori occupati: cinque nuove risoluzioni ONU condannano Israele

di Rosa Schiano

Occupazione e insediamenti coloniali israeliani, autodeterminazione del popolo palestinese e rispetto del diritto internazionale sono i temi al centro delle cinque nuove risoluzioni che il Consiglio per i Diritti Umani delle Nazioni Unite ha adottato lo scorso venerdì “sui diritti umani in Palestina e altri territori arabi occupati”.

La prima risoluzione riguarda le alture del Golan, riconosciute a livello internazionale come territorio siriano e occupate da Israele dalla guerra dei sei giorni del 1967. Con questa risoluzione, il Consiglio esorta Israele, in quanto potenza occupante, a rispettare le risoluzioni dell’Assemblea Generale, del Consiglio di Sicurezza e del Consiglio per i Diritti Umani, con particolare riferimento alla risoluzione del Consiglio di Sicurezza 497 (1981), che – riaffermando come “inammissibile” l’acquisizione di territorio con la forza – considera l’imposizione di Israele della propria giurisdizione nelle alture del Golan siriano occupato illegittima e priva di effetto giuridico.

Con la risoluzione, il Consiglio sollecita inoltre lo Stato ebraico a cessare le attività di insediamento, a interrompere una campagna portata avanti con lo slogan “Vieni nel Golan” e a smettere di imporre cittadinanza israeliana e carte di identità israeliane ai cittadini siriani nel Golan e adottare su di loro misure repressive. Qualsiasi misura legislativa e amministrativa adottata da Israele che abbia l’obiettivo di modificare lo status legale del Golan siriano è nulla e non ha effetto legale, secondo la risoluzione.

Israele nel corso dell’Assemblea ha rigettato le cinque risoluzioni definendole una “ripetitiva manifestazione dell’assurdità e del cinismo del Consiglio” e ringraziando i paesi che non hanno espresso sostegno alle risoluzioni in particolare “il proprio grande amico e alleato gli Stati Uniti d’America”.

La seconda risoluzione adottata chiede che venga assicurata responsabilità e giustizia per tutte le violazioni del diritto internazionale avvenute nei Territori Palestinesi Occupati, compreso Gerusalemme est.

A questo scopo, il Consiglio invita organismi Onu a perseguire l’implementazione delle raccomandazioni contenute nei rapporti della commissione indipendente di inchiesta del conflitto del 2014 a Gaza, la missione internazionale indipendente di inchiesta Onu a esaminare le implicazioni degli insediamenti israeliani sui diritti civili, politici, economici, sociali e culturali del popolo palestinese nei territori palestinesi e tutte le parti coinvolte a collaborare all’esame preliminare della corte penale internazionale e a qualsiasi indagine che potrebbe essere aperta al fine di accertare le responsabilità delle violazioni.

In una terza risoluzione sul diritto all’autodeterminazione del popolo palestinese, il Consiglio ha riaffermato il “diritto inalienabile, permanente e assoluto del popolo palestinese all’autodeterminazione, compreso il diritto a vivere in libertà, giustizia e dignità e il diritto ad uno Stato di Palestina indipendente”.

Con la quarta risoluzione sui diritti umani nei territori palestinesi occupati e Gerusalemme est il Consiglio ha sottolineato la necessità che Israele si ritiri dal territorio palestinese occupato nel 1967, compreso Gerusalemme est, “così da permettere al popolo palestinese di esercitare il proprio diritto internazionalmente riconosciuto all’autodeterminazione”; il Consiglio esorta inoltre Israele a conformarsi alle disposizioni della Quarta Convenzione di Ginevra, a porre fine alle pratiche che violano i diritti umani del popolo palestinese, a porre fine al blocco, alle restrizioni economiche e al diritto al movimento.

Tra le altre sollecitazioni, il Consiglio esorta Israele a proibire “la tortura, compreso quella psicologica, e altri trattamenti o punizioni crudeli, disumani, umilianti”, a “cessare immediatamente le demolizioni o piani di demolizione che comporterebbero il trasferimento forzato o lo sfratto coatto di palestinesi”. Il Consiglio ha inoltre chiesto all’Alto Commissario di riportare sull’implementazione della presente risoluzione, con particolare attenzione alla detenzione arbitraria di prigionieri palestinesi e ai detenuti nelle carceri israeliane nel corso della trentasettesima sessione.

Con la quinta risoluzione sugli insediamenti israeliani nei Territori Palestinesi Occupati incluso Gerusalemme est e il Golan siriano, il Consiglio sollecita infine Israele a fermare le attività di insediamento e a interrompere i lavori per la costruzione del muro.

In più, il Consiglio chiede agli Stati e alle organizzazioni internazionali di non intraprendere azioni che legittimino l’espansione degli insediamenti, attività che siano connesse ad essi, che favoriscano l’espansione o la costruzione del muro e invita loro a distinguere, all’interno dei propri accordi, tra il territorio dello Stato di Israele e i territori occupati dal 1967. Il Consiglio ha deciso di convocare, nella trentaseiesima sessione, una tavola rotonda sulle “attività degli insediamenti israeliani nei Territori Palestinesi Occupati, compreso Gerusalemme est”.

Qualche giorno fa, un rapporto Onu dell’Escwa (Commissione sociale ed economica dell’Asia occidentale) aveva incolpato Israele di imporre “un regime d’Apartheid”. A causa delle pressioni ricevute e della richiesta di Guterres, segretario generale dell’ONU, di ritirare il rapporto, la Segretaria generale dell’Escwa, Rima Khalaf, rigettando tale richiesta, ha rassegnato le dimissioni.

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Ankara chiude scudo sull'Eufrate, ma resta in Siria

i Chiara Cruciati – Il Manifesto 

Da oggi il co-leader dell’Hdp Demirtas e il deputato Zeydan rifiuteranno il cibo: stomaci vuoti per protestare contro «il trattamento disumano» riservato ai parlamentari del partito di sinistra pro kurdo dalle autorità carcerarie turche. Demirtas e Zeydan sono entrambi prigionieri a Edirne, carcere di massima sicurezza, dal 4 novembre.

Mentre la leadership Hdp annunciava il lancio dello sciopero della fame, nei palazzi di Ankara il segretario di Stato Usa Tillerson (affatto scosso dall’incarcerazione di 150 giornalisti e 10 parlamentari) incontrava il presidente Erdogan.

Sul tavolo l’alleanza strategica tra Turchia e Stati Uniti, parzialmente minacciata dall’ingresso della Russia nel campo da gioco e dalla controffensiva su Raqqa, a cui 500 marines partecipano al fianco delle Forze Democratiche Siriane (Sdf) guidate dai combattenti kurdi di Rojava.

Una politica apparentemente schizofrenica, ma lucidissima: gli Usa non intendono affrancarsi da un alleato di ferro come quello turco. Quella con i kurdi è un’amicizia di convenienza che avrà come sola vittima le aspirazioni democratiche di Rojava.

Così va letto l’annuncio fatto da Ankara poche ore prima dell’incontro Tillerson-Erdogan: l’operazione Scudo dell’Eufrate, nel nord della Siria, lanciata lo scorso agosto e palesemente diretta non a far indietreggiare l’Isis ma a contrastare le mire unitarie kurde, è finita. O quasi.

«D’ora in poi, se compiremo azioni nel caso la nostra sicurezza sia minacciata o contro l’Isis – ha detto mercoledì sera il premier Yildirim – saranno parte di una nuova operazione con un nome diverso. Ciò significa che Scudo dell’Eufrate è finita».

Finita perché, aggiunge, gli obiettivi sono stati raggiunti. In effetti quelli ufficiosi (impedire l’unione dei cantoni kurdi di Afrin, Kobane e Jazira attraverso la presa di Jarabulus e al-Bab, ma non di Manbij, “ceduta” dai kurdi al governo di Damasco per evitare che i turchi la occupassero) sono stati realizzati: la riva ovest dell’Eufrate è sotto il controllo dell’esercito turco e le milizie siriane a suo sostegno. Quello ufficiale – la cacciata dell’Isis – no, visto che lo Stato Islamico resta arroccato a Deir Ezzor e Raqqa.

Proprio Raqqa rimane la preda (non affatto occulta) sia di Ankara sia di Washington. Yildirim non parla di ritiro delle truppe turche, che resteranno per impedire un’avanzata kurda e tenersi pronte alla controffensiva sulla “capitale” dello Stato Islamico.

Difficile non vedere nell’annuncio del premier uno strumento di compattamento del fronte del sì al referendum costituzionale del 16 aprile: con l’unica reale opposizione parlamentare dietro le sbarre, migliaia di sostenitori di Hdp e Dbp in carcere, la fine dell’operazione è presentata agli elettori come il mezzo per rispedire nella famigerata “zona cuscinetto” (anelata da anni dalla Turchia e ora forzatamente realizzata) buona parte dei tre milioni di profughi siriani registrati in territorio turco.

Ma di andarsene dalla Siria non se ne parla. Ed infatti con Tillerson Erdogan ha insistito sulla necessità di lavorare «con attori legittimi» in Siria e non con Ypg e Ypj kurde, considerate organizzazioni terroristiche. Dimenticando di citare l’aperto sostegno garantito per anni agli islamisti radicali e la sponsorship di gruppi salafiti dall’ideologia vicina a quella qaedista che oggi sono leader della delegazione delle opposizioni al tavolo di Ginevra.

Tillerson ha fatto la sua parte: dopo l’incontro con il ministro degli Esteri Cavusoglu, ha detto che i due paesi stanno «esplorando una serie di opzioni e alternative» per la liberazione di Raqqa. Nessun accordo, per ora, ma è impossibile immaginare che la nuova Casa bianca, lanciata nella crociata anti-Iran, rinunci ad Ankara per la causa kurda.

Decreto Minniti, il daspo urbano e la libertà personale

Una delle misure più discusse del decreto legge sulla sicurezza delle città approvato dal Governo il 10 febbraio è il cosiddetto “daspo urbano”. Grazie a questa novità del decreto Minniti, il sindaco può imporre una sanziona amministrativa pecuniaria a “chiunque ponga in essere condotte che limitano la libera accessibilità e fruizione” di certi luoghi cittadini (la norma parla di “aree interne delle infrastrutture, fisse e mobili, ferroviarie, aeroportuali, marittime e di trasporto pubblico locale, urbano ed extraurbano, e delle relative pertinenze”). Chi tiene questi comportamenti viene allontanato dal luogo urbano. L’ordine di allontanamento è un atto scritto e vale per 48 ore. Se il destinatario dell’ordine di allontanamento lo vìola, deve pagare una sanzione pecuniaria doppia di quella che gli è stata irrogata per aver limitato “la libera accessibilità e fruizione” del luogo urbano.

