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31/07/2017

Braccianti, accordo tra Regione Puglia e USB

I lavoratori agricoli del Foggiano e in particolare di San Severo oggi hanno incrociato le braccia per manifestare sotto il palazzo della Regione Puglia, perché da mesi sono senza acqua potabile e da sempre i diritti sindacali e sociali non vengono riconosciuti.

Un paradosso nella terra che ha visto grandi lotte bracciantili e importanti conquiste sul piano sindacale e sociale per il riscatto dei diritti e della dignità delle persone.

Il settore agricolo con i miliardi di profitto che genera fa dell’Italia uno dei principali produttori in Europa. Un dato che non trova riscontro nella condizione degli operai agricoli in termini di diritti sindacali e sociali.

Questa situazione è dovuta alle imposizioni della Grande Distribuzione Organizzata (GDO) sulla pelle di donne e uomini nelle campagne e nelle serre in giro per l’Italia. Durante la manifestazione alla quale hanno partecipato centinaia e centinaia di operai agricoli, una delegazione ha avuto un confronto con l’assessore regionale al Lavoro, Sebastiano Leo, l’assessore alle Politiche agricole, Leonardo Di Gioia, e il Segretario del Presidente del Consiglio Regionale, Roberto Venneri.

Al termine dell’incontro, le parti hanno raggiunto una condivisione sui seguenti punti esposti dall’USB Lavoratori agricoli:

– Il ripristino della distribuzione dell’acqua potabile ai braccianti che vivono all’aria aperta nelle campagne di San Severo.

– l’avvio di un tavolo permanente di confronto su rispetto del contratto di lavoro, diritto all’abitare e iscrizione nel registro dei residenti, che i comuni non stanno garantendo ai braccianti.

Sia l’assessore al Lavoro che quello alle Politiche agricole andranno a visitare i braccianti agricoli, accogliendo così l’invito di Usb.

Siamo determinati a fare verificare l’effettivo rispetto degli oneri contrattuali a carico dei datori di lavoro (diritti salariali, previdenziali, sicurezza sul lavoro, trasporto, ecc...).

Le aziende che percepiscono contributi/incentivi comunitari (PAC o PSR), nazionali o regionali perciò devono essere vincolate al rispetto delle norme contrattuali.

Ricordiamo che la dotazione finanziaria totale del Piano di Sviluppo Rurale Puglia 2014 – 2020 è pari a 1.637.880.991,74 euro.

Il risultato ottenuto oggi è frutto della determinazione dei braccianti e delle braccianti che hanno deciso di organizzarsi.

Sono già un migliaio gli iscritti a Usb nella provincia di Foggia, fuori da logiche assistenzialiste e caritatevoli.

Vogliamo dedicare questo primo risultato, che andremo a verificare nella sua attuazione, ai braccianti e alle braccianti che hanno perso la vita nella filiera agricola.

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Fermare il governo nella tragedia libica!

Altro che la stupidaggine dei vitalizi!

La priorità di una vera opposizione politica e sociale deve essere quella di fermare il governo italiano in questa tragedia libica.

Tragedia che assume il significato concreto delle migliaia di sofferenti che cercano di risalire il Mediterraneo in cerca di salvezza e dei tantissimi che sul suolo africano soffrono i disastri della guerra.

L’Italia ha assunto da subito la posizione sbagliata all’interno di questa drammatica vicenda ,fin dalla valutazione errata al riguardo delle vicende delle cosiddette “Primavere Arabe” che, per la quasi totalità e in particolare per il “caso egiziano” erano autunni e non “primavere”.

Una posizione sbagliata assunta assieme all’inutile (e pericolosa) lady PESC allineandosi nel riconoscimento all’altrettanto inutile e pericoloso governo Serrai, anzi assumendo un ruolo improprio da paese “protettore”: un rigurgito colonialista che ha confermato il vecchio assunto marxiano “quando la storia si ripete, si ripete in farsa”.

Poi la litania degli accordi, non si sa tra chi, per la costituzione del governo di unità nazionale: litania reiterata non si sa quante volte, fino alla commedia della missione di Minniti, qualche giorno fa, per i gemellaggi con le oasi dei Tuareg, alle quali elargire denaro per soddisfare le solite brame della borghesia locale “compradora”.

Poi l’intervento brusco della Francia neo-napoleonica e neo-gollista che ha richiamato al tavolo la parte “vera” che avrebbe dovuto essere coinvolta da subito e non considerata da combattere e, ancora, l’ulteriore vicenda dal sapore farsesco delle due navi mandate dal nostro Paese per pattugliare non si sa dove e non si sa chi.

Il tutto in un’escalation senza fine sia dal punto di vista bellico, sia dal punto di vista del flusso migratorio: con gli stessi francesi che nel Niger in preda alla guerra civile aprono corridoi per far arrivare i profughi sulle coste libiche favorendo scafisti e trafficanti di carne umana.

L’Italia e sprovvista da molto tempo di una politica estera dopo essersi mossa per decenni soltanto sulla logica della subalternità agli interessi USA (rispetto alla Libia, ricordiamo soltanto com’è nata la guerra al momento del defenestramento di Gheddafi) e pare proprio non in grado di farsi comunque promotrice di un’iniziativa considerato che, su quel terreno, per recuperare soltanto un’idea di equilibrio sarebbe necessario il coinvolgimento di USA, Russia, Egitto e Israele.

Dal nostro punto di vista serve una costante mobilitazione per la pace e la richiesta di un ruolo dell’Italia posto in tale funzione, riprendendo a ragionare nella logica dei blocchi che stanno riformandosi e quindi di neutralità e smilitarizzazione.

Questo è un semplice appello, è necessario ovviamente dedicare a questo decisivo argomento tempo di approfondimento e di mobilitazione di massa ricordando a tutti che non sarebbe la prima volta che l’insipienza e la fellonia dell’apparato governativo – militare – industriale italiano ha condotto il Paese alla tragedia per semplice arroganza e supponenza.

Per fare un poco di storia basterà ricordare: Custoza, Lissa, Adua, Caporetto, El Alamein, la sacca del Don, l’8 settembre che resta a imperitura vergogna.

Non sono ricordi lontani ma le stimmate di un Paese costantemente governato dall’arroganza e dall’impreparazione di un ceto pressoché costantemente al servizio dei padroni e dei loro privilegi.

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Cala la disoccupazione, ma solo per la statistica

L’ottimismo della propaganda deve sempre addolcire la disperazione della realtà. Compito improbo, ma c’è sempre chi si adegua e ci prova...

I media italioti danno con grande enfasi il dato Istat sull’occupazione reso noto stamattina. A un profano, infatti, quei numeri sembrano davvero molto positivi, almeno sul tendenziale...

A giugno 2017, infatti, la stima degli occupati cresce dello 0,1% rispetto a maggio (+23 mila), recuperando parzialmente il calo registrato nel mese precedente (-53 mila).

Il tasso di occupazione si attesta così al 57,8%, in aumento di 0,1 punti percentuali. Spiega l’Istat che la lieve crescita congiunturale (ossia mensile) dell’occupazione è interamente dovuta alla componente femminile, mentre per gli uomini si registra un modesto calo, e interessa i 15-24enni e i 35-49enni.

Il dato che dovrebbe però attirare l’attenzione degli osservatori è un altro, e tutt’altro che positivo: aumentano i dipendenti a termine, sono stabili i dipendenti a tempo indeterminato mentre diminuisce il numero degli indipendenti (lavoratori autonomi, veri o finti che siano, basta pensare alla diffusissima pratica della partite Iva monocommittenti).

L’aumento dei contratti precari consente infatti di far passare per un “successo” una destrutturazione del mercato del lavoro che implica almeno due fenomeni totalmente negativi che vanno a sommarsi: a) la riduzione del salario medio (i lavoratori a termine o comunque con contratti precari ricevono assai meno dei salari contrattuali, senza neppure calcolare gli abusi diffusi nella microimprenditoria e non solo, vedi qui), b) tutti i contrari precari prevedono una decontribuzione previdenziale che si traduce in minori entrate attuali per l’Inps (è su questo che dovrebbe lanciare allarmi mr. Boeri, se volesse essere credibile) e più bassi assegni pensionistici per i lavoratori attuali che andranno in pensione magari tra 30 anni.

Sul piano economico, se continua ad abbassarsi il salario medio dei lavoratori ne soffriranno soprattutto i consumi; con effetti deleteri sulle imprese che producono prevalentemente per il mercato interno e sono in genere anche quelle che fanno un ricorso sistematico e intensivo ai contratti precari. Una spirale negativa in cui le imprese, per risparmiare sul costo del lavoro e aumentare i profitti, tagliano i salari (e quel che resta dei diritti), ma così facendo riducono anche la “clientela” che può acquistare i loro prodotti. E via verso il baso...

L’aumento apparente dell’occupazione vive la stessa dinamica anche sul periodo trimestrale. Tra aprile-giugno si registra infatti una crescita degli occupati rispetto al trimestre precedente (+0,3%, +64 mila unità), determinata dall’aumento dei dipendenti, sia permanenti sia, in misura maggiore, a termine. L’aumento riguarda entrambe le componenti di genere e si concentra quasi esclusivamente tra gli over 50.

Il motivo di questa “preferenza per gli anziani” da parte delle aziende l’abbiamo spiegata mille volte: da un lato c’è la “legge Fornero” che blocca la possibilità di andare in pensione e inchioda al lavoro fino al limite dei 67 anni (quasi...), dall’altra si vuole personale che conosca la mansione e non abbia bisogno di tempi di “apprendistato”.

Ne consegue un (modesto) calo dei disoccupati in pianta stabile. Dopo l’incremento rilevato a maggio, la stima delle persone in cerca di occupazione a giugno cala infatti del 2,0% (-57 mila), tornando su un livello prossimo a quello di aprile.

Il tasso di disoccupazione ufficiale, pertanto, scende all’11,1% (-0,2 punti percentuali); anche il tasso di disoccupazione giovanile torna a scendere (-0,1 punti), attestandosi al 35,4%.

Il criterio statistico – deciso dall’Eurostat, ovvero dall’Unione Europea – è lo stesso vigente negli Stati Uniti, ed è altamente truffaldino. Citiamo dal glossario Istat:
“Occupati: comprendono le persone di 15 anni e più che nella settimana di riferimento:
- hanno svolto almeno un’ora di lavoro in una qualsiasi attività che preveda un corrispettivo monetario o in natura;

- hanno svolto almeno un’ora di lavoro non retribuito nella ditta di un familiare nella quale collaborano abitualmente;

- sono assenti dal lavoro (ad esempio, per ferie o malattia). I dipendenti assenti dal lavoro sono considerati occupati se l’assenza non supera tre mesi, oppure se durante l’assenza continuano a percepire almeno il 50% della retribuzione. Gli indipendenti assenti dal lavoro, ad eccezione dei coadiuvanti familiari, sono considerati occupati se, durante il periodo di assenza, mantengono l’attività. I coadiuvanti familiari sono considerati occupati se l’assenza non supera tre mesi.”
Come si vede, volendo sintetizzare, basta un voucher di un’ora alla settimana per essere definito “occupato”. Ovvio che con questo il numero cresca tantissimo, anche se – con un voucher di un’ora alla settimana – sei tecnicamente un morto di fame... Disoccupazione reale e disoccupazione statistica hanno così iniziato a divergere radicalmente, proprio come negli Usa, dove con una disoccupazione ufficiale vicina al 4% (ottima, no?) si stimano circa 100 milioni di disoccupati reali.

