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30/04/2017

Migranti, soccorsi in mare, demagogie. Una soluzione possibile

Nel Consiglio di Sicurezza Onu risiedono nazioni che hanno enormi responsabilità nella destabilizzazione di Africa e Medio Oriente. Tutte, a vario titolo, hanno interessi geopolitici diretti in questa parte del pianeta. Il mare Mediterraneo si trova oggi ad essere attraversato da migrazioni prodotte in gran parte dalle loro azioni, e la Libia post Gheddafi è un paese fuori controllo dentro il quale avviene ogni sopruso sulle persone transitanti. Persone che spesso trovano la morte nel deserto o in mare, divenuto oramai l'unica via per arrivare in Europa dopo la chiusura delle frontiere.

L'Italia, la nazione che più di altre è investita dalla rotta dei migranti, affronta questo fenomeno ottemperando agli obblighi internazionali e rispettando le leggi del soccorso in mare. Il Governo italiano deve chiamare alla responsabilità le nazioni che producono i disastri e poi se ne lavano le mani come Francia Usa e Gran Bretagna. Il Governo italiano deve pretendere la convocazione del Consiglio di Sicurezza dell'Onu sull'emergenza dei migranti nel Mediterraneo e ottenere una risposta.

La proposta che avanza il Forum Lampedusa Solidale, quella di dare un visto umanitario a tutti i transitanti che si trovano oggi in Libia che sia valido per tutte le nazioni che hanno firmato la Convenzione di Ginevra dovrebbe pertanto essere fatta propria da tutte le forze politiche ed associative di questo paese. Essa infatti incarna l'articolo 10 della nostra Costituzione e da all'Italia la possibilità di sviluppare un'azione politica che la qualificherebbe in sede internazionale dato che è l'unico paese ad avere un'ambasciata in Libia che può rilasciare tali visti.

L'Italia deve tornare ad essere il paese con una propria funzione politica di pace nel Mar Mediterraneo, aver salvato centinaia di migliaia di vite nel disinteresse dei paesi europei le dà la forza politica e morale per pretendere una risposta internazionale rispetto alla questione dei transitanti della Libia. Gentiloni faccia sua la proposta che arriva da Lampedusa e ponga nelle giuste sedi la questione.

Firmare e far girare questo appello, discuterne ovunque, è quindi importantissimo. Questo appello dovrebbe essere inoltre presentato come ordine del giorno nei consigli comunali, come mozione parlamentare ed europarlamentare. Occorre uscire dalla logica dell'emergenza per affrontare il nodo politico. Penso che questo appello sia un utile proposta per andare in questa direzione.

F.P

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L’appello del Forum Lampedusa Solidale

I diritti salvano vite Per l'apertura di Corridoi Umanitari globali dalla Libia

Dall'isola di Lampedusa da anni vediamo arrivare molte persone salvate dal mare, salvate dalle leggi degli uomini che lasciano per loro solo la strada delle onde e dai trafficanti che ne traggono profitto. Da questa isola da anni sentiamo sulla pelle il vento che spinge via queste persone dalla loro terra. É un vento che solleva la polvere delle case distrutte dalle bombe, la terra resa deserto dalla siccità. É il vento della miseria prodotta dallo sfruttamento dell’uomo sull'uomo, su donne e bambini.

Da qui contiamo ogni settimana i morti, proviamo a dare storia e dignità agli scomparsi, assistiamo impotenti al dolore dei sopravvissuti. Oggi viviamo tempi barbari, tempi in cui chi salva vite in mare viene accusato, mentre chi ha sparso guerre e miseria si fa legge e giudice. Alle barbarie del presente opponiamo il futuro dell’umanità, lo facciamo per ristabilire la verità della Storia a fronte delle menzogne dei potenti.

Solo chi ha reso il mare frontiera è responsabile di questa tragedia che viviamo, non chi salva vite.

E chi oggi propone di fermare i migranti in Libia sa bene che in quel paese la situazione è tragica e che le persone che vi si trovano a transitare subiscono ogni tipo di violenza. A fronte di tutto ciò
Chiediamo che venga immediatamente convocato il Consiglio di Sicurezza dell’Onu, per affrontare con una strategia globale l’emergenza nel Mediterraneo.
Chiediamo l’istituzione di un visto umanitario globale per chi si trova oggi in Libia, un visto valido per tutte le Nazioni che hanno aderito alla Convenzione di Ginevra.
Chiediamo che il visto venga rilasciato dall'ambasciata italiana oggi presente nel paese.

Quello che chiediamo è di intervenire immediatamente per affrontare attraverso il diritto l’emergenza prodotta dalle guerre e dall'ingiustizia globale.

Questa petizione sarà consegnata a:
United Nations
United Nations Security Council
Council of the European Union

Per firmare vai su https://www.change.org/o/forum_lampedusa_solidale

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Marwan Barghouti infiamma le strade palestinesi

di Michele Giorgio

Ai posti di blocco israeliani intorno alle città palestinesi e a Gerusalemme est, i manifestanti ieri hanno trovato soldati in assetto antisommossa, pronti a rispondere al “Giorno della rabbia” proclamato dal partito Fatah a sostegno dello sciopero della fame che da 12 giorni osservano oltre 1500 palestinesi nelle carceri israeliane. I feriti tra i dimostranti sono stati decine, alcuni da proiettili veri. Gli scontri più seri sono divampati davanti alla prigione di Ofer, a Betlemme, Betunia, Qalandiya, a Silwad, Tequa, Nablus, Hebron e altre località della Cisgiordania. Spiccavano i poster con l’immagine di Marwan Barghouti, il segretario generale di Fatah, incarcerato con cinque ergastoli in Israele e messo in isolamento perché promotore dello sciopero della fame.

Contro le previsioni di molti, in Israele e anche tra i palestinesi, lo sciopero della fame va avanti. Accusato da non pochi nel suo partito di cercare, attraverso questa protesta, visibilità e potere, boicottato dal movimento islamico Hamas che ha ordinato ai suoi militanti in carcere di non aderire allo sciopero organizzato dai rivali di Fatah, descritto come un “terrorista sanguinario” da Israele, Barghouti ha dimostrato di poter ancora accendere le strade della Cisgiordania. Proprio come fu in grado di fare prima e durante la Seconda Intifada (2000), quando a capo di Tandhim, l’organizzazione di base di Fatah, guidò la protesta palestinese contro gli accordi di Oslo, Israele e anche l’Anp. È la prima volta dai giorni della Seconda Intifada che Fatah rivolge un appello alla popolazione a «cercare lo scontro» con i soldati. Una novità che ha messo in allarme i comandi militari israeliani e spinto l’Autorità nazionale palestinese (Anp) a schierare centinaia di agenti di polizia nei punti più caldi per impedire l’escalation degli scontri.

Quella di ieri è stata una prova generale dell’iniziativa popolare che le correnti di Fatah legate a Barghouti stanno organizzando per il prossimo 3 maggio in Piazza Mandela a Ramallah, proprio nel giorno in cui il presidente dell’Anp Abu Mazen incontrerà alla Casa Bianca Donald Trump. Un raduno, si prevede, di migliaia di palestinesi che potrebbe mettere in imbarazzo un Abu Mazen che vuole presentarsi da Trump come un leader che controlla la situazione e implacabile con dissidenti e avversari politici come dimostra il braccio di ferro che ha avviato con il movimento islamico Hamas a Gaza.

Ambizioni velleitarie quelle del presidente palestinese. Abu Mazen resta un leader debole non in grado di influenzare in alcun modo le decisioni di Israele. Il governo Netanyahu fa ciò che vuole. Ha appena fatto sapere, attraverso il ministro dell’edilizia Yoav Galant, di voler costruire 15.000 nuove case a Gerusalemme est, il settore palestinese della città che Israele ha occupato 50 anni fa. «Costruiremo 10mila unità a Gerusalemme (Ovest, la zona ebraica) e circa 15mila nei confini municipali della città (a Est)», ha spiegato Galant.  L’annuncio potrebbe essere fatto nel “Giorno di Gerusalemme”, il 24 maggio, due giorni dopo l’arrivo di Trump in Israele.

A scuola da Lombroso. Storie di ordinaria “slavofobia”

di Claudia Cernigoi - storica

Non conoscevamo l'esistenza di tale Veronica Tomassini, che sembra essere una scrittrice (quanto meno ha pubblicato dei libri, che può non essere la stessa cosa), però ci è stato segnalato un orripilante articolo, pubblicato sul Fatto Quotidiano (che effettivamente ogni tanto pubblica articoli decisamente esecrabili, come spiegheremo meglio in seguito), dove la suddetta Tomassini parla di "Igor", il serial killer latitante nella profonda Romagna (non essendo tale zona paragonabile alla giungla amazzonica ci si domanda come possa non essere ancora stato catturato).

Leggiamo l'incipit dell'articolo (e non andremo avanti, perché le due frasette sono più che sufficienti, il seguito oltretutto scade in un grand guignol francamente fastidioso).
"C’è una crudeltà slava o balcanica che è intraducibile. Può essere restituita solo andando alla radice di uno spirito nazionalista o di un gene persino".
Tralasciando la sintassi ("gene persino"? mah!) la scrittrice Tomassini si rivela non solo razzista, ma anche sciatta. Razzista perché attribuisce agli "slavi" (non meglio identificati) una crudeltà addirittura "genetica" (dando così dei punti persino a Lombroso); sciatta perché parlando di "crudeltà slava o balcanica" dimostra di non sapere di cosa stia parlando. Parlare di crudeltà "slava" sarebbe come parlare di crudeltà "neolatina"; gli "slavi" comprendono svariati popoli, molto diversi tra di loro, dai polacchi ai bulgari, dagli sloveni ai russi, passando per i cechi e gli slovacchi... anche i serbi ed i croati, sì, sono slavi, ma non sono i soli "slavi", esattamente come "neolatini" sono spagnoli e francesi, italiani e rumeni, portoghesi e ladini. Oserebbe mai qualcuno parlare di "crudeltà neolatina" per definire, ad esempio, gli omicidi di mafia, tipicamente siciliani (regione nella quale Tomassini vive, e dovrebbe conoscere), ma non propri a TUTTI i siciliani (e ci mancherebbe! per fortuna la maggior parte dei siciliani non sono criminali mafiosi, esattamente come la maggior parte dei serbi non sono assassini seriali)? Allora, perché parlare di "crudeltà slava" perché c'è uno psychokiller di origine forse ungherese (e gli ungheresi non sono "slavi", tra l'altro) o forse serba?

Secondo punto: la crudeltà se non è "slava" è però "balcanica". I Balcani, cara scrittrice che forse dovrebbe dare un ripasso di geografia, sono quella penisola che inizia al confine orientale d'Italia e comprende, oltre ad alcune nazioni "slave" (ma non tutte, ad esempio i polacchi sono ben distanti) anche albanesi, greci, macedoni... come parlare di "crudeltà iberica" perché un portoghese ha commesso una strage, o uno spagnolo ha ammazzato moglie e figli...

Nella sua scheda sulla pagina del Fatto Quotidiano, la "scrittrice" chiosa: "Non vorrei aggiungere la mia età, tanto non la dimostro".

No, poco gentile Veronica, lei la sua età non la dimostra soprattutto per le cose che scrive e per come le scrive. Peccato che i suoi scritti facciano "opinione" e contribuiscano ad istigare xenofobia e razzismo. Ma questa non è colpa sua, è colpa della redazione che gliele lascia passare, ovviamente.

https://veronicatomassini.wordpress.com/2017/04/13/igor-alla-radice-del-male/

P.S. La costante di un odio antislavo sulle colonne del Fatto Quotidiano: il 02/10/13 Massimo Fini, nella sua rubrica personale ha scritto che "ci troviamo tanto in difficoltà con gli immigrati soprattutto di origine slava, che la violenza ce l’hanno nel sangue".

Ecco. Fini e Tommassini probabilmente hanno fatto la stessa scuola. Spiace peraltro che certe cose siano diffuse da un quotidiano che "fa opinione" tra coloro che cercano un'alternativa alle veline istituzionali.

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Primarie Pd, qualche precisazione...

Nel gran giorno della “kermesse” propagandistica del PD è il caso di precisare alcuni punti di terminologia politica cercando di svelare l’inganno nel quale risulteranno avviluppati elettrici ed elettori che coltivassero la ventura di recarsi ai cosiddetti “gazebo”.

Prima di tutto non si tratta di elezioni primarie perché l’esito di esse non sarà utilizzato (come invece accade negli USA) in successive elezioni “secondarie”.

Si tratta soltanto di una scelta interna a un partito che preferisce questa via, assolutamente non congrua rispetto al tipo di sistema politico impostato in Italia dal dettato costituzionale, per scegliere i propri organismi più o meno dirigenti.

E’ del tutto arbitrario sostenere, come ha fatto Renzi nei giorni scorsi, che oggi si sceglie “il premier”.

Oggi chi intende occuparsi delle cose del PD sceglie alcune figure (il segretario, i membri di una pletorica assemblea nazionale) del “partito” per il “partito”.

L’inganno, piuttosto grossolano, nasce da un’altra forma di mistificazione ben più grave: quella relativa all’introduzione, in Italia, della cosiddetta “democrazia governante” proveniente dal modello USA adattato malamente.

Quello della “democrazia governante” è stato un veleno inoculato da Arturo Parisi, Romano Prodi, Mario Segni, Marco Pannella (tutti feroci nemici della sinistra) con la clamorosa accondiscendenza del PDS che pensava soltanto al governo quale espressione – finalmente – dell’accesso ai salotti (neppure alla stanza dei bottoni di Nenni, che si era già dimostrata non esistere. I bottoni in realtà li avevano tutti in tasca Andreotti e la P2, ma proprio e soltanto i salotti nel più classica accezione dei “parvenu”) e soci nel momento in cui, stipulato il trattato di Maastricht e caduto il muro di Berlino, si pensava che il pensiero unico “liberista” avrebbe rappresentato una sorta di “Reich millenario”.