Il decreto è in corso di conversione in legge: è già passato alla Camera e ora viene esaminato dal Senato. Durante la discussione alla Camera è stato attenuato un pochettino il concetto: la sanzione potrà essere irrogata solo a chi impedisce l’accesso ai luoghi (il testo iniziale faceva riferimento a coloro che “limitano” l’accesso). Comunque resta la sostanza della cosa: con un suo provvedimento amministrativo il sindaco può impedire a qualcuno di sostare in certi luoghi della città. La questione tocca delicate corde costituzionali: la libertà di circolazione, il confine fra sanzioni amministrative e sanzioni penali, il concetto di sicurezza, ecc.

Per capire come questo strumento potrebbe concretamente essere usato dai sindaci, conviene guardare a uno dei primissimi provvedimenti. Il 15 marzo scorso il sindaco di Seregno ha emesso un’ordinanza che si basa su alcune disposizioni del decreto sicurezza (ord. 43/2017 “Ordinanza contingibile e urgente in materia di tutela della sicurezza urbana e decoro del centro abitato”). La prima base normativa del provvedimento è la nuova formulazione del potere di ordinanza dei sindaci. Il decreto sicurezza modifica infatti l’art. 50 del Testo unico degli enti locali ampliando non poco tale potere. Finora i sindaci potevano adottare ordinanze solo per “emergenze sanitarie o di igiene pubblica a carattere esclusivamente locale”. Il decreto aggiunge che possono farlo anche “in relazione all’urgente necessità di interventi volti a superare situazioni di grave incuria o degrado del territorio o di pregiudizio del decoro e della vivibilità urbana, con particolare riferimento alle esigenze di tutela della tranquillità e del riposo dei residenti”.

Dunque, l’ordinanza del sindaco di Seregno parte dal nuovo potere di ordinanza e vieta il “bivacco in tutto il centro abitato”; vieta inoltre di “consumare bevande alcoliche, al di fuori delle aree pertinenziali dei pubblici esercizi regolarmente autorizzati”. Il passo successivo dell’ordinanza si basa sulla norma del decreto Minniti che introduce il daspo urbano: chi viola i divieti imposti dall’ordinanza può anche essere allontanato qualora la violazione sia avvenuta nei pressi della stazione ferroviaria. Insomma, l’ordinanza di Seregno agisce in due tempi: prima vieta certi comportamenti che sono considerati contro il decoro urbano (bivaccare e bere alcolici lontano dai locali) e poi dispone l’allontanamento di chi trasgredisce quei divieti. Nel primo caso, applica il nuovo e più ampio potere di ordinanza, nel secondo caso, il nuovo potere di allontanamento provvisorio (il daspo urbano).

Tuttavia, il rafforzamento del potere di ordinanza deve fare i conti con la giurisprudenza della Corte costituzionale che aveva stabilito che tale potere deve essere circoscritto e rispettare il principio di legalità sostanziale (sent. 115/2011). In quel caso la Corte aveva accolto la questione perché le ordinanze incidevano sulla libertà delle persone: “incidono, per la natura delle loro finalità (incolumità pubblica e sicurezza urbana) e per i loro destinatari (le persone presenti in un dato territorio), sulla sfera generale di libertà dei singoli e delle comunità amministrate, ponendo prescrizioni di comportamento, divieti, obblighi di fare e di non fare, che, pur indirizzati alla tutela di beni pubblici importanti, impongono comunque, in maggiore o minore misura, restrizioni ai soggetti considerati.”

Il rischio è che anche questa nuova formulazione del potere di ordinanza, collegato a generiche finalità (decoro, vivibilità urbana, incuria, degrado del territorio) possa portare a limitazioni della libertà delle persone. Rischio amplificato quando al potere di ordinanza si somma il potere di allontanare le persone da certi luoghi urbani.

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Genova. L’Amiu resta pubblica. Ma il PD fa commissariare la città da IREN


Dopo la sonora sconfitta giunta un mese fa in consiglio comunale, la giunta Doria è tornata alla carica, con una delibera fotocopia di quella bocciata in precedenza, per realizzare la fusione dell'azienda dei rifiuti con la multiutility IREN.

Durante il periodo trascorso non è cambiato molto. La delibera è stata in parte rivista ma i lavoratori hanno capito che l'avvio della privatizzazione di AMIU avverrebbe indipendentemente dalle piccole variazioni di percentuali sulle quote societarie proposte dal Comune.

Giovedì 30 marzo è quindi cominciato l'ennesimo iter sulla privatizzazione e le conseguenti proteste di piazza. Nonostante il parere diffuso tra i lavoratori, come durante le precedenti votazioni, la Cgil ha comunque pensato bene di schierarsi dalla parte del Sindaco e del PD boicottando lo sciopero e invitando esplicitamente a non scendere in piazza. A gestire lo sciopero è quindi la sola Cisl (USB e Uil hanno però indicato ai lavoratori di aderire allo sciopero) ma in piazza sono presenti soprattutto i lavoratori che hanno dato vita all'ULA (unione
lavoratori AMIU) che in questi mesi ha gestito la lotta.

La votazione in consiglio comunale era comunque in bilico. La maggioranza PD era in difficoltà anche perchè la votazione avviene a due mesi dalle elezioni comunali. Molti consiglieri di centrosinistra si stavano quindi ricollocando (la maggioranza sosterrà comunque e nuovamente il PD) ed era indecisa mentre la destra ha deciso di votare contro per mettere in difficoltà il PD e schierarsi con le associazioni di commercianti preoccupati per l'aumento della TARI.

Sulla votazione incombeva anche un esposto presentato dal consigliere di sinistra Antonio Bruno che poneva dubbi sulla trasparenza delle procedure con le quali il Comune aveva deciso di sostenere la fusione con IREN. L'esposto si basava sul fatto che, fin dall'inizio, IREN è stata l'unica interlocutrice della Giunta (con un assessore proveniente dal management della multiutility) e al bando pubblico sia stata presentata solo una offerta di acquisto.

La procura ha quindi aperto un fascicolo di indagine sulle procedure seguite. Il PD ha però deciso di continuare con la delibera parlando di normali procedure di indagine che non avrebbero in nessun modo inficiato le decisioni assunte.

In un Comune blindato (davanti al portone sostavano 4 camionette tra Polizia e Carabinieri) fin dal mattino i consiglieri hanno quindi discusso fino al colpo di scena delle ore 16 in cui un centinaio di emendamenti delle opposizioni è stato ritirato chiedendo il voto immediato sulla delibera.

Il PD ha cercato di reagire perché si è reso conto di non avere i numeri necessari all'approvazione e ha cominciato a scrivere emendamenti in proprio per prendere tempo.

Non contenti, hanno sospeso le votazioni perché era necessario sentire il parere di IREN in merito alla praticabilità di alcuni emendamenti. Ciò ha causato le proteste vibrate delle minoranze e battibecchi con i lavoratori che erano riusciti ad entrare a seguire i lavori. Per la prima volta è apparso evidente a tutti che le votazioni devono essere fatte solo quando il PD ha la maggioranza numerica e che gli emendamenti hanno valore solo se approvati da IREN. Questo schiaffo democratico ha consentito al PD di ritardare le operazioni di voto e mantenere viva una delibera che probabilmente sarebbe stata nuovamente respinta.

Ma il capolavoro politico del PD doveva ancora arrivare.

La mattina di venerdì 31 marzo il capogruppo chiedeva infatti il ritiro della delibera per mancanza di una maggioranza disposta a votarla.

Contemporaneamente parlava della necessità di votare subito un aumento della TARI per fare fronte al buco di bilancio. Il PD si trova quindi di fronte alla propria Caporetto. Da mesi puntava sulla aggregazione con IREN privatizzando l'azienda, nel contempo continuava a non proporre alternative aggravando la situazione economica di AMIU. L'aumento della TARI è quindi da un lato una ritorsione verso la città, dall'altro il prezzo da pagare per la loro politica che da anni punta allo sfascio dell'azienda pubblica per consentirne la svendita.

Inoltre, su pressione di IREN che ha commissariato la politica genovese, propone di rivotare l'aggregazione tra una settimana insieme al bilancio del Comune ponendo l'ennesimo ricatto ai cittadini e ai lavoratori: o si privatizza AMIU o si tagliano i servizi sociali.

In conclusione, per l'ennesima volta la costanza e la determinazione dei lavoratori (nonostante l'ennesimo tradimento della Cgil) hanno bloccato la svendita di un bene pubblico. Ci hanno provato due volte con AMIU e gli è andata male, come già successo con AMT (trasporti) e ASTER (manutenzione).

Contemporaneamente hanno perso la faccia dimostrando che sono eterodiretti da IREN e probabilmente tenteranno in extremis l'ennesimo ricatto. Mentre l'intera città rischia di pagare con l'aumento improvviso e deciso della TARI gli effetti della loro politica criminale.

Nel frattempo si preparano le elezioni in cui il centrosinistra unito tenterà per l'ennesima volta di ingannare tutti riproponendo con parole nuove questa politica fallimentare. In cui buona parte della sinistra si ricollocherà in maggioranza con il PD facendo l'ennesima operazione politica disgustosa, in cui la destra cercherà di vincere sfruttando le debolezze del PD e i lavoratori saranno costretti a restare alla finestra o aggrapparsi alle incognite provenienti dai 5 stelle divisi in due fazioni litigiose e con una idea di città tutta da decifrare.

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Italia-Unione Europea. Ancora una volta anello debole

Scricchiolii, centralizzazione, stretta organizzativa, cessione di sovranità, doppia o tripla velocità… L’Unione Europea, all’indomani dell’apertura ufficiale della procedura d’addio britannica, si trova a dover decidere rapidamente il nuovo assetto, ma senza poterlo fare davvero.

I tre paesi chiave della comunità sono tutti in campagna elettorale e non si potrà mettere intorno al tavolo i rispettivi leader fin quando non se ne conoscerà il nome e – come direbbe il questore di Roma – “l’orientamento ideologico”.

L’offensiva “europeista” contro i cosiddetti populismi ha messo al centro per mesi il rischio rappresentato da Germania (Alternative fur Deutschland) e Francia (il Front Nationale di Marine Le Pen), ma col passare del tempo si è dovuto prendere atto che da lì non viene per ora alcun pericolo. Per quanto la crisi abbia eroso il modello sociale e politico di Parigi, e anche i criteri di “etica pubblica” (mai si era visto un caso come quello di Fillon non tradursi subito in un ritiro dalla scena politica), resta in piedi la conventio ad exludendum nei confronti dei fascisti; che non hanno alcuna speranza di diventare maggioranza assoluta. Ancor più tranquilla la situazione a Berlino, la patria del surplus di bilancio, dove la “svoltarella a sinistra” della Spd di Schultz è stata sufficiente a mandare in pezzi il consenso che si andava accumulando intorno a Frauke Petry.