Il segreto di questa gigantesca differenza sta tutta in un’altra definizione statistica: gli “inattivi”, che non lavorano e non lo cercano. Ovvio che con l’esaurirsi delle possibilità garantite dal “sistema famiglia” (padri o nonni pensionati che muoiono, per esempio), anche gli “inattivi” siano costretti a muoversi sul mercato del lavoro.

Ciò nonostante, la stima degli inattivi tra i 15 e i 64 anni a giugno sale dello 0,1% (+12 mila), sintesi di un aumento tra gli uomini e un calo tra le donne. L’inattività risulta in calo tra i 15-24enni e i 35-49enni (a conferma della spiegazione che abbiamo appena dato) e in crescita nelle restanti classi di età. Il tasso di inattività è pari al 34,9%, invariato rispetto ad maggio.

Ma il 35% di inattivi va calcolato, socialmente, come un 35% di disoccupati reali (13,5 milioni) che si aggiungono all’11,1 di disoccupati “ufficiali” (altri 4 milioni e mezzo, circa). In pratica una persona su due è senza un lavoro.

18 milioni di disoccupati. Un vero “successo”, non c’è che dire...

Il rapporto completo dell’Istat: CS_Occupati-e-disoccupati_giugno_2017

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Gli USA pronti a colpire Cina e Corea del Nord

Vai a sapere se sia un vizio dei gallonati yankee, nervosi perché troppo lontani da casa, oppure se oltreoceano si sia avviato il nuovo calendario venatorio dello “scemo più scemo”. Dopo il comandante della Flotta del Pacifico, ammiraglio Scott Swift, che la scorsa settimana si è detto pronto a eseguire un eventuale ordine presidenziale di attacco atomico alla Cina, ora è stato il turno del comandante delle forze aeree di quella regione militare, il generale Terrence O’Shonessi, a fare la sua sparata. Gli USA sono pronti a ricorrere a un “colpo rapido, letale e distruttivo nel momento e nel luogo che sceglieremo” contro la Corea del Nord; d’altronde, l’ha detto la televisione, che è un continuo ripetersi di “provocazioni” da parte di Pyongyang contro il mondo libero. In più, Terrence ha aggiunto di suo che Kim Jong Un rimane come per il passato una minaccia alla stabilità nella regione. Più di così!?

Da parte sua, attraverso il Rodong Sinmun, organo centrale del Partito del Lavoro, Pyongyang fa sapere alla Casa Bianca che non intende cessare le dimostrazioni del proprio potenziale missilistico nucleare, finché “gli imperialisti americani non smetteranno la loro anacronistica politica ostile e non chiederanno perdono in ginocchio per le sofferenze” provocate ai cittadini della Corea del Nord.

Ma Washington ha così poca fretta di chieder perdono che, anzi, immediatamente dopo il lancio missilistico sperimentale nordcoreano di sabato scorso, due bombardieri supersonici B-1B, di stanza sull’isola di Guam, hanno sorvolato la penisola coreana, secondo quanto riportato dalla Associated Press, volando a bassa quota e scortati da caccia sudcoreani. E’ così che oggi, l’osservatore del Rodong Sinmun, Ri Hak Nam, ricorda come l’ex Segretario alla difesa USA, Ashton Carter, abbia recentemente dichiarato che gli USA dal 1953 si preparano alla guerra contro la RDPC. Dunque, “l’esercito e il popolo della RDPC si sono convinti una volta di più di esser stati completamente nel giusto quando hanno deciso di avere accesso al deterrente nucleare”. Se la RDPC, continua Ri, “non fosse riuscita ad accedere al deterrente, ma si fosse mossa su una strada diversa, una guerra si sarebbe già abbattuta sulla penisola coreana e si sarebbe trasformata in una guerra nucleare globale”. Quindi, Pyongyang è orgogliosa “di aver consolidato in ogni modo il proprio deterrente nucleare, di fronte alle continue pressioni e alle sanzioni delle forze ostili”. La conclusione è che, finché gli USA non faranno a meno della loro “politica ostile contro la RDPC e delle loro minacce atomiche, la RDPC non porterà le proprie forze nucleari e i razzi balistici al tavolo dei negoziati, né tornerà indietro dalla strada del rafforzamento delle proprie forze nucleari”.

Per fare da claque a Washington – Donald Trump si è detto più di una volta dispiaciuto perché la Cina, a suo parere, non eserciterebbe sufficienti pressioni su Pyongyang – ora anche il primo ministro giapponese, Shinzo Abe, esige che “la comunità internazionale, in primo luogo Cina e Russia, aumentino le pressioni sulla Corea del Nord”. Ma Donald ha fatto anche di più, che non semplicemente dirsi dispiaciuto. “Sono molto deluso della Cina” scrive; “I nostri precedenti stupidi leader hanno consentito a Pechino di guadagnare centinaia di miliardi di dollari l’anno nel commercio, ma la Cina, in cambio, non ha fatto nulla per noi sulla questione della Corea del Nord: solo parole. Non permetteremo che si continui così. La Cina può facilmente risolvere questo problema”.

Ovviamente, secondo gli USA, la soluzione sarebbero nuove sanzioni contro la RDPC che non vengano soltanto dalla Cina, ma anche dalla Russia. Vale a dire, nel momento in cui si inaspriscono le sanzioni americane ed europee contro Mosca e la Casa Bianca ne prepara altre contro Pechino, si chiede loro di introdurre sanzioni contro Pyongyang: roba da fare il paio, sul piano politico, dello “scemo più scemo” tra i militari.

Ed ecco le risposte di Pechino e di Mosca. Tranquillamente, Vladimir Putin ha decretato di ridurre di 755 unità il numero di diplomatici USA in Russia, portandolo alla uguale cifra (meno di 500: i diplomatici USA in Russia sono al momento più di mille) di rappresentanti russi in America. Ma, per rendere più di effetto la misura, il presidente russo è anche intervenuto ieri a Piter alla parata per la Festa della Marina militare, in cui Mosca ha mostrato al mondo le unità più forti della propria flotta: l’incrociatore atomico lanciamissili “Pietro il Grande” e il sommergibile atomico lanciamissili (sembra sia il più grande del mondo) “Dmitrij Donskoj”. Di contorno, come riporta tvzvezda.su, sono stati presentati vascelli da pattugliamento, cacciamine di nuova generazione, unità lanciamissili di piccole dimensioni e grandi navi antisom.

Da parte sua, Xi Jinping, intervenendo ieri alla parata alla base di Zhurihe, nella Mongolia Interna, in corrispondenza con le celebrazioni per il 90° anniversario dell’Esercito Popolare di Liberazione, che cade il 1 agosto, ha detto che l’EPL dovrà trasformarsi nella più potente forza che la Cina abbia mai avuto. Per cominciare, nella parata tenutasi ieri, hanno fatto la loro prima apparizione pubblica i nuovissimi missili balistici intercontinentali, di produzione cinese, DF-31 AG, forti di una portata di oltre 10.000 km. Shi Pengxun, ricercatore all’Istituto di Relazioni Australia-Cina dell’Università di Sydney, citato dall’agenzia Xinhua, ha detto che “la parata ha trasmesso al mondo un chiaro messaggio sul fatto che la Cina è preparata militarmente per ogni evenienza, ma schierata risolutamente per la pace”.

Che se ne rammentino Swift, O’Shonessi, Carter, Trump...

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Flessicurezza e lavoro coatto nel Reddito di cittadinanza del M5S

Il Reddito di cittadinanza è, nelle enunciazioni, una misura volta a dare dignità a milioni di persone, che il M5S ha posto all’ordine del giorno. Ma gli strumenti previsti dal suo disegno di legge sono contestabili: dall’obbligo per i beneficiari di documentare una ricerca attiva di lavoro non inferiore a due ore giornaliere, a quello di accettare qualsiasi lavoro se dopo un anno non hanno trovato un’occupazione.

Dignità lesa e sconquasso del mercato del lavoro. È già successo. In Gran Bretagna i poveri sono costretti al lavoro coatto gratuito, altrimenti perdono il sussidio; in Germania devono accettare, per lavori che vengono loro imposti, salari miserevoli a cui viene aggiunto il sussidio. Un capitolo del libro Reddito di cittadinanza: emancipazione dal lavoro o lavoro coatto? (Asterios, giugno 2017) analizza ciascuna di queste due situazioni, perché alle loro normative hanno fatto riferimento gli estensori della proposta del M5S.

L’obiettivo del libro è di indurre coloro che valutano positivamente il messaggio del M5S a rendersi conto delle contraddizioni e della pericolosità insite nel disegno di legge, e, altresì, a sollecitare il M5S e la sinistra dormiente ad operare in maniera diversa in questo spazio politico. A fronte di un aumento, anno dopo anno, della povertà, si stanno diffondendo le iniziative per imporre un intervento: “mille piazze per il reddito di dignità” contesta esplicitamente in campo cattolico l’acquiescenza al governo dell’Alleanza contro la povertà che riunisce ACLI e sindacati confederali; Eurostop preme per un Reddito Sociale Minimo per disoccupati e precari per garantire una condizione di vita dignitosa per tutti.

Si tratta di individuare strade alternative a quella indicata in via esclusiva dal Movimento Cinque Stelle, capaci di valorizzare – pur con una attenzione prevalente al lavoro – la molteplicità di percorsi di vita nell’uscita dalle condizioni di povertà relativa. L’articolazione del disegno di legge del M5S va perciò conosciuta, discussa e contestata.

Il testo si apre con dichiarazioni di principio sulla necessità di muoversi nella direzione della liberazione dal lavoro. “Dobbiamo rivedere il concetto stesso di lavoro”. “Lavoriamo non per far crescere l’indice di produttività, ma per far crescere il benessere, per vivere una vita dignitosa e felice”.

“Ogni cittadino deve poter contare su un reddito minimo indispensabile per vivere dignitosamente, sul diritto alla casa, al riscaldamento, al cibo, all’istruzione, all’informazione: un reddito minimo utile ad ottenere un lavoro congruo, nel rispetto della formazione scolastica e delle competenze professionali acquisite”. “Altra esigenza, non meno importante delle precedenti, è quella di abbattere la condizione di schiavi moderni, cioè la condizione nella quale si trovano tanti individui, laureati e non, costretti ad accettare qualsiasi lavoro, sottopagato, precario, senza possibilità di crescita o, addirittura, senza un adeguato contratto”.

Questi principi sono stati più volti ribaditi nelle presentazioni del Reddito di cittadinanza che ha fatto Beppe Grillo.

“L’inizio è un reddito di cittadinanza, ma il sogno è un reddito universale per tutti. Per tutti, mettere al centro l’individuo, togliere il salario, perché il lavoro salariato sta finendo. Non c’è più (...). Il rapporto deve cambiare. Metti al centro l’individuo e non il mercato del lavoro. Io ho un reddito, decido io se lavorare, quanto lavorare, come lavorare. Magari non faccio niente. Magari sarò un creativo”.

