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19/05/2017

La nuova Istat di Alleva scivola sull’ideologia

L’ideologia è una brutta bestia. E affligge soprattutto gli editorialisti mainstream. Sì, proprio quelli che strepitano tutto i giorni sulla “fine delle ideologie” proponendone una sola. L’unica ammissibile, secondo loro; o meglio, secondo gli interessi dei loro editori “impuri”.

Ricordiamo la differenza tra la definizione marxiana di ideologia (falsa coscienza, consapevole o inconsapevole che sia) e quella liberalborghese (qualsiasi concezione unitaria che provi a spiegare l’insieme delle relazioni sociali esistenti), in modo da tener presente che il termine è già di suo “conteso” tra diverse visioni del mondo.

Ideologica in senso marxiano è l’operazione fatta dall’Istat due giorni fa con il suo Rapporto Annuale sulle nuove configurazioni sociali create dalle disuguaglianze di reddito. L’Istituto centrale di statistica è una rispettabilissima istituzione che ha dato un impagabile contributo alla ricerca scientifica sulla società negli ultimi 70 anni. E proprio per questo da quasi un ventennio i suoi vertici – di nomina politica – sono stati scelti in modo da invalidare questo ruolo, a dispetto dei grandi ricercatori che ne compongono l’ossatura.

Cosa ci racconta (una vera e propria “narrazione” in senso renziano) quel rapporto? In sintesi, che le classi sociali sono ormai scomparse perché le disuguaglianze di reddito le hanno frammentate e stravolte.

Con uno sguardo superficiale, difficilmente si può dissentire. Chiunque si occupi seriamente di classi e figure sociali, nonché di redditi e della loro provenienza (lavoro, impresa, rendita, ecc), constata ogni giorno che la frammentazione prevale su tutto, tanto che gli individui non sanno più riconoscersi dentro un qualsiasi aggregato sociale o una categoria. Non è ovviamente del tutto esatto, perché la “classe dirigente” – soprattutto quella economica – sa benissimo identificarsi da sola, stabilendo chi è dentro e chi è fuori, chi può entrare e chi deve uscire.

Però da qui a dire che “le classi” non esistono più, ce ne corre. Coglie la palla al balzo il guardiano dell’ideologia per antonomasia, quel Dario Di Vico vicedirettore del Corriere della Sera che può vantare una ideologicissima esperienza giovanile nel Movimento Studentesco capanniano (come Gentiloni, insomma...). Nel suo editoriale di ieri ci va giù con soddisfazione, fin dal titolo “Operai e borghesi escono di scena”. Scomparse queste classi, naturalmente, finisce (finirebbe) anche la lotta di classe, ideologicamente parlando. Peccato che, come tutti vedono ogni giorno, le classi dirigenti – pur avendo ottenuto dai governi degli ultimi 35 anni quasi tutto quel che hanno preteso (scala mobile, articolo 18, contratti precari, ecc) – non hanno per nulla diminuito il loro furore bellico. Se una parte (gli “operai” in senso lato, ovvero i lavoratori dipendenti) è troppo debole per lottare, la “lotta di classe” si tramuta in un “pestaggio di classe”.

Ma la cosa che soddisfa di più Di Vico & co. è proprio la nuova classificazione sociologica proposta dal Rapporto Istat: “una sorta di «seconda lavorazione» dell’enorme quantità di dati che possiede arricchendo sicuramente il dibattito sociologico corrente, anche perché fornisce materiale per una mappatura delle disuguaglianze non monopolizzata dalle sole differenze di reddito e dall’indice di Gini. Ed è sicuramente un passo avanti”.

“Sciolte” le classi, insomma, restano possibili solo volatili “mappature” piuttosto arbitrarie, quanto a criteri e vincoli riconoscibili. Manipolazioni infinite sul tema, per disorientare definitivamente “il pubblico”.

Su La Stampa di oggi il sociologo Antonio Schizzerotto – non certo un bolscevico nostalgico del classismo novecentesco – bacchetta scientificamente questa ansia di disegnare un altro paesaggio sociale. Sicuramente, afferma, “il sistema della stratificazione sociale delle società contemporanee è basato su numerose categorie occupazionali di dimensioni ridotte e non sulle grandi collettività usualmente identificate da chi continua a ritenere che le classi sociali costituiscano il fondamento della stratificazione sociale contemporanea”. Però “suscita una certa sorpresa che l’Istat ritenga possibile rappresentarle solo attraverso nove diversi gruppi sociali”.

Delle due l’una, insomma: o c’è una frammentazione irricomponibile (e allora c’è solo il caos “moltitudinario”) oppure le differenze esistenti, pur innumerevoli, in qualche modo sono meno rilevanti dei numerosi tratti comuni. Il problema è identificare i criteri giusti per classificare il caos secondo un ordine che aiuti a capire; ovvero che rispecchi e non tradisca la società reale.

L’ignoto ideologo dell’Istat ha fissato i suoi criteri tramite “una sorta di inversione tra causa ed effetto”. E dunque prendendo come punto di partenza (indiscutibile, fatto e finito) quello che in genere viene considerato un punto di arrivo da spiegare.

Più precisamente, anche tagliando con l’accetta: “le classi sono sempre state intese come fattori generativi di disuguaglianza e non come risultato di quest’ultima”. Tradotto: è la tua posizione nei rapporti sociali, nella produzione della ricchezza e dunque del reddito, che definisce chi sei e in che “classe” o figura ti dovresti riconoscere. Ed è ovvio che il reddito ti deriva da quella posizione. Mentre “l’Istat guarda alle disparità di reddito, alle disuguaglianze di istruzione, all’ineguale esposizione ai rischi di disoccupazione non come effetto dell’appartenenza a un gruppo sociale, bensì come elementi costitutivi di quel gruppo”.

Detta brutalmente, la classificazione Istat delle “nuove” classi sociali nasconde quello che dice di voler rivelare. Il professor Schizzerotto, sebbene di scuola liberale, si diverte nello stigmatizzare le incongruenze ridicole che ne vengono fuori (“cosa sono le famiglie tradizionali di provincia?... non esistono anche in contesti metropolitani?”, “come fanno i ‘giovani blue collar’ ad avere un’età media di ben 45 anni?”, “cos’hanno in comune ‘le anziane sole e i giovani disoccupati’”?).

Sorvoliamo anche sullo spostamento sistematico dello sguardo dalle classi alla “famiglia”, che invece Di Vico ovviamente benedice “non per una sorta di omaggio alla tradizione culturale italiana ma perché viene individuato come il soggetto che pur nella piena modernità continua a gestire e redistribuire gran parte delle risorse”, addirittura “assorbendo al suo interno il conflitto intergenerazionale”. Constatazione che, sia detto tra parentesi, distrugge anni di narrazione mainstream sui “giovani” tagliati fuori dai “privilegi” dei “vecchi”...

Tolto tutto, però, resta davvero poco. Una narrazione tossica, imbastita collegando arbitrariamente (anziane sole e giovani disoccupati è il top...) dati invece scientificamente inoppugnabili.

Non è questa l'Istat che serve a un paese in crisi...

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