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21/06/2017

Cosa succede in Siria?

Intervista a Fulvio Scaglione. Che succede in Siria? Perché gli statunitensi abbattono aerei siriani che combattono contro l’Isis e altre milizie? Perché, in questo modo, provocano sia la Russia che l’Iran, che stanno conducendo effettivamente la battaglia contro i jihadisti di AL Baghdadi? Perché i media mainstream recitano i bollettini di guerra della Nato senza altra spiegazione? Per un parere al di sopra di ogni sospetto, Radio Città Aperta ha intervistato Fulvio Scaglione, editorialista de l’Avvenire.

Al telefono con noi Fulvio Scaglione, per un suo commento su una notizia che campeggia su tutte le prime pagine e che riporta in primo piano la tensione tra Russia e Stati Uniti rispetto quanto sta avvenendo in Siria. Addirittura l’avvertimento che da Mosca arriva a Washington “i vostri jet sono potenziali bersagli”... Tutto nasce dall’abbattimento, da parte statunitense di un caccia dell’aviazione siriana di Assad... Scaglione, come si spiega questa nuova escalation di tensione fra Stati Uniti e Russia in un momento in cui, fra l’altro, sul territorio stanno avvenendo delle cose apparentemente sul terreno? Le forze curde dell’Sdf e alleati, sotto l’egidia statunitense, stanno entrando a Raqqa... A Mosul sta avvenendo lo stesso con le forze irachene. Sembra che lo stato islamico effettivamente sia nella fase più bassa, dal punto di vista militare, di questi ultimi anni. Che lettura dai di questa ripesa di conflittualità tra Stati Uniti e Russia?

Naturalmente si possono dire tante cose perché la situazione è intricatissima. Cominciamo col dirne una. Dal punto di vista del diritto internazionale, gli unici paesi che avrebbero, teoricamente, la legittimità per operare militarmente sul territorio siriano sono quelli che sono stati invitati a farlo dal legittimo governo siriano che – piaccia o no, ci sembri una dittatura orrenda o meno – è comunque quello di Bashar al-Assad. Che sia un governo che non ci piace non vuol dire niente dal punto di vista internazionale, perché di governi e regimi – come quello o anche peggiori – ce n’è un’infinità; e non è che gli americani vadano a bombardare ogni territorio, o vadano a difendere quello o quel gruppo di oppositori. Ora, naturalmente, non è così, noi lo sappiamo benissimo. Hanno operato militarmente in Siria, la Turchia, l’Iran e altri paesi tra cui, appunto, le forze del terrorismo islamico che sono, palesemente come noto, supportate, finanziate, organizzate dalle petromonarchie del Golfo Persico. L’operazione americana, quella di sostegno ai curdi e la corsa per occupare politicamente e militarmente uno spazio in Iraq e in Siria, adesso ha un obiettivo piuttosto preciso – che è lo stesso dell’ingerenza delle petromonarchie del Golfo Persico – e cioè cercare di spezzare quella catena sciita che va dall’Iran all’Iraq alla Siria al Libano. Questo è l’obiettivo strategico generale e, ovviamente, la Russia ha l’obiettivo strategico generale esattamente contrario, quello di sostenere questa catena sciita, farla sopravvivere, farla rimanere in piedi.

Il problema di tutto questo è che, come già in Ucraina, questi contendenti stanno giocando con il fuoco, perché la tensione continua a crescere. Non si rendono conto, apparentemente o forse se ne rendono conto, che nel contrasto degli opposti interessi il livello dello scontro si innalza continuamente. Da questo punto di vista la cosa più preoccupante, ancor più dell’abbattimento del caccia siriano da parte degli americani, è l’intervento con i missili da parte dell’Iran, che è chiaramente un ammonimento anche agli stessi americani.