E ancora: “Allora come si finanzia? Perché, sai quale è la reazione? Lui non fa un cazzo e io mi spacco il culo, e tu gli dai i soldi per senza far niente? Questa è l’invidia che c’è dentro di noi. Ma è l’unica soluzione. La finanzi con un progressivo sistema fiscale (...). L’80 per cento di persone ha detto: ‘io farei lo stesso lavoro perché amo il mio lavoro, anche senza un reddito’. Un altro 10 per cento: ‘farei quel lavoro lì, ma lavorerei di meno’, e un altro 10: ‘non farei niente, sarei creativo’. È la tua vita che metti al centro. Ti scegli il lavoro, non sei scelto dal lavoro. Milioni di persone sono convinte di avere un posto di lavoro, invece hanno un posto di reddito, e fanno qualsiasi tipo di lavoro per sopravvivere. Ma non è vita”.

Su questo orizzonte di emancipazione il disegno di legge del M5S erige, contraddittoriamente, il sistema di erogazione del Reddito di cittadinanza. Fa capo ai Centri per l’impiego per “dare alla proposta un peculiare orientamento verso il lavoro”.

“Chi aspira al reddito di cittadinanza, in età non pensionabile superiore a 18 anni, è tenuto a iscriversi al Centro per l’impiego (...), ad accettare espressamente di essere avviato a corsi di formazione o riqualificazione professionale, o ad un progetto individuale di inserimento o reinserimento nel mondo del lavoro; a seguire il percorso di bilancio delle competenze previsto, nonché redigere, con il supporto dell’operatore addetto, il piano di azione individuale funzionale all’inserimento lavorativo”. “Deve intraprendere, entro sette giorni dall’iscrizione, percorsi di inserimento lavorativo; svolgere con continuità un’azione di ricerca attiva del lavoro (...), con la registrazione delle azioni intraprese anche attraverso l’utilizzo della pagina web personale”. Finché non trova lavoro, “l’azione documentata di ricerca attiva del lavoro non può essere inferiore a due ore giornaliere”. Sono previste esenzioni soltanto per chi si occupa di figli fino a 3 anni o di invalidi. Il lavoro che il Centro per l’impiego assegna deve essere ‘congruo’, attinente alle competenze segnalate dal beneficiario, avere una retribuzione oraria uguale o superiore all’80 per cento rispetto alle mansioni di provenienza o a quanto previsto dai contratti nazionali. Tuttavia chi riceve il reddito e dopo un anno non ha ancora trovato occupazione è tenuto ad accettare un lavoro qualsiasi per non perdere il sussidio.

Così si sconquassa il mercato del lavoro, anche se fosse realizzato il salario minimo garantito previsto dallo stesso disegno di legge. Si apre quella strada che in Germania costringe milioni di persone a sottostare al ricatto del famigerato Hartz IV.

Nella riforma ordoliberale dei sistemi di welfare, l’abbassamento del costo del lavoro e la mobilità dei fattori sono posti come condizioni necessarie per sostenere la posizione competitiva degli Stati e per tenere in equilibrio produzione e occupazione. La piena occupazione cui si fa riferimento nei documenti europei è da intendersi nel senso di garantire agli individui l’occupabilità per il corso della loro vita, prescindendo dai livelli salariali e dagli orientamenti soggettivi. Compito del welfare europeo è, dunque, di mettere tutti in condizione di avere le conoscenze e le qualifiche richieste dal mercato del lavoro, in competizione gli uni con gli altri.

La competitività, perseguita dalle politiche sociali europee ha un duplice significato. In primo luogo sta a significare che la ricchezza del sistema economico europeo e, di conseguenza, il benessere dei cittadini europei, dipendono dalla posizione nei mercati internazionali delle imprese europee. In secondo luogo, che le politiche sociali devono fornire alle imprese lavoratori adatti alle loro esigenze.

L’attivazione esclusiva al lavoro, pilastro del disegno di legge sul Reddito di cittadinanza, è conseguenza (oltre che – forse – della fretta nella sua redazione che risale al 2013) dell’incapacità degli estensori di sottrarsi a questi principi prodotti dalla governance dell’economia sociale di mercato, che escludono una esistenza al di fuori del mercato del lavoro imponendo i criteri di flessicurezza come condizione per l’inclusione sociale.

Nell’economia sociale di mercato, le politiche sociali sono orientate da un’interpretazione della sicurezza sociale in termini di colpevolizzazione dei comportamenti devianti. Invece di considerare le condizioni strutturali della disoccupazione, si incentrano sulle caratteristiche degli individui, e in particolare sui criteri di valutazione del comportamento morale dei disoccupati. Cultura imprenditoriale, personalizzazione dei percorsi, logiche di progetto, enfasi sull’auto-attivazione nel lavoro e nella sua ricerca sono parte integrante di un ordine del discorso e di una logica di intervento che mirano a far interiorizzare a individui, gruppi e popolazioni, la normalità della precarietà lavorativa. Chi non riesce a dimostrare tali capacità non è semplicemente disoccupato, ma è inoccupabile, quindi inadatto alla società.

Le politiche europee di contrasto alla povertà colpevolizzano comportamenti che sono il risultato della precarietà sociale. Sostengono pratiche punitive fondate sul lavoro obbligatorio per i poveri, alimentano la retorica della criminalizzazione morale della miseria e della disoccupazione, stigmatizzando come “mele marce” i soggetti che vi ricadono per effetto di comportamenti non cooperativi o antagonistici. Essi diventano esempi di azzardo morale, il cui rischio va scongiurato innalzando la soglia e la selettività nell’accesso alle prestazioni sociali e inasprendo i controlli. Fino al paradosso, in una situazione di disoccupazione diffusa, di obbligare chi ha bisogno del sussidio a dedicare la propria vita alla ricerca di una occupazione, e di registrarne sistematicamente i fallimenti, come è previsto anche dal disegno di legge del M5S.

In Italia i nuclei familiari giovani a rischio povertà sono quasi il doppio rispetto a quelli anziani. L’efficacia del contributo del Reddito di cittadinanza riguarda in primo luogo i single in età di lavoro, che raddoppierebbero il reddito medio attuale; le coppie giovani senza figli e i mono-genitori con figli minori lo innalzerebbero del 75-80 per cento; le altre categorie otterrebbero miglioramenti tra il 25 e il 50 per cento, con l’incidenza più bassa per i singoli anziani e per le coppie anziane. La precarietà lavorativa soprattutto giovanile è dunque all’origine di questa situazione. Con i livelli di disoccupazione giovanile che sono al 40 per cento, la coazione al lavoro è, quanto meno, anacronistica.

In una situazione di diffusa disoccupazione lo stesso Parlamento europeo, pur nel contesto della flessicurezza, nel 2009 e nel 2010 aveva posto con urgenza il problema dell’estensione del reddito minimo, sgombrando il terreno dalla condizionalità intesa come coazione al lavoro. Aveva invitato la Commissione e gli Stati membri “a esaminare in che modo i diversi modelli di reddito di base non condizionali e preclusivi della povertà per tutti possano contribuire all’inclusione sociale, culturale e politica, tenuto conto in particolare del loro carattere non stigmatizzante e della loro capacità di prevenire casi di povertà nascosta”.

Se si intende realizzare in Italia il Reddito di cittadinanza è necessario spostare il baricentro dalla coazione al lavoro alla predisposizione di strumenti idonei a incentivare e valorizzare l’autonomia delle scelte di vita anche alternative a quella del lavoro con l’impegno in tante altre attività: sociali, culturali, politiche, sportive, che possono alimentare le capacità personali e sociali di fuoruscita dalle condizioni di povertà. L’assunzione di responsabilità a fronte del reddito deve sostituire la condizionalità soprattutto nella prospettiva del lavoro. Un Reddito di cittadinanza sottoposto al principio della condizionalità svolge infatti al contempo una funzione di integrazione salariale in favore delle imprese, e di controllo e di ricatto sui lavoratori. Ignorando le cause da cui origina l’emarginazione, la condizionalità impone oneri e sanzioni che si riflettono sui familiari, spingendo ad accettare lavori precari, con l’effetto perverso di riprodurre una popolazione fluttuante di lavoratori doppiamente ricattabili, dallo Stato e dai datori di lavoro, come dimostrano emblematicamente i casi della Germania e del Regno Unito.

La sua erogazione a fronte di lavori la cui “congruità” non è imposta ma è soggettivamente definita sottrae ai ricatti delle imprese. Contribuisce a rafforzare i lavoratori sul piano salariale con conseguenze distributive che abbracciano l’intera società sia in termini di reddito sia di tempi di lavoro, consentendo di rivendicare su questo specifico terreno una loro riduzione generalizzata a parità di salario.

Anche la “cittadinanza” come condizione di accesso al reddito deve essere oggetto di attenzione e definita in termini di “residenza”. Lo status di cittadino è, altrimenti, generatore di emarginazione, e condanna gli immigrati ad una condizione di miseria e clandestinità, al di sotto dello standard di vita prevalente nel paese: un esercito di disperati che viene usato per disciplinare i lavoratori tutti.

Un Reddito di cittadinanza deve dunque trovare posto oltre i confini culturali che, attribuendo preminenza all’economico, emarginano il sociale, come avviene in Europa nel quadro dell’economia sociale di mercato, e del neoliberismo nel mondo. Per oltrepassare tali confini, occorre, nello specifico, smettere di recepire acriticamente il principio della condizionalità e quindi del welfare to work, ma coglierne la dinamica espropriativa e disciplinante. Occorre anche emanciparsi da quell’attitudine storicamente lavorista, diffusa a sinistra, che, nel porre il lavoro salariato come motore della storia, finisce per credere, contro ogni evidenza, che esso sia eternamente riproducibile.

Per produrre un terreno di cambiamento è necessario, per dirla con André Gorz, “liberare il pensiero e l’immaginazione dai luoghi comuni ideologici in cui si incatena il discorso sociale dominante; e, quindi, pensare, fino al loro termine logico, esperienze esemplari che esplorano effettivamente altri modi di cooperazione produttiva, di scambio, di solidarietà, di vita (...). Si tratta di far percepire l’attuale società in via di disintegrazione dal punto di vista della società e dell’economia radicalmente altre che si profilano all’orizzonte dei cambiamenti come loro senso ultimo”.

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Ma quale riforma dei vitalizi! Richetti e soci puntano alle pensioni

La proposta di legge in condominio tra Richetti e M5S e in via di approvazione introduce elementi inquietanti di destrutturazione del sistema previdenziale. Quello dei vitalizi è palesemente un alibi per far passare un progetto ben più articolato di ricalcolo delle pensioni erogate.

I vitalizi sono già calcolati con il contributivo dal 2012 e danno diritto alla pensione quando viene maturata l’età pensionabile. La legge Richetti impone il ricalcolo dei vitalizi maturati in precedenza con il metodo contributivo, e non solo. Propone il ricalcolo anche per i vitalizi maturati prima del 1995 anno in cui è stato introdotto il calcolo contributivo delle pensioni.

Quindi non solo ha effetto retroattivo, ma trasforma in contributivo il calcolo dei vitalizi maturati con il sistema retributivo. Tutto senza la riforma dell’articolo 38 della Costituzione utilizzata come richiamo per distogliere dalla reale portata della legge Richetti. È questa la legge che apre alla possibilità di ricalcolo delle pensioni erogate con il sistema retributivo, altro che leggi costituzionali.

