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17/04/2017

Turchia, il presidenzialismo passa di strettissima misura

Evet vince ma non libera Erdoğan dall’incubo di un immenso hayır che diventa un muro di ventitre milioni e mezzo di contrari, il 48,67% del voto finale di un elettorato che ha raggiunto l’alta partecipazione dell’86%. Così il margine fra la Turchia che approva la riforma e quella che la voleva respingere s’assottiglia a un milione duecentocinquantamila elettori, pochissimi se si pensa alla prosopopea con cui il governo ha sostenuto il referendum e s’aspettava una maggioranza schiacciante. E’ stata invece confermata la proiezione che, nell’ultimo mese, dava il no in netta rimonta sul fronte del consenso, sia fra la base nazionalista ribellatasi agli inciuci di Bahçeli, sia in taluni settori dei fan dell’Akp. I kurdi poi hanno risposto all’unisono contro il presidente, perché l’altra faccia del quesito referendario riguardava l’autoritarismo, che nelle province del sud-est assume il contorno di spietata repressione, come mostra la carcerazione preventiva di centinaia di attivisti dell’Hdp con in testa i co-segretari Selahattin Demirtaş e Figen Yüksekdağ, accusati di terrorismo. A questo punto il referendum che ha polarizzato il Paese, passa per una manciata di voti e già si parla di brogli, tema che renderà accesissima la fase non solo di commento ma di attuazione di una riforma così perentoria per la vita nazionale.

Il cede nelle città simbolo, a Istanbul e Ankara, dov’era in vantaggio e ha visto spegnersi il primato ed essere superato da chi rifiuta il presidente-padrone. Certo si tratta d’un divario dell’1% o poco più, ma è il medesimo che il vanta sul territorio nazionale per un progetto che cambia il modello della Repubblica e mette il Paese nelle mani di un solo uomo. Gli conferisce un potere assoluto, più di quanto ne avessero il padre della Turchia novecentesca Atatürk e più dello stesso sultano, che in fondo ammetteva la presenza del Gran visir. Invece la modifica costituzionale azzera la figura di primo ministro, introduce decreti presidenziali che possono scalzare leggi parlamentari, designa un buon numero di giudici della Corte Suprema, ponendo potere esecutivo, legislativo, giudiziario e ovviamente militare al super presidente. Erdoğan vorrebbe restare in carica sino al 2029, guidando i festeggiamenti del centenario della Turchia moderna (2023) e puntare a un ulteriore mandato, visto che il nuovo sistema glielo consente. Però il lasciapassare nel Paese che ha plasmato a tal punto da farlo tornare al passato, potrebbe annebbiarsi con questo successo appena accennato.

Nelle urne di Adana e Antalya il rifiuto è pesante: il no vice col 59% e 58% a Izmir addirittura col 68%, per tacere di Mardin, Dıyarbakır e altri centri refrattari a ogni mossa governativa. Prevedendo un ampio consenso fra i concittadini, alla vigilia del voto Erdoğan parlava di popolo che “cammina verso il futuro”. Nella smania d’innovazione accentratrice, che ha fatto dire anche a commentatori super partes come in Turchia i princìpi pluralisti e democratici siano ormai a rischio, il presidente dovrebbe prendere atto che il voto referendario ha rafforzato gli oppositori, molto più che lui stesso. Nell’aria c’è una reazione oltre che a un piano autoritario, anche contro la sua persona. Se la matematica non è un’opinione questa ha già organizzato una fronda fra gli islamisti considerati reprobi, che nelle settimane scorse avevano rifiutato di farsi vassalli del sultano. Non si tratta di gülenisti. Sono quegli uomini di primo piano della politica nazionale e internazionale (due nomi per tutti Gül e Davutoğlu) messisi da parte o estromessi dall’uomo che non vuole attorno né avversari né compagni d’ideali. L’unico ideale inseguito è personalistico, sebbene la platea e il consenso sembrano restringersi e gli applausi nei comizi che saluteranno la vittoria dell’evet non saranno così ottimistici.

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