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20/06/2017

I deflatori miracolosi e l’accelerazione del PIL italiano

Il primo Giugno 2017, Istat ha pubblicato la prima stima dell’andamento del prodotto interno lordo nel primo trimestre 2017. Secondo Istat, nel primo trimestre del 2017 il prodotto interno lordo reale, corretto per gli effetti di calendario e destagionalizzato, è aumentato dello 0,4% rispetto al trimestre precedente e dell’1,2% nei confronti del primo trimestre del 2016. La prima stima segue la cosiddetta stima flash preliminare, solitamente con un ritardo di due/tre settimane. La stima flash, invece, poneva la crescita del PIL a un più basso 0.2%, rispetto al trimestre precedente, e allo 0.8% rispetto al primo trimestre 2016. Insomma, una revisione al rialzo piuttosto consistente in un periodo di tempo piuttosto ridotto, che ha scatenato negli organi di informazione, e in certe stanze governative, un fiume di retorica sull’accelerazione della crescita italiana. Questo “ottimismo della ragione” dovrebbe però passare il controllo accurato dei dati disaggregati, e della conoscenza approfondita del sistema di produzione dei conti nazionali. Vediamo di fare un minimo di luce, cercando allo stesso tempo di donare informazioni preziose su come vanno letti i dati dei conti nazionali trimestrali, che sono un sistema di rendicontazione economica molto complesso, fondato su fonti primarie disparate (inchieste sui consumi, sui prezzi, inchieste sulle imprese e chi più ne ha più ne metta), ma soprattutto, come si vedrà, su tecniche statistiche di aggiustamento abbastanza complicate, soprattutto per i meno esperti.

Chi è davvero interessato, poiché secchione di suo, potrà trovare più informazioni in questo documento metodologico della stessa Istat. Potrà così farsi una cultura da contabile pubblico, sempre se interessato, e capire che nel sistema dei conti trimestrali la revisione delle stime sono la norma, che le stime passate continuano a cambiare nel tempo, come si può dedurre, per esempio da questa semplice frase che accompagna il comunicato stampa della stima succitata: “Le stime presentate in questo comunicato sono coerenti con le stime dei conti nazionali pubblicate il primo marzo 2017 (PIL e indebitamento delle AP – Anni 2014-2016). Coerentemente alla politica di revisione dei conti economici trimestrali, i dati destagionalizzati diffusi con questo comunicato stampa sono rivisti a partire dal primo trimestre 2013. Dal presente comunicato la stessa profondità di revisione è applicata anche ai dati grezzi, per i quali in precedenza si operava una revisione meno estesa all’indietro. L’allineamento delle due profondità di revisione ha finalità di armonizzazione dei criteri applicati alle diverse versioni delle variabili ma recepisce anche le nuove raccomandazioni europee sulle politiche comuni di revisione”. In via preliminare, dunque, anche solo per la tecnica di destagionalizzazione utilizzata (ma non solo), l’intera serie storica trimestrale è continuamente rivista. Come contestualizzare, dunque, questa ultima revisione? In un solo modo possibile, ovvero guardando i dati e le statistiche sulle revisioni pubblicate assieme al comunicato. Il grafico sotto riportato mostra le revisioni recenti. L’ultima è particolarmente “importante”. E scatta il primo allarme.


Il secchione, dotato di minima conoscenza dei dati, controlla meglio e con pazienza colloca il dato nel contesto storico, in un grafico bivariato, che aiuta a identificare i cosiddetti outlier, ovvero dati molto anomali, rispetto alla distribuzione congiunta di un fenomeno. Il grafico riporta i dati della prima stima assieme alla differenza fra la prima stima e quella flash. Come si può notare, il dato del primo trimestre è particolarmente al di fuori della media. Scatta il secondo allarme!

Controllando nel sotto-campione dei dati depurati dal periodo di recessione, in cui di solito le stime diventano più ballerine perché le deviazioni dal trend normale di crescita sono più importanti (e la cosa non deve stupire, poiché nelle stime preliminari un ruolo importante lo giocano anche modelli econometrici, come vedremo in seguito, che aggiustano i dati a causa della mancanza delle fonti primarie, di solito disponibili dopo la stima annuale, che è più precisa) la situazione non cambia. Nel primo trimestre 2017, infatti, non si sta uscendo da alcuna recessione, e il dato pare eccezionalmente anomalo rispetto a un periodo normale.


