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07/07/2017

Corea, la pace appesa a un filo

di Michele Paris

Nella logica dell’escalation del confronto promossa dagli Stati Uniti come unica soluzione alla crisi nella penisola di Corea, mercoledì le forze armate americane hanno condotto una nuova esercitazione con i militari sudcoreani in risposta al forse cruciale test missilistico condotto dal regime di Pyongyang in concomitanza con i festeggiamenti del 4 luglio a Washington.

L’operazione congiunta dei due alleati ha visto il lancio di missili balistici dalla costa orientale della Corea del Sud, accompagnato da dichiarazioni particolarmente minacciose da parte di entrambi i governi. Il presidente sudcoreano, Moon Jae-in, ha spiegato che Seoul e Washington dovevano mostrare le proprie capacità “difensive con le azioni e non solo con le parole”.

I vertici delle forze USA di stanza in Corea del Sud sono stati ancora più espliciti, avvertendo che mercoledì si è avuta la dimostrazione delle capacità dell’alleanza di colpire con precisione “qualsiasi obiettivo in qualsiasi condizione atmosferica”.

La reazione americana al test missilistico nordcoreano di martedì era stata proporzionata a quello che il governo di Washington e la maggior parte dei media ufficiali hanno definito un evento destinato a cambiare gli equilibri dello scontro nella penisola di Corea.

Il missile nordcoreano Hwasong-14 aveva seguito una traiettoria prevalentemente in altezza prima di precipitare nel Mare del Giappone ma, se proiettata verso un bersaglio reale, avrebbe consentito all’ordigno di raggiungere una distanza superiore ai 6.500 km, entro la quale si collocano l’Alaska e le Hawaii, anche se non gli Stati Uniti continentali.

L’ostentazione da parte di Pyongyang del presunto ottenimento delle capacità tecniche per armare con una testata atomica un missile intercontinentale in grado di colpire ovunque nel mondo e per consentire a quest’ultimo il rientro in atmosfera hanno poi fatto il resto nel creare un clima di isteria e le condizioni per un possibile attacco militare americano.

Il drammatico aumento delle tensioni sulla Corea del Nord si inserisce inoltre in un clima già inasprito dalle recenti iniziative dell’amministrazione Trump, dirette soprattutto contro la Cina. Nell’ultima settimana la Casa Bianca aveva autorizzato una fornitura di armi a Taiwan, una “visita” di una nave da guerra americana all’interno del limite territoriale di un’isola controllata da Pechino nel Mar Cinese Meridionale e sanzioni punitive contro alcune banche cinesi che fanno affari con Pyongyang.

In previsione di una riunione di emergenza del Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite, richiesta da Washington per mercoledì, il segretario di Stato USA, Rex Tillerson, ha chiesto poi una “azione globale” contro la Corea del Nord, mentre ha minacciato qualsiasi paese fornisca aiuti di ogni genere al regime di Kim Jong-un o si rifiuti di implementare le risoluzioni ONU.

Al Palazzo di Vetro, l’ambasciatrice americana Nikki Haley ha detto che il suo paese è pronto a usare la forza per fermare la minaccia nordcoreana, anche se rimane preferibile la strada della diplomazia. Gli Stati Uniti proporranno nuove sanzioni contro Pyongyang già nei prossimi giorni.

Quella militare resta un’opzione che gli Stati Uniti intendono considerare contro la Corea del Nord. All’interno del governo di Washington, nonostante i preparativi bellici ben avanzati, vi sono però disaccordi su una decisione che rischierebbe di scatenare un conflitto violentissimo, nel quale potrebbero molto probabilmente essere coinvolte anche Cina e Russia.

Un articolo pubblicato martedì dal New York Times a firma del giornalista con legami nell’apparato della sicurezza nazionale americana, David Sanger, ha elencato le scelte che il presidente Trump ha a disposizione per risolvere la crisi in atto. La più percorribile, per l’autore dell’analisi, sarebbe quella del negoziato, a testimonianza che una parte della classe dirigente USA ritiene inaccettabile in questo momento una guerra nella penisola di Corea, sia per le conseguenze che essa comporterebbe sia per l’opposizione ancora molto diffusa tra l’opinione pubblica internazionale.

Allo stesso tempo, però, l’attitudine dell’amministrazione Trump ha messo gli Stati Uniti in un vicolo cieco dal quale appare difficile uscire. Per cominciare, la collaborazione tra Washington e Pechino per neutralizzare la minaccia nordcoreana, lanciata con clamore dallo stesso Trump nel mese di aprile dopo la visita in Florida del presidente cinese Xi Jinping, non ha portato alcun frutto.