Un colossale pasticcio dal quale nacque un’incredibile alternanza tra l’estrema destra populista rappresentata dal berlusconismo e un coacervo che copriva tutto l’arco dell’ideologia politica partendo dal trotzkismo fino agli epigoni di Gladio e della CIA.

In quel frangente fu così’ raccontata la favola di un’inesistente “seconda repubblica”.

Naturalmente questa storia della “seconda repubblica” e delle “primarie” ha potuto essere raccontata grazie ad un complesso di incredibili complicità che hanno coinvolto l’intero sistema mediatico, facendo leva sullo sconcerto causato su gran parte del corpo elettorale dalla vicenda di Tangentopoli: sacrosanta nel suo svolgimento ma manipolata nella sua narrazione allo scopo di distruggere tutti i livelli di intermediazione politico – sociale e, in particolare, i partiti al fine di sviluppare quel meccanismo rivelatosi egemone e definito “antipolitica”.

Un’assunzione di “antipolitica” dalla quale è nato un soggetto come il M5S, figlio diretto di questo incredibile stato di cose protrattosi per un ventennio: adesso chi lo ha creato chiede di combatterlo con accenti da “patria in pericolo” e da “linea del Piave”.

Non è mai esistita alcuna “seconda repubblica” perché non è mai stata modificata la Costituzione nei punti riguardanti la forma dello stato, la forma di governo e il parlamento: chi ci ha provato, D’Alema, Berlusconi, Renzi, si è scottato trovando un’ostilità generale, ed è grazie a quest’ostilità che manteniamo ancora un barlume di assetto democratico.

E’ stata mutata soltanto la legge elettorale, più volte e in due casi questo cambiamento è stato anche sonoramente sconfessato dalla Corte Costituzionale.

Ed è questo il punto conclusivo sul quale riflettere.

Oggi non si elegge niente e nessuno, si scelgono soltanto gli organismi dirigenti di una sedicente partito e questo fatto riguarda esclusivamente chi ha interesse in quella direzione.

In realtà il vero conflitto che attraversa questo sistema politico è quello riguardante l’idiosincrasia di tutti gli attori di questa commedia verso la suddivisione dei poteri: quasi realizzato l’assorbimento del potere legislativo in quello esecutivo grazie allo svuotamento del ruolo del Parlamento e la costruzione di maggioranze “drogate” composte da parlamentari “nominati” lo scontro, vero ed eterno (i duellanti) è quello con la magistratura, come dimostrano anche i fatti della più stretta attualità (e la stessa storia di questi vent’anni).

Uno scontro, anch’esso, dai contorni tutt’altro che limpidi.

In conclusione vale la pena, per capire meglio dove ci troviamo e dove stiamo andando, rileggere un vecchio documento: quello di “Rinascita Nazionale” stilato della P2 nel lontano 1975.

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I giorni della Liberazione. 30 Aprile /6


Al civico obitorio dell’Istituto di medicina legale dell’Università di Milano in via Ponzio, alle 7 del 30 aprile, il professor Caio Mario Cattabeni, sotto la sorveglianza del partigiano prof. Pietro Bucalossi (generale medico “Guido”) effettuò l’autopsia sul solo corpo di Mussolini, mentre non venne toccata la Petacci.

L’autopsia riscontrò sul cadavere sette fori di proiettile in entrata e sette fori in uscita sicuramente prodotti in vita e sei fori successivi alla morte. Individuò come causa mortis la recisione dell’aorta da parte di un proiettile. L’autopsia, scrisse poi Cattabeni, fu eseguita, “in condizioni di tempo e di luogo del tutto eccezionali, entro una sala anatomica dove facevano irruzione ogni tanto, per l’assenza di un servizio armato d’ordine pubblico, giornalisti, partigiani e popolo“.

Alcuni estratti del Referto autoptico:
“La salma è preparata sul tavolo anatomico priva di indumenti. Pesa kg. 72. La statura non può misurarsi che per approssimazione in m.l. 1,66, data la cospicua trasformazione traumatica del capo (l’ex duce risultava alto m. 1,69, ndr). L’enecefalo, asportato nelle parti residue, è stato fissato in liquido formolico per successivo esame anatomico ed istopatologico. Un frammento di corteccia è stato concesso su richiesta dell’Ufficio di Sanità del Comando della V Armata (Calvin S.Drayer) al Dr. Winfred H Overholser dell’Ospedale Psichiatrico di S. Elisabetta a Washington.”
Prima e dopo l’autopsia furono scattate numerose fotografie. Esse non sono qui riportate, tranne una, in quanto non necessarie a questa cronaca. I corpi vennero poi deposti entro casse di legno, usate come bare: anche su questo vi è ampia documentazione fotografica in rete.

Il 9 giugno il colonnello Charles Poletti, Governatore Militare della Lombardia per l’Amministrazione Militare Alleata, richiese due copie autenticate del referto dell’autopsia da consegnare al console americano a Lugano, incaricato di redigere un rapporto ufficiale sugli ultimi giorni di vita di Mussolini.

I rilievi autoptici più affidabili, fatti in riesame completo a posteriori, partendo dall’autopsia del prof. Cattabeni e basati anche sulla rigidità del corpo dell’ex duce in Piazzale Loreto [36], indicano un orario del decesso non anteriore alle 16.00-16.30 del giorno precedente, e non al mattino, confermando la versione dei fatti di Walter Audisio e le altre simili.

Quando, dopo molte traversie, la salma venne tumulata a Predappio nel 1957, anche il cervello, che era stato prelevato durante l’autopsia e conservato in formalina nell’Istituto di medicina legale di Milano viene restituito e tumulato con gli altri resti.

 Fig. 38. Documenti riguardanti l’autopsia di Mussolini, in particolare la richiesta da parte degli USA di un campione del cervello.

 Fig. 39. Istituto di Medicina Legale, Milano. Ci si accinge all’autopsia di Mussolini, 30 aprile 1945.


Appendice (Carteggio Churchill-Mussolini)

Il “carteggio Churchill-Mussolini” era costituito da lettere e documenti, in originale o “brutte copie”, scambiate nel 1940 fra i due, che Mussolini aveva portato con sé fuggendo da Milano il 25 aprile e che custodiva personalmente al momento della cattura il 27: due borse di cuoio, con i 350 documenti più riservati, fra cui il carteggio.

Nell’immediato dopoguerra, Churchill in persona e i servizi segreti britannici riuscirono con successo a recuperare gli originali e gran parte delle copie del carteggio. Pertanto, tale documentazione è tuttora inaccessibile.

La sera del 27 le borse furono depositate presso la filiale della CARIPLO di Domaso dal partigiano Urbano Lazzaro “Bill”. Successivamente furono affidate al parroco di Gera Lario, don Franco Gusmeroli, che li nascose nella cripta della chiesa. Infine, pervennero al comando del CVL di Como. Il 4 maggio 1945 tutto il materiale, a cui erano stati uniti altri documenti di Mussolini provenienti da una terza borsa sequestrata a Marcello Petacci e consegnati da Aldo Lampredi al comando comasco, furono esaminati da una commissione formata, tra l’altro, dal segretario della Federazione comunista locale, Dante Gorreri e dal nuovo prefetto di Como, Virginio Bertinelli. Il carteggio constava di 62 lettere, di cui 31 a firma Churchill e 31 a firma Mussolini. Dopo la visione degli stessi, fu commissionata la fotoriproduzione di tutti i documenti alla Fototecnica Ballarate di Como, che ne effettuò due copie: l’originale rimase in possesso di Dante Gorreri.

Altre copie dell’originale pare siano state fatte da Mussolini nei mesi precedenti la disfatta e consegnate a diverse persone. Non seguiamo le vicende di queste copie: è una cosa oziosa, visto che neppure una è mai stata rinvenuta.

Il 2 settembre 1945, Churchill si recò sul lago di Como, a trascorrere una breve vacanza a Moltrasio, sotto il falso nome di colonnello Waltham. L’ex premier britannico si recò nella sede del comando della 52ª Brigata Garibaldi e poi incontrò il direttore della filiale CARIPLO di Domaso, che aveva custodito le borse contenenti il carteggio; infine, fece contattare Dante Gorreri dal capitano dei servizi segreti britannici Malcolm Smith. Il 15 settembre, Gorreri consegnò gli originali delle 62 lettere del carteggio Churchill-Mussolini al capitano Smith, in cambio della somma di due milioni e mezzo di lire in contanti. Una delle due copie del carteggio era già stata recuperata da Smith il 22 maggio.

L’altra copia, riposta nella cassaforte della federazione comunista di Como, fu trafugata nel 1946 da Luigi Carissimi Priori e consegnata ad Alcide De Gasperi, che avrebbe – anche se non appare plausibile – trasferito l’intero carteggio in una cassetta di sicurezza in Svizzera.

Luigi Carissimi Priori asserì di aver sommariamente letto le lettere: le datò al periodo antecedente all’entrata in guerra dell’Italia (maggio 1940). L’oggetto del carteggio riguardava, in sostanza, delle trattative con l’Inghilterra per impedire che l’Italia partecipasse attivamente al secondo conflitto mondiale, non entrando in guerra a fianco della Germania. In compenso, all’Italia sarebbero state offerte delle gratificazioni territoriali. In questa forma, visto il periodo di cui si tratta (1939/40), l’intavolarsi di una tale trattativa segreta appare non impossibile.

Ma – questo è il punto sostenuto da Mussolini e dalla pubblicistica neofascista o revisionista – gli inglesi avrebbero anzi chiesto a Mussolini proprio di entrare in guerra a fianco della Germania, in modo che il duce potesse influire su Hitler per moderarne le richieste, come già fatto a Monaco nel 1938, in caso di trattative di pace con l’Inghilterra sconfitta. I compensi territoriali sarebbero stati promessi quindi in cambio della mediazione. Questa interpretazione – invece – non è suffragata da alcuna prova o dato fattuale, ed appare chiaramente ex-post, autoconsolatoria e giustificatoria, per la “pugnalata alla schiena” inferta dall’Italia alla Francia nel maggio 1940 con la dichiarazione di guerra e per la responsabilità davanti alla Storia dell’ex-duce di essere entrato in guerra e aver causato la rovina dell’Italia.

Negli ultimi mesi di vita, pare, il dittatore fascista cercò poi di intavolare una trattativa segreta con gli inglesi: vi potevano quindi essere ulteriori carteggi risalenti al 1945, anche se si trattò, nella sostanza, di tentativi di ricatto di Mussolini a Churchill, fatti probabilmente menzionando il carteggio di 5 anni prima, tentativi cui il primo ministro inglese rispose evidentemente picche. Altro da offrire, nel 1945, Mussolini non aveva agli alleati: le pretestuose profferte di utilizzo dell’inesistente esercito della RSI in una supposta guerra contro l’URSS fanno il paio con le altrettanto deliranti profferte simili, fatte dai nazisti assediati a Berlino nell’aprile 1945, e ricevettero – se mai furono fatte – la stessa accoglienza di chiusura totale. Mussolini, fra il settembre 1944 e l’aprile 1945, accennò per iscritto, a voce, per telefono, con diverse persone, dell’esistenza dei carteggi, sostenendo la sua tesi della “richiesta di mediazione” da parte di Churchill, e dell’essere stato quindi “costretto” ad entrare in guerra, come accennato sopra: queste fonti sono in alcuni casi dimostrabili, come per tre lettere a Rodolfo Graziani, ministro della guerra della RSI, o anche le intercettazioni di varie telefonate di Mussolini, fatte dai servizi segreti alleati. Ma nulla più provano – sul contenuto reale del carteggio – che non la parola di Mussolini stesso e la sua versione.

L’interesse inglese a far sparire il carteggio – dato esso per esistente – non ha nulla di misterioso e si spiega facilmente, contenendo esso diverse lettere probabilmente imbarazzanti di Churchill a Mussolini, per convincerlo appunto a NON entrare in guerra durante i primi mesi del 1940.

Se per assurdo i compensi territoriali promessi fossero stati poi, come asserito da fonti revisioniste, l’intera Dalmazia, il possesso definitivo delle isole greche del Dodecaneso, di tutte le colonie italiane, della Tunisia, e addirittura della Corsica e di Nizza, essi – se pur concepibili, anche se non in tal misura, visto il frangente nel quale vennero scritte e la usuale spregiudicatezza delle trattative diplomatiche – potevano essere fonte di serio imbarazzo degli inglesi con la Francia, con la Grecia e con la Jugoslavia.

Anche se questi compensi – che appaiono improbabili ed esagerati – non fossero mai stati offerti, o fossero stati assai più modesti (possesso delle colonie, Dodecaneso, compensi in Dalmazia), lo scambio stesso di missive con l’ex duce non poteva non imbarazzare Churchill, dato che era probabile – come d’uso in diplomazia – che le lettere contenessero anche – ad inizio e fine lettera – espressioni formali di cortesia o di apprezzamento, che – avulse dal contesto come è solita fare la pubblicistica revisionista – potevano essere spiacevoli ed imbarazzanti da leggere, nel dopoguerra.

In conclusione, il carteggio probabilmente esisteva, ed era assai imbarazzante “di per sè” per il Primo Ministro inglese nel 1945. Appare però assai improbabile che Churchill promettesse seriamente all’Italia compensi territoriali molto vasti. Appare assurdo poi che pregasse l’Italia di entrare in guerra per fare la mediatrice, sicuro della propria sconfitta: Churchill ebbe notoriamente sempre atteggiamento opposto.