Il vero bubbone sistemico tra i “tre grandi” residui è come sempre l’Italia. Fallita la spallata contro-costituzionale di Renzi, amputato del ballottaggio l’Italicum, si andrà al voto per ultimi e con la quasi certezza di un Parlamento frammentato, senza un dominus in grado di imporre una direzione di marcia sicura. Anche se dovesse tornare in sella Renzi, insomma, avrebbe a disposizione una maggioranza di coalizione, dove la contrattazione quotidiana prevarrebbe ben presto su qualsiasi progettualità.

La classe politica nazionale, del resto, è stata selezionata al contrario, premiando i servi obbedienti a scapito di chiunque avesse una statura minimamente al di sopra della media. Per questo appare illusoria la speranza che emerga “una definita idea italiana di Europa”, in grado trarre profitto dall’indebolimento – causa Brexit – dell’“asse del Nord”.

Anche i più navigati analisti, come Lucio Caracciolo, arrivati al dunque devono fare i conti con le opportunità e le necessità da un lato e l’assenza di “statisti” dall’altro. E dire che mai come ora si è aperta, per cause di forza maggiore, una stagione di indispensabile riscrittura dei trattati europei. Ovvero una finestra di opportunità in cui una classe politica nazionale, capitalisticamente adeguata, potrebbe far valere meglio gli interessi di quel che resta dell’impresa italiana.

Al contrario, gli standard che andranno obbligatoriamente raggiunti per poter restare nel “gruppo d’avanguardia”, nella “prima fascia” dei paesi che si avviano a una maggiore integrazione, si tradurranno facilmente in un massacro sociale di dimensioni greche. Con inevitabile messa in discussione del consenso politico di massa, ben al di sopra dei livelli fin qui registrati. Vanno dunque inquadrati da questo punto di vista i “decreti” liberticidi a firma di Minniti, Orlando e Gentiloni, sia in materia di “ordine pubblico e decoro urbano”, sia in materia di regolazione dei flussi migratori.

Gioco facile, peraltro, finché resta in vita questo Parlamento di nominati senza onore né gloria. Ma che potrebbe diventare assai più complicato nel prossimo, vuoi per la prevedibile assenza di una maggioranza politicamente certa e stabile, vuoi per la sicura presenza di una opposizione forte – per quanto sconclusionata – come quella pentastellata.

Ma la debolezza del sistema politico italiano – specchio fedele della sua rinsecchita capacità produttiva (al di fuori dei tratti connessi alla filiera tedesca) – può diventare un problema non solo per “la difesa degli interessi del capitale italiano”, ma anche e soprattutto per la tenuta della struttura dell’Unione Europea.
“Possiamo non farlo (proporre una definita idea italiana d’Europa, ndr). Nel quale caso, l’Europea rischierà il definitivo collasso. O si rifarà altrove, senza di noi. Costituendosi in costellazioni affini, tra loro separate. Nascerà così una sub-Europa germanica. Forse con un pezzo d’Italia, quella più settentrionale, già largamente integrata nella catena del valore tedesca. Perciò tentata dall’abbandonare il resto della penisola alla deriva mediterranea pur di restare periferia dell’eurofamiglia nordica. Se ci siamo, è ora di battere un colpo”.
Come si vede, il vero dibattito non avviene sul palcoscenico della politica mediatizzata quotidianamente. I veri obiettivi e i veri rischi non hanno nulla a che fare con i “populismi”, ma col rimescolamento degli assetti economici e istituzionali in vista della creazione effettiva del “polo europeo” incaricato di “competere” alla pari con Cina, Russia e, ormai, anche con gli Stati Uniti.

Un dibattito da cui è palesemente assente l’unico convitato che nessuno di quei soggetti inviterà mai: il mondo del lavoro, i giovani e i pensionati, le popolazioni che vivono in questo paese e nel resto d’Europa.

In effetti, è proprio “ora di battere un colpo”.

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Lanciagranate e amicizia polacco-ucraina

Allorché i carri armati eltsiniani cannoneggiarono il parlamento russo, nell'ottobre 1993, i solerti giornalisti moscoviti, avendo esaurito ogni fandonia a carico dei “rivoltosi comunisti”, scrissero che l'autunno è una stagione pericolosa per l'ordine pubblico, perché la svolta climatica rende le menti più facile preda dei sobillatori, come era stato nel novembre 1917! Da un po' di tempo, ma soprattutto dopo il 2014, sembra che la svolta climatica verso l'estate influisca negativamente sui rapporti ucraino-polacchi. Ora, con l'irrobustirsi dell'anticiclone africano, riprende forza anche la controversia Kiev-Varsavia, apparentemente sopita dopo i reciproci colpi bassi della primavera-estate 2016.

Il 29 marzo, circa 150 attivisti della comunità polacca della regione di L'vov, il cui capoluogo è considerato da Varsavia “la città più polacca della Polonia” e da Kiev “la città ucraina per eccellenza”, hanno occupato un tratto dell'autostrada L'vov-Varsavia. Protestavano contro la violazione dei diritti dei polacchi d'Ucraina e il danneggiamento dei monumenti polacchi ad opera dei nazionalisti ucraini e innalzavano manifesti con “Questa è terra nostra”, “Giù le mani dai nostri monumenti” e “Volinia nei cuori”. Sembra che non andasse propriamente loro a genio nemmeno il gesto di “riconciliazione” da parte ucraina: la granata esplosa la notte precedente contro il consolato polacco a Lutsk, capoluogo della Volinia. Le autorità polacche, non completamente convinte dalle assicurazioni fornite dal solito consigliere del Ministero degli interni ucraino, Zorjan Škirjak, essersi trattato di “un'ennesima sporca provocazione dei servizi segreti russi”, hanno chiuso le rappresentanze consolari a Kiev, Kharkov, L'vov, Odessa, Vinnitsa e, ovviamente, a Lutsk. Ieri il Ministro degli esteri polacco Witold Waszczykowski ha fatto sapere in forma ultimativa a Kiev che i consolati riapriranno solo quando l'Ucraina garantirà loro piena sicurezza. Ma, scarsi di fantasia come sono i golpisti, anche l'ambasciatore ucraino a Varsavia, Andrej Deščitsa ha dichiarato che “la Russia ha interesse a che venga meno il sostegno occidentale all'Ucraina da parte polacca” e così pure l'occupazione dell'autostrada è stata definita dal capo dipartimento del Servizio di sicurezza ucraino Aleksandr Tkačuk “parte delle operazioni propagandistiche russe”.

Il 30 marzo, su Svobodnaja Pressa, Dmitrij Rodionov, in riferimento all'attentato al consolato di Lutsk, ha scritto che “L'amicizia polacco-ucraina è stata messa alla prova dai lanciagranate”. L'ordinario di Politica regionale all'Università umanitaria russa, Vadim Trukhačev, ritiene che l'episodio di Lutsk sia quasi sicuramente opera di elementi appartenenti ai battaglioni neonazisti di “Svoboda”, “Pravyj sektor” o “Azov”, irritati dal fatto che Varsavia continui a considerare criminali di guerra i loro idoli Stepan Bandera e Roman Šukhevič, su cui ricade la responsabilità dei massacri della Volinia nel 1942-'43 e, comunque, l'azione influirà in qualche misura sui rapporti polacco-ucraini. Concretamente, afferma Trukhačev, Varsavia è disposta a sostenere i golpisti ucraini nella contrapposizione alla Russia, ma non altrettanto quando si tratta dei diritti di cittadini polacchi residenti in Ucraina occidentale, cui tra l'altro Varsavia ha già cominciato a distribuire la “Carta del polacco” (concessa a chi dimostri di avere almeno un antenato polacco) e, a quelli del distretto di Mostiska, anche i passaporti. Non è escluso che Varsavia possa porre ostacoli all'eliminazione dei visti tra Ucraina e UE.

Di più, afferma Trukhačev: se l'élite polacca, con a capo il leader del partito di destra Prawo i Sprawiedliwość ed ex primo ministro Jarosław Kaczyński, non perde occasione di puntare il dito contro Mosca, si trova poi però sempre altrettanto unita nella denuncia dei banderisti e dei loro odierni discepoli. A parere dell'ordinario russo, nella questione dei polacchi di L'vov, la leadership ucraina si trova stretta tra due fuochi: Porošenko potrebbe anche essere disposto ad aiutarli contro le violenze dei nazionalisti ucraini, ma, a seconda della sua scelta, rischia di trovarsi contro o Varsavia o i neonazisti di casa propria. A parere del direttore dell'Istituto per le ideologie moderne Igor Šatrov, con l'azione di Lutsk i radicali ucraini hanno voluto mettere alla prova la solidità dello stesso potere ucraino e forse anche rispondere all'uscita del film polacco “Volinia”, dedicato proprio ai massacri del 1943. Ma non è esclusa una terza variante, conclude Šatrov: una volgare guerra tra bande; da tempo si parla infatti della corruzione dilagante tra i funzionari del consolato polacco di Lutsk.

In ogni caso, a parere di Andrej Tatarčuk, Varsavia starebbe voltando le spalle a Kiev e, peggio, se la Polonia non fosse membro della Nato, avrebbe da tempo invaso l'Ucraina e si sarebbe ripresa i województwa che rivendica dalla fine della guerra. Se nel 2014 polacchi e baltici erano stati tra i più euforici sostenitori europei di majdan, afferma Tatarčuk, oggi l'entusiasmo pare lasciare il posto a qualche diffidenza. Alla base di tutto, naturalmente, più che la rabbia per l'esaltazione che i neonazisti ucraini ostentano nei confronti dei massacratori dei polacchi della Volinia, pare ci siano le dispute sulla extraterritorialità della “pan Polonia", la Polonia signorile, come gli ucraini chiamano le regioni di L'vov, Ternopol, Ivano-Frank, Volinia e Rovno e che, per i polacchi, sono invece Galizia, Volinia e Polesia che, prima dell'ultima guerra, facevano parte della Polonia. Secondo Tatarčuk, i polacchi di Galizia e Volinia sono anche preoccupati per l'inteso via vai di armi provenienti dai traffici imbastiti dai neonazisti che terrorizzano il Donbass e che passano anche di qui.

E, appunto sulla questione del Donbass, la riunione a Minsk del cosiddetto Gruppo di contatto avrebbe portato all'ennesimo accordo sul cessate il fuoco a partire dal 1 aprile; sembra che Petro Porošenko abbia già impartito il relativo ordine alle truppe ucraine. Intanto però, ieri ancora due civili sono morti sotto i colpi dei mortai ucraini a Jasinovataja, mentre il comando delle milizie della DNR parla dell'inasprirsi della situazione proprio alla vigilia del cessate il fuoco. I tiri delle batterie ucraine sarebbero concentrati in direzione di ciò che resta dell'aeroporto di Donetsk, oltre che su Spartak, Dokučaevsk, Sakhanka, Kominternovo e altri villaggi più a sud. Secondo gli abitanti di alcune frazioni a ovest di Donetsk, ma in territorio controllato da Kiev, sono stati già predisposti gli elenchi degli edifici in cui verranno acquartierati gli uomini del 18° reggimento speciale “Azov” della Guardia nazionale, in arrivo a ridosso della linea del fronte. Attendiamo dunque il 1 aprile.

