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25/04/2017

La schiavitù linguistica del capitale


Qualche tempo fa Luciano Canfora ha presentato il suo ultimo libello, La schiavitù del capitale, alla trasmissione Quante storie di Corrado Augias.

Vorrei riportare due dichiarazioni di Canfora che sintetizzano il quadro entro cui è racchiusa la direzione politico-economica della scuola (mondiale, europea e, di conseguenza, italiana).

A commento di un video sul lavoro di fabbrica e quello post-fordista dei call center, Canfora dice: «Impressionante, direi; lo sfruttamento diventa più raffinato, e perciò più pericoloso [...] questo interferisce direttamente nel pensiero, nella vita intellettuale dello sfruttato, per giunta in condizioni, dal punto di vista sindacale, peggiori».

Il secondo passo. Ad Augias che, a proposito del “manifesto dei 600”, dice: «Che i giovani parlino e scrivano male è un dato, si vede. Perché?», Canfora risponde:

«È un effetto di vari fattori. Vorrei sintetizzarli molto in breve: uno è l’imperversare medico pedagogico, potremmo chiamarlo così, di questa pseudo-scienza che individua nello sforzo per imparare quasi una persecuzione. Gramsci diceva che studiare è una fatica, deve essere una fatica. [E invece oggi] niente sintassi, niente date nella storia, nozionismo come nemico. Tutto questo è stato un danno.

Poi è intervenuta anche una mania, diciamo, paranglosassone: siccome nel mondo anglosassone si parla e si scrive in modo telegrafico e semplice con una sintassi quasi fragile, dobbiamo scrivere così: una perdita gratuita di una identità. La guerra contro l’analisi logica...».

Questo è un effetto paradossale – ma solo apparentemente – della cosiddetta società della conoscenza, che non produce certo più conoscenza di prima, ma cerca di inglobarle quanto più è possibile nel processo di valorizzazione capitalistica. E questo avviene con la sua frammentazione, semplificazione e diffusione a tripla w.

È il famoso processo descritto da Marx, come “sussunzione reale” (della conoscenza, in questo caso) sotto il capitale. Questa conoscenza, prodotta altrove e da pochi, viene spezzettata e omogeneizzata e resa fruibile alla massa dei “knowledge workers”, cioè ai nostri studenti. Per questo motivo occorrono metodi semplificati, riduzione dei saperi, velocità nell’apprendimento. Proprio la velocità è un fattore importante nel nuovo paradigma produttivo post-fordista del just-in-time. Da qui deriva la semplificazione e l’odio verso la “fatica del concetto”, per citare Hegel.

A questa velocità corrisponde una semplificazione sintattica, che ha la sua massima espressione nella scrittura web. È noto a qualunque studente di filosofia che per leggere Hegel, Kant o Aristotele occorre avere un libro in mano, proprio perché la difficoltà della cosa è anche difficoltà della lingua. Leggere per ore su uno schermo è puro masochismo.

Chi studia sa che il concetto è difficile sino a che non viene assimilato: allora diventa familiare e non più oscuro. Attraverso il pensiero e la lingua (che non sono statici) noi conosciamo il mondo. Ma una lingua facile non fa il mondo facile, lo rende banale.

Su questa banalità si incentra in pratica la nozione di literacy (alfabetizzazione, all’ingrosso), ossia, detta in parole prive di paillettes, la capacità di reperire le informazioni necessarie, soprattutto sul web. È su questa nozione che si basano fondamentalmente le "prove invalsi". Tutta la verifica delle competenze linguistiche non è atta a capire se, attraverso la lingua, un individuo è in grado di padroneggiare il mondo e di esprimerlo concettualmente e dunque linguisticamente, ma se è in grado di capire le informazioni che legge. Che, direi, non è poca cosa, ovviamente. Ma se la nostra capacità si esercita su testi semplificati, la capacità di comprensione del reale si perde. Così come si perde se i nostri obiettivi si abbassano al mero reperimento delle informazioni.

Purtroppo una parte non esigua di responsabilità è delle case editrici, soprattutto quelle per l’infanzia e i giovani, le quali hanno semplificato il linguaggio per renderlo spedito e semplice, in maniera tale da conquistare in tempi veloci il proprio lettore-consumatore. E questa è la situazione migliore, perché parliamo dei “giovani che leggono”. Non parliamo invece di quelli che non leggono o “leggono solo internet”...

Ma allora, che società della conoscenza è quella in cui non si sa più né accedere al sapere né produrlo? Non a caso, prima che la dizione “società delle conoscenza” si imponesse a livello massmediatico anche nei documenti europei, una volta si parlava di società dell’informazione, anche perché alla base c’era l’informatica. Agli albori di questa società (che ha appena un trentennio), c’era ancora un po’ di umiltà e di memoria di cosa fosse la conoscenza. Oggi non più.

E come non ricordare quella famosa battuta del film di Nanni Moretti (che gli insegnanti di sinistra conoscevano prima di innamorarsi dei balbettii di Fazio e Saviano): «La scuola non deve formare, ma informare!».