E se tutto questo fosse dovuto al fatto che siamo davvero a un “turning point” della crescita? L’ipotesi accelerazione non può essere scartata aprioristicamente, ma può essere testata grazie alle evidenze empiriche passate e alla conoscenza esatta della metodologia di compilazione dei conti nazionali trimestrali. Il documento metodologico sopra linkato, riporta la metodologia esatta. Cerchiamo di spiegarla in modo almeno intuitivo. Istat (ma non solo Istat, è pratica diffusa, sebbene con tecniche più o meno efficienti nei diversi uffici statistici nazionali) non avendo tutte le fonti di stima necessarie, fra cui le stime degli impieghi intermedi degli input della produzione, solitamente disponibili solo a cadenza annuale, utilizza una tecnica statistica nota come trimestralizzazione. In cosa consiste questa tecnica? Essenzialmente, significa fare una regressione con la variabile dipendente uguale al valore annuale dei conti economici di interesse, per esempio la produzione, utilizzando come predittori indicatori congiunturali annualizzati, come la produzione industriale. La stima dei parametri è poi applicata agli indicatori trimestrali, per ottenete una stima trimestrale della produzione. Resta solo da distribuire gli errori stocastici nei trimestri secondo metodi più o meno complessi, che non sono di particolare interesse in questo caso. Ebbene, ritornando alla stima del Pil trimestrale, tenendo a mente questo procedimento, cosa fa Istat? Prima trimestralizza l’indice della produzione industriale inflazionato coi prezzi alla produzione e poi trimestralizza il fatturato servizi, disaggregati in settori più granulari. Poi deflaziona le stime con deflatori trimestrali e “decatena” a prezzi dell’anno precedente. In un secondo step, Istat trimestralizza il valore aggiunto annuale con serie della produzione ottenuta prima; poi calcola la differenza fra produzione e valore aggiunto e ottiene i consumi intermedi, di cui mancano le informazioni trimestrali, a prezzi dell’anno precedente, che vengono concatenati. In un ulteriore passo, inflaziona questa ultima serie coi deflatori dei consumi intermedi e ottiene consumi intermedi a prezzi correnti INFINE, INFINE con la differenza fra produzione a prezzi correnti e consumi intermedi ottiene il valore aggiunto corrente! È un po’ come costruire una casa partendo dal tetto, usando una metafora.

Armati di questa conoscenza, allora, si scopre che il problema centrale della stima del prodotto interno lordo trimestrale è nella stima dei deflatori, necessari per misurare il volume dei beni e servizi prodotti, il cosiddetto valore reale. Le uniche serie con fonti già note, sono infatti quelle dei deflatori. Il fatto che sia essenziale una corretta stima di queste serie storiche lo si desume anche dal comunicato Istat, laddove si legge: “Rispetto al trimestre precedente, il PIL ai prezzi correnti, corretto per gli effetti di calendario e destagionalizzato, è diminuito dello 0,1%, il deflatore del PIL è diminuito dello 0,6%. Il deflatore della spesa delle famiglie residenti è cresciuto dello 0,7%, mentre quello degli investimenti fissi lordi è diminuito dell’1,6%. Il deflatore delle importazioni è aumentato del 2,1% e quello delle esportazioni dell’1,0%. In termini tendenziali, il PIL ai prezzi correnti, corretto per gli effetti di calendario e destagionalizzato, è aumentato dello 0,7%, il deflatore del PIL è diminuito dello 0,5%. Il deflatore della spesa delle famiglie residenti è aumentato dell’1,1%, mentre quello degli investimenti fissi lordi è diminuito dello 0,1%. Il deflatore delle importazioni è aumentato del 3,7% e quello delle esportazioni del 2,3%”. All’occhio attento, questi deflatori sembrano, di primo acchito, un “po’ bizzarri”.

Secondo Istat, il deflatore del PIL, ovvero l’indice aggregato dei prezzi dei beni e servizi prodotti, è diminuito dello 0.6%. Ricordiamo che nel primo trimestre 2017, coerentemente con il deflatore della spesa delle famiglie, che è cresciuto dell’un per cento circa, l’indice dei prezzi al consumo, che è un indicatore leggermente diverso, in quanto registra l’andamento dei prezzi dei beni e servizi consumati dalle famiglie, si è impennato leggermente da valori bassissimi, a causa di un aumento dei prezzi energetici. Pare un po’ sospetto, dunque, che la variazione del deflatore del PIL sia invece negativa, anche perché una variazione del deflatore negativo è davvero una cosa rara, per chi queste cose le sa. Ma non corriamo. Controlliamo prima a livello disaggregato le componenti settoriali di questa variazione negativa, osservando la bizzarria dei deflatori riportati nel comunicato Istat.