L’insipienza militare italiana provocò certamente alla Germania dei seri danni durante la guerra: in particolare, è un fatto che l’anteposizione dell’intervento nei Balcani, nella primavera del 1941, all’invasione dell’Unione Sovietica – intervento reso necessario anche dalla situazione degli italiani messi alle corde dall’esercito greco – fece perdere alla Germania un paio di mesi di tempo prezioso per arrivare a Mosca prima dell’inverno. Ma tutto ciò non fu assolutamente “voluto” dall’Italia, né tantomeno concordato con gli Alleati.

Tornando al carteggio, è assai probabile che invece le affermazioni “misteriose” di Mussolini a riguardo, ampiamente riportate da molta pubblicistica neofascista o comunque revisionista, non fossero altro che – avendo egli in mano un reperto segreto e comunque scottante – una sorta di autoinganno per sé ed i suoi, o un estremo tentativo ambiguo di giustificare le proprie responsabilità davanti alla Storia, cercando di schizzare un poco del fango nel quale la memoria del personaggio Mussolini stava affondando, ed è immersa, su Churchill e gli alleati.

Bibliografia – Testi sugli ultimi giorni di Mussolini

La pubblicistica e gli studi sulla Resistenza sono numerosissimi. Citiamo alcuni testi che sono stati consultati e risultano utili, esclusivamente restringendoci a quelli utili o specifici per la storia di questi pochi giorni.

Testi generali che contengono riferimenti e dati sugli ultimi giorni di Mussolini

1 Giorgio Bocca, Storia dell’Italia partigiana (Laterza 1966)

2 Battaglia R., Storia della Resistenza italiana, Einaudi, Torino 1964

3 Paolo Emilio Taviani, Breve storia della Resistenza italiana, Museo storico della Liberazione, Edizioni Civitas, Roma 1995

4 Piero Calamandrei, Uomini e città della resistenza, Roma-Bari, (Laterza 1955, 1977, 2006)

5 Giorgio Bocca, La Repubblica di Mussolini (Mondadori, 1995)

6 Pietro Secchia, Il Partito comunista italiano e la guerra di Liberazione 1943-1945. Ricordi, documenti inediti e testimonianze, in “Annali”, Istituto Giangiacomo Feltrinelli, anno tredicesimo, 1971

7 L. Cavalli, C. Strada, Nel nome di Matteotti. Materiali per una storia delle Brigate Matteotti in Lombardia, 1943-1945, FrancoAngeli, Milano, 1982

8 Luigi Borgomaneri, Due inverni, un’estate e la rossa primavera: le Brigate Garibaldi a Milano e provincia (1943-1945), FrancoAngeli, 1985

9 Gabriella Nisticò, Giampiero Carocci, Le Brigate Garibaldi nella Resistenza: documenti, Milano, Feltrinelli, 1979

10 Luigi Longo, Pietro Secchia, Storia del Partito comunista italiano, Torino, Einaudi, 1975

11 Pierangelo Lombardi, L’illusione al potere. Democrazia, autogoverno regionale e decentramento amministrativo nell’esperienza dei Cln (1944-1945), Milano, FrancoAngeli, 2003.

12 Democrazia al lavoro. I verbali del CLN lombardo (1945-1946), 2 volumi, Firenze, Le Monnier, 1981.

13 Storie della Resistenza, a cura di Domenico Gallo e Italo Poma (Sellerio 2013)

14 Paolo Aatri, Il prezzo della libertà. Episodi di lotta antifascista (Tipografia Nava 1958)

15 Mario Bonfantini, Un salto nel buio (Feltrinelli 1959; Einaudi 1971)

16 Giovanni Pesce, Senza tregua (Feltrinelli 1967)

17 Nuto Revelli, Mai tardi (1946)

18 Nuto Revelli, La guerra dei poveri (Einaudi 1962)

19 Nuto Revelli, Le due guerre (Einaudi 2003)

20 Alfredo Pizzoni, Alla guida del CLNAI, Bologna, Il Mulino, 1995.

21 Adolfo Mignemi (a cura di), Storia fotografica della Resistenza, Torino, Bollati Boringhieri, 2002

22 Rendina M., Dizionario della Resistenza italiana, Editori Riuniti, Funo 1995

23 Legnani M. – Vendramini F., Guerra, guerra di liberazione, guerra civile, FrancoAngeli, Milano 1990

24 Giorgio Luti – Romagnoli S., L’Italia partigiana, Longanesi, Milano 1975

25 Quazza G., La Resistenza italiana. Appunti e documenti, Giappichelli Editore, Torino 1966

26 Salvadori M., Storia della Resistenza italiana, Neri Pozza, Venezia 195

Fonti specifiche sugli ultimi giorni di Mussolini

1 Giovanni Pesce, Quando cessarono gli spari. 23 aprile-6 maggio 1945: la liberazione di Milano, Milano, Feltrinelli, 1977 (ultima ed. 2009)

2 Pier Luigi Bellini delle Stelle, Urbano Lazzaro, Dongo ultima azione, Milano, Mondadori, 1962

3 Walter Audisio, In nome del popolo italiano, Milano, Teti, 1975

4 Urbano Lazzaro, Il compagno Bill: diario dell’uomo che catturò Mussolini, Torino, SEI, 1989

5 Claudio Pavone (a cura di), Le brigate Garibaldi nella Resistenza: documenti. dicembre 1944 – maggio 1945, Istituto nazionale per la storia del movimento di liberazione in Italia, Istituto Gramsci, vol. 3, Feltrinelli, 1979

6 Giusto Perretta, La 52a Brigata Garibaldi Luigi Clerici attraverso i documenti, Como, Istituto comasco per la storia della liberazione, 1991

7 Giorgio Pisanò, Gli ultimi cinque secondi di Mussolini, Milano, Il saggiatore, 1996

8 Oliva G., I vinti e i liberati 8 settembre 1943-25 aprile 1945, Arnoldo Mondadori Editore, Milano 1994

9 Oliva G., La resa dei conti. Aprile-maggio 1945: Foibe, Piazzale Loreto e giustizia partigiana, Arnoldo Mondadori Editore, Milano 1999

10 Pierluigi Baima Bollone, Le ultime ore di Mussolini, Milano, Mondadori, 2005

11 Vittorio Roncacci, La calma apparente del lago. Como e il Comasco tra guerra e guerra civile 1940-1945, Varese, Macchione, 2003

12 Urbano Lazzaro, Dongo: mezzo secolo di menzogne, Milano, Mondadori, 1993,

13 Urbano Lazzaro, L’oro di Dongo: il mistero del tesoro del Duce, Torino, Mondadori, 1995

14 Antonio Spinosa, Mussolini, il fascino di un dittatore, Mondadori, 1989,

15 Franco Giannantoni, L’ombra degli americani sulla Resistenza al confine tra Italia e Svizzera, Edizioni Arterigere, 2007

16 Giorgio Cavalleri, Ombre sul Lago, Varese, Arterigere, 1995, 2007.

17 Giusto Perretta, Dongo 28 aprile 1945. La verità, Como, ACTAC, 1997

18 Giorgio Cavalleri, Franco Giannantoni, Mario J. Cereghino, La fine. Gli ultimi giorni di Benito Mussolini nei documenti dei servizi segreti americani (1945-1946), Milano, Garzanti, 2009

19 Giorgio Cavalleri, Anna Giamminola, Un giorno nella storia. 28 aprile 1945, Como, NodoLibri, 1990

20 Franco Giannantoni, “Gianna” e “Neri”: vita e morte di due partigiani comunisti : storia di un “tradimento” tra la fucilazione di Mussolini e l’oro di Dongo, Mursia, 1992

21 Luciano Garibaldi, La pista inglese. Chi uccise Mussolini e la Petacci?, Ares, 2002

22 Bruno Giovanni Lonati, Quel 28 aprile. Mussolini e Claretta: la verità, Milano, Mursia, 1994

23 Franco Bandini, Le ultime 95 ore di Mussolini, Milano, Sugar, 1959

24 Alessandro Zanella, L’ora di Dongo, Milano, Rusconi, 1993

25 Pierre Milza, Gli ultimi giorni di Mussolini, Milano, Longanesi, 2011

26 Sergio Luzzatto, Sparami al petto!, Trento, Edizioni del Faro, 2012

27 Sergio Luzzatto, Il corpo del duce. Un cadavere tra immaginazione, storia e memoria, Torino, Einaudi, 1998.

28 Scoppola P., 25 aprile. Liberazione, Einaudi, Torino 1995

29 Pierfranco Mastalli, L’arresto di Mussolini a Dongo e la resa della Colonna Tedesca a Morbegno e a Colico (27 e 28 aprile 1945)”, Rivista di Storia e Cultura del Territorio “Archivi di Lecco e della Provincia” n 2 (monografico), aprile/giugno 2011 (Ed.Cattaneo)

30 Gianni Oliva, Il tesoro dei vinti, Mondadori, 2015.

NB – Quando una fonte viene qui citata ed elencata, non significa necessariamente che l’autore ne condivida i contenuti, ma solo che è stata consultata e contiene informazioni utili.
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Siria. La Turchia ne approfitta per bombardare i curdi. Le Ypg: “Ci ritiriamo dall’offensiva su Raqqa”

La "guerra contro l'Isis" in Siria continua a rivelarsi un pretesto per rese dei conti e alleanze temporanee trai vari soggetti che agiscono nel teatro siriano.

Le forze armate turche e le milizie curdo siriane, in questo teatro sostenute da Washington, sono state nuovamente coinvolte in un conflitto a fuoco alla frontiera tra la Turchia e la Siria.”. Un comunicato diffuso dalle forze armate di Ankara afferma di aver replicato a lanci di razzi provenienti da zone in Siria sotto controllo delle milizie Ypg contro un posto di frontiera del distretto di Ceylanpinar, nella provincia turca du Sanliurfa. “Undici terroristi sono stati neutralizzati”, ha dichiarato l’esercito turco in un comunicato pubblicato dall’agenzia di stampa filogovernativa Anadolu, senza riferire di vittime tra le sue fila.

Questi scontri arrivano in un clima di grande tensione alla frontiera turco siriana, dove soldati turchi e membri delle Ypg (Unità di protezione del popolo curdo) da tre giorno si scambiano colpi di arma da fuoco. "I combattenti curdi sono pronti a ritirarsi dall’offensiva in corso contro l’Isis a Raqqa se gli Stati Uniti non faranno nulla di concreto per fermare i raid aerei della Turchia contro le forze curde". E’ quanto ha affermato la portavoce del battaglione femminile delle Unità di Difesa del popolo (Ypj), Nesrin Abdullah, dopo gli attacchi di giorni scorsi messi a segno da Ankara, costati la vita a 28 persone, tra cui 20 combattenti curdi, 12 donne e 8 uomini. Due giorni fa, le Unità di difesa del popolo (Ypg) avevano chiesto di imporre una no-fly zone su Rojava, il Kurdistan siriano, accusando Ankara di “aiutare i terroristi”. “Se gli Stati Uniti o la coalizione o il portavoce Usa riesce solo a dire ‘siamo preoccupati o non siamo contenti’ (dei raid turchi, ndr), a noi non va bene – ha detto Abdullah a Sputnik in lingua turca – se questa è la reazione, noi non la accettiamo. Significa che accettano quello che ci è stato fatto. “Fino ad oggi abbiamo combattuto al fianco della coalizione contro il terrorismo Isis – ha proseguito – siamo ancora impegnate in questa lotta. Ma la nostra gente aspetta una risposta da noi sul perchè la coalizione non sta dando prova di una reazione concreta verso la Turchia. Se la coalizione non dà prova di una reazione concreta allora ritireremo le nostre forze da Raqqa. La coalizione deve convincere la nostra gente. Non siamo il bastone di nessuno con cui colpire il loro nemico”. Nesrin Abdullah ha quindi ricordato che la Turchia è un Paese Nato e che un’assenza di risposta significa che l’Alleanza atlantica ha approvato gli attacchi di Ankara.

Al contrario, mentre la Nato tace sui bombardamenti turchi contro i curdi delle Ypg, il ministero degli Esteri russo ha definito “inaccettabili” i raid aerei turchi contro le forze curde in Siria ed ha lanciato “a tutte le parti” un appello “alla moderazione”. Questi raid “suscitano la massima preoccupazione a Mosca”, ha sottolineato il ministero russo.

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Il programma missilistico nordcoreano e la dieta di Boris Johnson

Sarebbe caduto a terra dopo un volo di circa 50 km il missile balistico sperimentale nordcoreano lanciato questa mattina dal poligono di Bukchang, a nord di Pyongyang. O almeno, questo è quanto scrive la Tass, con riferimento a fonti USA e giapponesi. Il lancio è avvenuto appena poche ore dopo la seduta del Consiglio di sicurezza Onu in cui USA, Gran Bretagna e Giappone avevano condannato i programmi missilistico-nucleari della RDPC.

Fonti ufficiose giapponesi hanno avanzato l'ipotesi che il lancio possa essere stato effettuato in coincidenza con il 100° giorno della Presidenza Trump, cui tradizionalmente in USA si dà molta importanza. Il Segretario di stato Rex Tillerson ha addirittura proposto di rompere o quantomeno ridurre le relazioni diplomatiche con Pyongyang. Smesso da un po' l'immaginario aplomb britannico, e per non esser da meno dal suo collega alla “difesa”, Michael Fallon, che nei giorni scorsi aveva parlato di “possibili attacchi nucleari preventivi”, senza specificare contro chi, ora anche il Ministro degli esteri di sua maestà Boris Johnson ha voluto notificare al mondo che i poveri cittadini nordcoreani, per consentire ai loro dittatori di sperperare soldi nelle “provocazioni nucleari”, sono “costretti a nutrirsi delle cortecce degli alberi”. Una dieta che i programmi governativi londinesi sembrano voler adattare alla popolazione britannica.

