Tutto secondo le attese: le elezioni in Algeria non hanno riservato sorprese. Né sul vincitore né sulla fuga dalle urne: giovedì è stata bassissima l’affluenza dei cittadini algerini alle urne, 38,25%. Ancora più bassa di quella del 2012, quando parteciparono al voto per l’Assemblea Nazionale il 42,9% dei circa 23 milioni aventi diritto.
Vince il Fronte di Liberazione Nazionale, in coalizione con il Raggruppamento Nazionale Democratico:
al primo vanno 164 seggi (in calo rispetto a cinque anni fa quando ne
ottenne 221) e al secondo 97 (in aumento, nel 2012 furono 70). Insieme, i due partiti che ruotano intorno al presidente Bouteflika arrivano dunque a 261 seggi su 462, il 56,4% del parlamento.
Seguono i tre partiti islamisti, Alliance Msp con 33 seggi, il Fronte
per il cambiamento con 19 e il Movimento della rinascita con 15. Un
fronte che rappresenta dunque la terza forza parlamentare con un totale
di 67 seggi, in miglioramento rispetto al 2012 quando ne ottenne 60.
Si attesta a 9 seggi il Raggruppamento per la cultura e la
democrazia, fazione laica di centro-sinistra che aveva boicottato le
elezioni di cinque anni fa, mentre il Fronte delle forze socialiste
perde 12 seggi rispetto ai 26 precedenti, ottenendone in questa tornata
14.
Si chiude così, nell’apatia più totale, la nuova tornata elettorale
che lascia Algeri in mano al presidente di sempre, 80 anni, malato e
quasi invisibile: giovedì è ricomparso per la prima volta dal 2013
davanti ad una telecamera, mostrandosi mentre infilava la scheda
nell’urna. I 53mila seggi sparsi in tutto il paese non hanno registrato
alcuna coda, nessuna corsa all’urna per scegliere uno dei 12mila
candidati al parlamento, considerato da molti un’istituzione-fantoccio
che si limita a ratificare le decisioni della presidenza e della classe
politico-militare. Dietro la depressione del popolo algerino c’è
molto: corruzione, scandali, una politica lontanissima dalla base e una
strisciante crisi economica che pesa soprattutto sulla classe
lavoratrice e sui giovani algerini.
Il crollo del pezzo del petrolio, su cui l’Algeria fonda il 30% del
prodotto interno lordo e quasi la totalità dell’export, ha dimezzato gli
introiti statali e condotto all’aumento delle tasse e al congelamento
degli stipendi dei dipendenti pubblici, un mix di austerity che si accompagna alla mancanza di interventi seri sul fronte economico e alla sospensione di una serie di interventi infrastrutturali decisi un anno fa dal governo. Al taglio dei sussidi e del budget statale (da 110 miliardi nel 2016 a 63 nel 2017) e
all’aumento del 10% dell’Iva è seguito un incremento considerevole dei
prezzi di gas, elettricità, affitti e prodotti alimentari.
La crisi economica diventa ogni giorno più pesante, una grave
stagnazione che blocca il paese, già stritolato dall’alto livello di
corruzione politica e nepotismo e dalle strutturali diseguaglianze
socio-economiche tra i vertici e la base: il 25% degli algerini
vive oggi sotto la soglia di povertà. Un percorso molto simile a quello
intrapreso da altre società e altre economie, interessate da un graduale
aumento del gap tra ricchi e poveri e la riduzione della
dimensione della classe media. Le promesse di diversificazione di
un’economia fondata sul greggio vengono costantemente disattese e la
tensione sociale è palpabile.
Non stupisce dunque né il dato della disoccupazione giovanile, al 30%
(un dato enorme se si pensa che i tre quarti della popolazione ha meno
di 30 anni), né la fuga dalle urne di un popolo disincantato ma quasi
invisibile. Le proteste di piazza – così come gli scontri con la
polizia – crescono, ma restano limitate e locali e dunque non percepite
dai media.
Nei giorni scorsi la stampa algerina e quella internazionale
raccontavano le ore precedenti al voto: più che dalle elezioni
parlamentari, gli algerini erano immersi nelle presidenziali francesi.
Le tv nazionali hanno trasmesso il dibattito Macron-Le Pen, seguito
nelle case e nei cafè del paese con molta più attenzione di quella
riservata alla stantia campagna elettorale interna dominata dal 1962,
dall’indipendenza dal dominio francese, dall’Fln.
Un partito-Stato che si auto-legittima con la lotta
all’estremismo islamista e il “dovere” di evitare la morte e la
distruzione del Decennio Nero seguito al golpe del 1991 e che
oggi deve fare i conti non solo con l’allontanamento della base dalla
politica, ma soprattutto con il costante calo del consenso. L’Fln se ne va in parlamento “forte” dell’appoggio di poco più di 4 milioni di algerini,
quelli che effettivamente hanno messo una croce sulla scheda a favore
del Fronte di Liberazione Nazionale. “Non potrebbe importarmi di meno –
dice la 32enne Karima ad al Jazeera – Il risultato delle
elezioni è già stato deciso. Il nostro voto non verrà preso in
considerazione, quindi perché disturbarsi ad andare a votare?”.
A poco sono serviti i continui e ripetuti inviti a recarsi ai seggi,
con il primo ministro Sellal che è arrivato a dire alle donne di
picchiare i mariti con un bastone e non preparargli il caffè se non
fossero andati a votare. A prevalere, però, è stata la stanchezza verso
una classe politico-militare che rappresenta dall’indipendenza l’unica
autorità del paese. Un’autorità
che si nasconde dietro multipartitismo e dibattito politico ma che non
ha mai permesso l’emersione di poteri alternativi e indipendenti.
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