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30/06/2017

L’università come fabbrica di disuguaglianze

Dopo gli approfonditi contributi dei colleghi Giovanni Colombo e Andrea Stella al dibattito sui test d’ammissione avviato con l’articolo di Ferdinando Camon, vorrei proporre una riflessione da un punto di vista diverso, partendo dall’art. 34 della Costituzione, che dice: “I capaci e meritevoli, anche se privi di mezzi, hanno diritto di raggiungere i gradi più alti degli studi”. Una formulazione semplice e apparentemente impeccabile, ma che oggi richiede di riflettere più a fondo su questa parolina, “meritevoli”. Possiamo farlo a partire da un recente libro dell’economista americano Robert Frank, Success And Luck, che ha per sottotitolo Good Fortune and the Myth of Meritocracy, dove troviamo una lunga serie di analisi del ruolo della fortuna nel successo personale, in tutti i campi.
 
Per esempio, il 40% dei giocatori professionisti di hockey nel mondo è nato in gennaio, febbraio o marzo, mentre solo il 10% è nato tra ottobre e dicembre. Perché? Il predominio dei giocatori nati nel primo trimestre dell’anno dipende dal fatto che i test nelle leghe giovanili vengono fatti il 1° gennaio. Questo significa che quest’anno, per esempio, sono stati selezionati per entrare in squadra i ragazzini nati fra il 1 gennaio e il 31 dicembre 2000: ma tra i sedicenni c’è una differenza significativa nel peso, nell’altezza, nella velocità di chi ha 12 mesi di più (i nati il 1° gennaio 2000) e chi ha 12 mesi di meno (i nati il 31 dicembre 2000). Chi ha 12 mesi in più non è “più bravo”, è semplicemente “più adulto” a confronto con compagni di squadra che il caso ha fatto nascere qualche mese dopo di lui.

Per un fenomeno ben noto agli economisti che si chiama positive feedback loop (ovvero fattori positivi che si rafforzano l’un l’altro), i nati il 1° gennaio appaiono agli allenatori più forti e più promettenti, quindi ricevono più attenzioni, fanno più esperienza, il che si traduce in effettivi miglioramenti: diventano più bravi non grazie al talento naturale (che ci vuole) o alla dedizione allo sport (obbligatoria) ma grazie alla data di nascita. O, meglio, grazie al circolo virtuoso che talvolta essa innesca: ci sono molti altri studi sul rapporto tra risultati scolastici e data di nascita.

Secondo l’economista Branko Milanovic, che in libri come Worlds Apart e Income and Influence ha analizzato il luogo di nascita e la disuguaglianza come fattori determinanti nelle opportunità di carriera di una persona, metà delle differenze di reddito individuali dipendono da questi elementi casuali. Il tema è stato affrontato anche da Robert Putnam nel suo ultimo libro, Our Kids, dove descrive i percorsi di vita di alcuni suoi ex compagni di scuola, nati come lui a Port Clinton, in Ohio, ma assai meno fortunati di lui nelle loro carriere.

Prendiamo il caso di Bill Gates, l’uomo più ricco del mondo con i suoi circa 89 miliardi di dollari di patrimonio personale. Robert Frank si occupa di lui perché è nato nel 1955 ed è andato alle superiori esattamente nel momento – la fine degli anni Sessanta – in cui i computer abbandonavano le schede perforate e iniziavano a diventare delle macchine più “amichevoli”. Il talento e la determinazione di Gates non avrebbero dato gli stessi risultati se la famiglia non lo avesse iscritto a una scuola privata dove gli studenti avevano un accesso illimitato ai computer e potevano esercitarsi nella programmazione, cosa allora rarissima. Senza queste condizioni di partenza, forse Gates si sarebbe dedicato ad altro, o la sua passione per l’informatica non avrebbe dato come risultato la Microsoft: ha avuto una dose di fortuna che molti altri piccoli geni dell’informatica, altrettanto intelligenti e meritevoli, non  hanno avuto.

Perché è importante guardare alla fortuna e alla provenienza familiare quando si discute dei test? Perché la gran parte degli atenei opera sulla base di considerazioni come questa del prof. Giovanni Colombo: “I nostri test [dell’area scientifica NdR] sono stati ampiamente validati dall’analisi della carriera degli studenti: la correlazione tra l’esito della prova di ammissione e quello degli esami del primo anno è fortissima, ad esempio molto più alta del voto di maturità”.

Purtroppo, questa correlazione non significa nulla sul piano dell’equità: chi viene da un ambiente familiare e scolastico privilegiato farà meglio nel test così come negli esami del primo anno, che si svolgono nove mesi dopo. Se ho passato i primi 19 anni di vita in una casa con una tata svizzera, dove si leggevano molti libri e giornali, con dei genitori che mi portavano al cinema, al museo, in vacanza a Parigi o in gita a New York e mi facevano prendere lezioni di piano è assolutamente certo che farò bene nel test di logica e di cultura generale. Per esempio saprò rispondere esattamente alle domande su quale città abbia ospitato l’Esposizione universale del 1900 (Parigi), su cosa fosse il piano Marshall (un programma di aiuti americani all’Europa) e sull’oscuro quotidiano italiano Il Riformista (nato nel 2002 e chiuso nel 2012). Questi esempi sono tratti dai test di medicina 2015 e 2016. Probabilmente farò bene anche nei test di matematica e biologia, a meno di non essere totalmente inetto o il più pigro degli 80.843 candidati dell’anno scorso.

Prendere in conto il fattore fortuna e provenienza familiare nelle politiche di accesso all’università significherebbe, per esempio, cercare delle strategie per attenuare le inevitabili differenze ponendosi il problema di aiutare chi è nato sulla Sila (Calabria) anziché in via del Santo (Padova), chi va a scuola a Scampia (Napoli) invece che in via della Spiga (Milano). A dire la verità, qualcuno a suo tempo ci aveva pensato: nella Costituzione sta scritto (art. 3): “È compito della Repubblica rimuovere gli ostacoli di ordine economico e sociale, che, limitando di fatto la libertà e l’uguaglianza dei cittadini, impediscono il pieno sviluppo della persona umana”.

Non ho ricette dettagliate da proporre: l’intera questione andrebbe ripensata. L’anno scorso l’ex rettore di Bologna Ivano Dionigi aveva dichiarato: “Il test non basta. Credo che un colloquio sarebbe importante, ma per 10.000 ragazzi vorrebbe dire strutture, personale, laboratori, risorse, investimenti che non ci sono. Quello del test è un ripiego frettoloso da scuola-guida che serve a lavarsi la coscienza e a risparmiare. Laddove la scuola fosse la priorità allora ci sarebbero un colloquio, una prova scritta, il test, e si terrebbe conto del curriculum dello studente”.

Avendo ben presente lo stato in cui i successivi governi hanno ridotto i nostri atenei, e la difficoltà per concepire e mettere in atto soluzioni alternative, dico comunque che il “ripiego frettoloso da scuola guida” offerto dai soli test non è accettabile: qualsiasi politica pubblica, quindi anche quelle dell’università, deve obbedire al precetto costituzionale di rimuovere gli ostacoli che limitano o negano il pieno sviluppo della personalità di molti giovani. Se non lo facciamo, limitandoci ad ammettere chi fa bene in un test che, per sua natura, privilegia chi è già privilegiato rafforziamo le disuguaglianze, sprechiamo talenti nascosti, tradiamo lo spirito della Costituzione.

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