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24/07/2017

La paura della politica. Da Pisapia in là

Se una notte d’inverno un viaggiatore avesse coltivato una qualche illusione sull’iniziativa promossa dall’ex- sindaco di Milano e denominata “Campo Progressista” e su quella, parallela, avviata dall’area appena uscita dal PD può tranquillamente dismettere le sue aspirazioni: tutto l’insieme della baracca (al di là delle difficoltà nel definirne i contorni) appare inevitabilmente rinchiusa nel recinto del tatticismo governista e dell’inspiegabile nostalgia dell’Ulivo.

La nostalgia di quando si cercò di portare un pezzo importante della sinistra italiana in un non meglio precisato Ulivo “mondiale” (con Clinton e Blair) e si finì bombardando Belgrado.

Tutto ciò adesso come adesso, particolare non secondario, nell’evidente difficoltà dei promotori di intercettare le reali contraddizioni che attraversano la società italiana nel quadro internazionale limitando, invece, i propri interventi al riferimento mass –mediatico e alla ricerca della visibilità personale in vista di una agognata rivincita elettorale.

Anche l’altra iniziativa sul terreno, quella avviata dall’appello Falcone – Montanari e tradottasi poi nell’assemblea del Brancaccio del 18 giugno scorso, non pare vivere un momento di slancio esaltante.

Anzi pare proprio che stia per essere avviluppata dalle spire di un movimentismo senza ragione: lo stesso movimentismo che, accompagnato dalla smania elettorale, fu alla base del fallimento totale di altri tanti tentativi a partire dal crack dell’Arcobaleno.

Non dicono nulla le sigle di ALBA, Cambiare si può, Rivoluzione Civile, Lista Tsipras o l’Altro qui o l’Altro là, soltanto per fare alcuni esempi?

Tutti tentativi più o meno elettorali, eseguiti sullo schema del movimento dal basso imposto da un vertice autonominatosi e da leader improvvisati sempre pronti, tra l’altro, a saltar di qua o di là a seconda dei casi e degli eventi.

Tra l’altro, nella fattispecie del tentativo attualmente in atto, si nota come si verifichi un'esitazione (termine benevolo) da parte dei due soggetti organizzati che ancora si misurano con una idea d’identità comunista (Rifondazione e il Partito Comunista) a mettere a disposizione quanto permane di esistente da parte loro sul piano organizzativo.

Appaiono anche forti difficoltà a porsi in relazione a quanto si muove a sinistra sul delicato terreno del sindacalismo di base e di nuove forme di aggregazione politica a partire dai movimenti come nel caso di Eurostop.

Senza dimenticare l’altro movimentismo alimentato dalla vocazione personalistica del sindaco di Napoli: area della quale, dopo il fallimento di un’ipotesi “arancione” posta sul piano nazionale appaiono ignote le possibili mosse politiche nell’immediato futuro.

Da parte dei promotori dell’iniziativa dell’assemblea del Brancaccio si pensa, infatti, di ripartire con assemblee locali tematiche per costruire “un programma dal basso”.

Che cosa si pensa di fare? Si parlerà di porti a Genova, di expo a Milano, di raccolta di rifiuti a Roma e via discorrendo: tutto questo mentre è di nuovo in atto, se mai era stato dismesso, un attacco al cuore della Costituzione e si punta alla ripresa del progetto di costruzione di un vero e proprio regime?

Si faranno assemblee tematiche (film già visto, per altro) sottovalutando il quadro politico generale complessivo che richiede, invece, un’iniziativa posta proprio a quel livello del quadro generale mettendo in moto urgentemente un processo di aggregazione organizzata?

Si parla di “nodi” sul piano territoriale (termine quanto mai ambiguo, nel definire un progetto organizzativo) senza disporre di un assetto, provvisorio certamente e da verificare nelle sedi opportune (quelle di un Congresso costituente?), ma in grado già di funzionare dal punto di vista del riferimento complessivo.

Un assetto da costruire attraverso l’elaborazione di un documento e la promozione di una struttura politico – organizzativa provvisoria ma funzionante da subito.

È questo il punto vero da affrontare sul cammino di un nuovo soggetto che non risulti essere un semplice assemblaggio dell’incerto esistente.

Vanno sicuramente ricercate forme innovative rispetto alla forma – partito del passato.

Rimane però la necessità di garantire un minimo di continuità operatività nella necessaria distinzione dei ruoli politici attraverso la formazione di prime strutture dirigenti almeno a livello provinciale.

Strutture dirigenti formate da delegate/i sicuramente revocabili, evitando l’installazione di un ceto politico, ma poste in grado di garantire operatività, iniziativa e aggregazione sul territorio.

Su tutto questo ambaradan però sovrasta una domanda: perché si ha questa paura folle della politica e soprattutto dell’organizzazione politica e si cede a tutte le mode imposte dalla cattiva coscienza di chi ha colpevolmente praticato la propria autonomia istituzionale ?

Perché alla fine non si fa altro che cadere in quella che si può tranquillamente definire, senza tema di cadere nel banale, l’antipolitica?

Queste poche righe contengono semplicemente una constatazione e un appello.