La furia sanfedista di PD e soci tutta protesa a ricostruire un verginità politica capace di nascondere l’insipienza progettuale delle forze politiche, trasforma questa vicenda in una battaglia di equità. È vero che si rischia di apparire difensori dei vitalizi, ma la difesa è del principio dei diritti acquisiti contro la retroattività strumentale delle leggi.

L’obiettivo è ben più corposo e non ha niente a che vedere con moralizzazione e lotta ai privilegi.
Ma qual è il grosso risparmio realizzato con questa legge? 740 milioni in dieci anni, vale a dire lo 0.0002 % della spesa pubblica. Un’inezia persino ridicola se non servisse a nascondere le vere intenzioni del governo. Non a caso la Ragioneria dello Stato con il suo rapporto rilancia l’allarme sulla tenuta del sistema previdenziale, mentre Boeri impazza tra debito implicito e caccia ai pensionati che scappano all’estero. L’accerchiamento al sistema previdenziale pubblico è un processo complesso che ha natura strategica, la difesa del diritto alla pensione deve diventare un percorso di lotte sociali.

Cgil Cisl Uil portano avanti i loro incontri segreti con il governo farneticando sulla pensione di garanzia per i giovani ai quali non si riesce a dare un reddito sociale minimo, avendo in animo la logica affaristica dell’APE sociale o meno e soprattutto della previdenza complementare riaprendo la caccia al tfr che i lavoratori non vogliono cedere. Il primo ottobre è la giornata internazionale di lotta dei pensionati, organizziamo la nostra presenza nell’ambito delle iniziative di mobilitazione.

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Trump:” Hezbollah una minaccia per l’intero Medio Oriente”

Martedì 25 luglio, Donald Trump ha ricevuto Saad Hariri, primo ministro libanese, presso la Casa Bianca. Nel corso dei colloqui, Trump e Hariri hanno promesso di rimanere uniti nella lotta contro il terrorismo. «Hezbollah rappresenta una minaccia per la sicurezza dell’intero Medio Oriente» – ha denunciato, durante l’incontro, il presidente degli USA.

Davanti alla stampa, Trump si è complimentato con il governo libanese «perché protegge i confini nazionali ed impedisce a Daesh di istallarsi nel paese dei cedri”. Il presidente americano si è astenuto dal ricordare, invece, come in questi giorni l’esercito sia stato impegnato, insieme ad Hezbollah, nella lotta di liberazione dalla presenza jihadista di Daesh e Tahrir Al Sham (ex Al Nusra) dalla regione di Arsal.

Da parte sua Hariri ha ringraziato il presidente Trump per il sostegno americano all’esercito ed ai servizi di sicurezza, oltre al supporto USA nel “ preservare la pace e la stabilità lungo la frontiera meridionale con Israele

Nonostante i rapporti amichevoli, il maggiore elemento di contrasto tra Libano e USA è il partito sciita Hezbollah, sostenuto dall’Iran. Nei mesi scorsi, infatti, su pressione di israeliani e sauditi, il Congresso americano ha adottato una serie di sanzioni economiche nei confronti del movimento libanese. Hariri è preoccupato di un possibile inasprimento dell’atteggiamento americano nei confronti di Hezbollah che potrebbe provocare ripercussioni sia al governo di unità nazionale che alla stessa economia libanese.

Sul fronte libanese, a distanza di una settimana dall’inizio della battaglia di Arsal, Hezbollah ha annunciato la conclusione delle operazioni contro Al Nusra. La provincia di Arsal, nella regione nord orientale del paese, dal 2011 era diventata base operativa di Al Nusra per le sue operazioni in Siria. I miliziani jihadisti, ormai accerchiati, si sono arresi ed hanno accettato di abbandonare le loro basi verso Idlib con un “corridoio sicuro” garantito da esercito libanese e siriano. In cambio i miliziani jihadisti si impegnano a liberare almeno cinque ostaggi nelle loro mani dal 2014.

In Israele la rapida sconfitta di Al Nusra ha provocato un dibattito interno, riguardo alla capacità militare di Hezbollah. Secondo il quotidiano Yediot Ahronoth “la Resistenza Libanese, in questi 6 anni di guerra in Siria, è notevolmente cambiata”. Hezbollah da forza “asimmetrica” di guerriglia è diventato, secondo un recente report dell’intelligence israeliana, un vero e proprio esercito capace di adattarsi alla situazione e di eseguire operazioni militari terrestri come i migliori eserciti regolari.

Lo stesso Hezbollah, ormai considerato da numerosi analisti vera forza regionale dell’area, non nasconde più le proprie capacità militari ed ha fatto mostra del proprio arsenale, composto anche da carri armati e mezzi blindati, nella parata militare del novembre 2016 in Siria.

Al Akhbar, quotidiano libanese, afferma come, grazie al suo intervento militare in Siria ed alla lotta contro i miliziani jihadisti di Daesh e Al Nusra all’interno dei confini nazionali, «Hezbollah si sia affermato ormai come la vera risorsa militare del paese per difendere la sua integrità territoriale da qualsiasi minaccia (Al Nusra, ma soprattutto Israele, ndr)».

Nel suo discorso di ieri sulla vittoria di Arsal, il segretario generale del partito sciita, Hassan Nasrallah, è stato chiaro con un messaggio indirizzato al governo israeliano: «Hezbollah non è più quello del 2006, ha capacità militari offensive e difensive migliori e resta vigile lungo tutti i suoi confini».

«L’entità sionista» – ha concluso Nasrallah in riferimento all’atteggiamento provocatorio di Tel Aviv (sconfinamenti nello spazio libanese aereo e marittimo) ed alla vicenda della Spianata delle Moschee di Gerusalemme – «dovrà pensare bene se lanciare una nuova operazione militare in Libano per vedere, poi, decine di migliaia di combattenti sciiti provenienti dall’Iraq, dall’Afghanistan e dalla Siria entrare nei suoi territori».

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Le truffe del signor Hartz (prima e dopo il “IV”)

La truffa ai danni dei lavoratori della Chrysler perpetrata dallo staff di Marchionne capeggiato da Iacobelli, responsabile delle relazioni sindacali, e dal vicepresidente del sindacato dell’auto Holiefield è stata presentata dal New York Times come un evento non infrequente. “Quando negoziano i contratti – si legge – i managers dell’automobile e i rappresentanti sindacali fanno spesso credere che le relazioni sono tese solo per far credere ai rispettivi referenti di essere impegnati a concludere l’affare migliore. Negli ultimi anni, l’UAW ha organizzato brevi scioperi durante i colloqui contrattuali per mostrare agli iscritti di aver preso una linea dura con le società automobilistiche. In realtà le relazioni non sempre sono conflittuali. Ci sono stati casi in cui i rappresentanti sindacali e quelli del management hanno raggiunto strette intese private al di là dei limiti di legge”.

Il New York Times ha anche ricordato che un caso analogo a quello che coinvolge oggi la Chrysler aveva riguardato in passato la Volkswagen.

Ne era stato protagonista Peter Hartz. Molti conoscono la famigerata legislazione tedesca Hartz IV, ma pochi conoscono le vicende di colui da cui ha preso il nome.

Nella prima metà degli anni ’90 si era fatto conoscere per essere riuscito a risolvere una grave crisi di produzione della Volkswagen di cui era responsabile delle relazioni sindacali. D’accordo con i sindacati aveva realizzato la settimana lavorativa di 4 giorni con salari ridotti, e l’iniziativa aveva avuto risonanza mondiale. Nel 2001, per far fronte alla situazione opposta di necessità di aumento della produzione aveva lanciato un programma di 5000 assunzioni a salario ridotto e turni di lavoro prolungati.

La Volkswagen era partecipata dalla Bassa Sassonia, regione di cui il socialdemocratico Gerhard Schroeder era presidente. Diventato cancelliere, aveva nominato Hartz suo consigliere, a capo di una commissione incaricata di preparare il piano per la riforma del welfare. Nel giro di sei mesi aveva ricevuto un rapporto di 340 pagine con 13 proposte di riforma, implementate in successione a partire dal 2003. Ultima è stata la famigerata Hartz IV entrata in vigore nel gennaio 2005.

L’implementazione delle proposte di riforma avevano provocato in parlamento una frattura tra i socialdemocratici e un allineamento degli ordoliberali con il governo. C’erano state numerose ripetute dimostrazioni di piazza, con centinaia di migliaia di persone, ma i sindacati non si erano mobilitati, e i fuorusciti dal partito socialdemocratico finirono con il costituire Die Linke nel 2007.

In quello stesso anno a Hartz furono inflitti due anni di reclusione con la condizionale e una multa di 576 mila euro, per fatti venuti alla luce nei primi mesi del 2005, a seguito dei quali Hartz aveva presentato a Schroeder le dimissioni, prontamente accettate.

Il “sindacalista” Volkert dietro mr. Hartz
 nella presentazione di un prototipo Volkswagen.
A suo carico erano risultati illeciti, commessi tra il 1995 e il 2004 nella funzione di responsabile delle relazioni sindacali per “per promuovere i buoni rapporti tra management e lavoratori”. Riguardavano favori a sindacalisti e in particolare a Klaus Volkert, presidente del consiglio dei lavoratori, con la realizzazione, nel corso del decennio, di viaggi all’estero e di giri di prostitute pagate dall’azienda, in alberghi e appartamenti di proprietà aziendale, con utilizzo di Viagra prescritto dal servizio medico dell’azienda stessa.

Nel resoconto di allora del Sole 24 Ore, “attraverso le parole del suo avvocato Egon Müller, l’ex manager, ha ammesso le responsabilità sulle attività illegali (67 gli episodi contestati dall’accusa) svolte tra il 1995 e il 2004, che consistevano nel rendere meno monotone le giornate al consiglio di fabbrica, la rappresentanza sindacale interna, soprattutto per l’ex capo del sindacato in Volkswagen, Klaus Volkert. La ‘nota spese’ finale è stata di 1,9 milioni di euro. Altri 400 mila euro hanno contribuito a migliorare la qualità della vita dell’amante di Volkert. Müller ha sostenuto che il suo cliente corrompeva per promuovere buoni rapporti tra management e lavoratori”.

Dopo la sentenza, Hartz ha continuato in forma privata a svolgere attività di consulenza, venendo ricevuto nel 2016 all’Eliseo da Hollande, impegnato a realizzare le riforme sociali in Francia.

Per tornare alla vicenda attuale, anche Iacobelli non è rimasto inerte. Marchionne si attribuisce il merito di averlo cacciato dalla Chrysler nel giugno 2015, ma è davvero poco credibile dal momento che nel gennaio 2016 Iacobelli è stato assunto dalla General Motors come responsabile esecutivo delle relazioni sindacali.

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Venezuela. Più di 8 milioni hanno eletto l’Assemblea Costituente

Il modo più democratico per aggiornare una Costituzione è da sempre quello di eleggere un’assemblea costituente, dove tutti i partiti possono concorrere a determinare i princìpi fondamentali della Carta. Solo nel caso del Venezuela i media dell’imperialismo bollano una simile procedura come “un passo verso la dittatura”. Senza neanche accorgersi di cadere nel ridicolo: scusate, ma la dittatura, in Venezuela, non c’era già?

Evidentemente no. E non ci sarà neanche domani, visto che nel paese sono attivi e perfettamente legali quasi 100 partiti (vedi http://contropiano.org/documenti/2017/07/28/problema-del-venezuela-non-la-scarsita-leccesso-democrazia-094317). A meno che gli Stati Uniti non attacchino il paese per imporre il governo della destra golpista, che nel giorno del voto ha dato la stura a un’ondata di violenze ed omicidi (tra cui un candidato alla Constuyente, vedi qui), limitando in qualche modo il libero accesso alle urne.