D'altra parte, se il Ministro degli esteri cinese Wang Yi ha invitato alla soluzione dei problemi nella penisola coreana attraverso il dialogo, il vice Ministro degli esteri russo Gennadij Gatilov, pur criticando “la provocatoria attività missilistico-nucleare di Pyongyang”, ha invitato USA e Corea del Sud a rivedere la decisione sul dispiegamento del sistema THAAD, che rappresenta “un ulteriore fattore destabilizzante nella regione”.

Secondo la Reuters, Washington potrebbe rispondere al lancio con un inasprimento delle sanzioni. Tokyo avrebbe inviato una nota di protesta a Pyongyang attraverso la propria rappresentanza diplomatica a Pechino; ma intanto il canale giapponese NHK continua a seguire le manovre della portaerei USA “Carl Vinson” che, a detta dell'agenzia Kyodo, potrebbe lasciare lo stretto di Corea ed entrare nel mar del Giappone per le manovre congiunte con la Corea del Sud.

Le Izvestija scrivevano alcuni giorni fa che, nel corso di un colloquio telefonico tra Xi Jinping e Donald Trump, Washington e Pechino si sarebbero accordati per lo sviluppo della collaborazione volta alla denuclearizzazione della penisola coreana. Cosa si intenda a Washington per denuclearizzazione, lo indicano forse i bombardieri, i sommergibili, i cacciatorpediniere che stazionano in permanenza attorno alla penisola, tutti in grado di portare o lanciare ordigni nucleari.

Non deve dunque sorprendere che Pyongyang, secondo quanto scrive Life.ru, dichiari di poter annientare le forze americane “fino all'ultimo uomo”. Appena tre giorni fa, un esponente del governo della RDPC aveva dichiarato alla CNN che il paese non cesserà “la sperimentazione missilistica e nucleare, che rappresenta una parte importante dei nostri costanti sforzi di rafforzamento delle forze nucleari, finché l'America non smetterà con i suoi atti aggressivi”. Nei giorni scorsi, nel corso di vaste manovre militari, Pyongyang aveva mostrato concretamente le proprie potenzialità di risposta.

Potenzialità che, secondo il Daily Star, con riferimento alle congetture di alcuni media giapponesi, sarebbero sostenute da Mosca, che starebbe fornendo alla RDPC materiale fondamentale per il suo programma nucleare. Il Sankei Shimbun scrive addirittura che “la Russia non deve permettersi di appoggiare un paese in possesso di armi di distruzione di massa e sviluppare con esso la collaborazione economica. Il corso politico avviato da Mosca” scrive il Sankei, “si distingue radicalmente da quello di Giappone, USA e Corea del Sud, i quali intraprendono passi contro la crescente minaccia in Asia orientale”. Minaccia che non contempla evidentemente, per i media giapponesi, il sistema THAAD in Corea del Sud, per il quale Washington pretende ora di presentare a Seoul un conto di 1 miliardo di dollari. Ipotesi che però, secondo la Associated Press, verrebbe respinta dai sudcoreani, al pari della pretesa americana di rivedere anche l'accordo sulla libertà di commercio.

Intanto, mentre la maggior parte delle apparecchiature per la messa in funzione del THAAD sono già giunte a destinazione in Corea del Sud e sia Pechino che Mosca ribadiscono il carattere di sbilanciamento strategico della dislocazione di tale sistema antimissilistico, la Cina fa sapere a Donald Trump di non essere affatto disposta a collaborare con Washington per “isolare la Russia all'ONU”. Il riferimento americano è con ogni probabilità al progetto di risoluzione sulla Siria, presentato lo scorso marzo da Francia, Gran Bretagna e Stati Uniti, su cui Mosca aveva posto il veto e su cui la Cina si era astenuta: il passo cinese era stato considerato dalla Casa Bianca come “un concreto successo del presidente” Trump. Ma “questa è solo l'opinione americana”, hanno dichiarato a Pechino. Russia e Cina godono di "relazioni bilaterali di partenariato e di cooperazione" e "i nostri rapporti hanno un serio potenziale di collaborazione. Per quanto possa mutare la situazione internazionale, il nostro impegno per lo sviluppo e l'approfondimento del partenariato multilaterale e la cooperazione strategica non cambierà". Trump è avvertito.

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Torna a salire l’inflazione. E l’adeguamento di salari e pensioni?

Questa la notizia:
“Tornano a salire i prezzi in Europa. In Italia inflazione al top dal 2013

Nella zona euro ad aprile l'inflazione annuale riprende a salire: la stima flash di Eurostat indica 1,9%, dopo 1,5% a marzo, 2% a febbraio, 1,8% a gennaio, 1,1 a dicembre, 0,6 a novembre. Nell'aprile 2016 era a -0,2%. Per quanto riguarda i component principali, i prezzi dell'energia dovrebbero aumentare del 7,5% dopo 7,4% a marzo, servizi +1,8% dopo +1%, alimentari, alcol e tabacco +1,5% dopo 1,8%, beni industriali non energetici +0,3%, stabili rispetto a marzo. Per quanto riguarda l'Italia, c'è stato l'effetto Pasqua e ponte del 25 aprile sui prezzi, con un aumento da record ad aprile. Secondo le stime preliminari, l’indice nazionale dei prezzi al consumo per l’intera collettività, al lordo dei tabacchi, aumenta dello 0,3% su mese e dell’1,8% su anno (+1,4% a marzo): la variazione massima da febbraio 2013 e la sesta consecutiva positiva. L’inflazione di fondo, al netto di energetici e alimentari freschi, sale di tre decimi di punto percentuale (+1% da +0,7% di marzo), quella al netto dei soli Beni energetici si mantiene stabile a +1,2% come nel mese precedente. Il dato acquisito per il 2017 è pari a +1,3%
Il dato dell’inflazione in crescita viene salutato come un segnale di uscita dall’indice deflattivo fatto registrare per un lungo periodo e quindi, dal punto di vista capitalistico, di “rimessa in moto dell’economia”.
Dal nostro punto di vista si pone però una questione immediata riguardante l’adeguamento di salari e pensioni.

Il risultato delle politiche economiche di questi ultimi anni è stato sicuramente quello di un impoverimento generale e di abbassamento complessivo del livello di vita e del potere d’acquisto (basta andarsi a rileggere i dati sull’indice di povertà).

Ne consegue la necessità di rimettere all’ordine del giorno di una agenda di vera mobilitazione del mondo del lavoro, accanto agli indici di sfruttamento e a quelli di precarietà (valori sicuramente in crescita) la questione dell’adeguamento di salari e pensioni al costo della vita.

E’ il tema della scala mobile o di come vogliamo chiamare un meccanismo che indicizzi il potere d’acquisto al costo della vita: un tema decisivo che deve essere sollevato con grande forza accanto a quello dei contratti nazionali di lavoro, della stabilizzazione del precariato in tutti i settori, della rappresentanza diretta dei lavoratori nelle aziende, della sicurezza sul lavoro e – complessivamente – della democrazia, della libertà di sciopero e di manifestazione, della giustizia nei rapporti di lavoro (articolo 18, vedasi andamento dei licenziamenti dopo il job act).

Questioni decisive e fondamentali che pongono la questione irrisolta di una presenza sindacale confederale di classe posta in grado di contrastare sul piano generale l’obiettivo politico della disintermediazione che, in Italia, vede uniti tutti i soggetti politici padronali, quelli europeisti e quelli presuntamente populisti (ma padronali nell’animo, tutti quanti, nell’omogeneizzazione ideologica della gran parte del sistema politico italiano ed europeo).

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Il blocco centrista emerge dalle elezioni francesi

di Lorenzo Battisti per Marx21.it

Queste elezioni presidenziali rimarranno nella memoria degli elettori francesi a lungo. Il paesaggio politico, definito dal 1970 in poi, è stato stravolto e i nuovi equilibri restano ancora nell'ombra. Quello che è certo è che il padronato francese è il vero vincitore politico e sociale.

Cinque anni di presidenza socialista

Il 2012, anno delle ultime elezioni nazionali, sembra appartenere ad un'altra epoca storica[1]. Quelle elezioni erano state vissute da molti come una liberazione da un presidente, Sarkozy, che era il più impopolare e filo americano di tutta la storia della Francia. Il risultato di Hollande e della sinistra francese, che andava al governo per la seconda volta durante la Quinta Repubblica dopo l'esperienza di Mitterand, era il risultato di cinque anni di mobilitazioni che erano culminate con il lungo ciclo di scioperi contro la riforma pensionistica che faceva aumentare l'età pensionabile dai 60 ai 63 anni (e duramente repressa dal governo).

Hollande cercò di farsi portavoce di tutto questo, mantenendo ambiguità e reticenze. Ma anche con alcuni slogan chiari e alcune promesse precise. Ricordiamo quante speranze questo suscitò nella disarticolata sinistra italiana, la promessa di essere il candidato anti-Merkel? E ricordiamo anche la promessa di cambiare i trattati europei, a partire dal six-pack e dal fiscal-compact! Ma suscitò molte speranze, specie in tempi di crisi finanziaria ed economica, la designazione del suo nemico, la finanza:

“Mais avant d’évoquer mon projet, je vais vous confier une chose. Dans cette bataille qui s’engage, je vais vous dire qui est mon adversaire, mon véritable adversaire. Il n’a pas de nom, pas de visage, pas de parti, il ne présentera jamais sa candidature, il ne sera donc pas élu, et pourtant il gouverne. Cet adversaire, c’est le monde de la finance”[2][Ma prima di parlare del mio progetto, vi confiderò una cosa. In questa battaglia che comincia, vi dirò chi è il mio avversario, il mio vero avversario. Non ha un nome, non ha un viso, non un partito, non presenterà mai la sua candidatura, e quindi mai sarà eletto, ciononostante governa. Questo avversario è il mondo della finanza.]

Sappiamo tutti com'è andata. Nessuna riscrittura dei trattati, nessuno scontro con la Germania, nessun disturbo per il mondo della finanza[3]. Questa da nemica diventa sua fida alleata, quando, in un rimpasto di governo, entra come Ministro dell'Economia il giovane banchiere Macron, con un cospicuo patrimonio guadagnato al servizio di banche d'affari internazionali.

Altre promesse riguardavano l'inversione della curva della disoccupazione, in crescita ormai da oltre 10 anni. Nei cinque anni di Sarkozy, questa era aumentata di 1 milione di nuovi disoccupati. Dopo cinque anni di presidenza socialista un altro milione si aggiunge ai precedenti[4]. Hollande ha cercato di mascherare la cosa a fine del mandato, attraverso l'aumento dei fondi per la formazione, in modo che questi sparissero dalle statistiche come disoccupati, per figurare tra le persone in formazione: un trucco che serve ad ingannare le statistiche ma non i disoccupati e i precari. A questo si aggiunge la riforma del lavoro imposta a suon di bastonate ai sindacati e ai lavoratori, nell'idea che se il lavoro costa meno ed è flessibile, le imprese investono maggiormente e la disoccupazione diminuisce[5].

Infine le guerre. Molti avevano confidato nella promessa di un presidente normale, fuori dal machismo di Sarkozy[6] (con le sue bombe sulla Libia). Invece si sono trovati un presidente che è intervenuto in Mali e che ha giocato in Siria un ruolo a volte più spinto di quello americano. E ha promulgato una legge per l'immunità totale delle truppe Nato su territorio francese. Senza dimenticare che niente è stato detto contro le sanzioni alla Russia, a cui si è preferito pagare una penale di centinaia di milioni di euro piuttosto che consegnare una nave da guerra già ordinata e costruita

Hollande è diventato il presidente più impopolare della storia francese, battendo anche Sarkozy. Tanto da essere il primo a non presentarsi per la rielezione.

Un antipasto del disastro: le primarie

Non che la bufera che ha colpito domenica la Francia non fosse stata annunciata da venti sempre più forti. Negli anni ho cercato di raccontare i pericoli a cui i francesi andavano incontro, i cui segnali erano evidenti.

Ad ogni elezione che si è svolta negli ultimi cinque anni, i socialisti e le altre forze che sostenevano il Governo sono sempre state puniti[7], mentre i voti del Fronte Nazionale crescevano. Non si può tacere il fatto che a questo ha contribuito la strategia socialista, come già avvenuto in precedenza: per imporre politiche antisociali, senza per questo perdere il governo, una crescita del FN avrebbe permesso di dividere i voti della destra, che in questo modo non sarebbe riuscita a vincere alle successive elezioni. Già Mitterand aveva usato questa tattica. I risultati li abbiamo sotto i nostri occhi[8].

Non contenti dei risultati che stavano raccogliendo, e a fronte degli insuccessi elettorali, i socialisti hanno deciso, a metà mandato, un cambio completo di governo: via il centrista Marc Hayrault, e al suo posto è entrato il “renziano” Manuel Valls, sconfitto da Hollande alle primarie socialiste con un voto bassissimo e propugnatore della fine dell'esperienza socialista in Francia, in favore di un partito post-ideologico. Una svolta a destra dopo i ripensamenti centristi post elettorali. Così hanno continuato a perdere un'elezione dopo l'altra[9]. Forse la sconfitta più simbolica è quella delle regionali dell'anno scorso[10]: i socialisti sono passati dal governare tutte le regioni tranne una, a una situazione in cui dopo averle perse quasi tutte quelle regioni, si è trovato a dover sostenere la destra in diversi ballottaggi con il Fn.

