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06/07/2017

Quell’insano bisogno di glorificazione

Difficile svelare il mistero che porta con sé una cultura massmediatica che procede dissacrando costantemente se stessa e, nel medesimo tempo, in continua ricerca di nuovi eroi ambiguamente popolari. La morte di Paolo Villaggio in tal senso fornisce più di un solido esempio. E’ il sintomo di una perversione che agisce non solo dall’alto verso il basso, dai grandi media al popolo, ma prorompe soprattutto dal “popolo” stesso. Nonostante la post-modernità abbia apparentemente espunto il sacro, questo si impone per altre vie, attraverso altri canali, inconsapevolmente (per chi lo subisce). La morte dell’attore ha dato il via al processo di santificazione. Chi avesse osato addentrarsi nella critica di questo o quell’aspetto del suo lungo percorso professionale, veniva escluso dalla comunità dei credenti, coincidente, ça va sans dire, col “popolo”. Persino le critiche positive, se non adeguate alla canonizzazione in corso, venivano scambiate per bestemmie. Improvvisamente un popolo cresciuto con le peggiori derive fantozziane del suo percorso iniziava a discettare della sua amicizia con De André, dei suoi libri(!) o altre fesserie del genere. Il problema non risiede nella valutazione, più o meno corretta o avveduta, che si può avere su questo o quel personaggio pubblico, ma l’idea stessa che questo non possa essere sottoposto a critica altrimenti si è “distanti dal popolo”, “intellettualoidi”, nonché – immancabile per i lettori del bignami radical – “zdanoviani”. Una parabola che in realtà si è potuta vedere anche in occasione del concerto di Vasco Rossi lo scorso primo luglio. Anche qui, del fatto in sé (cioè del concerto e di Vasco) ci interessa poco. Ma la gazzarra scatenatasi al primo accenno di critica, qualsiasi essa fosse, lascia interdetti. Chiunque avesse avuto l’ardire di sollevare il minimo punto di vista alternativo a quello della massa dei credenti, veniva ignominiosamente espulso dal novero degli esseri umani, appartenente di fatto all’élite, anzi, alla casta, qualsiasi essa fosse: dei “politici”, degli “intellettuali”, o magari alla casta degli zdanoviani, l’unica probabilmente ancora prospera e intoccabile.

Eppure questo bisogno collettivo e trasversale di aggrapparsi a qualche certezza “nazional-popolare” (mai termine fu più abusato e ingiuriato) sconfina in questa sorta di ri-sacralizzazione dell’orizzonte narrativo pubblico. L’idea che questa sacralizzazione funziona solo in quanto trasversale, ambigua, pacificante, e proprio per questo da sottoporre a critica chiunque venga investito di tale beatificazione post-mortem, non scalfisce le certezze di questo “popolo” “finalmente libero” di scegliersi i suoi santi e eroi. Non incrina tale certezza neanche il fatto che questi santi siano tali solo perché così presentati da quel circuito culturale-mediatico che abolendo falsamente il sacro in realtà lo riproduce costantemente sotto altre forme. Questi eroi sono tutto fuorché “popolari”, men che meno frutto di processi mitopoietici che li impongono all’attenzione del grande pubblico. Vengono, al contrario, prescritti dall’alto, ma presentati come genuinamente “dal basso”. E’ così che va il mondo, potremmo aggiungere, se non fosse che ormai a cadere per prima in questo insano bisogno di sacro è gran parte di quella sinistra culturale definitivamente inchinata di fronte alle beatificazioni mainstream. Scambiando il mainstream con il popolare, i primi guardiani dell’ortodossia (un tempo, almeno, esercitata, oggi subita) sono coloro che a parole menano vanto di combatterla. Fungendo così da megafono (peraltro gratuito) per ogni indegna operazione di egemonizzazione capitalistica del proprio orizzonte culturale.

Si potrebbe fare un facile confronto, leggendo il modo in cui alcuni giornali di destra, quindi non sospettabili di assecondare le velleità progressiste dei loro lettori, hanno trattato la scomparsa di Villaggio con la figura di De André. Viene presentata l’amicizia tra Villaggio e De André come prova della precoce genialità del Villaggio stesso: «Villaggio, nato a Genova da una famiglia altoborghese, aveva già mostrato di che (ottima) pasta era fatto, scrivendo in combutta con l’amico e complice degli anni giovanili Fabrizio De André, l’irresistibile testo della canzone Carlo Martello ritorna dalla battaglia di Poitiers. Un irriverente brano di stampo goliardico, che fece fremere di sdegno i benpensanti» (qui). Peccato che sono gli stessi giornali che hanno tentato di demolire quotidianamente l’opera del cantautore genovese, presentato come «il Dio dei bamboccioni», un «ribelle di regime», spiegandoci che «ci sono voluti oltre quarant’anni per infrangere uno dei più granitici tabù del sistema musicale italiano: Fabrizio De André non è il mito che ci hanno fatto credere dopo la morte» (qui). Ecco, questi stessi giornali oggi edificano il mito trasversale di Villaggio (anche) perché «amico di De André», fatto questo che al contrario dovrebbe insospettire i lettori del Giornale ma che, nella costruzione artificiosa e beatificante, scompare in una pappa falsamente “nazional-popolare”, in realtà rigidamente disciplinata.

Neanche un anno fa moriva Dario Fo, altro mito popolare – al pari di De André. Ma proprio perché la “mitizzazione” di Dario Fo era imposta, e non subita, dalle classi popolari, ecco che Libero, lo stesso giornale che oggi glorifica Paolo Villaggio, si trovava afono e spiazzato, tanto da ricordarlo così: «lo smemorato della Repubblica». Col corpo ancora caldo, quando persino la platea clericale dei suoi lettori avrebbe ceduto al tic della misericordia, Libero non poteva far altro che insultare la memoria del grande attore e regista milanese. Perché Dario Fo, come Fabrizio De André, non riesce ad essere pacificato, dato che la loro “sacralizzazione” non è proceduta dall’alto verso il popolo, quindi disciplinata, ma il suo contrario, dunque ingestibile. Sono due esempi prossimi a Paolo Villaggio: De André perché costantemente tirato in ballo in questi giorni, Fo perché recentemente scomparso. Ma se ne potrebbero fare di altri, il discorso non cambierebbe. Questa discrasia, lungi dall’essere colta, viene anzi rigettata al mittente col solito corollario di bestialità “anti-intellettualistiche”. Rimane la domanda del perché permanga questa urgenza del sacro, sebbene declinata in funzione pacificante. O forse proprio per questo.

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