Una prova generale di come sarebbe il paese se cadesse nelle loro mani: niente elezioni e ricchezze nazionali in mano ai soliti pochi.

Un primo commento del prof. Luciano Vasapollo





Qui di seguito la cronaca di TeleSur.

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Più di otto milioni di venezuelani hanno votato per l’Assemblea Nazionale Costituente

Il presidente del Consiglio Nazionale Elettorale (CNE) del Venezuela, Tibisay Lucena, ha annunciato Domenica che l’affluenza è stata 41,53 per cento di (più di otto milioni di persone) nella selezione dei 537 dei 545 membri dell’Assemblea Assemblea nazionale Costituente (ANC) nella sua prima newsletter.

Tra i membri dell’ANC eletto dal popolo venezuelano sono Cilia Flores, Delcy Rodríguez, Iris Varela, Jesús Faría, Juan Carlos Alemán (Capital District), Diosdado Cabello (Monagas), Francisco Ameliach, Juan Carlos Otaiza (Carabobo), Ricardo Molina Roque Valero (Aragua), Carmén Meléndez e Luis Jonas Reyes (Lara).



I venezuelani hanno votato direttamente e segretamente per eleggere 364 rappresentanti territoriali e 173 settoriali. Mentre l’restanti otto sono i rappresentanti indigeni che verranno scelti il ​​1 ° agosto in tre assemblee generali, secondo i costumi e le tradizioni dei popoli indigeni del paese.

“Ha vinto la pace. E quando vince la pace, vince il Venezuela”, ha detto il presidente del Consiglio Nazionale Elettorale, Tibisay Lucena, dalla sede CNE situato a Caracas (capitale). “Ci congratuliamo con il popolo tutti per questa meravigliosa partecipazione”, ha aggiunto.

Nelle elezioni di domenica sono stati chiamati a votare più di 19,4 milioni di venezuelani. più di 24.000 seggi elettorali sono stati istituiti in circa 14.500 seggi elettorali nel paese.

“Questa è stata una scelta straordinaria, insolita, diversa”, ha detto Lucena, che si è anche congratulata con il popolo venezuelano per la loro partecipazione a queste elezioni in mezzo alla violenza scatenato nel Paese.

Per queste elezioni, il CNE ha creato ulteriori misure di sicurezza per garantire il diritto di voto di tutti i venezuelani a minacce provenienti da settori radicali dell’opposizione per impedire il voto con la violenza, attaccando seggi elettorali, e le barricate su strade e viali.

Nell’ambito delle misure adottate per garantire il diritto di voto, i venezuelani avrebbero potuto votare in qualunque seggio elettorale nel comune in cui sono registrati. Inoltre, il CNE ha aperto centri di emergenza per coloro che non possono votare nelle rispettive sezioni a causa delle minacce o attacchi.

Nella città di Caracas, gli elettori nei comuni Chacao, Baruta, Sucre e El Hatillo, stato di Miranda ed elettori El Valle, La Vega e El Paraiso, comune Libertador, sono stati in grado di esercitare il loro diritto di voto in pieno centro di e,ergenza situato nel Poliedro di Caracas.

Anche a Los Teques ha funzionato un centro di emergenza per gli elettori dei comuni Los Salias e Carrizal, nello sta

to di Miranda. E’ stato installato nel Palazzo dello Sport Franklin Gil .

Centri di emergenza hanno lavorato anche in Aragua, Barinas, Bolivar, Carabobo, Cojedes, Falcone, Lara, Merida, Nueva Esparta, Portuguesa, Sucre, Tachira, Trujillo, Vargas e Zulia.

L’Assemblea costituente è stata convocata dal presidente Nicolás Maduro il 1 ° maggio, sulla base dell’articolo 348 della Costituzione.

http://www.lantidiplomatico.it/dettnews-esclusiva__elezioni_costituente_in_venezuela_un_primo_commento_dal_seggio_elettorale_pi_grande/82_21044/

Tra gli obiettivi della Costituente:

espandere e proteggere i diritti sociali dei venezuelani stabiliti dalla Costituzione del 1999;

assicurare la pace e il dialogo nonostante la violenza dell’opposizione che ha lasciato più di 100 morti dallo scorso aprile;

superare la politica fondata sulla rendita petrolifera;

rafforzare la lotta contro il terrorismo.

Fonte




Lo scenario dei rapporti tra Francia e Italia al netto della retorica

Leggere la politica estera guardando alla propaganda nel cortile di casa è inevitabile quanto rischioso. Inevitabile perché, molto prima dell’avvento dei social media la politica estera fa parte di un racconto che accende sempre l’immaginazione collettiva che, se ben governata, genera consenso. Rischioso perché anche i corpi diplomatici, che di solito hanno una visione ben diversa dei rapporti tra paesi rispetto al racconto ufficiale che contribuiscono a diffondere, alla fine possono essere condizionati dalla propaganda. E con loro tutta la governance dei rapporti bilaterali con altri paesi per non parlare di quella comunitaria.
 
L’illusione dopo la vittoria di Macron

Questo per dire che, nel periodo dell’elezione di Macron, il giubilo del media mainstream italiano per la sconfitta di Marine Le Pen, tutta  da giocarsi in Italia come propaganda “contro il populismo”, fece anche pensare a nuovi livelli di cooperazione con Parigi. Ma queste ipotesi di cooperazione facevano parte del repertorio di una mossa che Roma, qualsiasi sia l’inquilino di Palazzo Chigi, tenta da diverso tempo. Ovvero premere su Parigi sempre in funzione di riequilibrio dei rapporti di subalternità con Berlino. E il risultato è inevitabilmente quello visto al summit di Bruxelles dell’ottobre 2011: quando parlano del governo italiano i responsabili dei governi francese e tedesco si mettono a ridere. Certo, allora, l’opinione pubblica pensò che, di fronte ad una plateale risata di Merkel e Sarkozy, il problema fosse sopratutto Berlusconi non l’Italia. Ma è accaduto con Prodi, già commissario europeo, non solo con Berlusconi. Come è andata recentemente a finire lo sappiamo: Berlusconi nel 2011 subì una detronizzazione di fatto sull’attacco alla Libia, visto che i suoi veti svanirono come neve nel deserto, per poi subire quella in parlamento dopo la famosa lettera di richieste di austerità della Bce all’Italia (alla quale la Francia non era estranea). Di Prodi, già alleato della penetrazione francese in Italia (dai lontani tempi della dismissione dell’IRI), parlano oggi le cronache e lui stesso dalle colonne del Messaggero: irritato e tradito. La Francia da partner possibile, nelle strategie fiabesche, nella realtà si fa competitor e di quelli aggressivi.

I rapporti tesi fra Italia e Francia
 
Questo perché i rapporti bilaterali tra Francia e Italia riflettono, in piccolo, equivoci e problemi del nostro paese rispetto all’eurozona. L’illusione di un processo di cooperazione, o di competizione nel quale l’Italia potrebbe giocare le proprie carte, cede presto il passo alla realtà della cruda subalternità. Nel capitalismo di oggi i rapporti di forza tra paesi funzionano in questo modo: importando, nelle zone ricche, la subalternità coloniale, verso paesi extraeuropei, largamente sperimentata nei decenni precedenti. L’Europa è quindi lo spazio dove si gioca questa subalternità. E’ in posizione dominante il paese che esporta e investe in un altro paese, estraendo profitti da quest’altro paese e mantenendo un attivo di bilancia commerciale nei rapporti bilaterali. Il cono sud latinoamericano degli anni ’80 e ’90 sa di cosa si parla. Lamentarsi, come fa la stampa nazionale, della Francia “poco liberista” che non fa investire gli italiani nel suo paese, oltre a quella dose di vittimismo utile quando non si hanno argomenti, significa alimentare quel distacco dalla realtà che pure è abbondante nel nostro paese. La Francia di Macron che alimenta lo squilibrio tra gli investimenti dei due paesi, i francesi nel nostro paese investono più del doppio degli italiani nel loro, non è un’anomalia. E’ la norma dell’Europa come spazio della polarizzazione della ricchezza nella subalternità del resto. Lo spazio di integrazione europeo e il mercato unico non sono, una volta funzionanti, un gioioso terreno di equilibrio e redistribuzione delle ricchezze. Ci possono credere giusto i Pippo Civati. In realtà l’Europa è un’arena, sgombrata da ostacoli, dove si esercita la competizione aspra tra banche, imprese e sistemi paese. Grecia e Spagna, nei confronti della Germania, anche loro ne sanno qualcosa. Lo dimostra il fatto che il paese più forte, consapevole come tale, di questo sistema competitivo, la Germania, non reinveste il proprio attivo di bilancio. Proprio perché, una volta investito, ridurrebbe la distanza tra paesi dell’Ue e dell’Eurozona cambiando la natura economica stessa della Germania e del suo sistema bancario-finanziario (che funziona così: merci competitive vendute all’estero, servizi finanziari essenziali venduti all’estero). Tutti temi ostici per i mercatisti puri di casa nostra, aggrappati furiosamente al totem di un neocapitalismo  italiano adornato di efficienza e competitività ottenute, almeno nell’immaginazione, dall’Italia interpretando correttamente le regole europee. Oppure tramite una integrazione politica continentale che, al contrario di quanto desiderato, non farebbe che registrare i veri rapporti di forza nel continente.

La natura elitaria dell’Unione Europea
 
L’equivoco di fondo, nel nostro paese, passa, a parte ristrette cordate di manager di stato (come i Prodi o i Ciampi) che a suo tempo avevano capito bene il processo, dalla profonda incomprensione politica del processo di creazione di Ue ed eurozona. Raccontare agli italiani, e raccontarsi come ceto politico, che il processo di integrazione europea era un incontro, per quanto perfettibile, tra stati ha contribuito molto a creare ostacoli materiali rivelatisi pesanti. Il processo di integrazione europea è stato estremamente elitario: protagonisti Bonn (allora) e Parigi, l’asse bancario franco-tedesco, la governance continentale, qualche paese in grado di entrare nei processi. La creazione di una moneta unica, quindi  di un regime di cambi fissi tra economie differenti, favoriva infatti solo le economie più forti (al riparo dagli effetti della svalutazione degli altri paesi europei), gli istituti bancari in grado di internazionalizzarsi nel nascente mondo dei capitali senza confini, le piazze borsistiche in grado di fornire beni e servizi globali. Infatti oggi, dopo un quarto di secolo, vediamo: la Germania paese leader dell’eurozona, l’asse bancario franco-tedesco la spina dorsale dell’eurozona come dell’Ue e della Bce, Londra, senza euro e senza che anche qualsiasi esito  della Brexit la scalzi da quel ruolo per un po’, è la piazza borsistica globale dell’Europa. Poi Olanda, vista anche la forza storica del suo sistema bancario e finanziario, e Lussemburgo, che si è ricavato lo spazio di una Tortuga dell’evasione legalizzata in Europa (esprimendo Juncker come commissario Ue, tra l’altro). Come si vede in questa lista non c’è l’Italia che, dagli anni ’80 – salvo qualche gruppo bancario, dell’energia e del militare è finita travolta da una miscela di dismissioni, privatizzazioni e chiusure corporative all’innovazione. Fenomeni diversi ma col tratto unitario della difficoltà di adattamento al modello di governance ue-eurozona. Certo alla nascita dell’Ue la sinistra istituzionale italiana contribuì con il sangue: il taglio della scala mobile, la vera controriforma del salario di allora. Bisognava attrezzarsi al nuovo mondo comprimendo i salari per competere “in Europa”. Come è andata, col disastro di un paese, lo sappiamo. E negli eredi di quella sinistra, qualcuno è lo stesso personaggio di allora, l’attenzione a cosa accade in Europa è infinitamente minore a quella dedicata ai birignao di Pisapia.