Che qualcosa sarebbe cambiato profondamente in Francia, lo si era capito anche dalle primarie che i vari partiti hanno organizzato. Tutte hanno dato risultati inattesi e indesiderati per le dirigenze dei pariti.

L'Ump, diventata I Repubblicani per volere di Sarkozy (tanto per rimarcare il legame atlantico), ha visto l'ex presidente finire addirittura in terza posizione: i due candidati al ballottaggio sono stati Alain Juppé (ex primo ministro di Chirac) e il futuro candidato Fillon. Stessa cosa è accaduta in casa socialista: il candidato della dirigenza e presidente del Consiglio Emmanuel Valls ha perso di fronte al socialista frondista Hamon (che apparteneva ai deputati socialisti che, pur sostenendo i vari governi, si sono opposti da sinistra alle riforme proposte). Infine tra i verdi prevale un altro outsider, Yannick Jadot, mentre l'ex ministra verde Cécile Duflot finisce anch'essa terza.

I risultati

I risultati elettorali non sono altro che il risultato di questi cinque anni, delle speranze frustrate e della reazione sociale e sindacale.

È doveroso partire da un dato spesso ignorato. In Francia l'iscrizione alle liste elettorali non è automatica. Quando si cambia residenza (e questo avviene con maggiore frequenza rispetto all'Italia), bisogna ricordarsi di chiedere l'iscrizione alle liste e va fatto in tempo per le elezioni. Su 45 milioni di potenziali elettori, si stima che i non iscritti siano 4 milioni a cui si aggiungono 7 milioni di mal-iscritti (quelli iscritti in un comune in cui non risiedono più, spesso a centinaia di chilometri di distanza)[11]. Mentre sicuramente una parte importante dei mal-iscritti si sarà recata alle urne, i 4 milioni di non iscritti sono un sintomo forte, forse più dell'astensione.

L'astensione stessa è in crescita ed è passata dai 9'400'000 elettori (pari al 20,52% degli iscritti) ai 10'500'000 (il 22,23%). Sebbene la partecipazione rimanga alta, un milione di francesi si è aggiunto a chi ha ritenuto non fosse importante votare, nonostante le sirene sul pericolo Le Pen.

Il grande perdente (dopo Hollande) è François Fillon, uscito vincitore dalle primarie della destra. In queste si era disputato (tra le altre cose) su quanti dipendenti pubblici licenziare: la cifra variava dai 500'000 ad oltre un milione (su 5,5 Milioni[12], cioè tra il 10% e il 20%). Vista la crisi verticale di Hollande e dei socialisti, prima dello scandalo personale che lo ha colpito, era dato sicuro vincitore. Le sue posizioni in ambito internazionale sembravano orientate a una minore ostilità verso la Russia e forse a una sospensione delle sanzioni (anche se su questo tema ha oscillato a lungo). I voti dei Repubblicani passano dai 9,7 milioni di voti di Sarkozy ai 7,2 milioni di Fillon (20% in meno).

La candidata che ha più beneficiato di questo crollo è stata Marine Le Pen, che passa dai 6,4 milioni di voti del 2012 ai 7,6 milioni di quest'anno (21,3% dei votanti). Il processo seguito ormai da anni è quello di eliminare i toni troppo aspri del padre (marginalizzato e poi cacciato dal partito), di mettere in secondo piano l'ala violenta, e di mostrare un volto più accettabile. In particolare ha più volte cercato di appropriarsi di temi cari alla sinistra, come la laicità, utilizzata contro gli immigrati colpevoli di fare mostra della propria fede. Una novità sembra essere il voto islamico per il Fn, dovuto alla comune opposizione alla legge sui matrimoni gay. Spesso descritta come la candidata di Putin, quella che chiede l'uscita dalla Nato e dall'Unione Europea, nella realtà il suo programma risulta essere molto meno pacifico: la retorica anti musulmana sfoderata in occasione degli attentati non fa altro che preparare il terreno a nuove incursioni militari in Medio Oriente a fianco degli americani.

Un crollo ancora più forte lo hanno subito i socialisti. Questi passano dai 10,2 milioni di voti di Hollande nel 2012, ai 2,2 di Hamon (6,3% dei votanti). Queste cifre impietose raccontano meglio di qualsiasi altra cosa il disastro del governo socialista. Hamon ha fatto opposizione ai governi, cercando insieme ad altri deputati socialisti, di proporre una linea differente, spesso in coordinamento con il Front de Gauche. Ma non si può recuperare in due mesi cinque anni di massacro. E in politica internazionale non si sono osservate differenze. Se poi si pensa che il candidato era sostenuto anche dai Verdi, che dopo aver fatto le primarie per un proprio candidato, hanno raggiunto un accordo con i socialisti e hanno ritirato il proprio candidato. Questi, nel 2012, avevano ottenuto 820'000 voti pari al 2,8%.

Molti di questi voti si sono spostati su Jean-Luc Mélenchon, candidato del neonato movimento La France Insoumise. Questa non ha niente a che fare con il Front de Gauche, formato dai partiti della sinistra francese, che aveva sostenuto Mélenchon nel 2012. Dopo il declino di questo a causa di divisioni elettorali e al rifiuto da parte dei comunisti di trasformarlo in partito, Mélenchon ha lasciato temporaneamente la politica, per rientrarvi successivamente per lanciare il suo movimento. Un movimento dal basso, formato da gruppi di cittadini che si ritrovano per discutere e che si coordinano tramite una piattaforma internet. In un anno il movimento è passato dai 10'000 aderenti del Giugno 2016 ai 450'000 di oggi. Si basa su gruppi di appoggio che possono essere liberamente creati, formati da sostenitori iscritti alla piattaforma. La simbologia della sinistra, molto forte nel Front de Gauche, è abbandonata: si canta solo la Marsigliese non più accompagnata dall'Internazionale e il simbolo è il phi greco. Il programma, elaborato, discusso e votato dagli aderenti, è orientato verso l'ecosocialismo. I punti forti erano la proposta di una profonda riforma istituzionale che eliminasse il presidenzialismo e reintroducesse il proporzionale (una battaglia portata avanti dai comunisti fin dal 1958); l'aumento del salario minimo a 1'300 euro; la riforma dei trattati europei e in alternativa un'uscita della Francia dall'UE; l'uscita dal comando Nato e l'adesione all'ALBA bolivariana e alla banca dei BRICS[13]; l'abrogazione della legge sul lavoro di Hollande e la fine del precariato[14]. Il modello di Mélenchon è Chavez, con il tentativo di creare un movimento populista in Francia, che sebbene non si richiami apertamente alla sinistra, ne riprenda molti punti. I suoi voti sono passati dai 3,9 milioni del 2012 ai 7 milioni di oggi (19,6% dei votanti).

Il vero vincitore di queste elezioni è sicuramente Emmanuel Macron, che con il suo nuovo movimento En Marche![15] È arrivato in testa al primo turno. Giovane, già milionario, ex banchiere presso la Banca d'affari Rotschild ed ex ministro delle finanze durante la presidenza Hollande, è riuscito in poco tempo a tramutarsi da “tecnico” prestato alla politica al candidato più votato. Molti dubbi restano sui finanziamenti, tutt'ora molto opachi. Mentre è stato chiarissimo l'appoggio unanime dei media, che l'hanno aiutato a crescere e l'hanno lanciato verso il primo posto. Il suo programma è totalmente liberista, teso a smantellare in poco tempo quanto resta delle politiche sociali francesi, in nome di un "nuovo" che sblocchi un paese preda della disoccupazione: quindi basta con le 35 ore, aperture domenicali, fine della securité sociale (la sanità e le pensioni), e vendita delle società statali. Il tutto da compiere nel più breve tempo possibile, non appena eletto, per mettere i sindacati e l'opposizione di sinistra davanti al fatto compiuto. Ovviamente è il candidato più europeista. La retorica è sempre quella del nuovo e del giovane, contro il vecchio che non funziona. Se proprio si vuole trovare un paragone italiano, lo si può descrivere come la fusione di Renzi e Monti. In poco più di un anno ha creato un movimento che ha raccolto 8,6 milioni di voti e che lo ha portato ad essere in testa al primo turno. I voti sono venuti da destra[16] e (per la maggior parte) da sinistra[17]. Il partito centrista di Bayrou, i Modem, che aveva preso 3,2 milioni di voti nel 2012, ha deciso di sostenerlo.

Dal punto di vista sociale, Macron ottiene i successi maggiori nelle grandi città, soprattutto nei quartieri agiati e in quelli ricchi. Mélenchon ha successo nelle periferie e nei quartieri popolari delle grandi città: un esempio su tutti, quella che una volta era la Banlieu Rouge di Parigi, ha votato per lui, e ovunque ottiene risultati oltre il 30 percento e a volte oltre il 40%. Marine Le Pen è invece la prima candidata in tutta la Francia rurale, nei piccoli e piccolissimi paesi.

Il risultato è che per la prima volta nessuno dei due partiti che hanno governato la Francia sarà al ballottaggio: la Le Pen si scontrerà questa volta contro un volto nuovo. E chiunque sarà eletto, governerà con il sostegno di solo il 20% dei francesi.

A questi si aggiungono i 600'000 voti della sinistra trotskysta (Npa e Lutte Ovrière), rimasti invariati negli ultimi 5 anni.

Infine si è assistito all'exploit dei candidati gollisti, tanto di destra quanto di sinistra, legati alle posizioni politiche del Generale che ritengono essere state tradite da Sarkozy. Le posizioni sono anti americane e filorusse, con posizioni diverse sull'Europa (alcuni chiedono di uscirne, altri vogliono un polo europeo indipendente dagli Usa a guida francese); tutti sostengono uno stato sociale non assistenzialista, sul modello francese dopo la Seconda Guerra Mondiale. Il successo maggiore è di Nicolas Dupont-Aignant, di Debout la France (Francia in Piedi!), il cui slogan è “Né il sistema, né le estreme”, che passa dai 640'000 voti del 2012 ai 1,7 milioni di oggi (4,7%). A questi vanno aggiunti altri 500'000 voti di Assalineau e Cheminade, su posizioni politiche simili (1,4%).

Se guardiamo ai saldi, la sinistra (Ps, Verdi e Mélenchon) passando dai 15 milioni di voti del 2012 ai 9,2 attuali; la destra dai 16 milioni (Sarkozy e Le Pen) di cinque anni fa ai 15 di oggi. Il centro invece esplode, grazie a Macron e Bayrou, che passano dai 3,2 milioni agli 8,6 milioni di oggi.

Emersione del blocco centrista
Questo sconvolgimento ha cause profonde che non possono (e non devono) essere ignorate.

Da un lato, come detto in precedenza, il popolo francese si è opposto alle riforme degli ultimi 10 anni, sia a quelle di Sarkozy sia a quelle di Hollande. Il segno di queste riforme, a dispetto delle diverse etichette politiche, era lo stesso, così come il modo di imporle: approvazione imposta dal Presidente, in mancanza di una maggioranza parlamentare (articolo 49-3 della Costituzione francese); provocazioni e repressione poliziesca contro le manifestazioni sindacali che vi si opponevano. Il prezzo di 10 anni di crisi economica è stato fatto pagare interamente ai ceti popolari, ai lavoratori, ai giovani e ai pensionati. Di fronte a quello che appare ai più come un teatrino teso ad ingannare gli elettori, questi hanno dapprima cercato facce nuove alle primarie, per poi premiare alle elezioni chi appariva fuori dal sistema: Macron, Le Pen, Mélenchon.

Ma il vero artefice e vincitore del nuovo scenario è il padronato francese. Come mostrano le statistiche sul saggio di profitto, anche questo ha di cui lagnarsi: a causa della forte resistenza operaia, il saggio di profitto francese continua a stagnare[18], soprattutto se comparato a quello del rivale tedesco. I governi da esso sostenuti negli anni non si sono rivelati capaci di sconfiggere la resistenza dei lavoratori e di applicare riforme tali da permettere una considerevole compressione dei salari (diretti, indiretti e differiti) e dello stato sociale tale da fare aumentare la parte di prodotto di cui si appropriano loro. Il risultato è un apparato produttivo francese che, al di fuori di alcuni settori strategici e collaterali allo stato (difesa, aeronautica, automobilistica e poco altro) soccombe davanti al capitale straniero.

Una grande coalizione come quella usata altrove - Germania - è difficile da attuarsi in Francia senza una generale riforma istituzionale. Al contempo governi deboli difficilmente possono imbarcarsi in un'avventura di tale portata. Inoltre questo sistema istituzionale si è dimostrato ottimo nel marginalizzare le forze ritenute pericolose (il Pcf e la sinistra radicale), anche quando queste raccoglievano un consenso consistente.

Il metodo per imporre una grande coalizione alla Francia è stata la coppia Macron/Le Pen. Macron, giovane e rampante banchiere, senza partito (e quindi in teoria senza maggioranza parlamentare) rappresenta la soluzione ideale. La sua maggioranza sarà costituita dai deputati centristi sia del Ps che dei Repubblicani, che davanti alla crisi verticale dei propri partiti, decideranno di accettare l'etichetta di “En Marche”[19] e candidarsi per Macron. In questo modo si formerà un largo gruppo parlamentare centrista, a sostegno delle politiche liberiste e atlantiche di Macron, che non dovrà temere di subire i rovesci elettorali conseguenti alle politiche anti-popolari che imporrà. Quando queste colpiranno nel vivo la carne della classe operaia francese, sicuramente aumenteranno i voti delle due ali estreme, Le Pen e Mélenchon. Ma la distanza ideologica di questi due blocchi impedirà che una nuova maggioranza si possa formare per scalzare l'attuale. E in caso che anche il blocco centrista dovesse subire punizioni consistenti, la soluzione della Le Pen sarebbe già pronta all'uso.