Formare significa dare forma. Sembra un’ovvietà, ma non lo è più. Oggi con formazione si intendono tirocini, alternanza scuola-lavoro, stage, lavoro gratuito, schiavitù mascherata.

La parola formazione aveva un significato più alto un tempo. Era la traduzione del termine tedesco Bildung, che alla base ha anche il concetto di costruire e di istituzione, concetti collegati anche con il termine italiano istruzione (e infatti la scuola è un’istituzione formativa).

Questa idea di istruzione (e non di educazione, come oggi si dice comunemente) aveva una base politica di fondo: la costituzione dell’uomo moderno, del cittadino, come si diceva un tempo non dimenticando che si parlava del citoyen, ossia di una delle due facce dell’individuo moderno, essendo l’altra il bourgeois, il privato (Rousseau). Dietro a quelle formulazioni ovviamente c’era la nascita della nuova società capitalistica in Europa.

C’erano (e continuano ad esserci) dunque una sfera pubblica e una privata e la formazione si occupava della sfera pubblica dell’individuo. Per questo motivo era compito della comunità (in questo caso dello Stato) occuparsi della formazione della sfera pubblica, senza la quale non poteva darsi nessun contratto sociale.

Con la diffusione del neoliberismo, dopo la caduta del muro di Berlino, questo concetto di formazione viene messo in discussione, perché il “pubblico” è sempre più un bersaglio da colpire, sia praticamente che concettualmente.

Siamo atomi che si scontrano tra loro in una rete, diceva il filosofo Francois Lyotard quando il web non era ancora nato, ma era appena stato prodotto il primo pc, la crisi petrolifera sanciva la crisi del fordismo e in Cile il generale Pinochet apriva la strada ai Chicago boys.

Non c’è un disegno comune, non c’è una progettualità, un piano, ma c’è solo il caso. La storia non ha un fine perché l’uomo non ha un fine, ma al massimo un interesse privato. Lo scontro degli interessi privati produce la società di mercato, che per regolarsi non ha bisogno di nessun Leviatano.

La storia non ha una razionalità, perché la casualità prodotta dai movimenti degli atomi non si lascia imbrigliare da una qualche ragione. È la società complessa, poi divenuta liquida, destrutturata, come il pensiero che l’ha teorizzata.

Non esistono piani, ideologie, sistemi di pensiero, esistono solo “narrazioni” (récit), che, invece, nel vero senso letterario del termine hanno fatto una brutta fine.

Alla fine ha prevalso il privato (il “particulare”, avrebbe detto Gramsci citando Guicciardini): l’uomo del consumo, il cui grado di libertà è sotto gli occhi di tutti...

Ed eccoci arrivati a noi e alla nostra scuola, a quella del “particulare”, che non deve più formare, ma “facilitare” i percorsi “autonomi” degli studenti (gli insegnanti devono essere facilitatori), per tirare fuori le loro potenzialità, secondo un’idea di formazione che Gramsci definiva spontaneista, alla base della quale c’è l’idea di individuo come gomitolo. «Il bambino non è un gomitolo di lana da sgomitolare, ma la parte del complesso mondo storico su cui l’ambiente e la società esercitano la loro coercizione».

Sia detto per inciso, Gramsci sapeva che esistevano tendenze in un individuo che non dovevano essere represse, ma non credeva alla libertà assoluta, cioè ab-soluta, sciolta da tutto, libera da condizionamenti storico-sociali, quasi fosse un fatto naturale.

Gramsci sapeva bene, lui che aveva letteralmente sgobbato per conquistare quel sapere per poi produrne altro (andrebbe ricordato che Gramsci è, assieme a Dante e Machiavelli, lo scrittore italiano più tradotto e letto al mondo), lui che veniva da una famiglia di umili condizioni, sapeva che dietro a un individuo non ci sono autonomia e libertà come cose già date, ma condizionamenti non conosciuti.

La libertà una volta si diceva essere un fine, magari della storia (addirittura!), non una precondizione. E la consapevolezza dei propri condizionamenti (o delle proprie “catene”, come sapevano gli operai di un tempo e non sanno più i knowledge workers di oggi), è il primo e fondamentale passo verso la libertà. La conditio sine qua non.

Oggi dovremmo ricordare quel motto di Don Milani che recitava «ogni parola non imparata oggi è un calcio in culo domani», estendendone il significato. Non si tratta più di singole parole (non lo è mai stato), ma di sintassi, cioè di collegamenti, di ragionamenti, di rapporti tra concetti, di rapporti di forza. Il padrone oggi non ha né più parole, né più ragionamenti dei suoi lavoratori, ha solo più capacità di persuasione: e l’homo videns, il consumatore e il nuovo analfabeta si fanno convincere facilmente. Il padrone ha dalla sua i rapporti di forza. I rapporti di forza sono il padrone.

Riprendersi quel sapere, quella lingua, quei concetti, quella logica: occorre riprendersi quegli strumenti affinché un bambino possa di nuovo dire: “ma il re è nudo!”.

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