L’eterna competizione fra Francia e Germania
 
Certo, in un sistema aspramente competitivo, anche nel nucleo duro Parigi-Berlino, ci sono problemi. La Francia rispetto alla Germania ha tre punti di frizione. Il fatto che l’euro abbia favorito, indebolendo artificialmente le merci tedesche grazie alla presenza di economie più povere nel paniere della moneta unica, Berlino non spiega solo perché la Germania non reinveste il proprio surplus (che, anche, potrebbe alimentare altre economie rafforzando l’euroe  indebolendo la competitività tedesca). E’, questo il primo punto, un fattore di squilibrio tra la crescente potenza tedesca e la stagnante potenza francese. Di qui la Francia intende riequilibrare il rapporto con la Germania, che è il vero governo dell’Europa, intervenendo sugli altri due punti di frizione. Il primo è legato alle necessità di recupero dell’industria militare francese, alle quali Berlino dovrebbe cedere in termini di finanziamento di progetti europei (in prospettiva della moneta unica). Il secondo a quella, essendo Berlino troppo capitale d’Europa, dell’istituzione di un ministero degli esteri dell’eurozona che, ratificando, e radicalizzando, i rapporti di forza nel continente, rappresenti un nuovo protagonismo di Parigi. Certo, in un sistema finanziario europeo ancora definito bancocentrico, l’asse delle banche franco-tedesche rappresenta qualcosa di più di metà corona del sovrano che regna l’Europa tra Parigi e Berlino e le sue esigenze hanno un peso di quelli che vale. Ma Macron non è, naturalmente, estraneo a quel mondo, comunque vada.

La Francia come competitor dominante dell’Italia. Il caso libico
 
Il comportamento della Francia rispetto all’Italia si spiega così in poche battute: comportarsi da competitor dominante sulle privatizzazioni e le acquisizioni-fusioni (acquisendo ben più di quanto concede) verso l’Italia in settori come i bancari, le comunicazioni e l’alimentare (produzione e distribuzione). Naturalmente per rafforzarsi verso l’Italia e, quanto possibile, verso Berlino. La manovra “libica”, fatta per mettere in secondo piano l’Italia, in questo scenario ha una doppia spiegazione. Una verso il nostro paese, intervenire nel caos libico acquisendo quando previsto dai bombardamenti del 2011 (opzioni su petrolio e gas e la ricostruzione del paese), una verso la Germania ponendosi come il soggetto diplomatico-militare dell’Europa in grado di condizionarne il futuro modello di difesa (e quello industriale) dove Parigi vuol fare la parte del leone. Senza dimenticare il fatto che mettere al tavolo a Parigi le due principali parti libiche significa trattare con un mondo saudita che, per quanto in difficoltà, conta ancora sul mercato del petrolio e su quello finanziario. Se l’amministrazione Macron avrà fatto le mosse giuste verso l’Italia, e la Germania, si capirà a suo tempo. Il punto è che su debito pubblico, banche e crescita, l’Italia è il sorvegliato speciale dell’Europa. Invece di pensare alla legge elettorale nel nostro paese non farebbe male pensare che, in Europa, si guarda con ostilità alle prossime elezioni politiche nazionali. Anche se è vista come improbabile una vittoria grillina, senza il doppio turno o senza un turno unico con un premio di maggioranza praticamente incostituzionale il M5S rischia di sfiancarsi come un leone in gabbia, l’attenzione è tutta sulle possibili maggioranze “programmatiche”. Il Pd di Renzi e Forza Italia, ad esempio, contengono un euroscetticismo light, sulle politiche di bilancio, che non piacciono per niente a Berlino e neanche a Parigi (che non vuole un partner italiano protagonista volendo trattare direttamente con Berlino). Macron potrebbe proporsi, nel caso che questo euroscettismo light prendesse il potere, come il controllore del nostro paese in prima istanza. Tramite la concorrenza economica, quella sul sistema bancario e quella geopolitica sulla Libia. La vigilanza bancaria europea, visto che la crisi del nostro sistema bancario ha incrinato le regole della banking union voluta dalla Bce, potrebbe completare, assieme a Macron, il cordone di controllo attorno al nostro paese.

Il balzo indietro dell’Italia

E’ evidente che, al di là delle trovate estive per la ricerca del consenso (la legge sul taglio ai vitalizi, Pisapia che esiste solo su Repubblica, Salvini alla ricerca di nuove accompagnatrici per non essere travolto dal gossip) la vicenda francese ci ricorda che questo paese, comunque vada, si trova di fronte a nuove prove di sopravvivenza dopo il decennio perduto 2007-2017. Quando non solo, da allora, sono stati lasciati sul campo una decina di punti di Pil, un quarto della produzione industriale e un terzo degli investimenti. Ma sopratutto, in termini di reddito pro capite e qualità della vita questo paese ha fatto un balzo indietro le cui conseguenze non sono ancora realmente calcolabili. Del resto le fortune o le sfortune di un paese si preparano in casa, nell’intelligenza che si mette a disposizione della sfera pubblica. La Handelsblatt ha preparato uno speciale impietoso sulla crisi bancaria tedesca del 2007, l’Italia di quel periodo ricorda a malapena il libro sulla casta. Un vaso di pandora di veleno politico di un paese che crede di cavarsela inveendo all’infinito contro una casta politica, comunque tra le più rapaci del mondo, secondo schemi di comportamento da cortile. Evidenziarlo può apparire snob, specie a chi vive di battute sul momento, ma che questo paese abbia scambiato i fenomeni di costruzione del capro espiatorio, che in sè è sempre indifendibile, con quelli della preparazione di un futuro appare davvero evidente. A chi vuol vedere.

Redazione, 30 luglio 2017

La sinistra e il Venezuela. Intervista a G. Cremaschi

1) Puoi riassumere il tuo percorso politico e la tua posizione attuale?

Il mio percorso è comprensibilmente già lunghetto... Sono nato nel 1948 e ho cominciato ad impegnarmi in politica a sostegno del Vietnam, come tanti. Nel 1967 mi sono iscritto alla FGCI, poi sono sempre stato nel PCI, su posizioni di sinistra, fino al suo scioglimento. Non ho mai fatto però attività di partito, ma sono stato prima nel movimento studentesco, son stato lavoratore studente e poi sono entrato nella FIOM dove ho passato una vita. Mi sono opposto alla svolta della Bolognina e dopo una breve inerzia nel PDS sono rimasto per un decennio senza tessera. All’epoca del G8 di Genova mi sono iscritto a Rifondazione, che ho lasciato appena insediato il secondo governo Prodi. Credo che la duratura catastrofe della sinistra radicale nasca tutta da lì. Mi sono sempre battuto in Cgil contro la concertazione e tutto il resto, fino al congresso del 2014 dove ho tentato una battaglia disperata per una opposizione di sinistra. Ma l’autonormalizzazione della Fiom di Landini ha tolto ogni spazio reale a questa posizione e ho lasciato la Cgil. Oggi sostengo il sindacalismo conflittuale ed in particolare la USB, ma cerco di stare con chi lotta e resiste, comunque. Lavoro alla organizzazione di Eurostop perché sono convinto che senza fare i conti con Euro, UE, Nato, non si tocchi neanche il margine del reale potere capitalista e imperialista. Sono e resto comunista.

2) La sinistra, anche “radicale”, ha subito un arretramento di consapevolezza a tutti i livelli, prima di tutto in termini di internazionalismo. Qual è la tua percezione?

Parto da una mia riflessione. Sono sempre stato un poco eretico e sempre critico verso il socialismo reale. Ma oggi non posso che constatare che catastrofe per tutti i popoli e per tutto il mondo del lavoro, su scala globale, sia stato il crollo della Unione Sovietica. Non è una nostalgia, che non mi appartiene, e d’altra parte sono state le sue stesse burocrazie ad affondare il socialismo reale. Ma resta il fatto che il crollo di quel sistema e la sua sussunzione nel capitalismo ha segnato un punto di svolta negativo nella storia sociale umana. Le stesse socialdemocrazie più anticomuniste ne hanno subito i colpi. La globalizzazione ha subito assunto il segno del capitalismo liberista più violento e selvaggio e davvero si è affermato un mondo ad una dimensione. Le sinistre radicali all’inizio hanno pensato di reggere con la contestazione alla globalizzazione, come si è detto spesso, “dal basso”, senza più porsi il problema del potere e della proprietà. “Cambiare il mondo senza prendere il potere” è un testo celebre. Allora essere di sinistra radicale ed essere NoGlobal era la stessa cosa, lo ricordo perché oggi pare che contro la globalizzazione ci siano solo i neofascisti. Ma questo essere noglobal aveva appunto il limite di non pensare alla struttura reale del potere, economico e politico. E soprattutto di ignorare la questione della proprietà, considerata un non problema visto che il controllo dal basso avrebbe risolto tutto, sia che il padrone fosse privato, sia che fosse ancora pubblico. Con la nuova fase di guerra globale iniziata dopo l’attentato del 2001 alle Torri Gemelle e poi con la grande crisi capitalistica iniziata nel 2007 e ancora in corso, tutto è cambiato e il movimento noglobal di sinistra (pure grande, ricordiamo il New York Times che lo definì la seconda superpotenza mondiale) è stato spazzato via. La sua ingenuità sul potere è stata usata dal potere stesso per distruggerlo. Altro che Impero come luogo della rivoluzione delle moltitudini, mai uno scenario fu più lontano dalla realtà. Non c’era l’Impero, ma gli imperialismi che facevano piazza pulita di diritti sociali e conquiste del lavoro in casa loro per essere più competitivi possibile. Gli stati non sparivano affatto, ma venivano riconvertiti in strumenti fondamentali della governance capitalista. E il superstato Unione Europea si rivelava lo strumento fondamentale di questa privatizzazione degli stati. La sinistra radicale, incapace perfino di pronunciare la parola nazionalizzazione senza storcere la bocca, non era in grado di proporre nulla di alternativo, se non buoni propositi. La tragica parabola di Tsipras e Siryza sono la fotografia più cruda di tutto questo. Un governo che aveva raccolto il 60% di NO alla Troika dal suo popolo, è diventato il più diligente esecutore degli ordini della Troika.

La sinistra radicale europea è morta lì, da allora la protesta sociale non si rivolge ad essa ma alle varie forme di populismo. Destra Lepen, centro Cinquestelle, sinistra Podemos ed in parte Melenchon.

3) Come si pone invece il dibattito di Eurostop? In che modo il sud globale attraversa la lotta dei territori nella costruzione di un nuovo soggetto politico? Come si riverbera la suggestione del socialismo bolivariano nella costruzione di un nuovo blocco sociale anticapitalista in Italia e in Europa?