Come si vede, la vittoria è assicurata, qualsiasi sia la reazione (elettorale) dei lavoratori e dei ceti popolari.

Ma ci sono ancora diverse partite da giocare. E il risultato è tutt'altro che determinato. Innanzitutto bisognerà vedere chi prevarrà al secondo turno. Poi ci saranno i due turni delle legislative, in cui si dovranno eleggere i deputati: stando alle stime fatte dal Pcf sui voti alle presidenziali, la sinistra unita potrebbe eleggerne 292 su 600. Ma i socialisti accetteranno di unirsi e farsi guidare dalla forza politica al momento più forte a sinistra, cioè la France Insoumise di Mélenchon? E infine ci sarà quello che i sindacalisti francesi chiamano il quinto turno sociale: le mobilitazioni sociali, sicuri che chiunque dei due vinca, i lavoratori francesi dovranno continuare la resistenza e le lotte di questi anni.

NOTE

[1] Presidenziali di Francia. Quale lezione per l’Europa? http://www.marx21.it/internazionale/europa/1592-presidenziali-di-francia-quale-lezione-per-leuropa.html

[2] L'intégralité du discours de François Hollande au Bourget http://tempsreel.nouvelobs.com/politique/election-presidentielle-2012/sources-brutes/20120122.OBS9488/l-integralite-du-discours-de-francois-hollande-au-bourget.html

[3] I primi sei mesi del governo Hollande: la pericolosità di un presidente “normale” http://www.marx21.it/index.php/internazionale/europa/8227-i-primi-sei-mesi-del-governo-hollande-la-pericolosita-di-un-presidente-normale

[4] Chômage : le vrai match Sarkozy-Hollandehttp://www.lefigaro.fr/economie/le-scan-eco/le-vrai-du-faux/2016/05/25/29003-20160525ARTFIG00005-chomage-le-vrai-match-sarkozy-hollande.php

[5] La riforma del lavoro francese, la Nato e la fine del ruolo del Ps francese http://www.marx21.it/index.php/internazionale/europa/27055-la-riforma-del-lavoro-francese-la-nato-e-la-fine-del-ruolo-del-ps-francese

[6] Una parte dei militari francesi aveva sostenuto il candidato socialista, poiché non avevano apprezzato il reintegro della Francia nel comando Nato deciso da Sarkozy, che metteva la Francia sotto comando americano, con annesse decisioni sulle carriere.

[7] Sulle elezioni in Francia e in Andalusia http://www.marx21.it/index.php/internazionale/europa/25413-sulle-elezioni-in-francia-e-in-andalusia

[8] Al riguardo, scrivevo su Marx 21tre anni fa: “È un gioco pericoloso quello che i socialisti stanno giocando. È lo stesso gioco che portò nel 2002 i francesi a scegliere tra la destra di Chirac e quella di Jean-Marie Le Pen, quando le politiche del pareggio di bilancio per il rispetto dei trattati della Gauche Plurielle furono sonoramente bocciate dagli elettori. Nella mente di alcuni socialisti c’è forse l’idea di arrivare, tra tre anni, a vivere la stessa esperienza al contrario: un ballottaggio tra Hollande e la Le Pen che costringa tutti i francesi a un fronte repubblicano per fermare l’estrema destra. In questo modo si potrebbero imporre le misure le europee, senza pagarne un prezzo elettorale. Ma è appunto un gioco estremamente pericoloso.” La crescita della destra estrema in Francia. Le responsabilità dei socialisti http://www.marx21.it/internazionale/europa/23853-la-crescita-della-destra-estrema-in-francia-le-responsabilita-dei-socialisti.html

[9] Riflessioni sulle elezioni municipali francesi: la sconfitta dei socialisti, la resistenza del Pcf http://www.marx21.it/internazionale/europa/23920-riflessioni-sulle-elezioni-municipali-francesi-la-sconfitta-dei-socialisti-la-resistenza-del-pcf.html

[10] Le cause della vittoria del Front national alle regionali francesi http://www.marx21.it/index.php/internazionale/europa/26383-le-cause-della-vittoria-del-front-national-alle-regionali-francesi

[11] Radiés des listes, mal-inscrits... ces Français qui ne voteront pas malgré eux http://www.lexpress.fr/actualite/societe/radies-des-listes-mal-inscrits-ces-francais-qui-ne-voteront-pas-malgre-eux_1900773.html

[12] Idées reçues sur les fonctionnaires (2/4) : « Ils sont trop nombreux » http://www.lemonde.fr/les-decodeurs/article/2016/11/25/idees-recues-sur-les-fonctionnaires-2-4-ils-sont-trop-nombreux_5038028_4355770.html

[13] Sui temi internazionali ci sono state alcune incertezze. Mentre non si può dimenticare che Mélenchon nel 2011 appoggiò il bombardamento della Libia, per quanto riguarda la Siria ha avuto posizioni altalenanti, che andavano dall'appoggio all'intervento russo, a semplici opposizioni all'uso delle armi per dirimere il conflitto.

[14] È stato fatto notare che, dietro queste proposte, si celano diversi passi indietro rispetto al programma del 2012. Per esempio in esso si proponeva di aumentare il salario minimo a 1700 euro al mese, in linea con le richieste sindacali, e di eliminare la disoccupazione, mentre qui si parla solamente di eliminare la precarietà. Le programme de la «France insoumise » : des choix contraires à ce pour quoi nous combattons http://www.economie-politique.org/sites/default/files/leproblemecestleprogramme-rev_0.pdf

[15] Il nome è stato scelto partendo dalle iniziali del nome del suo fondatore.

[16] Tra questi il più conosciuto è l'ex primo ministro Dominique de Villepin

[17] I sostegni da sinistra sono numerosi. Un gruppo di 54 deputati socialisti ha deciso di appoggiarlo in blocco; molti dirigenti nazionali del Ps, dopo la vittoria di Hamon, hanno esternato il loro appoggio a Macron. Tra questi l'ex sindaco di Parigi e l'attuale Ministro della Difesa. Inoltre lo hanno sostenuto l'ex comunista Braouzec e l'ex segretario del Pcf Robert Hue.

[18] France: penned in https://thenextrecession.wordpress.com/2017/02/01/france-penned-in/[19] In modo simile a quello che avviene in Italia con i 5 Stelle, solo il fondatore ha il potere di attribuire questo marchio.

Genova. Contro la privatizzazione di Amiu, mercoledì sciopero indetto da Usb

Mercoledì 3 maggio la giunta comunale di Genova porterà nuovamente in aula la delibera di aggregazione AMIU-Iren, già bocciata più volte in Consiglio Comunale.

Ancor più delle occasioni precedenti vi sono concrete possibilità che non ci siano i numeri sufficienti per l'approvazione. Comunque il sindacato USB ha indetto lo sciopero dei lavoratori AMIU e AMIU Bonifiche per l'intera giornata, con presidio davanti al Comune. Allo sciopero si sono uniti CISL, UIL e FIADEL, mentre la CGIL, come ha fatto fin dall'inizio, non partecipa allo sciopero e continua a sostenere l'azione della giunta.

La questione della privatizzazione di AMIU è diventata una sorta di punto d'onore per la giunta del sindaco uscente Doria. Come in altre occasioni, non sono mancati i ricatti ai sindacati e ai lavoratori.

Questa volta la minaccia rivolta ai lavoratori è che la bocciatura della delibera di aggregazione causerebbe un buco di bilancio e giustificherebbe tagli ai servizi sociali (accusa rilanciata anche dalla Cgil e dal Forum del Terzo Settore per dividere la lotta dei lavoratori). Inoltre i vertici di AMIU hanno provato più volte a sostenere che senza privatizzazione l'azienda fallirebbe.

La parte più combattiva dei lavoratori non si è fatta però intimidire: nel suo comunicato l'USB dichiara che il sindaco Doria è pronto all'ultimo colpo di coda di una gestione fallimentare. Il sindacato ricorda inoltre che le alternative alla privatizzazione e al mantenimento in house dell'azienda ci sono tutte, basta volerle praticare.

Anche l'Unione Lavoratori AMIU (ULA) parteciperà allo sciopero, invitando alla lotta anche i lavoratori delle altre aziende partecipate, già sotto attacco della giunta Doria fin dall'inizio del suo mandato.

Se la delibera non passerà, la questione sarà affrontata dalla nuova giunta comunale che si insedierà dopo le elezioni di giugno.

I lavoratori hanno comunque fatto sapere di essere contrari a qualsiasi tipo di privatizzazione. La loro forza durante il periodo della giunta Doria ha bloccato ogni tentativo di svendere le partecipate nel loro complesso, nonostante l'evidente lavoro sporco portato avanti dalla CGIL, che ha bloccato ogni tentativo di unione tra i lavoratori delle partecipate in nome della fedeltà al sistema di potere incarnato dal Partito Democratico.

Il NO a tutte le privatizzazioni, la richiesta di re-internalizzare i servizi in appalto e il rifiuto del patto di stabilità degli enti locali sono le uniche risposte possibili e necessarie che una politica degna di questo nome dovrebbe fornire per rappresentare la forza che i lavoratori hanno messo in campo. Non a caso, se non in frange ancora minoritarie, questo dibattito sembra totalmente assente nelle polemiche tra i candidati principali per le prossime comunali. Per questo la lotta dei lavoratori è fondamentale per difendere i diritti di tutti i cittadini. La forza dei lavoratori, per contrattaccare, ha assoluto bisogno di una sponda politica che non può fare a meno del loro contributo.

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Requiem sindacale

C’è una piccola ma significativa notizia nella vicenda di Alitalia e del referendum perso da padroni e sindacati confederali lunedì scorso: l’intervista rilasciata ieri dal segretario della Cgil – Susanna Camusso – al Corriere della Sera svela un modo, e un mondo, completamente adagiato alle retoriche padronali, definitivamente incapace di relazionarsi a quel mondo del lavoro che pure si vorrebbe rappresentare. Non è un caso che i sindacati confederali abbiano le proprie referenze sociali tra i pensionati e i settori ultra-garantiti del lavoro pubblico: perché sono morti. Dice la Camusso: «No alla nazionalizzazione di Alitalia», inserendosi così nel profluvio di retorica liberista che si chiede «perché 10mila lavoratori devono decidere del destino dell’intera comunità nazionale?». Eh già, perché mai dei lavoratori (di un’azienda privata, peraltro!) dovrebbero decidere sul loro destino, nell’ennesimo fallimento manageriale ripagato con le tasche di quegli stessi lavoratori? Questo il livello del dibattito economico in Italia, ma la Camusso raggiunge comunque vette sconsiderate anche per questi tempi tristi. Un sindacato contrario alla pubblicizzazione di un’azienda è una contraddizione in termini. Dovrebbe essere la richiesta minima a prescindere dalle posizioni sindacali, o politiche, rappresentate. E’ una richiesta che si iscrive nel solco stesso dell’attività sindacale, quella per cui nei settori strategici dell’economia lo Stato abbia voce in capitolo e proprietà pubblica, contribuendo così anche alle garanzie contrattuali dei dipendenti. E invece la Camusso si premura dal prendere le distanze, dal puntualizzare, dal negare qualsiasi approccio “statalista”, perché, come si sente ripetere ad ogni piè sospinto in questi giorni, «lo Stato in quarant’anni ha già versato nelle casse di Alitalia 7,5 miliardi di euro». E grazie al cazzo. Alitalia è stata per cinquant’anni un’azienda pubblica: chi altri doveva investire capitale pubblico se non lo Stato? Di più: a cosa servono le tasse se non hanno l’obiettivo di sostenere quei servizi considerati fondamentali, e tra i quali rientra a pieno diritto il trasporto pubblico, compreso quello aereo? Domande inconciliabili con lo spirito dei tempi. Ma questo, d’altronde già pessimo di suo, è restituito in tutta la sua dimensione reazionaria proprio dalla Camusso, dirigente “del più importante sindacato italiano”, che lotta al fianco della privatizzazione dell’azienda e contro la sua ventilata nazionalizzazione.

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29/04/2017

I giorni della Liberazione. Piazzale Loreto 29 Aprile /5


La colonna col camion e i 18 cadaveri giunge in Piazzale Loreto, a Milano, alle 3:40 del 29 aprile; Walter Audisio scelse quel luogo, probabilmente su indicazione del Comitato Insurrezionale del CLN, proprio dove le vittime partigiane della strage del 10 agosto 1944 erano state abbandonate in custodia ai militi fascisti della Muti, che li avevano oltraggiati e lasciati esposti al sole per l’intera giornata, impedendo ai familiari di raccogliere i loro resti. Si veda ad esempio il resoconto in prima persona del Comandante Giovanni Pesce in “Senza Tregua”.

I cadaveri dei capi fascisti vennero scaricati nel centro della Piazza e i partigiani – tranne pochissimi lasciati di guardia, che si addormentarono – si allontanarono.

Verso le 7 del mattino, i primi passanti si accorsero dei cadaveri. Vi fu un passaparola fulmineo e la piazza si riempì velocemente. Non era stata incautamente prevista alcuna misura di contenimento: nella calca le prime file di folla vennero spinte verso i cadaveri dalle persone retrostanti, tutti curiose di vedere il cadavere di Mussolini, calpestando e sfigurando i cadaveri. Molti insultavano, sputavano, orinavano e prendevano a calci i cadaveri stessi. Una donna sparò al cadavere di Mussolini cinque colpi di pistola, per vendicare i propri cinque figli morti in guerra: la traccia dei proiettili inflitti post-mortem fu poi rilevata dall’autopsia.