Senza concessioni da parte americana, perciò, sembra di fatto impossibile aprire un percorso diplomatico con la Corea del Nord. Sia la Cina che la Russia sono tornate infatti a chiedere un passo indietro a Washington per favorire il dialogo. Durante un vertice a Mosca tra Putin e Xi, i due paesi hanno condannato l’ultimo test missilistico del regime di Kim, per poi chiedere a quest’ultimo di congelare il proprio programma nucleare in cambio di uno stop alle esercitazioni militari tra Stati Uniti e Corea del Sud.

Questa proposta era già stata avanzata qualche settimana fa dal governo cinese, ma era stata seccamente respinta dalla Casa Bianca, le cui condizioni per un ritorno al tavolo delle trattative continuano a prevedere non solo la fine del programma nucleare e missilistico nordcoreano, ma anche lo smantellamento delle testate atomiche di cui Pyongyang sarebbe già in possesso.

Significativamente, Cina e Russia hanno incluso nel già ricordato comunicato anche la richiesta di rimuovere il sistema anti-missilistico americano THAAD dal territorio della Corea del Sud. Questa struttura è stata recentemente installata dalle forze armate USA ed è considerata una seria minaccia al deterrente militare cinese e russo, anche se ufficialmente destinata a intercettare eventuali missili lanciati dalla Nordcorea.

Il riferimento al THAAD di Cina e Russia è il riconoscimento ufficiale da parte dei rispettivi governi del fatto che l’escalation diplomatico-militare promossa dagli Stati Uniti è diretta principalmente proprio contro questi due paesi e non tanto contro un regime isolato e impoverito come quello di Kim.

Ad ogni modo, le condizioni dettate da Washington risultano inaccettabili per la Corea del Nord, il cui comportamento è solo apparentemente irrazionale e provocatorio. Come dimostrano i molti precedenti storici di paesi che hanno rappresentato un ostacolo agli interessi strategici americani, il regime di Kim, per quanto odioso, ha tutte le ragioni per sentirsi minacciato dalla massiccia presenza degli Stati Uniti attorno ai propri confini.

La reazione a uno stato d’assedio che risulta tutt’altro che immaginario non può che essere, dal punto di vista di Pyongyang, una corsa alla militarizzazione e all’ottenimento di armi nucleari efficaci per difendersi da un nemico potentissimo che, innegabilmente, da oltre mezzo secolo cerca di rovesciare il regime ed estendere il proprio controllo su tutta la penisola di Corea.

Per questa ragione, l’unica via d’uscita alla crisi e, probabilmente, a una guerra rovinosa, non può che includere una riduzione dell’impegno militare degli USA in Asia nord-orientale e la prospettiva di una pace vera e duratura. Il regime nordcoreano, d’altra parte, per la propria sopravvivenza ha più volte lasciato intendere di essere disposto a raggiungere un accordo con Washington.

Proprio martedì, ad esempio, la testata nordcoreana con sede a Tokyo, Chosun Sinbo, ha scritto che “lo scontro tra Pyongyang e Washington è entrato nella sua fase finale” e che, “per evitare un conflitto armato”, la comunità internazionale deve adoperarsi per promuovere “un negoziato diplomatico”.

Lo stesso giornale ha ribadito poi che “non è la Corea del Nord a dover cambiare, bensì gli Stati Uniti”, mentre poco prima il leader nordcoreano Kim aveva affermato che il suo paese non abbandonerà mai le proprie armi nucleari e i propri missili balistici, a meno che gli USA “cessino la loro politica ostile e mettano fine alla minaccia nucleare”.

Un’iniziativa per stemperare le tensioni da parte americana non è però all’ordine del giorno e ciò non perché la Corea del Nord e il suo programma militare rappresentino un reale pericolo per gli Stati Uniti o i loro alleati. L’ex numero uno del Pentagono, William Perry, in questi giorni ha spiegato infatti che i timori “non riguardano un lancio preventivo di missili contro la costa occidentale americana”, che equivarrebbe a un suicidio da parte del regime nordcoreano, quanto le “capacità di rispondere” a un attacco da parte degli USA.

In altre parole, Washington intende annientare la minaccia della Corea del Nord per evitare eventuali danni collaterali prodotti dalla ritorsione di quest’ultimo paese in caso il governo americano, per ragioni strategiche con ogni probabilità legate alla rivalità con la Cina, decidesse di intervenire militarmente in Asia nord-orientale.

Essendo la posta in gioco ben più alta della pace con il regime di Kim, dunque, è estremamente improbabile che le prossime iniziative americane portino nel breve periodo a una de-escalation del sempre più pericoloso scontro in atto nella penisola di Corea.

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