Eurostop parte da questo bilancio e quindi dalla rottura con il liberalismo sia socialdemocratico, ma anche di una certa sinistra dei diritti che ignora i poteri. Per questo noi ridiamo valore al ruolo dello stato nell’economia nel senso della rottura con il dominio del mercato, del ritorno e dell’allargamento della proprietà pubblica. I nostri tre No a Euro, UE, Nato servono a questo, a rompere il dominio della globalizzazione dal lato dei suoi poteri reali qui in Europa. E ovviamente parte integrante di questa scelta è il rifiuto della guerra e delle politiche di guerra in condominio con gli USA.

Per questo la nostra identificazione con i percorsi di liberazione dei governi progressisti in America Latina è immediata, per noi questo è l’internazionalismo. Che non è il cosmopolitismo dei professional borghesi che vogliono vivere bene nelle grandi città e non si curano delle periferie. No noi siamo e vogliamo essere altro, stiamo con la rabbia sociale, non con i buoni propositi. E vogliamo che questa rabbia sociale si indirizzi verso il potere degli sfruttatori e non verso i migranti. Per questo siamo anticapitalisti allo stesso modo con cui siamo radicalmente antifascisti. Per noi l’antifascismo non è quello di comodo del palazzo liberale, che alimenta il razzismo tra i poveri con le sue ingiustizie, ma quello della parte sociale mai applicata della Costituzione nata dalla Resistenza. Anche qui si vede cosa abbiamo in comune con la cultura progressista e socialista dell’America Latina.

6) In questo momento il Venezuela bolivariano, dove più si sono rimessi in causa i rapporti di proprietà, è sotto attacco. In alcuni tuoi scritti tu hai rilevato le analogie tra l’attacco portato contro Maduro e quello contro Allende in Cile. Purtroppo, però, oggi la sinistra “disorientata” da un bilancio fasullo sul ‘900 non sa più guardare in faccia la lotta di classe e si posiziona dalla parte sbagliata. Come mai?

Tutta l’America Latina, che ha cercato in vari modi e con diversi risultati, di rompere le catene della globalizzazione è oggi sotto il tiro della restaurazione del potere imperialistico delle multinazionali europee e statunitensi. Il golpe bianco in Brasile e Paraguay, il governo reazionario argentino sono stati i primi successi della restaurazione. Ma la resistenza di altri stati compromette il disegno reazionario e il Venezuela è l’architrave. Se il chavismo regge, l’offensiva imperialista va in difficoltà perché il mondo non è più quello di una volta. Anche la potenza americana, che Trump ben rappresenta, è in un declino. Da qui l’intensificarsi dell’attacco al governo ed al popolo e la particolare vergogna per la Unione Europea e gran parte delle sue cosiddette sinistre. Che in Venezuela appoggiano semplicemente il tradizionale blocco reazionario e fascista, che sfrutta le difficoltà economiche per imporre il ritorno al peggior potere servo delle multinazionali. Il paragone con il Cile di Allende è naturale per chi ricorda quegli anni, stava con Unidad Popular allora e non si è venduto oggi. Tutto è uguale, crisi economica ed anche errori del governo progressista che riducono il consenso. Su queste difficoltà si buttano i ricchi per riavere tutto e comincia l’eversione. Che comunque non riuscirebbe senza il sostegno imperialista e il golpe militare. Allende aveva indetto un referendum, che avrebbe vinto, per superare il boicottaggio del parlamento, ma il golpe di Pinochet avvenne prima. Ora le stesse spinte golpiste in Venezuela vogliono impedire l’assemblea costituente, che segnerebbe un rafforzamento enorme del potere popolare. Siccome per fortuna l’esercito venezuelano non è quello del Cile, ecco che si rafforza la pressione eversiva internazionale, tanto più sfacciata quanto le forze reazionarie interne al Venezuela sono in difficoltà.

Ecco io considero il Venezuela una cartina di tornasole unica. Chi sta con l’aggressione reazionaria al governo Maduro, è un avversario o un nemico. Chi sostiene quel governo, anche con tutte le critiche del caso, è un compagno. Punto e basta.

8) Perché il Venezuela bolivariano ci interessa e cosa pensa di fare la piattaforma Eurostop? Nei suoi libri, Luciano Vasapollo della Rete dei comunisti parla di un’Alba per l’Europa. Come la vedi tu?

Come ho detto sinora, il ruolo degli stati resta decisivo nella globalizzazione e, a meno di non attendere una rivoluzione mondiale contemporanea, resterà decisiva la lotta per strappare gli stati al dominio del capitalismo finanziario. In America Latina c’è stata una frattura del potere globale che quel potere vuole chiudere, se non ci riesce siamo tutti più forti. Così Eurostop propone la rottura con la Unione Europea e la Nato. Non solo perché l’esperienza dimostra che senza rotture non si va da nessuna parte, ma anche perché da quella rottura sicuramente ne deriverebbero altre. Trovo penosa la sinistra che si beve la propaganda di regime secondo la quale se l’Italia rompesse con “l’Europa”, quest’ultima compatta la schiaccerebbe. Se ci fosse l’Italexit salterebbe la gabbia per tutti, e la UE andrebbe in crisi dalle sue fondamenta. Come è sempre avvenuto del resto in ogni cambiamento e rottura radicale, che comincia in un punto, poi dilaga.

Poi certamente noi pensiamo che i cosiddetti PIIGS, che hanno economie e problemi simili, potrebbero trovare intese comuni. Ma soprattutto per noi l’Europa fortezza del Nord di cui l’Italia sarebbe la frontiera di respingimento verso i poveri del sud, questa Europa che si sta effettivamente realizzando, è un orrore da rifiutare e combattere. La nostra idea strategica non è l’Europa Mediterranea, ma il Mediterraneo unito tra le sue varie sponde. Questo sì sarebbe un passo avanti verso la pace e la giustizia mondiale.

Quindi per noi la rottura dell’Italia con la UE è parte ed avvio di un progetto progressista e di ripresa del socialismo ben più vasto. Aggiungo che siamo i soli ad avere questo progetto, perché la destra ovviamente non vuole la rottura della UE, ma solo più ferocia verso i migranti. E la sinistra ufficiale vuole cambiare la UE ma sa oramai benissimo che ciò non è possibile se si rinuncia alla rottura.

Ma il fatto di essere soli non ci spaventa. L’America Latina di 20 anni fa era un continente sotto il dominio apparentemente incontrastato del dollaro... solo piccole minoranze pensavano ad un altra realtà. Poi ci sono stati Chavez e Lula.

10) In Venezuela c’è stata la prima lotta armata del continente dopo la rivoluzione cubana: contro una democrazia e non contro una dittatura. E la legge contro l’Oblìo, votata durante il chavismo, rivendica il diritto dei popoli alla rivolta, anche armata e anche contro le “democrazie camuffate”. In Italia, al contrario, dopo un conflitto armato durato quasi vent’anni e oltre 5.000 prigionieri politici (ancora qualche centinaio in prigione) non c’è stato un bilancio, una legge di amnistia, e continua l’emergenza infinita sotto nuove forme e identica sostanza, come i decreti Minniti, ecc. Pensi che anche questo c’entri con il rifiuto di guardare in faccia quel che sta succedendo in Venezuela? Come si discute questo tema nella tua compagine?

Come Eurostop assieme alla USB abbiamo lanciato una campagna contro la repressione e per l’amnistia. Oggi siamo ad un duro giro di vite contro tutte le proteste sociali e contro tutti i comportamenti che il potere non approva. Rispetto agli anni '70, oggi siamo di fronte ad una repressione più mirata ad impedire e reprimere lotte sociali di nativi e migranti. Anche qui siamo di fronte ad una tendenza giuridica reazionaria che si alimenta in tutta la UE. Le leggi Minniti, gravissime, sono perfettamente europee. Evidentemente il potere teme una ripresa del conflitto più di quanto in essa creda una certa sinistra rassegnata. Infatti oltre alla repressione tradizionale abbiamo la minaccia di nuove leggi antisciopero e una persecuzione da anni '50 verso ogni dissenso e lotta nei luoghi di lavoro.

Tutto questo ci dice che il potere qui da noi è contro il chavismo anche su questo piano; ed è chiaro che sarà difficile avere il riconoscimento dei conflitti del passato da un potere che intende schiacciare quelli del presente. Ma naturalmente noi non molliamo.

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I nuovi rapporti di forza nell’Oceano Pacifico

A televisione spenta, non c’è bisogno di essere dei veggenti per sapere con certezza che le reti unificate parleranno per l’intera giornata dell’ennesima “provocazione” lanciata al mondo da quel ragazzaccio di Kim Jong Un che, la notte scorsa, si è divertito da matti a dirigere personalmente il secondo lancio di prova in ventiquattrore (per di più con successo) di un missile balistico intercontinentale “Hwasong-14”. Il razzo, che secondo Pyongyang è in grado di portare una potente testata nucleare, ha coperto in 47 minuti una distanza di 998 km, raggiungendo una quota massima di 3.724 km e, come sottolinea l’agenzia nordcoreana KCNA, senza “alcun impatto negativo sulla sicurezza dei paesi circostanti”. Il lancio precedente, alla vigilia, aveva portato un altro razzo ICBM in direzione dell’isola di Hokkaido, nel mar del Giappone.

Il pubblico televisivo nostrano è vivamente invitato, di contro, a non pensare a “provocazioni” riguardo al lancio, questa mattina, di un razzo sudcoreano “Henmu-2” e un missile balistico “terra – terra” USA “ATACMS”, anche questi nell’area del mar del Giappone. Secondo la sudcoreana Yonhap, si è semplicemente testata “la possibilità di colpire la leadership del nemico in caso di circostanze eccezionali”.

“L’onorevole supremo leader” scrive ancora KCNA, “si è detto orgoglioso per l’affidabilità del sistema missilistico, che ha dimostrato ancora una volta la capacità di lancio fulmineo in qualsiasi luogo e in qualsiasi momento. E’ chiaramente dimostrato che l’intera parte continentale degli Stati Uniti è ora sotto nostro tiro”. Con quest’ultimo lancio, si sono sperimentate angolazione e portata massime e si è voluto “ammonire rigorosamente gli USA, che nei giorni scorsi, usciti di senno, hanno lanciato vuote assurdità” anche nei confronti della RDPC; si è inteso inoltre far sapere a Washington che se “anche con un dito proveranno a toccare il nostro paese, allo stato aggressivo dei cosiddetti USA la cosa costerà cara”.

Da Washington hanno fatto sapere di optare per una “denuclearizzazione pacifica” della penisola coreana, ma che non riconosceranno mai il diritto della RDPC a detenere armi nucleari. Al tempo stesso, ha detto il Segretario si stato Rex Tillerson, gli USA “non abdicano agli obblighi verso i nostri alleati e partner nella regione”. Washington ha invitato anche tutti i paesi a pronunciarsi contro le azioni di Pyongyang e a inasprire le sanzioni ONU contro la RDPC. Tillerson ha addossato una “estrema responsabilità” su Russia e Cina per la “crescente minaccia nucleare” che viene dalla RDPC, dato che Mosca e Pechino sarebbero “la principale forza motrice dei programmi missilistici e nucleari della Corea del Nord dal punto di vista economico”.