Alle 11 del mattino la situazione non era più governabile neanche con le scariche di mitra in aria. Una squadra di Vigili del Fuoco, giunta sul posto, intervenne: ripulì i cadaveri con gli idranti, lì trasse via dal centro della piazza, issando i sette cadaveri più noti alla pensilina del distributore di carburante Standard Oil (poi Esso) che si trovava all’angolo fra la piazza e corso Buenos Aires e lasciandoli lì appesi per i piedi, a testa in giù: non vi era altro modo, la rigidità cadaverica impediva di appenderli per le braccia, che si sarebbero spezzate rischiando di farli cadere.

Questo gesto, compiuto nel marasma dai Vigili del Fuoco e dai partigiani presenti, riportò un minimo di calma nella Piazza, in quanto tutti potevano vedere i cadaveri (essenzialmente, quello di Mussolini) senza accalcarsi. La zona del distributore era poi laterale al piazzale e meglio difendibile: da quel momento, infatti, un cordone di partigiani e vigili del fuoco riuscì a tenere la folla inferocita, ed a tratti in attitudine di linciaggio, a debita distanza dai cadaveri, mentre Piazzale Loreto era letteralmente stracolmo di cittadini milanesi. Appesi furono: Mussolini, Claretta Petacci, Alessandro Pavolini, Paolo Zerbino, Ferdinando Mezzasoma, Marcello Petacci e Francesco Maria Barracu, il cui cadavere però cadde a terra e verrà sostituito poi con quello di Achille Starace.

Era presente sul luogo – già prima che i cadaveri venissero appesi – una nutrita pattuglia di soldati americani assieme ad una troupe di cineoperatori militari USA, che filmò la scena; scena che successivamente sarà inserita in uno dei Combat film prodotti nel corso del conflitto: i soldati statunitensi, del 91st Recon Squadron (squadra di ricognizione, un’avanguardia), non intervenero su quanto stava accadendo. Si era fatto mezzogiorno circa.

Fig. 32. Milano, Piazzale Loreto, 29 aprile, mattina. I cadaveri dei gerarchi ancora a terra.

Fig. 33. Milano, Piazzale Loreto, 29.4 ore 11. I cadaveri dei gerarchi vengono spostati sotto il distributore di benzina e lavati sommariamente.

Fig. 34. Milano, Piazzale Loreto, 29 aprile dopo mezzogiorno. I cadaveri appesi.

Fig. 35. Milano, Piazzale Loreto, 29.4 dopo mezzogiorno. I soldati americani (del 91st Recon Squadron) sono ben visibili e numerosi fra la folla (8 soltanto in questa foto), ma non intervengono.

Fig. 36. Prima pagina del giornale USA “Stars and Stripes”. 1 maggio 1945. Sotto l’articolo “How a dictator dies” una foto di Mussolini e Petacci a Piazzale Loreto, prima di essere appesi, tratta da quelle che i cineoperatori americani dei Combat Film fecero quel giorno.

Achille Starace, ex segretario generale del Partito nazionale fascista, caduto in disgrazia durante la RSI, viene riconosciuto la mattina del 29 aprile mentre passeggia, alcuni dicono fa “footing“, per le vie di Milano, in zona ticinese; viene arrestato, immediatamente giudicato e condannato a morte da un tribunale partigiano in un’aula del vicino Politecnico. Condotto in Piazzale Loreto, vede l’ex duce appeso, viene fucilato e issato sul distributore insieme agli altri cadaveri.

Nel primo pomeriggio una squadra di partigiani del distaccamento “Canevari” della 87ª Brigata Garibaldi “Crespi” (dell’Oltrepò pavese), su ordine del comando del CVL, entrò in piazza e rimosse i cadaveri, trasportandoli nel vicino obitorio di piazzale Gorini.

In serata, il CLNAI riunito emanava una comunicato con il quale si assumeva la responsabilità dell’esecuzione di Mussolini, quale conclusione necessaria di una lotta insurrezionale.

La “macelleria messicana” (definizione di Ferruccio Parri) in Piazzale Loreto fu quindi il risultato di una serie di concause, fra le quali la principale fu la decisione di Walter Audisio di portare, come contrappasso della strage nazifascista di agosto 1944, i cadaveri in Piazzale Loreto e non direttamente all’obitorio. Da ricordare anche la fatale decisione di lasciare i cadaveri per terra al centro della Piazza quasi privi di scorta ed allontanarsi per andare a riposare; decisione probabilmente dovuta – oltre ad un atto di sfregio e di liberazione – alla comprensibile stanchezza conseguente ad una giornata – diciamo – assai impegnativa e ad una notte insonne di viaggio e controlli. La decisione di appenderli, con il macabro risultato che tutti conoscono, fu dettata al momento da motivi di ordine pubblico e fu presa dai Vigili del Fuoco in accordo con i partigiani presenti.

Il comportamento della folla – infierire su dei cadaveri – fu un brutto episodio che potrebbe anche spiegarsi come un atto liberatorio e di sfogo: tuttavia non è da dimenticare che gli stessi milanesi, soltanto 4 mesi prima, il 16 dicembre 1944, osannarono Mussolini plaudendo al suo passaggio in auto scoperta dopo il discorso al Lirico di Milano. Il comportamento della folla, se mai, fa di Piazzale Loreto un episodio non limpido.

Giorgio Bocca definì Piazzale Loreto “atto rivoluzionario, sul quale si sono fatte eccessive polemiche“. Chi ha visto o conosce gli infiniti orrori della guerra in Italia, può anche concordare con la sua lapidaria opinione.

 Fig. 37. Piazzale Loreto, Milano, 29 aprile 1945. Achille Starace al momento della fucilazione.

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28/04/2017

I giorni della Liberazione. 28 Aprile, giustizia è fatta /4


Walter Audisio “Valerio” e Aldo Lampredi “Guido” partono da Milano, con un plotone di 14 partigiani agli ordini del comandante Alfredo Mordini “Riccardo” e di Orfeo Landini “Piero”. Giunti a Como, Audisio e Lampredi esibiscono il lasciapassare di Cadorna al nuovo prefetto nominato dal CVL, Virginio Bertinelli, e al colonnello Sardagna, che erano entrambi dalla parte di chi voleva salvare Mussolini consegnandolo agli alleati, secondo le istruzioni di Cadorna.

Valerio e Guido debbono mentire per ottenere collaborazione, assicurando loro che avrebbero trasferito i prigionieri a Como e, in un secondo momento, a Milano, dove gli Alleati stavano prendendo il controllo. Trattenuto a Como fino alle 12.15 in cerca di un camion per il trasporto, Audisio si sposta infine a Dongo, dove giungerà alle 14.10.

Nel frattempo, giungono a Dongo da Como Oscar Sforni, segretario del CLN comasco, ed il maggiore Cosimo Maria De Angelis, responsabile militare del CLNAI per la zona di Como, inviati dal CLN comasco: anch’essi col compito di trasportare Mussolini a Como, consegnarlo agli alleati e salvargli la vita.

E’ un momento cruciale: Audisio è solo, perché Lampredi è momentaneamente assente, allontanatosi per andare alla sede del locale Partito Comunista nella ricerca del camion per il trasporto dei prigionieri.”Valerio” procede allora ad un atto estremo: i due (Sforni e De Angelis) saranno fatti imprigionare da “Valerio”, in modo da non intralciarne la missione, e verranno rilasciati solo ad operazione conclusa.

A Dongo – quindi – “Valerio” trova un ambiente difficile ed ostile: si incontra con il comandante Pier Luigi Bellini delle Stelle e gli rivela la verità, comunicandogli di aver avuto l’ordine di fucilare Mussolini e gli altri prigionieri.

“Pedro”, pur comandante di una Brigata Garibaldi, è un moderato, di origini nobili, e non un comunista o un azionista; protesta vivamente, ma dopo aver preso visione delle credenziali di Cadorna, e ritenendole sufficienti, correttamente ubbidisce ad un ufficiale di grado superiore e, pur disapprovando, muta atteggiamento rispetto alla notte precedente.

Il dittatore intanto, ignaro che per salvargli la vita si stanno battendo gli americani, gli inglesi, i badogliani, e una parte dei comandi partigiani “moderati”, passa una notte e una mattinata relativamente tranquille a casa De Maria a Bonzanigo di Mezzegra, con la Petacci. Non subiranno, da vivi, alcun maltrattamento.

Sembra quindi che, in quelle ore, fra i protagonisti diretti, solo i due giovani partigiani “Lino” e “Sandrino” che sorvegliano Mussolini, oltre al “capitano Neri” e “Pietro” e quelli della 52a Brigata, e massime il pugno di partigiani di “Valerio” e “Guido”, si battano per fare Giustizia. Molti altri, già sono pronti a delegarla ad un esercito straniero.

Fig. 19. La camera di Casa De Maria dove Mussolini e Petacci pernottarono la notte fra il 27 e il 28 aprile.

 Fig. 20. Fotografia di dubbia autenticità, ma comunque utile come ricostruzione. Rappresenta Mussolini seduto sul letto della stanza di casa De Maria, 28 aprile 1945. I dettagli della stanza da letto corrispondono al vero. Riconoscibile sul capo un inizio di fasciatura, posta per mascherarne la riconoscibilità, al momento del trasporto verso il luogo dell’esecuzione. Il viso di Mussolini appare però più grasso di come era l’aspetto del’ex duce negli ultimi giorni. L’altro corpo riverso sul letto corrisponderebbe a quello della Petacci, con la pelliccia. Se fosse stata autentica, sarebbe stata l’ultima foto di Mussolini da vivo: ma ripetiamo, il viso del Mussolini degli ultimi giorni non aveva la pinguedine nella zona del sottomento presente in questa foto, che è tuttora un mistero.

Walter Audisio “Valerio” si trova quindi – a metà giornata del 28 – a Dongo, con la sua squadra di partigiani, incaricato dal Comitato insurrezionale del CLNAI a Milano di eseguire la condanna a morte di Mussolini e dei gerarchi. Ha perduto tutta la mattina per vincere le resistenze dei partigiani e delle autorità locali, e in attesa di un camion per il trasporto.

Non fidandosi ancora completamente di lui, Audisio chiede al Comandante “Pedro” di andare a prelevare i gerarchi prigionieri a Germasino, in modo da riunirli tutti a Dongo, in vista del loro trasporto. A questo punto “Pedro” conosce già la sorte che li attende, ma come abbiamo già precisato obbedisce pur disapprovando agli ordini di un ufficiale superiore (Valerio), munito di un lasciapassare firmato personalmente da Cadorna. Valerio ha infatti già fatto compilare personalmente la lista dei fucilandi (v. in seguito).

Alle 15:15 – allontanatosi Pedro verso Germasino – “Valerio” rompe gli indugi e parte da Dongo in auto, in direzione di Bonzanigo, dove l’ex duce è prigioniero. Per essere più veloce e meno intercettabile, non si fa seguire neppure dalla sua esigua squadra, che lascia di presidio a Dongo, ma solo da Aldo Lampredi “Guido”, che condivide con lui il comando della missione da Milano, e da Michele Moretti “Pietro”, che conosceva i carcerieri ed il luogo, essendoci già stato la notte prima insieme a “Pedro” e “Neri”; con loro l’autista e partigiano Giovanni Battista Geninazza. Senza Michele Moretti, Audisio e Lampredi non avrebbero mai potuto individuare dove fossero stati nascosti Mussolini e la Petacci.

Vi sono molte versioni contrastanti su come andò, da quel punto in avanti; nella sostanza, si può dire che gli esecutori giungono a casa De Maria, sempre sorvegliata da “Sandrino” e “Lino”, prelevano Mussolini e la Petacci, raccontando loro di essere venuti a liberarli per ottenere collaborazione dall’ex duce nel trasferimento, e li portano in auto nel luogo precedentemente scelto per l’esecuzione, poco distante: un vialetto, via XXIV Maggio a Giulino di Mezzegra, in posizione riparata davanti alla cancellata di una villa, Villa Belmonte. Fatti scendere i due, Moretti e Lampredi sono inviati da Audisio a bloccare la strada nelle due direzioni, mentre a Mussolini viene fatto cenno di dirigersi verso il cancello. “Valerio” sospinge Mussolini verso l’inferriata e pronuncia la sentenza: “Per ordine del Comando Generale del Corpo Volontari della Libertà sono incaricato di rendere giustizia al popolo italiano“. Mussolini e Petacci sono paralizzati contro il muretto a sinistra, vicino al cancello. Audisio tenta di procedere all’esecuzione, ma il suo mitra si inceppa; Lampredi si avvicina, estrae la sua pistola, ma anche da questa il colpo non parte; chiama allora Moretti che, di corsa, sopraggiunge con il suo mitra. Con tale arma il “colonnello Valerio” – oppure Lampredi o più probabilmente Moretti stesso, secondo altre versioni – scarica una raffica mortale di cinque colpi su Mussolini. La Petacci non si muove dal fianco di Mussolini, supplica di lasciarlo stare, e nonostante i solleciti a spostarsi, vuol seguirlo fino all’ultimo istante. Viene accontentata, muore colpita dalla raffica. Viene poi inferto un colpo di grazia al cuore di Mussolini, con la pistola, da Lampredi. Sono le ore 16.10 del giorno 28 aprile 1945.

Figura 20a – La pistola Beretta di Lampredi, che inferse a Mussolini il colpo di grazia, 28 aprile 1945.

Figura 20b – Fucile mitragliatore di produzione francese Mas 38, l’arma del “Colonnello Valerio”, Valter Audisio, 28 aprile 1945.

Alcune versioni danno come esecutore materiale Lampredi, altre ancora Michele Moretti, che era in quel periodo l’unico partigiano combattente sui luoghi, mentre Audisio e Lampredi operavano con ruoli dirigenziali presso i vertici del CVL a Milano. Ci paiono, alla fine, dettagli, difficili da appurare: i referti autoptici (si veda in seguito) confermano che i proiettili che colpirono Mussolini da vivo, incluso quello ritenuto mortale, partirono effettivamente da queste due armi.