Ricordiamo che il bombardamento missilistico dall’Iran, con missili a medio raggio, ha colpito una città che sembra essere il punto di ritrovo delle milizie jihadiste di Daesh che stanno fuggendo da Raqqa, almeno questo abbiamo letto. Quindi diciamo che molto, quasi tutto, si concentra e si esaurisce intorno a questo conflitto fra il Medio Oriente sciita e sunnita e quindi lo stato islamico come tante volte abbiamo provato a spiegare, è una reazione... è una conseguenza di questo tipo di conflitto. Dal suo punto di vista, lei ritiene che sia in via di esaurimento l’esperienza anche statuale di questo stato islamico autoproclamatosi oppure c’è ancora? Ci sarà ancora da combattere sul terreno, quanto meno per debellare l’ipotesi dell’esistenza di questo stato che si traduce in grande sofferenza per tutti i civili che sono sottoposti al loro dominio. Le testimonianze che arrivano dalle zone liberate sono di cose orribili, di schiavitù vera e propria di buona parte delle popolazioni che in questi due anni sono state all’interno di questo stato islamico.

Io credo che siano valide tutte e due le affermazioni. Sicuramente la presa militare e politica dello Stato islamico è in fase calante. Io direi in fase terminale, però questa fase terminale non sarà breve, sarà molto crudele, sarà difficile da affrontare. Non aspettiamoci che tutto si risolva domani o dopodomani. Va anche detta una cosa, che lo stato islamico è stato in qualche modo coltivato. Lo stato islamico è uno strumento inventato dalle petromonarchie del Golfo Persico con l’obiettivo chiarissimo di cancellare dalle carte geografiche la Siria di Assad. Obiettivo che ognuno può giudicare come crede, ma questo era l’obiettivo. E’ stato altrettanto e assolutamente chiaro in questi anni – perché ormai sono tre anni che lo stato islamico si è insediato nelle zone dove adesso si combatte – che lo stato islamico è stato risparmiato, perché non è possibile che una coalizione internazionale, come quella messa insieme da Barack Obama, di 70 paesi guidata dagli Stati Uniti con la partecipazione di Regno Unito, Francia, Arabia Saudita, ecc. ecc. non sia riuscita in tre anni a far fuori le milizie islamiste dell’Isis, quando bastarono pochissimi mesi per spazzar via la Jugoslavia di Milosevic e pochissime settimane per spazzar via l’Iraq di Saddam Hussein. E’ chiaro che finora si è condotta una guerra finta, contro lo stato islamico, che è andato in crisi non per i famosi bombardamenti, per i raid, ecc. ecc. Lo stato islamico è cominciato ad andare in crisi quando la Turchia ha raggiunto un accordo politico con la Russia e ha chiuso le frontiere. Non dimentichiamo che dalla frontiera turco-siriana sono passati quasi settantamila foreign fighters più rifornimenti, armi, denari, e in senso inverso il petrolio che lo stato islamico estraeva in Iraq e vendeva clandestinamente in Turchia, le opere d’arte che vendeva clandestinamente in Turchia, i macchinari delle fabbriche di Aleppo che lo stato islamico, comunque i ribelli, smontavano e trasferivano in Turchia. Quando quel confine è stato chiuso in seguito ad un accordo politico, lo stato islamico ha cominciato ad andare in crisi per evidente mancanza di rifornimenti e di ricambi, e questa crisi sta raggiungendo adesso il suo apice. Ma certamente lo stato islamico non è andato in crisi perché gli abbiamo fatto chissà quale tipo particolare di guerra.

Il ruolo della Russia, l’intervento della Russia, sempre per propri interessi strategici, non per motivi umanitari sul piano internazionale, però ha scompaginato un po’ questa struttura. Se l’accordo tra la Turchia e la Russia ha portato a questa diminuzione di sostegno allo stato islamico, come si inseriscono in questo contesto le accuse e la sorta di offensiva mediatica e diplomatica nei confronti del Qatar che, recentemente, è stata portata avanti da Stati Uniti e petromonarchie? C’è molto ipocrisia perché ci si rende conto di come non fosse solo il Qatar a finanziare il jihadismo...