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“Trump fa le televendite, ma può combinare disastri”. Intervista a Lucio Manisco

Intervista realizzata da Radio Città Aperta

Ringraziamo e salutiamo il giornalista Lucio Manisco per la sua disponibilità. Buongiorno Manisco.

Buongiorno a tutti voi.

Come spesso capita ricorriamo alla sua competenza per approfondire alcuni aspetti e fare un po’ il punto della situazione quest’oggi. C’eravamo sentiti l’ultima volta il giorno del discorso di insediamento di Donald Trump, senza troppe speranze rispetto al futuro... Giunge oggi la notizia di questo suo intervento protezionistico sul commercio internazionale, contro i prodotti dell’Unione europea, anche italiani... Sono ormai successe diverse cose, negli Usa, tra cui alcune clamorose porte in faccia contro cui Donald Trump si è trovato a sbattere. Pensiamo all’annullamento dell’Obamacare oppure ai problemi che sta avendo con il suo muslim ban. E’ possibile intanto fare una prima valutazione complessiva di questo presidente degli Stati Uniti?

Certo, certo, si può fare... Abbiamo letto l’articolo di oggi (ieri, ndr) del Wall Street Journal che ha fatto queste sensazionali rivelazioni. Si tratta di anticipazioni... ma più che anticipazioni idee un po’ vaghe, diciamo, propositi generici e non degli intenti veri e propri; o almeno questo è il senso dello stesso articolo del Wall Street Journal. Non bisogna dimenticare che Donald Trump parla a ruota libera, smentisce il giorno dopo quello che dice il giorno prima, quindi non so se vadano presi esattamente come oro colato questi suoi intenti punitivi nei confronti dell’Unione europea. Bisogna anche notare la coincidenza di queste anticipazioni con la conferma ufficiale della Brexit da parte di Teresa May. Può darsi che abbia anche voluto dare una mano alla grande nuova alleata che è, appunto, il premier britannico. Nell’insieme, dico che l’idea di contromisure protettive di Bruxelles è sempre stata nell’aria, da prima ancora dell’avvento di Bush. Trump non fa mistero delle sue antipatie per l’Unione europea, quindi l’idea di dividere alcuni paesi dell’Unione europea mettendoli contro l‘Unione stessa, sopratutto contro la Germania, può convalidare queste ipotesi. Io credo che non si tratti di una cosa molto seria. La questione del manzo è una questione di gusti europei. Il manzo è trattato con gli ormoni e anche peggio, è trattato con gli antibiotici, il che non viene menzionato dal Wall Street Journal. I consumatori europei sembra non gradiscano il prodotto, tutto qui. Né va dimenticato un altro fatto. Tutte le restrizioni imposte da Bruxelles sui prodotti geneticamente modificati, gli ogm, sono state ignorate sia per l’ignavia dell’Unione europea, sia perché sotto diverse etichette questi prodotti geneticamente mutati – che sono molto molto nocivi alla salute – riempiono i supermercati di Europa e, soprattutto, italiani. A proposito di Italia. Non possiamo non ricordare che tre settimane fa il presidente americano ha detto di avere l’Italia nel cuore. Le sue opinioni ovviamente sono geneticamente mutabili, come dicevamo prima, secondo le necessità e le esigenze che ha ogni volta che sbatte il muso contro l’opposizione del congresso o dell’opinione pubblica o dei magistrati americani. In tutte queste misure che spara quotidianamente dalla sua sedia, dalla Trump tower, io credo ci siano molti motivi di allarme, ma non riguardano esattamente le misure contro il formaggio francese...

Questo è chiaro...

C’è il fatto – per esempio – che l’altro giorno ha abrogato tutte le misure vagamente cautelative per l’ambiente varate da Obama, E questa è una cosa veramente grave, perché la denuncia dei trattati di Parigi sul clima apre le porte alla distruzione del pianeta. Quindi credo che questa cosa dovrebbe veramente allarmare molto di più del fatto che i consumatori americani non potranno mangiare il Roquefort o il brie.

Per quello che riguarda altri aspetti interessanti... Da un lato bisogna dire che lui, quello che ha promesso in campagna elettorale, lo sta portando avanti o almeno ci sta provando. Come valutare, invece, i “no” che ha ricevuto, anche importanti: l’impossibilità di abrogare l’Obamacare, i problemi, significativi per il ricorso alla Corte suprema, che ha avuto rispetto al suo muslim ban... Lasciando perdere i giudizi di merito sulla qualità di questi provvedimenti, sembra non sia così facile per Donald Trump fare quello per cui ha vinto le elezioni. E’ una domanda che possiamo iniziare a porci?

Questa è una domanda più che giustificata. C’è anche il fatto che lui, in teoria, dispone praticamente di tutti i poteri, perché ha un Congresso dominato dai repubblicani, quindi ha il potere legislativo in mano, ha il potere esecutivo in quanto è presidente, e poi adesso si accinge a mettere alla Corte suprema un magistrato super conservatore, spostando quindi drasticamente all’estrema destra la suprema magistratura della repubblica stellata. Con tutto questo non riesce comunque ad andare avanti. Perché? Intanto c’è l’incapacità, l’inesperienza, non sa come trattare i vari ostacoli legislativi che vengono fuori ogni volta che fa un decreto sballato. L’Obamacare era un proposito negativo che è stato portata avanti dal Senato e dalla Camera dei rappresentanti durante la presidenza Obama. I repubblicani sono bravissimi a bloccare qualsiasi decisione quando hanno la maggioranza, ma quando si tratta di presentare un’alternativa fanno disastri. Cosa che naturalmente ha diviso il voto dei repubblicani tra gli ultraconservatori e quelli che vogliono ridurre la spesa pubblica, per cui è andato a monte. Ma ci sono altre cose che sta affrontando che incontreranno naturalmente opposizione; da parte dell’opinione pubblica, che conta fino ad un certo punto in America, ma soprattutto dal Congresso.

Un’ultima battuta rispetto, invece, alle prospettive. Parliamo soprattutto di politica estera. Abbiamo visto come questa presunta o reale infiltrazione della Russia all’interno delle dinamiche elettorali degli Stati Uniti, in qualche modo d’intesa, così sembra, con il gruppo di lavoro di Trump... Che prospettive apre rispetto al ruolo degli Stati Uniti in politica estera? Sembra che Trump non abbia le idee chiarissime da questo punto di vista, né nei rapporti con la Russia, né rispetto a vicende strategiche come il Medioriente... Non si capisce quale sia la politica di questo presidente repubblicano un po’ sui generis...

È un presidente che crede nelle televendite, crede che basti annunciare alcune cose per poi portarle avanti. Per quello che riguarda le interferenze di Putin nelle elezioni americane, beh... sono cose da ridere... Non è quello il punto. Il punto sono i contatti, i rapporti economici che Trump ha avuto con Putin prima e anche durante la campagna elettorale, soprattutto con i grandi plutocrati russi. Il sospetto riguarda il passaggio di giganteschi ammontare di rubli o di dollari dalla Russia nelle tasche del candidato repubblicano di allora; e quello è un fatto piuttosto serio, perché naturalmente non si tratta più di irregolarità o di altre cose, ma si rischia l’accusa di alto gradimento. Quello è uno dei problemi che sta affrontando. Ci sono queste investigazioni del Congresso. C’è la Commissione del Senato che si occupa di queste cose, con un’apparente solidarietà tra il presidente della Commissione investigativa, repubblicano, e il vicepresidente democratico nel portare avanti questa inchiesta. Se si tratta soltanto di vedere se ci sono state collusioni nella campagna elettorale tra l’apparato elettorale di Trump e il governo russo... beh, credo che non verrà fuori molto. Oltretutto non c’è interesse, né da una parte né dall’altra, nel portare avanti questa inchiesta. Se si tratta di altre cose su menzionate, come il passaggio di ingenti somme di denaro dalla Russia a un candidato della presidenza degli Stati Uniti, beh, quelle sono cose molto più gravi.

Bene, Manisco, per il momento grazie, magari ci risentiamo più in là per continuare a seguire le gesta di questo presidente che, un pochino, onestamente, ci inquieta. E’ vera la tesi che tendenzialmente per l’umanità nulla di eccezionalmente buono è mai arrivato dalla presidenza degli Stati Uniti, però in questo caso forse parliamo di cose più preoccupanti...

Sarebbe il disastro del pianeta, che salta per aria...

Esattamente. La situazione forse è un po’ peggiore. Grazie, buona giornata e buon lavoro.

Arrivederci.

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Artisti sottoscrivono appello contro la Tap in Puglia

Artisti come Alessandro Mannarino, 99 Posse, Lo Stato Sociale, Assalti Frontali sono tra i primi firmatari dell’appello contro la realizzazione del gasdotto Tap, lanciato e promosso dal So What Festival di Melpignano, in provincia di Lecce. Nelle prime ore hanno già risposto oltre sessanta artisti e band salentini e italiani e il numero è destinato a crescere.

“So What Festival ha scelto di essere NO TAP sin dalla sua prima edizione. Nel 2014 TAP era ancora solo una minaccia: noi abbiamo scelto di schierarci sin da subito perché crediamo che difendere il proprio centimetro di terra sia il primo passo per costruire uno spazio in cui si possono realizzare le libertà di ciascuno. Vogliamo che cultura sia innanzitutto consapevolezza e libertà di scelta, crediamo che gli eventi debbano farsi contenitori di idee e vettori di messaggi“, si legge nell’appello dell’associazione culturale Altatensione che organizza il festival dal 2014.

“Siamo NO TAP perché è tempo di scelte, ora più che mai occorre chiedersi da che parte vogliamo andare, e se vogliamo farlo insieme. Quanto accaduto nei giorni scorsi e quanto continua ad accadere in queste ore a San Foca è noto: l’accelerazione di TAP, le forzature del governo centrale, la cecità delle istituzioni che ignorano le popolazione e militarizzano il territorio. Le donne e gli uomini salentini resistono da giorni e hanno bisogno di ognuno di noi. Chiediamo agli artisti saliti sul nostro palco, a tutte le band emergenti, a tutti coloro che hanno messo la loro arte a disposizione di questo percorso, a coloro che hanno partecipato attivamente, a chi ci ha sostenuto, agli operatori della cultura e dello spettacolo di scegliere da che parte stare“, prosegue il testo. “Chiediamo di sottoscrivere questo appello e di affermare la propria contrarietà alla devastazione dei territori e alle grandi opere, utili solo alle tasche di affaristi e potenti. Offriamo la nostra disponibilità logistica alla realizzazione di una grande giornata di musica e cultura in sostegno del presidio NOTAP“.

