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03/07/2017

La disoccupazione (nostra) rende felici le imprese e Turani

Nel senso comune diffuso dai media, “ideologia” è qualsiasi discorso appena un poco astratto, giusto un pelo al di sopra del “qui e ora”, del pragmatismo senza fronzoli e dunque senza idee. Significa che sarebbe inutile farsi domande “morali” sul mondo e il suo funzionamento, aspirare a un cambiamento che soddisfi i bisogni concreti e le aspirazioni dei molti anziché il profitto di pochi, ecc.

“Ideologia”, in senso stretto, però significa un’altra cosa: falsa coscienza, quando espressa in buona fede, oppure menzogna spudorata – insomma: “narrazione”, come si usa dire nei master di “comunicazione” – sparsa in giro per nascondere i processi reale, gli interessi in gioco, chi vince e chi perde nel gioco dell’“economia”.

Questo articoletto di Giuseppe Turani, analista economico ed editorialista di Repubblica, pubblicato qualche mese fa dal giornale svizzero Il Caffè, è un estratto concentrato di luoghi comuni a proposito del funzionamento dell’economia capitalista. Con un obiettivo preciso: convincere i lettori che la disoccupazione – un certo tasso di disoccupazione – è non solo necessaria, ma addirittura una fonte di felicità.

Tesi ardita, non c’è che dire. Che deve essere sostenuta con argomenti risibili sul piano scientifico ma suadenti su quello retorico, o “narrativo”. E Turani ci dà dentro alla grande, scrivendo con la mano sinistra e confidando nella benevolenza di un pubblico – quello elvetico, benché di lingua italiana – che sa di vivere bene grazie all’esser stato per secoli un paradiso fiscale.

Sul piano scientifico, basta far notare che agitare lo spettro dell’inflazione – dopo dieci anni di deflazione da cui non si riesce ad uscire nonostante lo stampar denaro di Bce e Federal Reserve – equivale a non aver capito nulla delle dinamiche di questa crisi. E se Turani non vuol dar retta a noi, potrebbe darla almeno a Mario Draghi, Confindustria ed esperti analisti finanziari (vedi qui e qui).

Ovvio che per dire che la disoccupazione rende felici bisogna fare qualche operazione furbetta, come scrivere “il paese” là dove si dovrebbe parlare delle persone, aggregate magari in gruppi sociali (lavoratori, imprenditori, ecc). Purtroppo per lui, è comunque costretto ad ammettere che l’unica ragione a favore della desiderabilità della disoccupazione è... la misura del salario da corrispondere a chi lavora. Se i disoccupati sono tanti, come in questi anni di crisi, i salari saranno bassi perché i lavoratori dipendenti temono di restare senza lavoro più di quanto non desiderino uno stipendio più alto. Viceversa, quando l’offerta di lavoro sale molto (l’economia cresce a buon ritmo) i salari tendono ad aumentare.

Insomma, è costretto ad ammettere che l’esistenza di un esercito salariale di riserva – disoccupati, in altre parole – è utile soprattutto alle imprese, che possono pagare il minimo (o anche nulla, come si è visto all’Expo o si sta vedendo con “l’alternanza scuola-lavoro”).

E certo in queste condizioni le imprese sono felici. Che lo sia anche la società, però, bisognerebbe verificarlo, non darlo per presupposto (ideologico, appunto). Invitiamo Turani a farsi un giro per le borgate metropolitane. Gli spiegheremo, in tanti, come la sua felicità si nutre del nostro malessere. E viceversa.

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Con zero disoccupati il Paese è infelice

GIUSEPPE TURANI

Di solito si pensa che un Paese felice sia quello dove tutti, nessuno escluso, hanno un lavoro, e quindi uno stipendio. Ma non è proprio così. Per quanti sforzi si facciano rimane sempre una quota di disoccupati. In genere si tratta di circa il 5 per cento della forza lavoro occupabile. Si varia in più o in meno, a seconda di come è strutturata l’economia del Paese in questione e delle caratteristiche della sua popolazione.

La piccola quota di disoccupazione che rimane viene definita “frizionale” e il termine spiega bene quello che accade nella realtà. Anche nei sistemi più organizzati c’è sempre una quota (piccola) di lavoratori che si trova magari “in transito” da un lavoro all’altro e quindi, momentaneamente disoccupata. Oppure che per qualche mese o qualche anno decide di non lavorare per dedicarsi a altro.

D’altra parte, la piena occupazione (sia pure con una quota residua di disoccupazione, 3-6 per cento) non è sempre e esclusivamente un bene. Anzi, può essere fonte di seri problemi.

E non è difficile capire perché. Più ci si avvicina alla piena occupazione, più aumenta (logicamente) il potere contrattuale dei lavoratori, che quindi sono in grado di ottenere consistenti aumenti di stipendio. E questa potrebbe sembrare una cosa buona. Ma solo se gestita con saggezza e misura. Infatti, se i lavoratori, diventati di colpo molto forti sul piano contrattuale, cominciano a chiedere e a ottenere troppo, possono innescare una ripresa dell’inflazione. E a quel punto si innesta una sorta di spirale: i prezzi (il costo della vita) salgono, ma i lavoratori sono forti e quindi chiedono e ottengono aumenti, con il risultato di far salire ancora di più i prezzi, e così all’infinito. Ecco perché l’inflazione è un brutto animale, forse il peggiore fra quelli catalogati dagli economisti. Taglia i risparmi senza pietà e rende più costoso vivere, produrre, esportare. L’inflazione dovrebbe rimanere intorno al 2-3 per cento. Se va oltre, diventa un pericolo, anche grave.

Purtroppo, non esistono metodi “dolci” per uscire dall’inflazione: ci sono solo medicine brutali. La cura più rapida consiste nello strozzare l’economia (togliendole denaro), in modo che si riformi una quota di disoccupazione e che le paghe tornino a livelli compatibili con le caratteristiche del sistema. Dall’inflazione, insomma, si esce creando disoccupati: è crudele, ma non esiste altra strada.

Ecco perché con la “piena occupazione” bisogna stare molto attenti: invece di portare felicità, potrebbe portare a una crescita dell’inflazione e quindi alla necessità di interventi “duri” per soffocare il fenomeno. Insomma, alla piena occupazione bisogna avvicinarsi con i piedi di piombo e con molta intelligenza.

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