Il grafico riportato mostra i contributi settoriali alla variazione annuale del deflatore del PIL. Ogni deflatore settoriale è pesato per la quota parte del settore nel valore aggiunto totale. La somma di ogni contributo settoriale dona la variazione annuale del deflatore del PIL. Alcuni contributi settoriali sono nella norma, laddove con questo si intende in linea con i cambiamenti congiunturali più recenti. Alcuni invece sono “strani”, ovvero secondo la stesso metro di giudizio, non in linea con ciò che congiunturalmente sta accadendo nei mercati. I settori “strani" sono indicati con barre colorate. Industria manifatturiera e utilities sono in trend di discesa. Ammettiamo sia plausibile, quando allo stesso tempo l’indice dei prezzi alla produzione, secondo Istat, è cresciuto a ritmi vicini al 3% annuo, nei primi mesi del 2017, e sospendiamo il giudizio se sia – al limite – un bene o meno. L’unica cosa certa è che questo andamento non potrà continuare in eterno. La PA è invece molto strana. Il deflatore della PA cattura i prezzi dei beni e servizi pubblici che entrano nel computo del prodotto lordo, valutati al costo se non scambiati sul mercato. Una diminuzione del deflatore significa, dunque, che i prezzi (o i costi) dei beni pubblici sono in discesa. Vi è stata una spending review di cui non si è al corrente? La cosa certa, di nuovo, è che non si potrà replicare in futuro all’infinito, ammesso sia credibile che i prezzi della PA stia scendendo, quando mai lo hanno fatto nei due anni precedenti? E il deflatore di imposte e tasse? O seguono entrambi un andamento random, come pare essere, o la stima è residuale. In mancanza di informazioni esatte accessibili sul metodo di stima di questo indice, non presenti nel documento metodologico, non resta che dubitare che il loro apporto fondamentale nella dinamica negativa del deflatore totale possa continuare in futuro. Questo esercizio certosino fa nascere il sospetto che il metodo di stima di questi deflatori sia – quanto meno – poco robusto.


Che questo sia il caso, lo si può controllare in modo più sistematico analizzando la relazione strutturale di correlazione fra la dinamica del deflatore totale del PIL e i prezzi al consumo. Intuitivamente, sebbene i due indicatori non siano del tutto sovrapponibili, ci si aspetterebbe una certa correlazione positiva. La cosa è confermata dal grafico successivo, che mostra la correlazione fra la variazione annuale del deflatore del PIL, e due misure di inflazione dei prezzi al consumo, ovvero la crescita dell’indice generale dei prezzi, e la crescita dell’indice esclusi i beni e servizi energetici, più proni a variazioni di breve periodo dovute ai prezzi più “ballerini” dell’energia, come per esempio nel caso del petrolio, il cui prezzo è molto più volatile dell’indice generale.


Primo fatto da osservare: nel periodo considerato, ovvero dagli inizi del 2001, il deflatore del PIL non è mai stato negativo. Nemmeno nel periodo recente di forte disinflazione. Secondo fatto da osservare: nel periodo considerato, invece, l’inflazione generale, al netto dei beni energetici è stata positiva, superiore all’1% annuo. Terzo fatto da osservare: il primo trimestre è davvero anomalo. Il punto è il più basso, prendendo in considerazione la relazione media fra le due variabili. È un outlier veramente considerevole. Questa considerazione vale molto di più nel caso del grafico a destra, che mostra le relazione fra cambiamenti del deflatore e dinamica dei prezzi al consumo esclusi i beni energetici. Come si vede a occhio, i punti si distribuiscono in modo “normale” attorno alla retta di regressione. Se si mostrassero i residui della regressione, ovvero la differenza fra valori osservati e predizione, essi sarebbero a occhio indipendentemente e identicamente distribuiti. Ovvero, in parole poverissime, la relazione fra le due variabili è talmente ben “strutturata” che ogni valore anomalo è davvero sospetto! È davvero un valore “non normale”. A cosa si deve questa bizzarria? Impossibile fare il processo alle intenzioni, e avere la prova schiacciante di una manipolazione ad hoc dei dati. Per restare conservativi, non resta che segnalare una cruda verità. La BOTTOM LINE è questa: IL PIL NOMINALE È FERMO. Quello reale rimbalza per deflatori più o meno miracolosi. Con una semplice analisi controfattuale intuitiva, se il deflatore totale fosse stato in linea con le aspettative (ovvero stesse sulla linea di regressione), la crescita del PIL reale sarebbe molto più bassa, quasi inesistente nei confronti dello stesso trimestre dell’anno precedente. Chi si “inventa” una accelerazione della crescita del prodotto italiano e giubila anzitempo dovrebbe dubitare fortemente che questo sia il caso. Se il PIL nominale è fermo, come si riduce il debito pubblico nominale, che continua inesorabilmente la sua corsa? Chi produce le statistiche, come Istat, dovrebbe invece considerare quanto meno metodi migliori di stima. “Essere beccati” nella produzione di dati ballerini, per usare un eufemismo, non è mai bello. Chi legge le statistiche, pur cosciente dei limiti metodologici, si aspetta di poter riporre la sua fiducia nella qualità del dato. Se questo non fosse il caso, gli utilizzatori cercherebbero nuove fonti. Il rischio di non essere più creduti, per inefficienza o altro, è troppo grande per essere corso. Il caso Argentina è lì a ricordarlo.

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