Hanno già aderito Mannarino, 99 Posse, Lo Stato Sociale, Mauro Biani, Assalti Frontali, Dj War, Michele Lapini, Davide Barletti, William Anselmi, Sor Braciola, Sebach, Float a flow, La Rocha, Sud Est Indipendente Festival, Frank Lucignolo, Teenage Riot, Cristiana Verardo, La Rivolta Records, Carolina Bubbico, Coolclub, No Finger Nails, Boundless Ska Project, Sofia Brunetta, Tobia Lamare, Lobello Records, Fabio Zullino, Elektrojezus, Fuck Normality Festival, Gabriele Blandini, Bundamove, Io te e Puccia, Coffea Strange, Pierluigi Mele, Dj Mocry, Federico Mele, Salento All Stars, Ballarock, Granma, Egidio Marullo, Ninfa Giannuzzi, Molly Arts Live, Mad Boxes, Miss Mykela, La Municipàl, Nu – Shu, Mattune, Babelsound, Babilonia di Sant’Andrea, The Sick Dogs, Christian “Picciotto” Paterniti, Gente Strana Posse, La Balotta Continua, Los Pollos Hermanos, TTevents, Viavai Project, Chekos Art, Kamafei, LI Ucci Festival, Morris Pellizzari, Road to Zion, Indie Mare, Malasuerte Fi*Sud, Don Diegoh & Ice One.

Per sottoscrivere l’appello: sowhatfest@gmail.com

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Aregentina e Brasile tra contro-rivoluzione liberista e resistenza sociale

Per Raúl Rajner, segretario delle relazioni internazionali della CTA-A, il “Paro Nacional” del 6 aprile sarà “...il momento unificante delle differenti lotte che questa confederazione ha realizzato in tutte le regioni dell’Argentina il 6, il 7,l’8, il 22 e il 24 marzo, con scioperi settoriali e manifestazioni, per impedire al governo Macri di legittimare l’agenda delle riforme liberiste...”. Prime fra tutte l’imposizione di un nuovo tipo di contratto di lavoro e la revisione dei parametri delle pensioni, una delle conquiste storiche ottenute dai lavoratori argentini fin dagli anni cinquanta.

Uno sciopero generale che la CTA-A ha preparato per fermare l’Argentina mobilizzando tutti i suoi membri che, secondo le ultime informazioni, dovrebbero portare in piazza più di tre milioni di argentini. Infatti la CTA-A, con i suoi 250 organismi può contare su un milione di aderenti a cui si dovrebbero unire gli studenti e altri settori operai, tradizionalmente di fede peronista, ma politicamente scontenti con la “classe dirigente della CGT”, da sempre legata al Partito Justicialista.

E’ inutile dire che con l’elezione negli Stati Uniti di Donald Trump, il governo di Mauricio Macri ha scatenato un autentico attacco generalizzato nei confronti dei lavoratori, cercando di annullare tutte le “leggi del lavoro” che furono create dai governi di Nestor e Cristina Kirchner. Un attacco che è sostenuto da tutti i media argentini, in particolare, dal giornale “Clarin”, che in un recente editoriale sottolineava “...il costo della mano d’opera argentina è il principale responsabile della perdita di competitività dei prodotti argentini nei mercati internazionali...”.

In realtà, le difficoltà di numerosi settori dell’industria argentina si sono moltiplicati perché con la crisi dei prezzi petroliferi gli ordini o sono stati annullati, o ridotti del 50% o semplicemente sono stati posticipati, primi fra tutti quelli provenienti dal Venezuela e dal Brasile. In secondo luogo, il “Clarin” non dice che molti impresari argentini adesso stanno pagando il prezzo dell’ingordigia. Infatti, durante il secondo governo di Cristina Kirchner scoppiò una silenziosa guerra tra governo e impresari, poiché costoro, per non usare i propri capitali depositati nelle banche “off-shore” di Jersey e Cayman, pretendevano che il governo sovvenzionasse la modernizzazione tecnologica degli impianti, come al tempo della dittatura militare. Adesso, per abbassare il cosiddetto “costo del lavoro” gli impresari, in particolare quelli dell’industria alimentare, della tessile, delle telecomunicazioni e della metallurgia vorrebbero che il governo Macri decretasse una legislazione speciale per ridurre il valore dei contributi.

La “Greve Geral” fermerà il Brasile?
Se in Argentina la partecipazione popolare alla scadenza politica del “Paro Nacional” è garantita al 90%, in Brasile sussistono molte difficoltà per garantire la mobilizzazione popolare al 100%. Infatti, oltre al fattore continentale determinato dall’estensione territoriale del Brasile, il ruolo ambiguo e manipolatore dei media, in particolare la televisione e il giornale della famiglia “Marinho”, – vale a dire la “TV Globo” e il giornale “O Globo” – sono diventati il principale nemico del movimento popolare. Basti pensare che per confondere l’opinione pubblica in occasione delle manifestazioni del 15 marzo contro la cosiddetta riforma della previdenza sociale – concentrate soprattutto a Curitiba, capitale dello stato di Paranà – gli editori del gruppo mediatico “Globo” trasformavano un piccolo scandalo locale (vendita di carne bovina scaduta) in un’allarmante denuncia nazionale in cui i reporter della “TV Globo” e del giornale “O Globo”, grazie alla collaborazione di un ispettore della Polizia Federale, dicevano che tutta la carne venduta in Brasile, e in particolare nello stato di Paranà era putrefatta!

Per questo, il leader del Movimento dei Senza Terra, Joao Pedro Stedile dichiarava “...Per quanto riguarda l’attuazione del governo e della rispettiva maggioranza parlamentare le cose vanno di male in peggio! Nelle ultime settimane hanno approvato la legge sulla terziarizzazione, che secondo alcuni magistrati è quasi uguale al regime di schiavitù, poiché il potere che, adesso, i padroni possono esercitare sui propri lavoratori è enorme, al punto che oltrepassa il limite fissati dalla legge. Per fare questo, il governo e la maggioranza parlamentare hanno stracciato l’antico ordinamento giuridico della CLT e la propria Costituzione, grazie anche alla convivenza dei giudici del Tribunale Superiore Federale (STF), sempre pronto e disposto a difendere gli interessi degli impresari!”

Per concludere la sua agenda liberista “Made in USA”, il governo del golpista Temer vorrebbe far approvare, nel prossimo mese di maggio la riforma della previdenza sociale, secondo cui soltanto i lavoratori con stipendi alti avrebbero diritto alla pensione, mentre per coloro che ricevono il cosiddetto “salario minimo”, la pensione sarebbe cancellata e sostituita con un indefinito “aiuto sociale”.

Ma il peggio accadrà proprio nell’agricoltura, per questo Stedile ricorda che “...Dopo aver smembrato il Ministero dello Sviluppo Agricolo e cancellato tutti i programmi che promuovevano lo sviluppo dell’agricoltura familiare, adesso il governo Temer pretende di stimolare la vendita delle piccole proprietà, ottenute in passato con le occupazioni, alle imprese agricole straniere!”

Un contesto che, comunque, sta diventando sempre più conflittuale, perché il governo, i partiti della maggioranza, i media e tutti i settori della borghesia urbana che appoggiarono il colpo di stato indolore, l'impeachment contro il presidente Dilma Rousseff, adesso vorrebbero recuperare una nuova verginità politica per presentarsi nelle elezioni del 2018. Per questo, il 26 marzo, hanno convocato una manifestazione nazionale per dimostrare che il governo Temer “è amato dal popolo”.

Nonostante la copertura dei media, la manifestazione del 26 marzo è stata un completo fiasco, mostrando chiaramente il fosso che oggi esiste tra il governo e i lavoratori, tra i partiti della maggioranza parlamentare e il movimento popolare, al punto che la maggior parte dei pastori e vescovi delle chiese pentecostali ed evangeliche del Brasile – che ufficialmente appoggiano l’operato del governo – nell’omelia di domenica 26 marzo non hanno invitato i fedeli ad andare nella manifestazione in favore del governo.

Un fatto che impone una nuova lettura del contesto politico. Infatti secondo Joao Pedro Stedile “...Molte cose stanno cambiando all’interno dei settori popolari . Le manifestazioni spontanee realizzate durante le sfilate del Carnevale, con gli striscioni di FORA TEMER, sono state il primo segnale, che si è ripetuto l’8 marzo nelle manifestazioni delle donne. Quindi, penso che la classe operaia stia cominciando a capire che l’impeachment contro il governo di Dilma, in realtà fu un artificio per distruggere le leggi del lavoro, la Previdenza Sociale, oltre ad imporre ai lavoratori la terziarizzazione e la fine del contratto di lavoro. Per questo, sono convinto che il 28 aprile il FORA TEMER fermerà tutto il Brasile”.

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Repressione: i fatti parlano, la storia che raccontano non va sottovalutata

Nell’arco delle ultime settimane si è verificata un'impressionante mole di atti repressivi di varia natura che hanno colpito attivisti politici, esponenti del sindacalismo conflittuale e dei movimenti di lotta sociale.

Al rinnovato protagonismo delle Procure della Repubblica che “rispolverano” inchieste dormienti e sgangherate – come nel caso di Roma, con le misure cautelari emanate contro 17 attivisti antifascisti – si somma l’interventismo liberticida del nuovo Ministro degli Interni, Marco Minniti. Il dirigente del Partito Democratico, a partire dalla gestione militare delle piazze di Napoli e Roma nelle recenti manifestazioni di protesta contro Salvini e contro l'Unione Europea imperialista, sta imprimendo al paese una pesante stretta autoritaria accompagnata da provvedimenti legislativi palesemente regressivi e criminalizzanti ad ampio raggio.

Se si arriva ai fermi dei manifestanti per la loro “appartenenza ideologica”, la puzza di fascismo diventa insopportabile.

Sotto attacco non sono solo i militanti e le organizzazioni politiche che si battono per il cambiamento, ma tutte le espressioni del conflitto civile, sindacale e sociale. Dalle cariche ingiustificate contro i NO TAP in Salento all’imbrigliamento delle manifestazioni degli LSU a Roma (700 precari della pubblica amministrazione, per lo più Vigili del Fuoco, diretti a Roma, perquisiti e identificati uno ad uno!), fino alla infinita serie di persecuzioni contro le variegate forme di mobilitazione nei posti di lavoro e nei territori registriamo un pericoloso crescendo dispotico ed autoritario.

A questa deriva antisociale occorre porre un deciso e immediato Stop!

La linea di condotta dell’esecutivo governativo, di Minniti e dell’insieme degli apparati repressivi dello Stato non è un dato bizzarro o estemporaneo, ma risponde alla stringente necessità dei poteri forti di blindare ulteriormente le relazioni sociali nel paese. Il perdurare dei fattori di crisi economica in Italia e nell'Unione Europea sono la cornice materiale dentro la quale si palesa questo ennesimo corso repressivo ed antipopolare. Il governo sa benissimo che, se vuole rimanere nel “nucleo centrale” dell’Unione Europea, dovrà imporre con ogni mezzo le scelte antipopolari e antidemocratiche che ciò comporta.