Sì. E’ come una serie di buoi che danno del cornuto ad una serie di asini, perché tutti questi paesi hanno sostenuto o sostengono il terrorismo. Lo fa l’Arabia Saudita con l’Isis e con Al Qaeda, con altri gruppi ribelli più o meno moderati in Siria e tra l’altro lo fa anche direttamente, perché le azioni miliari dell’Arabia Saudita nello Yemen sono, almeno per metà, definibili come azioni terroristiche. Il Qatar ha sostenuto il terrorismo, perché il Qatar ha sempre appoggiato i Fratelli Musulmani, le cui ramificazioni svolgono azioni terroristiche in Siria e in Egitto e lo ha fatto, per dire, anche l’Iran, perché l’Iran ha sempre sostenuto Hezbollah, che è considerato un’organizzazione terroristica, e recentemente ha riallacciato i rapporti che aveva interrotto con Hamas, che è un’altra organizzazione che pratica il terrorismo. Quindi il tema del terrorismo è un tema del tutto retorico, perché tutti questi paesi, in qualche modo, sono complici di terroristi o lo sono stati. La vera questione è una questione politica ed è appunto quello che dicevo all’inizio di questa intervista e cioè che c’è chiaramente un progetto sunnita di scompaginamento del mondo sciita. Mondo sciita che è stato per 13 secoli emarginato, negletto, spesso anche oppresso e che solo in epoca contemporanea ha conosciuto una sua rivincita, perché all’inizio degli anni ’70 gli sciiti alawiti della famiglia Assad hanno preso il potere in Siria, nel ’79 c’è stata la rivoluzione khomeinista sciita in Iran, poi in Libano c’è stata la presa di potere degli sciiti, poi in Iraq nel 2003 il regime sunnita di Saddam Hussein è stato abbattuto ed hanno preso potere gli sciiti. E’ tutta contemporanea la rivincita degli sciiti. Di fronte a questa rivincita, le petromonarchie sunnite del Golfo Persico, secondo me, hanno perso anche la testa, perché hanno cominciato a reagire portando la guerra e la devastazione ovunque, nello Yemen, in Siria, ecc. ecc. e facendo salire una tensione che sarebbe magari salita di suo, ma non a questi livelli...

Torniamo alla cronaca, all’attualità. C’è Trump presidente degli Stati Uniti. Che variabile è in questo tipo di schema, in questo tipo di conflitto? O almeno quello che sta dimostrando di essere fino adesso...

Io credo che la variabile non sia tanto Donald Trump ma i problemi di Donald Trump, perché Donald Trump in campagna elettorale aveva delineato una politica estera molto diversa da quella che sta conducendo, anche se quella che sta conducendo è abbastanza difficile da ricondurre dentro uno schema, sembra più una serie di improvvisazioni... Dico questo perché ho la sensazione che la pressione che viene esercitata dagli ambienti del Partito Democratico e anche da una frangia cospicua del Partito Repubblicano – la frangia neocon – spinga Trump a condurre delle azioni che servono non tanto a delineare una strategia di politica estera, ma piuttosto a contrastare le critiche politiche che gli vengono mosse in patria e a recuperare consenso. Mi riferisco, per esempio, al bombardamento in Afghanistan con la superbomba oppure al bombardamento della base siriana in seguito a quei presunti attacchi chimici che sarebbero stati condotti dal regime di Assad. Quindi il pericolo oggi costituito da Trump non è tanto nelle sue intenzioni, perché io non credo che sia Trump a delineare la politica estera degli Stati Uniti, ma nelle azioni che Trump può essere spinto a intraprendere per cercare, in qualche modo, di riguadagnare consenso, riguadagnare appoggio interno a causa degli scandali che lo tormentano.

Bene, per il momento la ringraziamo. Grazie per la sua disponibilità e la puntualità dei suoi interventi.

E’ stato un grande piacere, vi ringrazio io.

Anche da parte nostra. Grazie e buon lavoro.

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