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24/03/2017

Siria, Washington cambia marcia

di Michele Paris

La progressiva implementazione delle decisioni sulla Siria della nuova amministrazione Trump sembra avere impresso una svolta a un conflitto entrato ormai nel settimo anno. Gli effetti delle iniziative già più o meno adottate e di quelle che si prospettano nel prossimo futuro si sono tradotti in un’impennata delle vittime civili in Medio Oriente, proprio mentre i colloqui di pace stanno per riaprirsi quasi senza aspettative a Ginevra e la cosiddetta coalizione anti-ISIS si è riunita a Washington senza i rappresentanti delle forze che stanno realmente combattendo sul campo i fondamentalisti islamici.

Il summit nella capitale americana ha avuto un qualche rilievo soprattutto per le dichiarazioni del segretario di Stato, Rex Tillerson. L’ex amministratore delegato di ExxonMobil ha chiarito come gli Stati Uniti non intendano abbandonare il proprio ruolo in Medio Oriente e, con buona pace di coloro che si attendevano una de-escalation della guerra in Siria dopo l’ingresso di Trump alla Casa Bianca, come siano allo studio manovre che rischiano seriamente di aggravare il conflitto in corso.

Tillerson è tornato a ipotizzare la creazione di “zone di sicurezza” in territorio siriano, controllate dai militari americani o dalle milizie armate che si battono contro il regime di Damasco, ufficialmente per facilitare il ritorno dei rifugiati nelle loro abitazioni.

Questa misura circola da tempo negli ambienti USA che da più di sei anni cercano di rovesciare il governo di Assad. La fazione del governo americano che faceva capo all’ex segretario di Stato, Hillary Clinton, aveva promosso negli anni scorsi l’istituzione di aree off-limits alle forze del regime o all’ISIS, così come il presidente turco Erdogan aveva a lungo cercato di ottenere il via libera dall’amministrazione Obama per questo stesso progetto.

Tillerson, riprendendo una promessa che lo stesso Trump aveva fatto subito dopo il suo insediamento, è ora tornato sull’argomento, tralasciando di far notare come una misura simile sia del tutto illegale e rischi di innescare un confronto militare diretto con le forze russe o di Damasco, dal momento che, come minimo, sarebbe necessario creare e far rispettare una “no-fly zone” nei cieli siriani.

Nel comunicato finale seguito al vertice della coalizione anti-ISIS non è stata comunque citata la possibile creazione di queste “zone di sicurezza”. Tuttavia, a Washington se ne continua a discutere seriamente. In queste aree, dopo avere cancellato la presenza dell’ISIS, le forze “ribelli” – curde o sunnite – potrebbero riorganizzarsi grazie ai propri sponsor internazionali e lanciare una nuova fase della guerra, diretta esclusivamente contro il regime di Assad.

Al di là delle forme che prenderà a breve il rilancio dell’impegno USA nel conflitto in Siria, il segretario di Stato di Trump ha assicurato che la presenza militare americana in questo paese e in Iraq, ma anche ovunque il “califfato” dovesse radicarsi, resterà una realtà non solo fino alla sconfitta di quest’ultimo ma anche in seguito per contribuire ai processi di “ricostruzione” che si renderanno necessari.

Delle conseguenze della nuova attitudine della Casa Bianca si è avuta un’anticipazione proprio mentre andava in scena la riunione di Washington. La stampa americana ha raccontato di come gli USA abbiano avviato a partire da martedì un’operazione militare che non ha precedenti in Siria, inviando uomini dei reparti speciali a sostegno delle Forze Democratiche della Siria, all’interno delle quali prevalgono le milizie curde, “al di là delle linee dell’ISIS”.

L’operazione rientra nel quadro del progettato assalto alla capitale dell’ISIS in Siria, Raqqa, e si sta concentrando in questa fase iniziale su una diga sul fiume Eufrate nelle mani degli uomini del “califfato”, allo scopo di aprire una via di penetrazione da occidente verso la città. L’attacco sembra essere condotto con un imponente dispiegamento di forze, tanto che gli stessi vertici militari hanno faticato a ribadire la solita versione ufficiale, cioè che i soldati americani impegnati sul campo hanno un semplice ruolo di “consiglieri” in appoggio delle milizie curde e sunnite.

Il New York Times ha spiegato che la strategia USA in Siria assomiglia sempre più a quella in Iraq, dove da mesi è in corso una durissima battaglia per la liberazione della città di Mosul dalle forze dell’ISIS. Anche in Siria, cioè, gli Stati Uniti stanno sempre più facendo ricorso a forze convenzionali con incarichi di combattimento a fianco delle milizie locali che, almeno ufficialmente, dovrebbero condurre la gran parte delle operazioni.

Il dibattito sull’intensificazione dell’impegno americano in Siria continua in ogni caso a evitare il punto più importante della questione, vale a dire la totale illegalità delle operazioni militari in corso. L’amministrazione Trump sta in sostanza accelerando un’offensiva iniziata da Obama e che già non aveva alcuna base legale legittima, se non quella creata appositamente dallo stesso governo americano.

È importante inoltre sottolineare come il rinnovato sforzo militare USA sia già drammaticamente visibile nonostante Trump non abbia ancora formulato in modo ufficiale la nuova politica relativa al conflitto in Siria. Gli sviluppi di questi giorni sarebbero infatti solo la conseguenza dell’allentamento delle regole a cui devono sottostare i militari nel condurre le operazioni sul campo.

La Casa Bianca ha cioè cancellato le limitazioni decise da Obama e che intendevano ridurre le vittime civili, anche se spesso in maniera del tutto inefficace. Il Pentagono ha ora la facoltà di agire senza ricevere l’autorizzazione dell’autorità civile e senza la necessità di adoperarsi affinché le operazioni non si risolvano in stragi di innocenti.

Il bilancio dei civili massacrati in Siria dalle bombe americane nelle ultime settimane è perciò salito vertiginosamente. L’episodio più recente è stato registrato martedì, quando i jet americani hanno distrutto una scuola nell’area della città di Raqqa che ospitava un centinaio di rifugiati. Le prime notizie davano più di 30 morti, ma il numero delle vittime potrebbe essere in realtà molto più alto.

Solo qualche giorno prima, un’altra incursione nella provincia di Idlib aveva ucciso più di 40 civili dopo che era stata colpita una moschea. I militari americani avevano sostenuto che il bombardamento aveva interessato un edificio vicino, dove si trovavano miliziani qaedisti, ma le testimonianze dei residenti e delle organizzazioni umanitarie hanno smentito questa versione, costringendo il Pentagono ad aprire un’indagine sull’accaduto.

Oltre alle conseguenze per la popolazione civile, il maggiore coinvolgimento americano in Siria, destinato a crescere ulteriormente nelle prossime settimane, rischia anche di allargare un conflitto già complicatissimo. La nuova strategia di Trump dovrà fare i conti ad esempio con le resistenze della Turchia ad accettare come legittime le forze curde, a cui gli Stati Uniti sembrano essere intenzionati ad assegnare un ruolo ancora più importante nel conflitto.

Soprattutto, però, la maggiore presenza e intraprendenza americana in Siria minaccia di scontrarsi con le operazioni militari della Russia in difesa del regime di Assad. Nonostante Trump avesse prospettato una qualche collaborazione con Mosca nella lotta all’ISIS anche in Siria, finora su questo fronte non sembrano esserci stati particolari progressi.

Anzi, gli sviluppi degli ultimi due mesi indicano piuttosto l’aggravamento del rischio di un confronto militare diretto tra le due principali potenze coinvolte in una guerra che continua a martoriare il paese mediorientale.

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