Occorre, dunque, respingere al mittente tutte le provocazioni che, quotidianamente, il governo mette in campo contro i movimenti sociali e politici antagonisti, organizzare e stabilizzare una campagna di lotta ampia ed articolata contro la repressione, contro la criminalizzazione del dissenso e per la piena libertà di lotta e di organizzazione politica e sociale.

La Rete dei Comunisti si rende disponibile a questo impegno militante e ad un’azione convergente di tutte le forze del conflitto politico e sociale ed esprime la propria solidarietà umana e politica ai compagni e le compagne colpiti dalla repressione.

Rete dei Comunisti

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Venezuela. Alta tensione. Rodriguez: “E’ falso che ci sia un colpo di stato”

"E 'falso che ci sia un colpo di stato in Venezuela", ha detto il ministero degli Esteri venenzuelano Delcy Rodriguez annunciando azioni diplomatiche in difesa del proprio sistema giuridico.

Il governo del Venezuela ha respinto le azioni di alcuni governi di destra latinoamericani, che "hanno diffuso falsità e ignominie" che minano lo stato di diritto e l'ordine costituzionale del paese.

Attraverso un comunicato, è stata resa nota la denuncia del ministero degli esteri del Venezuela contro "l’assalto di governi intolleranti di destra e pro-imperialisti nella regione, guidato dal Dipartimento di Stato e da centri di potere degli Stati Uniti".

La reazione del Venezuela replica alle dichiarazioni di alcuni paesi a seguito della decisione della Corte Suprema di Giustizia (TSJ) relativa alle funzioni dell'Assemblea Nazionale (il Parlamento venezuelano, ndr).

"E 'assolutamente inammissibile, senza alcuna base giuridica, che un gruppo di paesi tentino di immischiarsi negli affari di competenza esclusiva degli Stati sovrani", afferma il comunicato.

Allo stesso modo, ha negato che ci sia un colpo di stato in Venezuela "al contrario, le sue istituzioni hanno adottato le misure legali per fermare le azioni devianti e golpiste di deputati dell'opposizione annunciate apertamente in spregio delle decisioni della Corte Suprema".

La maggior parte dell’opposizione in sede di Assemblea Nazionale, ha ignorato ripetutamente le sentenze della Corte Suprema, che ha fermato l'incorporazione in plenaria di tre candidati per lo stato di Amazonas, la cui proclamazione è stata sospesa fino alla conclusioni delle indagini sulle frodi relative alla loro elezione, il 6 dicembre 2015. Nel 2016, il vice-presidente del Parlamento, ha ignorato le indicazioni della Corte procedendo al giuramento dei tre candidati.

Ci sono registrazioni da cui emerge che l'allora segretario del governatore di Amazonas, Victoria Franchi, ha offerto somme di denaro a gruppi di persone per votare per i candidati dell'opposizione. Pertanto, la Corte aveva sospeso la proclamazione dei deputati di Amazonas. Nonostante questo in sede diAssemblea nazionale avevano prestato giuramento come deputati per ottenere la maggioranza assoluta (due terzi), che ha gli dato nuovi poteri e doveri, tra cui quelli di abrogare o modificare le leggi organiche, come la legge sul lavoro o la legge sull'istruzione.

Attraverso due sentenze emesse questa settimana, la Corte Suprema (TSJ) ha confermato che il suo compito centrale all'interno del quadro costituzionale è quello di preservare lo stato di diritto, in particolare rispetto ad azioni che potrebbero ignorare la legge e violare la sovranità nazionale.

Il presidente del Parlamento di Caracas, Julio Borges, ha detto che c'è un colpo di stato ed ha chiamato a ignorare le deliberazioni della Corte Suprema.

Il Segretario generale dell'OSA (Organizzazione degli Stati Americani), Luis Almagro, ha parlato di un "colpo di Stato" dopo di che il Perù ha ritirato il suo ambasciatore in Venezuela.

I governi di destra del Perù, Colombia, Cile, Messico e Brasile hanno rilasciato dichiarazioni circa la loro "preoccupazione" per la sentenza della Corte Suprema di Giustizia (TSJ) del Venezuela.

Questi governi erano usciti sconfitti dalla diplomazia venezuelana durante la sessione straordinaria di Martedì 28 marzo del Consiglio permanente dell'Organizzazione degli Stati Americani (OSA), che aveva l’obiettivo di approvare la Carta Democratica contro il Venezuela.

L’attuale Segretario generale dell'OSA, Luis Almagro, è stato definito dal governo venezuelano come il leader dell'attacco contro il Venezuela, sotto gli ordini del Dipartimento di Stato degli Stati Uniti. Almagro è il principale sostenitore della Carta Democratica contro il Venezuela e si è incontrato con i leader della destra venezuelana.

Il ministero degli Esteri venezuelano ha anche annunciato che eserciterà una azione politica e diplomatica per impedire la materializzazione di piani contro la stabilità e la pace nel paese.

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Bloccati e schedati lavoratori precari in viaggio per una manifestazione a Roma

Una serie di fatti accaduti negli ultimi giorni ripropone con forza ed urgenza il problema della repressione e dell'utilizzo di polizia e carabinieri nella normale dialettica sociale in Italia. Un problema che è prima di tutto politico e che implica una valutazione sul livello di democrazia che si vive nel paese prima ancora che sui singoli eventi.

Il Ministro Minniti è l'artefice primo di tale svolta autoritaria ma è del tutto evidente che è l'intera compagine governativa che è ormai in piena crisi politica e non riesce a gestire una fase delicata e difficile nella quale i diktat dell'Unione Europea, della BCE e della grande finanza internazionale si fanno sempre più stringenti, aumenta la disoccupazione e le condizioni di una larga parte della popolazione si fanno sempre più pesanti dal punto di vista della sostenibilità economica e sociale.

Si ricorre quindi al manganello e ai blindati da mandare in piazze colme di lavoratori, si fermano pullman sull'autostrada, si procede a fermi e a riconoscimenti immotivati, si tenta di provocare scontri con i manifestanti per poi giustificare repressione, fogli di via ed arresti.

Solo negli ultimi giorni si sono succeduti alcuni eventi gravi e preoccupanti.

Si è iniziato nei giorni precedenti la manifestazione del 25 marzo con una campagna “terroristica” di partiti, istituzioni e stampa che preannunciava scontri di piazza, black-bloc, e una messa a fuoco della città che non c'è stata. C'è stata invece una pacifica manifestazione di Eurostop con uno schieramento di "forze dell'ordine" mai visto, ci sono stati pullman fermati sull'autostrada e centinaia di manifestanti riconosciuti e portati nel CIE di Tor Cervara, c'è stato un percorso circondato minacciosamente con blindati e poliziotti, c'è stato alla fine un corteo spezzato in due con un intervento del tutto immotivato sperando in una reazione che non c'è stata.

Poi attivisti della NO TAV, tra i quali Nicoletta Dosio, in un clima esasperato di continua repressione, sono stati condannati per aver difeso la loro terra dalla speculazione e dalla distruzione ambientale.

In questi giorni a Melendugno in Puglia una manifestazione con donne, bambini e sindaci che protestavano per l’espianto degli ulivi e la realizzazione del gasdotto Tap sono stati brutalmente aggrediti dalle forze di polizia.

Ieri durante una manifestazione sindacale nello stabilimento della Coca Cola di Nogara alla quale partecipavano i lavoratori della logistica in lotta contro i licenziamenti, le loro mogli e i loro figli, alcune guardie private hanno usano pistole elettriche per disperdere i manifestanti ferendone alcuni.

La notte scorsa a Roma sono stati effettuati fermi, perquisizioni e provvedimenti cautelari nei confronti di militanti antifascisti sembrerebbe per fatti risalenti a un anno fa.

Oggi, 30 marzo, in occasione dello sciopero dei precari della pubblica amministrazione indetto da Usb si è svolto un presidio presso Palazzo Vidoni. Molti pullman che portavano manifestanti a Roma sono stati fermati dalla polizia. Riconosciuti e fotografate le lavoratrici ed i lavoratori quasi fossero pericolosi delinquenti, mentre centinaia di carabinieri e agenti di polizia con caschi, scudi e tanti blindati hanno accerchiato i manifestanti a Palazzo Vidoni.

Sono tutti fatti gravi e assolutamente inaccettabili, fuori da ogni logica democratica e che ricordano altri decenni e anche infausti "ventenni" per il nostro paese.

Pensare di poter ridurre le vertenze sindacali, gli scioperi e le manifestazioni a problemi di ordine pubblico dimostra l'assoluta mancanza di volontà politica di affrontare i problemi sociali e una sempre più marcata caratterizzazione autoritaria di questo governo e della gestione del paese.

Il Ministro Minniti ha evidentemente l'intenzione di imprimere un ulteriore forte restringimento delle libertà democratiche per nascondere con la repressione poliziesca ed una vergognosa campagna mediatica, l'estrema debolezza politica del governo e la forte ventata di autoritarismo che sta investendo l'intero paese.

Abbiamo chiesto alle forze politiche e parlamentari di prendere parola contro tale assurdo ricorso alla repressione ma è chiaro che soltanto una ferma e determinata mobilitazione generale potrà impedire che i problemi politici e sociali si affrontino con blindati e manganello.

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Un anno dopo, Casapound chiama la Questura risponde

Cinque giorni dopo la grande e “pericolosa” manifestazione del 25 marzo, stamattina diciassette compagni sono stati arrestati per antifascismo. Diciassette compagni arrestati col solito manuale Cencelli della repressione: Degage, Esc, Acrobax, Alexis e Militant le strutture colpite, ovviamente non a caso. Chi in questi anni si è mosso davvero nella lotta antifascista ne paga le conseguenze materiali, con buona pace dei social chiacchieroni. Due cose però saltano all’occhio anche al meno avvezzo alle cose della politica: diciassette misure cautelari comminate un anno dopo gli eventi costituiscono un vulnus particolare anche in tempi di stretta repressiva come questi. Quale giustificazione legale, quale razionalità giudiziaria si cela dietro a questo accanimento eccessivamente postumo? Ovviamente nessuna, ma al tempo stesso risponde alla logica delle misure cautelari comminate in questi anni. In assenza di prove e con la certezza dell’assoluzione nei processi, i Pubblici ministeri procedono alla vendetta cautelare, facendo scontare preventivamente pene che sanno di non poter provare in sede di giudizio. Una dinamica tipica di questi anni, e che andrebbe smascherata e combattuta non solo dentro le fila del movimento, ma anche da quella “presunta” magistratura “democratica” che si riempie la bocca di legalità e democrazia ma che, al dunque, favorisce abusi giudiziari di questo tipo.

