L’esercito contro i disoccupati, i lavoratori e chi chiede maggiore
giustizia sociale. L’esercito a protezione delle compagnie energetiche e
le infrastrutture di gas e greggio. È questa l’immagine che ieri hanno
dato le parole del presidente tunisino Beji Caid Essebsi, in un discorso
alla nazione: “Sappiamo che questa è una decisione grave ma va presa.
Il nostro percorso democratico è minacciato e la legge va applicata, ma
rispetteremo le libertà”.
Facciamo un passo indietro: da settimane la Tunisia è teatro
di proteste popolari a causa della difficile situazione economica, della
disoccupazione mai sconfitta dopo la rivoluzione del 2011 (15,5% a
gennaio 2017), con le campagne e la periferia del paese marginalizzati
come sei anni fa. Lo scontento, sempre presente, è cresciuto nell’ultimo
periodo investendo soprattutto l’entroterra. I disoccupati
sono scesi in strada, hanno bloccato con lunghi sit-in le vie di
comunicazione verso i siti produttivi e le sedi delle compagnie
straniere (tra cui l’italiana Eni), mentre gli operai hanno scioperato
fermando la produzione.
Per Essebsi è davvero troppo, non importa che la gente (soprattutto i
giovani, i più colpiti dall’elevato tasso di disoccupazione, che si
aggira per gli under 30 intorno al 40%) chieda redistribuzione delle
ricchezze, lavoro e salari decenti. “Quando i manifestanti si
arrabbiano, bloccano le strade – ha detto il presidente – Le strade
appartengono a tutti e lo Stato deve intervenire. Vi avverto
fin da ora”. A monte, aggiunge, c’è la necessità di proteggere la
produzione interna, “le risorse del popolo tunisino” ed evitare che
l’attività economica si interrompa come – cita – l’industria dei fosfati
nella regione centrale di Gafsa che “è stata bloccata per cinque anni”.
A muovere il governo sono state le ultime proteste: lunedì il
Ministero dell’Energia aveva annunciato lo stop alla produzione nei
giacimenti di Baguel e Tarfa, entrambi della compagnia energetica
Perenco. Dal 28 febbraio è invece fermo il giacimento Chouech Essaida, a
sud, di proprietà della canadese Serinus Energy. E la protesta si è
allargata alla regione di Tataouine, dove operano Eni e Omv.
Qui migliaia di manifestanti combattono da settimane, in mezzo al
deserto, minacciando di chiudere le vie di comunicazione usate dalle
compagnie energetiche se non si interverrà per creare nuovi posti di
lavoro o si redistribuirà la ricchezza. Omv, compagnia austriaca, ha
spostato 700 dipendenti in via precauzionale, mentre Eni ha fatto sapere
di non aver subito danni.
Qualcuno dà man forte al presidente: sono i sindacati
tunisini che hanno fatto sapere di aver accettato la decisione di
dispiegare l’esercito per tutelare gli snodi produttivi del paese.
“[Le truppe] proteggono da tempo le strutture vitali”, si legge in un
comunicato dell’Ugtt, che definisce la misura non in contrasto con le
libertà della popolazione. Insomma, protestate pure ma senza inficiare
sulle attività economiche. In particolare su quelle energetiche (la
Tunisia produce circa 44mila barili al giorno, poco se paragonato ai due
giganti vicini, Algeria e Libia) in un periodo in cui il governo sta
tentando anche di introdurre misure di austerity.
Dietro sta una generale crisi della politica e delle istituzioni
tunisine: a pochi mesi dalle elezioni locali previste entro il 17
dicembre, martedì il presidente dell’Istanza superiore indipendente per
le elezioni, Chafik Sarsar, si è dimesso. Una decisione a sorpresa
assunta, ha fatto sapere Sarsar, a causa di indebite pressioni subite
dall’Istanza. Essebsi si dice sorpreso ma rassicura: le elezioni si
terranno comunque, le prime municipali dopo il 2011 e la deposizione di
Ben Ali, con una legge elettorale approvata a gennaio dopo due anni di
rinvii.
Chissà come mai le dinamiche di sfruttamento e le azioni che gli apparati istituzionali pongono in essere per tutelare il profitto sulla pelle di chi lavora sono sempre le medesime.
In ogni nazione capitalista c'è un Minniti e i suoi decreti insomma.
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