Da più parti si sostenne poi che Audisio – figura abbastanza secondaria nel Partito Comunista fino ad allora – prese, su indicazione di Longo e Sereni, sulle sue spalle il merito (e il peso) di diventare “il partigiano che aveva giustiziato Mussolini”, in quanto Lampredi aveva un ruolo pubblico più delicato nel Partito e non era opportuno attribuirgli l’uccisione dei due. Michele Moretti, anch’egli del Partito Comunista, si contraddistinse sempre per una certa discrezione sull’accaduto, in osservanza probabilmente ai dettami del Partito, che tesero ad accreditare una sola “versione ufficiale”.

Il relativo mistero sugli ultimi istanti di vita di Mussolini generò, nei decenni successivi, una ridda di versioni alternative. Vi sono ad esempio delle ricostruzioni che datano la morte di Mussolini al mattino, la più documentata delle quali resta secondo noi quella del giornalista, di parte neofascista, Giorgio Pisanò, autore di una inchiesta notevole, molto dettagliata e di prima mano, condotta nell’arco di decenni di lavoro [Giorgio Pisanò, Gli ultimi cinque secondi di Mussolini, Milano, Il saggiatore, 1996]

Ma le ricostruzioni che datano la morte di Mussolini al mattino contrastano con molti dati di fatto, soprattutto i migliori referti autoptici: i più affidabili e recenti [Pierluigi Baima Bollone, Le ultime ore di Mussolini, Milano, Mondadori, 2005], ad opera del dott. Baima Bollone, noto medico legale, che riesaminò tutti i referti redatti a suo tempo dal prof. Cattabeni in occasione dell’autopsia del 30 aprile (vedi in seguito), datano la morte di Mussolini a non prima delle ore 16:00 del 28 aprile; l’argomento principale a sostegno di una morte prima di pranzo”è al mattino, ovvero la mancanza di residui di cibo nello stomaco dell’ex duce, viene smontata dalla stessa fonte [Baima Bollone], venendo spiegata essere compatibile con le sue caratteristiche fisiologiche.

“Valerio”, il partigiano che giustiziò Mussolini, era veramente con ogni probabilità proprio Audisio, insieme a Lampredi e Moretti, come abbiamo visto. Non era – come sostenuto da alcune ricostruzioni di parte revisionista – Luigi Longo “Gallo”, dirigente del CVL e futuro segretario del Partito Comunista, che nel primo pomeriggio del 28 partecipava alla sfilata della Liberazione a Milano, come testimoniano fotografie (vedi sotto).

Il primo resoconto di Walter Audisio, ancora anonimo, apparve sulla prima pagina dell’Unità del 1 maggio 1945. Pur carente e in alcuni punti romanzato, risulterà poi sufficientemente aderente ai fatti. Una ricostruzione più completa, questa volta firmata da Audisio, apparve in cinque puntate sulla stessa “Unità” del 25-26-27-28-29 marzo 1947.

Fig. 21. Il primo resoconto di Walter Audisio, ancora anonimo, sulla prima pagina dell’Unità del 1 maggio 1945.

Al di là delle discrepanze nel suo racconto, è invece certo che senza la ostinata e spiccia determinazione di Audisio ad eseguire la sentenza, a vincere le resistenze locali, causate da quelle ai vertici del CVL, e soprattutto a far presto, battendo sul tempo gli Alleati che stavano per prendere militarmente sotto controllo la zona, Mussolini si sarebbe salvato, sarebbe stato sottratto – volenti o nolenti – ai partigiani e consegnato agli alleati. Visto il poco o nulla che scontarono anche alti gerarchi superstiti, responsabili diretti o indiretti di molti crimini di guerra e non, come Rodolfo Graziani, o il già citato Borghese, e la ondata di amnistie del dopoguerra, di sicuro Mussolini avrebbe avuto salva la vita. E – magari – come disse Sandro Pertini nella già citata sua intervista all’Avanti del 1965, avrebbe avuto nell’Italia del dopoguerra un ruolo politico e sarebbe stato eletto in Parlamento con il Movimento Sociale, sedendo grazie all’immunità parlamentare sugli stessi banchi di Pertini, Parri, Longo. E di Giacomo Matteotti.

Giustizia – invece – fu fatta.

Fig. 23. Giulino di Mezzegra (CO) – Cancello e vialetto innanzi a Villa Belmonte, in un immagine precedente l’esecuzione di Mussolini

Fig. 24. Giulino di Mezzegra (CO). Cancello di Villa Belmonte, in un immagine del dicembre 1945, dopo l’esecuzione di Mussolini. Visibili due piccoli croci nere.

Fig. 25. Giulino di Mezzegra (CO) Cancello di Villa Belmonte, oggi. Visibile la croce in legno “Benito Mussolini, 28 APRILE 1945"

Audisio, Lampredi e Moretti lasciano sul luogo dell’esecuzione i cadaveri dell’ex duce e della Petacci e tornano velocemente a Dongo: occorreva completare l’incarico e sovrintendere anche all’esecuzione dei gerarchi fascisti, che nel frattempo erano stati radunati in Municipio. La lista con i nomi era già stata fatta compilare personalmente da “Valerio” prima di partire per Giulino di Mezzegra: con sono 15 nomi, tanti quanti i partigiani, che, per rappresaglia, il 10 agosto 1944, i tedeschi avevano fatto fucilare dai fascisti ed esporre al pubblico in Piazzale Loreto a Milano per l’intera giornata, senza consentire ai familiari di raccoglierli. Il riferimento a Piazzale Loreto come una strage da vendicare spiega poi gli avvenimenti del giorno dopo.

La lista comprendeva:

1) Alessandro Pavolini, segretario nazionale del Partito Fascista Repubblicano

2) Paolo Porta, federale di Como e comandante delle Brigate Nere

3) Francesco Maria Barracu, sottosegretario alla presidenza del consiglio

4) Nicola Bombacci, tra i fondatori del Partito Comunista d’Italia nel 1921, poi fervido ideologo e propagandista del fascismo

5) Augusto Liverani, Ministro delle Comunicazioni

6) Ruggero Romano, Ministro dei Lavori Pubblici

7) Ferdinando Mezzasoma, Ministro della Cultura Popolare

8) Paolo Zerbino, Ministro dell’Interno

9) Goffredo Coppola, Rettore dell’Università di Bologna e Presidente dell’Istituto Nazionale di Cultura Fascista

10) Ernesto Daquanno, giornalista, direttore della Agenzia Stefani

11) Mario Nudi, comandante dei Moschettieri del Duce

12) Luigi Gatti, segretario personale di Mussolini

13) Pietro Calistri, ufficiale dell’Aeronautica Nazionale Repubblicana

14) Vito Casalinuovo, ufficiale di collegamento fra Mussolini e la GNR

15) Idreno Utimpergher, comandante delle Brigate Nere di Lucca.

Il sindaco del paese, Giuseppe Rubini, cerca di opporsi. La determinazione di “Valerio” non gli consente alcun risultato: Rubini dà le dimissioni, ritira dalla finestra del municipio la bandiera esposta e si rinchiude in casa.

I condannati vengono allineati contro la ringhiera metallica del lungolago del paese; dopo aver ricevuto l’assoluzione, vengono giustiziati alle ore 17:48. Il plotone di esecuzione è comandato da Alfredo Mordini “Riccardo”, già combattente garibaldino nella guerra civile spagnola, Comandante del gruppo partigiano partito la mattina da Milano.

Marcello Petacci, fratello di Clara, spacciatosi invano per diplomatico spagnolo e smascherato, fu poi scambiato per Vittorio Mussolini; successivamente identificato, fu comunque fucilato, anche se venne ucciso dopo gli altri, perché i gerarchi non lo consideravano dei loro e chiesero un’esecuzione separata, richiesta che venne accettata. Però, arrivato il suo turno, riuscì a fuggire e a gettarsi nelle acque del lago dove venne raggiunto da una pioggia di proiettili che lo finirono. Il cadavere venne ripescato e posto insieme ai fucilati.

Alla maggior parte dei sedici fucilati appare direttamente applicabile, viste le loro cariche e responsabilità, la condanna a morte secondo l’articolo 5 del già citato decreto del CLNAI del 25 aprile. Oltre a Marcello Petacci, appare discutibile l’esecuzione dell’ufficiale dell’Aeronautica Pietro Calistri. Walter Audisio passò attraverso, nel dopoguerra, un processo per giudicare i suoi atti del 28 aprile 1945: la Giustizia italiana, d’altra parte così prodiga di amnistie ed assoluzioni per i fascisti rimasti in vita, non poté che riconoscere che quanto fece Audisio quel giorno era da configurarsi all’interno di un’operazione di guerra, e pertanto – date le circostanze – non era perseguibile.

Fig. 26. Dongo, 28 aprile. Corteo dei condannati a morte in Piazza, innanzi si distingue Pavolini con cappotto lungo e braccio fasciato

Fig. 27. Alcuni condannati a morte prima dell’esecuzione a Dongo, 28 aprile 1945. Da sinistra: Nicola Bombacci, Francesco Maria Barracu, Idreno Utimperghe, Alessandro Pavolini, Vito Casalinuovo, Paolo Porta, Fernando Mezzasoma, Ernesto Daquanno.

Fig. 28. I condannati a morte ricevono l’assoluzione dal frate francescano Padre Accursio Ferrari. Dongo, 28 aprile 1945.

Fig. 29. Il momento della fucilazione dei gerarchi fascisti, Dongo, 28 aprile 1945. Di schiena il comandante del plotone di esecuzione, Alfredo Mordini “Riccardo”.

Fig. 30. Milano, 28 aprile 1945, pomeriggio. Parata della Liberazione. In prima fila (terzo da destra) riconoscibile Luigi Longo “Gallo”.

A Dongo, sul Lago di Como, alle 18 del 28 aprile, i 16 fucilati vengono caricati su un camion, coperti da un telone dove si issano e viaggiano dei partigiani del drappello venuto la mattina stessa da Milano. Una piccola colonna con il veicolo e un'auto parte per Milano, fermandosi nelle vicinanze per recuperare i corpi di Mussolini e della Petacci, sul luogo dell’esecuzione. Durante il viaggio di ritorno la colonna è costretta a fermarsi in diversi posti di blocco partigiani per controlli; rifiutandosi sempre di rivelare – per prudenza – il contenuto del camion, in alcuni casi “Valerio” ed i suoi passano i controlli dopo molte difficoltà. Il camion arriva a Milano alle tre del mattino seguente, 29 aprile. Viaggiare in quei giorni fra il lago di Como e Milano (120 km circa, nelle strade in precarie condizioni, di allora) non è facile, il camion di “Valerio” ci mette nove ore: questo rende improbabile che Luigi Longo possa esserci andato e tornato il giorno prima, in poche ore, per compiere di persona l’esecuzione di Mussolini.

“Valerio” si dirige con il camion verso Piazzale Loreto, teatro di un eccidio nazifascista l’anno prima.

Nel frattempo, tutti i beni sequestrati dalla 52ª Brigata Garibaldi, tra quelli in possesso di Mussolini e i gerarchi al momento della cattura (il così detto “Oro di Dongo”), vengono parzialmente inventariati quello stesso giorno nel Municipio di Dongo, dalla partigiana Giuseppina Tuissi “Gianna” e dall’impiegata comunale Bianca Bosisio. Nel tardo pomeriggio, il capo di stato maggiore della brigata, Luigi Canali, “Capitano Neri”, firma un ordine di consegna temporaneo di tutti i beni recuperati ed inventariati alla federazione comunista di Como, di cui è responsabile Dante Gorreri, figura centrale nell’aver causato le molte ambiguità e misteri della vicenda dell’Oro di Dongo.

Enrico Mattei, futuro protagonista dell’economia italiana, responsabile amministrativo di tutte le formazioni partigiane durante la Resistenza, testimonierà in seguito – al processo di Gorreri – che “il bottino delle azioni di guerra apparteneva alle formazioni che lo catturavano, e poteva essere messo a disposizione dei comandi“. Appare probabile quindi che quel bottino, appartenente alle Brigate Garibaldi, sia stato consegnato da Gorreri al suo partito, il Partito Comunista.

I misteri che riguardano “l’oro di Dongo” sono essenzialmente dovuti non tanto al bottino stesso, pare non così ingente come si favoleggia, ma alle dispute che seguirono, nei giorni del maggio-giugno 1945, fra Gorreri e altri dirigenti locali del Partito Comunista ed ex partigiani, e sull’incertezza su dove esattamente finirono quei denari. Inoltre, proprio in seguito a queste dispute, vi furono successive morti violente e sparizioni, anche di alcuni dei protagonisti della vicenda, fra i quali lo stesso “Neri” (scomparso dal 7 maggio 1945) e “Gianna” (uccisa il 22 giugno dello stesso anno), fatti per i quali vi furono indagini e processi a carico di Gorreri e altri, ma che esulano da questo racconto.

Gorreri – nel processo a suo carico – fu poi scagionato – per quanto riguardava l’oro di Dongo – dalla citata testimonianza di Enrico Mattei ed alla fine i reati penali dei quali era imputato furono prescritti: fu deputato all’Assemblea Costituente e nella III, IV e V Legislatura alla Camera.

Gorreri stesso fu poi probabile protagonista – in maniera tutt’altro che limpida – della vicenda della sparizione del Carteggio Churchill-Mussolini, documenti in possesso di Mussolini al momento dell’arresto e ben più importanti dal punto di vista storico.

Fig. 31. Luigi Canali, “capitano Neri” e Giuseppna Tuissi “Gianna”
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