La seconda evidenza di questi arresti è la loro vicinanza alla manifestazione contro l’Unione europea liberista del 25 maggio. E’ la risposta politico-repressiva a quel corteo, la mossa che in qualche modo ci aspettavamo di fronte all’assenza di scontri. Anzi: proprio l’assenza di incidenti ha consigliato alla repressione di agire non solo preventivamente (come abbiamo visto sabato scorso), ma “a prescindere”, cioè in assenza di fattispecie. In altre parole, erano arresti messi in preventivo: sfuggita l’occasione del 25 marzo, ecco recuperare la manifestazione antifascista dello scorso anno, tanto sempre i soliti compagni sono. Il pretesto lo si sarebbe comunque trovato, l’importante è il segnale: non si scherza più. E, in secondo luogo: non si scherza più con Casapound, che è a tutti gli effetti un soggetto politico considerato legittimo e quindi intoccabile.

C’è urgenza di uscire dall’angolo in cui vuole costringerci la politica repressiva della Questura e del Pd. Cosa hanno da dire i paladini delle legalità, da Sinistra italiana al M5S, da Pisapia all’Anpi – che pure era l’organizzatore di quella manifestazione – su questi arresti per antifascismo? Questi arresti coinvolgono tutti, perché ad essere perseguita non è questa o quella linea politica ma una pratica antifascista che a Roma è sempre stata terreno di convergenza oltre le differenze politiche di ciascuno.

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Gli “atti di guerra” russi contro gli Stati Uniti

A che punto è l'accerchiamento militare della Russia? Lo spiegamento di uomini e mezzi da parte USA e Nato ha obiettivi puramente dimostrativi, o costituisce invece lo schieramento di battaglia in vista di sconsiderate quanto tragiche avventure? L'accrescersi sempre più sfrenato di strumenti bellici da dislocare ai confini di quella che è definita la più “pericolosa minaccia” mondiale, mentre serve gli interessi del complesso militare-industriale occidentale, costituisce anche una riedizione di quella corsa agli armamenti – nel 2017 Washington destina alle proprie forze in Europa 3,4 miliardi di dollari: quattro volte più del 2016 – che, nei piani USA degli anni '70 e '80, era destinata a strangolare l'economia sovietica? Oppure siamo davvero alla vigilia di qualcosa di definitivamente fatale?

Lasciando da parte le motivazioni sull'insidia alla pace mondiale che verrebbe da Mosca – a Washington e Bruxelles non crederanno che qualcuno possa davvero crederci – limitiamoci a una semplice cronaca degli ultimissimi dispiegamenti. Anton Mardasov scrive su Svobodnaja Pressa che il Pentagono tiene puntati su Piter e sulla Crimea una serie di missili “Tomahawk” basati su vascelli che pattugliano in permanenza mar Baltico e mar Nero. Ad essi si aggiungono i nuovi sistemi “Aegis” dislocati in Romania (dal prossimo anno anche in Polonia) formalmente antimissile, ma, al pari di quelli basati su navi, dotati di lanciatori MK-41, adatti al lancio di “Tomahawk”, anche armati con testate atomiche, con raggio fino di 2.500 km. Tra l'altro, l'utilizzo a terra dei lanciatori installati su nave, viola il trattato INF (Intermediate-Range Nuclear Forces Treaty) del 1987. L'esperto militare Andrej Frolov ricorda che i lanciatori verticali universali, installati sui vascelli USA dagli anni '80 e i sistemi antimissile sono in grado di mettere fuori combattimento anche i satelliti a bassa quota (low Earth orbit: LEO) russi e intercettare missili balistici in fase di spinta. Secondo Frolov, l'unica via per contrastare la minaccia rappresentata dai missili USA basati su nave (un cacciatorpediniere della classe “Arleigh Burke” può portare fino a 122 “Tomahawk”) è quella di rafforzare la flotta e le basi a Kaliningrad e in Crimea. Dalla Crimea, è possibile controllare l'intero bacino del mar Nero, in cui incrociano vascelli della US Navy, cui gli accordi di Montreux del 1936 consentono la presenza, ma non la permanenza, in quanto navi di stati non rivieraschi. A proposito della difesa antimissile Nato (Ground-Based Interceptor: GBI) in Polonia e le stazioni di radiolocalizzazione nella Repubblica Ceca – le stazioni USA coprono oggi quasi l'intero territorio russo – Mosca teme che nei pozzi di lancio possano esser piazzati anche missili balistici d'attacco.

Per quanto riguarda il pericolo rappresentato per i satelliti LEO russi dai sistemi americani “Aegis”, il generale Viktor Poznikhir ricorda che quelli comprendono 30 GBI, 130 “Standard 3” – il sistema Standard 3.2A dal 2018 sarà in grado di intercettare i missili balistici strategici intercontinentali in ogni segmento della traiettoria – 150 sistemi THAAD, dislocati sia in territorio USA che in Europa e nella regione asiatico-pacifica. Washington programma di portare il numero a oltre 1.000 unità antimissile entro il 2022. “Considerata la natura globale del naviglio antimissile USA” ha detto Poznikhir, “sono in pericolo le attività spaziali di ogni paese, compresi Russia e Cina”; al tempo stesso, gli Stati Uniti stanno incrementando la propria flotta di satelliti LEO, la cui missione è quella di intercettare missili balistici nemici. Secondo Viktor Litovkin, citato da Svobodnaja Pressa, tale flotta supererebbe quella russa di almeno dieci volte ed è curata dal National Reconnaissance Office (NRO) con un budget annuale di circa 15 miliardi di dollari.

Ma, anche su terra Washington non va per il sottile. Andrej Polunin ricorda come, secondo le dichiarazioni del comandante delle forze Nato in Europa, il generale yankee Curtis Scaparrotti, Washington ritenga necessario l'invio in Europa di una divisione corazzata USA, in aggiunta agli oltre 60mila soldati già presenti. Una divisione corazzata si compone di 17.000 soldati, 290 carri “Abrams”, 330 mezzi di scoperta “Bradley”, 348 trasporti truppe M113; 24 lanciarazzi multipli e 24 sistemi razzo antiaerei "Avenger"; 50 elicotteri "Apache", 30 multifunzione "Black Hawk", 54 di scoperta "Kiowa" e 12 da disturbo elettronico; 60 semoventi con razzi anticarro “Toy” e 312 sistemi razzo anticarro "Dragon". Oltre a quella, Scaparrotti vorrebbe “aggiungere alle forze americane sul continente anche caccia-bombardieri di quinta generazione” e chiede che si “continuino gli investimenti” nella flotta subacquea e un più frequente invio verso le coste europee di portaerei e truppe da sbarco USA. Scaparrotti giudica insufficiente la terza brigata corazzata (250 carri e obici semoventi, 1.700 trasporti e 4.200 soldati) già giunta in Europa orientale e che, a differenza delle altre due, dislocate in Germania e in Italia, non avrà una base permanente. Questa verrà infatti suddivisa in piccoli contingenti, di stanza a rotazione in Polonia, Romania, Bulgaria e nei tre Paesi baltici, il che consente di non violare formalmente l'accordo del 1997 sul non dispiegamento permanente di “consistenti forze militari” in Europa orientale.

Il politologo Mikhail Aleksandrov, se da un lato ritiene che vari paesi Nato europei, di fronte alla prospettiva di mantenere queste ulteriori forze USA, preferirebbero investire le aumentate spese di bilancio (almeno il 2% del PIL) in un esercito europeo, dall'altro propone, in risposta a Washington, di spostare a occidente molte delle forze russe oggi dislocate oltre gli Urali e posizionarle ad esempio, a sud, nel territorio di Krasnodar, di fronte alla Crimea e, a nord, concentrare un paio di armate corazzate nella regione di Pskov, a ridosso dei Paesi baltici. D'altro canto, il generale-colonnello Leonid Ivašov ritiene che la decisione USA di accrescere le proprie già rilevanti forze in Europa sia dettata soprattutto da timori nei confronti di possibili svolte nel vecchio continente, alla vigilia delle presidenziali francesi e parlamentari tedesche: ne sarebbe testimonianza anche il recente conto di 375 miliardi di dollari presentato da Donald Trump a Angela Merkel per debiti tedeschi nei confronti della Nato. Ivašov parla della nuova prospettata divisione corazzata USA come di una forza di impatto forte di 3-4 brigate, lontana dunque da qualsiasi natura difensiva: “la Nato è già ora superiore alla Russia anche senza ulteriori divisioni e non ha bisogno di rafforzarsi. A meno che, ovviamente, non si appresti ad attaccare”. Servono forse a questo le esercitazioni a bassissima quota dei piloti tedeschi della Nato in Estonia, con i caccia “Eurofighter Typhoon” di stanza alla base di Ämari, una cinquantina di km a sudovest di Tallin: a mettere cioè alla prova le difese antiaeree russe, in vista di un attacco?

D'altronde, la presenza USA e Nato in Europa orientale è sempre più aperta: specialisti Nato sono al lavoro attorno alla polveriera ucraina di Balakleja, dopo il vasto incendio che l'ha semidistrutta la settimana scorsa; il Senato USA ha ratificato l'ingresso del Montenegro nella Nato, come “un ulteriore passo nella contrapposizione alla Russia” e l'ex vicepresidente Dick Cheney ha sproloquiato lo scorso 27 marzo di "atti di guerra" russi contro gli Stati Uniti.

A fronte delle dichiarazioni di Scaparrotti sulla “minaccia globale” russa, l'osservatore di Rossija segodnja Aleksandr Khrolenko ricorda che nel 2016 le forze USA hanno sganciato 26.000 bombe su sette paesi, mentre la rivista statunitense CounterPunch scrive che “dalla fine della Seconda guerra mondiale gli USA hanno tentato di rovesciare più di 50 governi stranieri; sganciato bombe sul oltre 30 paesi; cercato di uccidere più di 50 capi di Stato; sopprimere movimenti populisti e nazionalisti in 20 paesi; interferito grossolanamente nelle elezioni democratiche in almeno 30 paesi".

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30/03/2017

Orgoglio criminale

Inizia col saluto romano l’arringa di Massimo Carminati, prolusione scenica dell’orgoglio fascista rivendicato a piene mani. Non sono armate solo perché detenuto, con tanto di 41bis, ma come in altri suoi casi potrebbe intervenire la Provvidenza... L’intento è eliminare dalle accuse che lo inchiodano proprio questi legacci estremi di reclusione, fastidiosi, che limitano parecchio gli spazi al detenuto. Si ritiene un detenuto ideologico (ah, le belle gesta degli anni Settanta...), ma tutto il suo curriculum dice il contrario. Scorre, infatti, nella commistione fra eversione nera, Servizi (ha voglia a “sentirsi offeso” sul tema) e criminalità organizzata, trait d’union fra manovalanza fascista che usava le armi per ogni servizio assassino (l’esecuzione di attivisti comunisti Rossi, Scialabba, Tinelli, Iannucci, Verbano, quelle del giudice Amato e di giornalisti amici-nemici del Palazzo come Pecorelli) e gli affari loschi del potere economico-finanziario-politico fra P2 e dintorni.