Le parole di Tillerson fanno seguito alle accuse lanciate dal capo della CIA, Mike Pompeo, secondo cui Pechino costituirebbe oggi la minaccia più grave per gli interessi strategici USA, maggiore di Russia e Iran e arrivano appena due giorni dopo la sparata del capo della Flotta del Pacifico, Scott Swift, su un attacco nucleare alla Cina. Non si è fatta attendere la reazione cinese: dal Ministero degli esteri replicano che, seguendo la logica USA, qualunque paese, dotato di forte potenziale economico e militare, costituisce una minaccia per il mondo e solo gli Stati Uniti, a priori non possono rappresentare una minaccia per nessuno. La Cina, riporta la nota del Ministero degli esteri, non ha mai inteso e non intende interferire negli affari di altri paesi; al tempo stesso, non permette agli altri paesi di minacciare la Cina e danneggiare i suoi interessi”.

“Gli alti gradi militari USA hanno perso la testa” ha detto in un’intervista a tvzvezda.su il colonnello a riposo Viktor Baranets; a quel comandante “qualcuno, al Pentagono o addirittura alla Casa Bianca, ha permesso di abbaiare contro la grande Cina”, ha aggiunto. Nel giorno stesso delle affermazioni di Swift, ha detto Baranets, “il mondo si è congedato con una potenza quale gli Stati Uniti d’America, dato che al loro posto si è formato uno stretto tra Canada meridionale e Nord America. Non si può scherzare così con la Cina. Quel comandante l’ha evidentemente confusa con un Vanuatu qualunque”. Credo che gli abbiano “permesso di abbaiare. Ma, si sa, tutte le guerre più drammatiche iniziano con l’agitare simili pericolose parole”.

Di fatto, la sparata di Swift era venuta a conclusione delle manovre navali americano australiane “Talisman Saber 2017”, al largo delle coste del Queensland, controllate a distanza, in acque internazionali, da un vascello cinese da ricognizione classe 815, in grado di captare le comunicazioni tra le unità americane e australiane. Prima di questa, scrive Ilja Plekhanov su RIA Novosti, un’altra unità cinese era stata notata al largo dell’Alaska, durante le prove americane del sistema THAAD. Gli USA stessi sembrano aver notato una maggiore attività della marina cinese proprio dopo la decisione definitiva sull’installazione del THAAD in Corea del Sud. Pechino, sembra preoccupata anche per il radar statunitense AN/TPY-2, in grado di controllare lo spazio aereo cinese.

La Cina, osserva Plekhanov, dispone di diverse unità navali da ricognizione: oltre a varie modifiche della classe 815, sono ancora in servizio le vecchie Yuanwang e alcune 814A. Se finora, osserva Plekhanov, a Washington erano abituati alla sola presenza, al largo delle coste americane, di vascelli da ricognizione russi, oggi gli analisti occidentali parlano di una nuova era, con la Cina che si comporta in maniera sempre più sicura sugli oceani. Se Pechino, conformemente al diritto marittimo internazionale, non si addentra in acque territoriali straniere, esprime al tempo stesso sempre maggiore insoddisfazione, quando forze navali di altri paesi incrociano al largo delle coste dei territori contesi nel mar Cinese Meridionale. A quanto pare, conclude Plekhanov, il monopolio USA sulla ricognizione radioelettronica navale negli oceani è giunta al termine, con Russia e Cina diventati giocatori a pieno titolo.

I latrati di Scott Swift testimoniano evidentemente del nervosismo di Washington per la nuova situazione.

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Prof. Vasapollo: “Sarà ancora una volta Chavez a sconfiggere il golpismo”

Alessandro Bianchi

Domenica in Venezuela si vota per l’Assemblea Costituente. Un processo perfettamente in linea con la Costituzione del paese ideato per cercare di trovare una soluzione di pace e democrazia alle violenze ed al rifiuto dell’opposizione di destra alla richiesta di dialogo del Presidente Maduro.

Sui giornali italiani la propaganda per quegli interessi che da anni cercano di destiture il legittimo governo di Caracas ed appropriarsi così delle riserve petrolifere maggiori al mondo hanno distorto completamente il quadro della situazione. E così terroristi che linciano e danno fuoco a persone solo perché hanno un’idea politica diversa diventano “manifestanti pacifici” e la Costituente, via democratica e pacifica alla soluzione della crisi, un “golpe di Maduro”.

Stupri semantici a cui siamo abituati e pensare che a chiedere quella Costituente fosse nel 2013 quella stessa destra sostenuta da Usa e Ue impegnata oggi nelle violenze fuori controllo. Ci sarebbe da sorridere se non fossero morte oltre 100 persone dal colpo di stato iniziato tre mesi fa.

Abbiamo chiesto al Professore Luciano Vasapollo, noto esperto delle dinamiche dell’America Latina, un commento sul voto di domenica in Venezuela.

Questa intervista appare in contemporanea su Contropiano e L’Antidiplomatico.


Professore. Domenica in Venezuela si vota. Chi attacca il governo di Maduro, il “regime”, usa come pretesto principale il fatto che il Presidente non conceda elezioni. Eppure Domenica in Venezuela si vota. Non è un controsenso?

E’ un controsenso ridicolo, come tutti quelli che “l’’internazionale nera” utilizza per far passare uno dei sistemi più democratici al mondo, quello ideato dalla Rivoluzione bolivariana, come un “regime”. Domenica il popolo venezuelano, il popolo bolivariano, un popolo di pace, darà una lezione al mondo. Sostengo con forza questo processo elettorale, la Costituente, che serve per dare nuovo impulso e rafforzare la democrazia partecipativa e popolare. E’ la risposta giusta per rafforzare le missioni sociali, ideate dal Comandante Chavez per dare istruzione, lavoro, sanità.

Ieri si è conclusa la campagna elettorale per la Costituente. Impressionante il bagno di folla che ha accompagnato l’evento a Caracas. Come al solito, totalmente censurato dall’informazione occidentale...

Davanti una folla oceanica, il presidente Maduro ieri ha chiuso la campagna elettorale parlando contro l’opposizione violenta, fascista e golpista che ha prodotto 110 morti negli ultimi tre mesi. La colpa di quello che sta accadendo oggi in Venezuela è delle multinazionali del petrolio, dell’imperialismo, dei paramilitari. Grande responsabilità l’ha un presidente come Trump che sta minacciando una maggiore guerra economica se il popolo venezuelano dovesse perseguire nella via della Costituente. In Europa non si sa niente di tutto questo. E questo perché l’informazione è totalmente asservita a questi poteri che non da oggi ma dal 2002, primo golpe contro Chavez, cercano di annientare una delle pochissime risposte alternative alla dittatura del neo-liberismo.

Oltre Trump, anche l’Unione Europea e la Mogherini in particolare si è schierata contro la Costituente. Teme che seguirà gli Stati Uniti in sanzioni contro il Venezuela?

A leggere le dichiarazioni di Federica Mogherini mi viene da ridere e provo tanta rabbia. Mi viene da ridere perché lei rappresenta un organismo che si è data una costituzione che uccide interi paesi, Grecia su tutti, senza che nessun popolo l’abbia mai votata. E sarebbe la signora Mogherini che vuole dare lezioni di democrazia ad un paese, il Venezuela, che ha fatto decine e decine di elezioni da quando è iniziata la Rivoluzione bolivariana? Provo poi anche rabbia perché la giovane Federica Mogherini me la ricordo al Foro di San Paolo ai tempi di Chavez sostenere l’ascesa delle forze progressiste in America Latina. E oggi fa da sponda ai nuovi Pinochet che vogliono regalare il paese alle multinazionali degli Stati Uniti? Ma io sono tranquillo. Sarà ancora una volta Hugo Chavez, che oggi avrebbe compiuto 63 anni, a sconfiggere il golpismo di Usa e Unione Europea. Oggi il popolo venezuelano che si incarna nel suo Comandante è consapevole dei suoi diritti, è libero dal giogo del neo-liberismo e difenderà le sue conquiste contro il golpismo di Usa e Unione Europea. Ne sono certo.

Come giudica l’atteggiamento della destra venezuelana che ha deciso di non giocarsi le sue carte con la via pacifica delle elezioni e non riconosce il percorso della Costituente?

E’ semplicemente la continuazione della strategia golpista. Il plebiscito illegale che qui ha trovato il sostegno addirittura di un ministro, Galletti, e del presidente della Commissione Affari esteri del Senato, Casini, serviva a legittimare il colpo di stato in corso. Un fallimento clamoroso nei numeri chiaramente nascosto dai media asserviti. Sappiamo che i loro voti non sono quelli che hanno detto, che hanno mentito, che non ci sono prove di quei risultati, ma non importa, perché per la propaganda occidentale “7 milioni di venezuelani hanno detto no alla Costituente”. Tutte menzogne.

A proposito di Casini. Ieri ha fatto una nuova Conferenza al Senato sostenendo le ragioni della destra e contro la Costituente...

A parte la scarsissima conoscenza di fondo delle dinamiche dell’America Latina di alcuni politici italiani, da studioso quello che mi preoccupa è la totale irresponsabilità di chi getta benzina sul fuoco, sostenendo e alimentando la ferocia di questi nuovi Pinochet in salsa venezuelana che vorrebbero portare il paese alla guerra civile. Su Casini è davvero incredibile la sua insistenza a sostegno della destra venezuelana. Ora la domanda che potrebbe sorgere a qualcuno è: ma perché invece della “fame” in Venezuela, non fa una telefonata al suocero per trovare una soluzione alla sete dei romani?

Tutta la destra venezuelana è golpista e violenta?

No. C’è una parte dell’opposizione che non è golpista, che non è violenta, ma non si è pronunciata apertamente. La strategia dell’opposizione per ora è portata avanti dai golpisti violenti; è importante che si pronuncino i settori democratici ora oppure saranno corresponsabili morali delle violenze.


Infine, come giudica il comportamento dei media internazionali. Oggi Repubblica titola: “Venezuela, governo vieta le manifestazioni contro le elezioni dell’Assemblea Costituente”. Anche un importante giornale nord-americano, il Chicago Tribune, con la corrispondenza di un inviato di Bloomberg, ha dovuto ammettere che non è resistenza ma violenza fuori controllo. Fino a quando i giornali italiani mentiranno sapendo di mentire. E sono complici del colpo di stato in corso in Venezuela?

Si sono complici. O meglio giocano il ruolo di protagonista attivo del processo come avvenuto in Ucraina, Libia e Siria. Sono costretti ad ignorare quello che accade davvero in Venezuela e presentare una situazione virtuale. Si chiama “Effetto CNN”. E quindi il terrorismo diviene “ricerca di democrazia”, i terroristi “manifestanti pacifici” che resistono “al regime”, la Costituente ”un colpo di stato”. E la ragione è una: si chiama petrolio e la grande quantità di altre ricchezze presenti in Venezuela. Sull’informazione però vorrei concludere con un rammarico profondo. Ho letto che in questi giorni Gerladina Colotti, una delle pochissime voci libere che ha raccontato in questi anni il Venezuela e l’America Latina in generale, si trova a Caracas, ma i suoi reportage non vengono pubblicati dal Manifesto per una scelta editoriale. Una vergogna. Una vergogna di un giornale che sta prendendo ormai inesorabilmente la via senza uscita della “sinistra europeista” alla Mogherini. Piena solidarietà a Geraldina che non si arrende alle menzogne del mainstream e continua ad informarci. Adelante!

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