Una commissione parlamentare israeliana ha votato ieri a favore di
una nuova versione della “legge della nazione” avanzata nel 2011 che
dichiara lo Stato d’Israele “il focolare nazionale del popolo ebraico”.
La bozza afferma che “il diritto a raggiungere l’autodeterminazione in
Israele è unico solo per il popolo ebraico” e degrada l’arabo da “lingua
ufficiale” a “status speciale” garantendo però ai suoi parlanti il suo
uso per i “servizi dello stato”.
L’obiettivo del governo israeliano è quello di rendere questo
provvedimento una legge base d’Israele e, dunque, una parte centrale
della sua legislazione. La disposizione votata dalla
commissione agisce contemporaneamente su due piani: da un lato
sottolinea il carattere ebraico dello stato israeliano ribadendo come
Israele sia la nazione solo per gli ebrei, dall’altro, invece, sostiene
che ogni suo “residente, senza distinzione di religione o di origine
nazionale, è autorizzato a lavorare per preservare la sua cultura, il
suo patrimonio [culturale], la sua lingua e identità” e garantisce “ad
una comunità, inclusi i membri della stessa religione e coloro che hanno
le stesse origini nazionali, di avere accordi comunitari separati”.
Soddisfazione per il voto di ieri è stato espresso dal ministro del turismo Yariv Levin, a capo della commissione ministeriale.
“Per troppo tempo – ha detto – abbiamo discusso per giungere ad una
decisione su una legge il cui semplice obiettivo è proteggere lo status
d’Israele come stato ebraico”. Sulla stessa lunghezza d’onda Avi Dichter il promotore della legge e parlamentare tra le file del partito di Netanyahu (Likud).
Dichter ha parlato di “passo importante per rafforzare la nostra
identità, non solo nella coscienza del mondo, ma soprattutto nella
nostra mente”. Parole simili sono state espresse anche dalla ministra di giustizia Ayelet Shaked che si è congratulata con Dichter per un provvedimento che rende Israele “uno stato ebraico e democratico”.
La bozza è stata approvata unanimemente in commissione sebbene non
tutti i suoi membri abbiano preso parte alla votazione. Prima che
diventi effettivamente legge, l’iter burocratico prevede il suo
passaggio al ministero della giustizia e poi al parlamento per il voto.
Secondo la stampa israeliana ciò potrebbe richiedere ancora molto tempo.
A distanza di due settimane dalla visita in Israele del presidente Usa Donald Trump, il
messaggio politico che l’esecutivo Netanyahu manda è però chiarissimo:
qualunque ripresa del “processo di pace” con i palestinesi dovrà avere
come precondizione il riconoscimento di Israele come “stato-nazione” del
popolo ebraico. In più circostanze il premier israeliano ha spiegato come questa sia una conditio sine qua non
per potersi risedere al tavolo delle trattative ormai ferme da tre
anni. La mossa di ieri ha anche un altro significato politico: placa le
tensioni interne alla coalizione governativa mostrando come sui principi
basi dello stato il premier Netanyahu non differisca affatto da Casa
Ebraica (il “partito dei coloni”), nonostante la retorica possa a volte
differire.
Proprio il primo ministro è ritornato ieri ad attaccare duramente i palestinesi affermando che non educano i loro figli alla pace.
In apertura del suo incontro ministeriale settimanale, “Bibi” ha poi
commentato l’ormai imminente visita di stato del presidente Trump
dicendo che riflette lo stretto legame tra le due nazioni. Si è detto
poi favorevole al tentativo del leader statunitense di rimettere in moto
il processo di pace, ma ha accusato il presidente palestinese Abu Mazen di “lodare i terroristi e di pagarli”.
Ma la giornata di ieri ha avuto principalmente come argomento di discussione la “legge della nazione”. E se il governo ha esultato, non sono in pochi in Israele che protestano. Alcuni
analisti, infatti, sostengono che concedere “il diritto di
autodeterminazione solo al popolo ebraico” vuol dire ledere i diritti
della minoranza araba del Paese che costituisce il 20% della popolazione.
“La legge è la tirannia della maggioranza e ci trasforma ‘legalmente’
in cittadini di seconda classe” ha affermato Ayman Odeh, il leader di
Lista araba Unita (coalizione dei 4 partiti arabi d’Israele e terza
forza alla Knesset). Zehava Galon, a capo del partito di sinistra
Meretz, è dello stesso avviso: “La legge – ha spiegato – è una
dichiarazione di guerra contro i cittadini arabi d’Israele e contro
[l’idea] d’Israele come società democratica governata correttamente”.
“Anche nella sua versione ‘alleggerita’ – ha chiosato Galon – la bozza
definisce il Paese come stato ebraico ai danni del suo essere
democratico”.
Ma critiche giungono anche dall’Istituto della democrazia d’Israele
che ha chiesto ai parlamentari di non approvare il testo. Uno studio
compiuto dal professore Mordechai Kremnitzer e dal dottor Amir Fuchs,
infatti, afferma che promuovere una legge base senza una
completa procedura legislativa potrebbe sconvolgere il delicato
equilibro che vi è tra un Israele ebraico e uno democratico. I
due studiosi osservano poi come la legge tratti l’identità ebraica
escludendo però altri diritti fondamentali come la libertà di parola e
danneggia i diritti delle minoranze presenti nel Paese. Il riferimento
di Kremnitzer e Fuchs è soprattutto alla retrocessione dell’arabo da
“lingua dello stato” a quella con uno “status speciale”.
Il voto di ieri in commissione giungeva nelle stesse ore in cui una
ragazzina palestinese, Fatima Afif ‘Abd al-Rahman Hjeiji, veniva uccisa
dalle autorità israeliane vicino alla porta di Damasco (nella città
vecchia di Gerusalemme) dopo, sostiene Tel Aviv, aver provato ad
accoltellare alcuni poliziotti. Da ottobre del 2015 almeno 262
palestinesi sono stati uccisi in circostanze simili o nel corso di
proteste e scontri con le forze armate dello stato ebraico. Quarantuno
le vittime israeliane.
AGGIORNAMENTO ore 15:20 Palestinesi: “L’uccisione ieri sera della sedicenne palestinese è stata un’esecuzione a sangue freddo”
L’uccisione ieri sera della sedicenne Fatima Afif ‘Abd al-Rahman
Hjeiji nella città vecchia di Gerusalemme è stata una “esecuzione a
sangue freddo” perché la vittima non rappresentava alcuna minaccia
quando è stata colpita da 20 proiettili sparati dai poliziotti
israeliani. A sostenerlo sono i palestinesi che erano presenti al
momento della sua uccisione. Un testimone oculare, raggiunto dall’agenzia
di stampa palestinese Ma’an, racconta che, prima di essere uccisa, la
ragazzina si trovava vicino alla Porta di Damasco a più di 10 metri dal
gruppo dei poliziotti. Non costituiva dunque alcuna minaccia.
Diversa la versione della polizia. Hjeiji, secondo gli israeliani, si
è avvicinata ai poliziotti e ad alcune guardie di frontiera presenti
sul posto, avrebbe estratto un coltello e avrebbe tentato di
accoltellarli al grido “Dio è più grande”. Gli agenti israeliani
avrebbero quindi risposto sparando “neutralizzandola professionalmente”.
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