Insomma soggetti che, nei vari ruoli, hanno insanguinato l’Italia. Col vizietto, fascistissimo, di minacciare, prevaricare, aggredire Carminati – diventato ‘cecato’ durante un conflitto a fuoco sul confine svizzero, dove l’auto su cui tentava di espatriare con due camerati e una refurtiva in denaro e diamanti, venne intercettata dalla polizia – ha attraversato molti fatti di sangue.

Quella menomazione di cui si fregia, segno per la vita è il marchio della sua vita, spesa fra l’appartenenza criminale eversiva e il crimine condotto per sé e compari, come aveva imparato frequentando taluni gaglioffi della banda della Magliana. Il suo percorso appartiene a una fase buia del recente passato italiano, fino agli ultimi strascichi della strategia della tensione a Bologna nell’agosto 1980, con i militanti dei Nar (Mambro, Fioravanti, Cavallini) nel ruolo bombarolo già interpretato dai Freda, Ventura, Tuti, fino alla strage del rapido 904 (dicembre 1984).

A questa compagnìa assassina Carminati aderiva con determinazione, lo ricorda e se ne vanta, forte della vaghezza di giudizio con cui ha scampato la condanna per taluni omicidi (Tinelli e Iannucci, Verbano, Pecorelli). Così le condanne che avevano portato ‘a bottega’ l’orgoglioso fascista sono state quelle meschinamente venali per traffico d’armi (ovviamente da guerra come i mitra Mab degli amici della banda della Magliana, conservati al ministero della Sanità), e per rapina a una filiale bancaria come qualsiasi delinquentello di periferia, altro che “azioni rivoluzionarie”.

Cercò più tardi di alzarsi di rango con un furto da ‘uomini d’oro’ al caveau bancario del Palazzo di giustizia di Roma. A forza di frequentarlo, evidentemente aveva le dritte giuste.

La sua seconda vita spericolata lo mostra più malavitoso che eversore, e il connubio col compare Buzzi (il cooperatore della "sinistra" criminale) addirittura lo pone in una posizione morale. Dice che il sindaco camerata Alemanno “era un sòla”: non pagava i lavori commissionati alle strutture della banda-cooperativa. Possiamo crederci, viste le pratiche abituali di quella e altre giunte.

Ma la distinzione “etica” fra "il mondo di mezzo" degli uomini di strada, cui lui apparterrebbe, che hanno un codice e "il mondo di sopra" della politica truffaldina fino al midollo, appare strumentale. Carminati fa finta di stupirsi, ma non può stupire. Il mondo di sopra l’ha conosciuto bene sia quando diceva di combatterlo coi sodali Mambro e Fioravanti, sia quando tutt'insieme ricevevano imbeccate, protezioni da Servizi e da certa politica che poi ha guardato altrove, li ha usati e abbandonati nel calderone degli eventi.

Forse anche per questo er cecato aveva ritirato in barca i remi dell’impegno eversivo e s’era lasciata aperta la porta del guadagno criminale. Certo, praticato rischiosamente, il proiettile che gli ha forato un occhio lo testimonia, un rischio che gli intrallazzoni del Palazzo non corrono mai. Però questi due mondi, come dimostrano decenni d'inchieste, sono legati indissolubilmente. E in base alla storia di Nar, banda della Magliana, cosche mafiose, Intelligence, P2 e politica istituzionale i due mondi avevano, e hanno, indissolubili rapporti.

Perciò l’autodifesa dell’omertoso e furbetto Carminati difetta di senso storico e realismo: l’eversione e la mafia hanno collaborato coi Palazzi. E nella capitale diventata mafiosa (per il senso d’intrecci fra affari di molta politica di destra, di sinistra e criminalità) la magistratura, se vorrà, potrà confermare e condannare un malaffare che vede legati come siamesi questi due mondi immondi.

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Brain stew


Bloccati i pullman dei lavoratori. Ecco lo Stato Penale all’opera

Nella foto, uno dei pullman bloccati dalla polizia questa mattina alle porte di Roma.

Balza agli occhi che gli occupanti dei pullman sono lavoratori, in particolare Vigili del Fuoco. Sabato scorso hanno bloccato i pullman dei manifestanti perché temevano l'arrivo dei black block al corteo contro il vertice dell'Unione Europea.

Hanno fermato e rinchiuso arbitrariamente in una caserma di periferia, tutto il giorno, 150 persone per la "loro appartenenza ideologica".

Questa mattina hanno fermato 9 pullman di lavoratori e lavoratrici precari che stavano venendo a Roma per una manifestazione sindacale della Usb. Sarà per la "loro appartenenza sindacale"?

Adesso basta! Questo clima di intimidazione, assedio e stato di polizia non può e non sarà accettato. A meno che non venga dichiarato l'inizio dello Stato Penale. Ma allora tutto cambia.

I lavoratori Lsu della Campania, bloccati, sono riusciti infine ad arrivare con tre ore ritardo alla manifestazione sindacale che li attendeva in piazza. GUARDA IL VIDEO

Qui di seguito una nota diffusa a metà mattinata dall'Unione Sindacale di Base.

Minniti non si ferma e persegue i precari

La polizia ha bloccato 15 pullman di lavoratori provenienti da Napoli e Bari per lo sciopero nazionale dei precari pubblici al casello di Roma sud e sta perquisendo sia i pullman che i lavoratori che vengono filmati uno ad uno. Basta repressione basta Minniti. Mentre aspettiamo che gli oltre 700 lavoratori bloccati dalla Polizia al casello di Roma sud arrivi in piazza Vidoni il dispositivo repressivo si dispone anche qui. Saranno presenti almeno 20 funzionari della Digos e ci sono blindati di polizia ad ogni angolo di strada. La vicenda dei dispositivi repressivi dentro la crisi non può essere più sottovalutata.

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Venezuela. Via gli speculatori: si torna a sfornare il pane per la popolazione

Il governo bolivariano del Venezuela, sta conducendo una serrata offensiva contro gli speculatori e gli accaparratori che stanno cercando di affamare la gente e provocare disagi e penuria strumentali nella popolazione. Il responsabile del Commercio Internazionale della compagnia petrolifera statale del Venezuela (Pdvsa), è stato nel frattempo arrestato con l’accusa di boicottaggio in base alla Legge Organica sui Prezzi Giusti e la Legge contro la Corruzione.

La panetteria espropriata e data in gestione al Potere Popolare poiché nascondeva la farina e non produceva pane, ora produce a pieno regime tutto il giorno. Sparite le code, scesi i prezzi e la gente dei quartieri vicini applaude alla decisione di Maduro. "Avvisare i nostri media!" è l'invito della Rete di solidarietà con la Rivoluzione Bolivariana (Foto inviateci da Caracas)





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Regeni - Il ministro egiziano del petrolio "rassicura"

di Chiara Cruciati – Il Manifesto

«Faremo ciò che serve. [L’Egitto] non mollerà finché il caso non sarà risolto». Parola del ministro egiziano del Petrolio Tarek al Molla. Dell’omicidio di Giulio Regeni, il ministro ha parlato ieri a Ravenna, a margine della conferenza Offshore Mediterranean.

«L’attenzione del governo sul caso Regeni è al livello massimo – ha continuato – Sono stati fatti grandi progressi con la collaborazione tra la procura italiana e l’Egitto. È prevista una visita in Egitto a inizio aprile da parte italiana per finalizzare la consegna dei documenti richiesti». Ovvero i verbali di dieci funzionari di vario livello della National Security, chiesti da piazzale Clodio con una rogatoria a metà marzo.

Nulla di nuovo sotto il sole delle dichiarazioni governative. Stavolta però a parlare è il rappresentante degli interessi egiziani in campo energetico, l’uomo che tiene i contatti con i colossi internazionali.

A partire dall’Eni, primo produttore in Egitto il cui ruolo si è arricchito ulteriormente a seguito della scoperta del super giacimento sottomarino di Zohr. Ed infatti al Molla tiene a precisare che i rapporti con il cane a sei zampe non subiranno alcun danno a causa del caso Regeni. Dissipa dubbi che non esistevano: nonostante il ritrovamento del corpo martoriato di Giulio e i palesi depistaggi di Stato, i rapporti commerciali tra Italia e Egitto non sono stati scalfiti. Soprattutto in campo energetico.

A Ravenna al Molla ha incontrato Marc Benayoun, l’ad dell’italiana Edison che sta esplorando i giacimenti offshore di Abu Qir, sul Delta del Nilo, e costruendo una nuova centrale elettrica che sfrutterà il gas del bacino, che ha una capacità produttiva di 13 milioni di metri cubi di gas al giorno. Un investimento da 100 milioni di euro a cui si aggiunge lo sfruttamento del 60% del giacimento di West Waidi el Rayan, il 20% di quello di Rosetta e il più recente (con un accordo siglato a gennaio) per l’esplorazione di Notheast Habi, per altri 86 miliardi di dollari.

Martedì il presidente al-Sisi ha invece incontrato al Cairo gli amministratori delegati di Eni, Bp e Rosneft, le tre aziende partner del giacimento Zohr. Meeting, quelli con Descalzi, sempre più frequenti e che vanno a cementare un rapporto di interesse che il caso di Giulio non metterà in discussione.

Durante l’ultimo incontro Descalzi, riporta Agenzia Nova, ha confermato che le attività di perforazione sono in corso e che la produzione comincerà entro la fine del 2017. Una produzione che l’Eni stima in 850 miliardi di metri cubi di gas e che sono parte di ricchezze tanto grandi da fare dell’Egitto l’ago della bilancia energetica nella regione e nel Mediterraneo.

Lo sa bene il ministro del Petrolio che, a nome del governo golpista al-Sisi, stringe mani e accordi che radicano l’impunità di un paese che ha messo in piedi un regime ancora più brutale della precedente dittatura: «L’Egitto ha le chiavi del futuro del gas nel Mediterraneo orientale», ha detto al Molla ricordando il ruolo di snodo rivestito dall’Egitto per il commercio via mare dal Golfo, via Suez, oltre all’esistenza di infrastrutture («Impianti di petrolio e gas, raffinerie, unità di rigassificazione e stoccaggio») che ne fanno un naturale hub energetico regionale.

Una miniera d’oro per le aziende già presenti con svariate ramificazioni, a partire proprio dalle italiane Eni e Edison: nel 2016 il cane a sei zampe ha investito nel paese nordafricano 2,7 miliardi di dollari e ha siglato a fine dicembre altri due accordi per i giacimenti offshore di North el Hammad e North Ras el Esh, confermandosi primo produttore in Egitto con 230mila barili al giorno e 14 miliardi di dollari di investimento totale.

A un anno e due mesi dalla scomparsa di Giulio, senza alcuna verità, risuonano le parole che l’allora premier Renzi dedicò al presidente al-Sisi in occasione della prima visita ufficiale del generale in un paese Ue: l’Egitto è «un’area straordinaria di opportunità». Un business tanto esplosivo da oscurare le condizioni di vita del popolo egiziano, soffocato da fame e repressione.