La constatazione riguarda l’intera sinistra italiana, quella rivoluzionaria, quella massimalista, quella riformista (tanto per rispettare le antiche separazioni e appartenenze) che sembra aver trovato – in negativo – un denominatore comune: quello della paura della politica e, di conseguenza, del ricercare di nascondersi e di mistificarsi dietro le “assemblee tematiche” e le “costruzioni del basso” (partendo dal tetto, però).

Viene così colpevolmente negata, nel corso di questi anni, la storia originale e particolare delle formazioni politiche che hanno rappresentato, nel ‘900, il movimento operaio italiano e, insieme, le parti più avanzate dell’intellettualità del nostro Paese.

Viene negata la storia dei rappresentanti di un agire politico che aveva prodotto aggregazione e iniziativa all’interno dei grandi partiti di massa.

Si è rinnegata la forma della politica attiva con la scusa della modernità, una modernità intesa come individualismo, negazione dell’agire pubblico e collettivo.

Si è fraintesa la politica con l’idea della governabilità come unica frontiera possibile, scambiando le elezioni come il solo momento possibile di espressione politica, riducendosi a un elettoralismo deteriore: com’è dimostrato sia dalla vicenda dell’evoluzione del PDS in PD, dell’implosione dell’area socialista come della storia dell’involuzione drammatica dell’area che aveva dato vita a Rifondazione Comunista.

Rifondazione Comunista che dopo aver accettato il movimentismo, la personalizzazione, la governabilità, di scissione in scissione, si è ridotta – letteralmente – a nascondersi com’è stato nel caso dell’Arcobaleno, della Lista Ingroia, di quella Tsipras, dell’Altro qui e dall’Altro là, aderendo a principi che sono esattamente il contrario di quelli che dovrebbero ispirare un’azione politica comunista: il personalismo, l’opportunismo, il decadimento dei valori portanti della nostra storia.

Ci si è nascosta la verità: non era sparita la classe operaia, non erano venuti a mancare i soggetti di una possibile alternativa politica e sociale: al contrario, proprio la ferocia capitalistica nella gestione del ciclo che stiamo vivendo ha riacutizzato gli elementi portanti di quella che doveva rappresentare un’identità.

Un’identità da ridefinire per tutti a partire dalla necessità di misurarsi appieno con la contraddizione un tempo definita “principale” da intrecciarsi strettamente con quelle contraddizioni post-materialiste tra le quali emerge l’altro feroce atteggiamento del capitalismo rispetto all’ambiente naturale e alla devastazione del territorio e al calpestare la differenza di genere.

La paura più evidente e drammatica che attraversa l’area della sinistra di alternativa nelle sue diverse componenti riguarda però principalmente la “forma” dell’azione politica.

Una azione politica ormai ridotta e stretta tra la separatezza di un’autonomia del politico rivolta alla ricerca del potere puro e semplice e il movimentismo.

Un movimentismo (figlio dell’idea della “moltitudine”) che rifiuta da tempo di ricercarsi e costituirsi come soggettività trascinandosi nell’indeterminatezza, ammantandosi di belle parole riguardanti la cessione di “sovranità dello stato – nazione”, il ruolo dell’Europa, l’utilizzo delle nuove tecnologie in politica, lo svuotamento di senso complessivo all’interno di una società vista (erroneamente) come ormai priva di classi e dimensionata in una forma definita, ormai, come “liquida”.

Questo disastro è stato attuato da una generazione che non lascia eredi e che può contare nelle sue fila un numero consistente di super privilegiati fin dai tempi delle “vacche grasse” che, nascondendosi dietro l’apparente impossibilità di ricostituire un’adeguata soggettività politica, puntano a perpetuare la loro ignavia e il loro sostanziale cinismo.

Le generazioni successive che si approcciano alla politica, esaurita la fase della riflessione sugli universali e sull’appartenenza diretta alla rappresentanza delle contraddizioni sociali, sono così composte in gran parte, come dimostrano i vari “gigli magici”, da feroci carrieristi e apparenti iconoclasti che stanno preparando la fase della raccolta di futuri privilegi da “intoccabili”.

La storia del PD è tutta lì a dimostrare la verità di queste affermazioni: una storia, su questo terreno, del tutto imitatoria di quella della destra.

La sinistra italiana nelle sue diverse componenti ha alle sue spalle una storia lunga e gloriosa che non può essere dismessa, così come non possono essere dismesse le volontà di rivolta.

L’appello riguarda la necessità di ripensare l’organizzazione politica, anche partendo da modeste dimensioni, rifiutando sempre di considerare le idee di eguaglianza come marginali o minoritarie e ricollocando l’idea della costruzione del partito politico nella sua insuperabile “centralità sistemica”.

Abbiamo visto come esistano ancora gli spazi per nuove capacità di aggregazione come ha dimostrato la risposta all’attacco alla Costituzione.

Il nostro compito è sempre quello indicato da Antonio Gramsci: trasformare le masse da ribelli a rivoluzionarie.

Scanso equivoci, tutti sappiamo che per “rivoluzionario” Gramsci non si riferiva ad una palingenesi da attuarsi in 24 ore.

Gramsci pensava a lungo percorso, alla guerra di posizione, al rapporto tra struttura e sovrastruttura, alla conquista delle “casematte”, all’espressione di una egemonia sulla base della quale sviluppare una “rivoluzione intellettuale e morale”.

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