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30/08/2017

Analisi - L'iraq post ISIS e il referendum curdo

di Pietro Pasculli

Dopo l’annuncio della liberazione di Mosul lo scorso 9 luglio, celebrata il giorno seguente dal Primo Ministro iracheno Haidar al Abadi con un breve discorso alla Tv di Stato, l’emergenza è ancora lontana dal potersi definire conclusa. Se nella parte Est della città la vita riprende in modo graduale, la parte Ovest dopo nove mesi di battaglia è ridotta ad un cumulo di macerie. Oltre agli insormontabili problemi della ricostruzione, sono ancora in atto le operazioni di bonifica del territorio dalla costellazione di mine e bombe trappola lasciate dai miliziani, le quali continuano a causare vittime oltre che tra i civili anche nelle fila degli artificieri.

Il 21 agosto alle 8.52 ora locale, con un messaggio del leader iracheno allo Stato Islamico “o ti arrendi o muori”, sono cominciate le operazioni di liberazione di Tal Afar. La città turkmena, situata nella parte nord occidentale dell’Iraq a 70 km da Mosul è infatti sotto il controllo delle milizie del Califfato dal 2014 in quanto snodo fondamentale per l’accesso in Siria.

L’operazione intitolata “stiamo arrivando a Tal Afar” è stata affidata ad uno degli eroi della battaglia di Mosul, il generale Abdulamir Rashid Yarallah, coadiuvato dalle forze anti terrorismo, la polizia federale, l’esercito iracheno e dalle forze sciita  Hashd al-Shaabi nonostante la forte opposizione della Turchia. L’attacco incrociato terra aria, ha portato alla liberazione di diversi villaggi già nella prima giornata. Circa 30.000 civili hanno abbandonato il territorio, mettendosi in cammino per più di 10 ore in modo da raggiungere i centri di raccolta.

Ad oggi 27 dei 40 villaggi che circondano la città sono tornati nelle mani delle forze irachene, per quel che riguarda invece la conclusione delle operazioni a Tal Afar City, nonostante si fosse parlato di diverse settimane in quanto una stima tra i 10 ed i 50 mila civili ancora intrappolati all’interno della città avevano scoraggiato un uso massiccio dell’aviazione; nella giornata di domenica 27 agosto, ad otto giorni dall’avvio delle ostilità, le forze alleate hanno annunciato di aver preso il pieno controllo della città. Intanto secondo i vertici militari dall’inizio delle ostilità più di 100 miliziani sarebbero stati uccisi nelle operazioni di liberazione.

Le cose non vanno meglio a Kirkuk capitale dell’omonimo governatorato situata a 98 km a sud ovest di Erbil. Dopo la caduta di Mosul, lo Stato Islamico ha infatti trasformato l’area di Hawija comprendente la zona meridionale dei monti Hamrin in una base per i suoi guerriglieri. Le forze curde si trovano a fronteggiare quasi quotidianamente i numerosi attacchi delle milizie jihadiste, i più frequenti nel distretto di Doquq a sud di Kirkuk. Diversi Peshmerga hanno già perso la vita negli scontri a fuoco, ma ad oggi ogni tipo di attacco è stato comunque respinto.

L’area è fortemente compromessa e rischia di esplodere, come la bomba che il 15 agosto ha lasciato a terra cinque civili. Gli uomini di Barzani sono gli unici a presidiare l’area ma tali forze non sono sufficienti. Nonostante le difficoltà nel contenere gli attacchi, il governo di Baghdad ha infatti preferito investire tutte le sue forze a Tal Afar, causando ulteriori tensioni con Erbil.

Il paese è nel caos. Da quando Abu Bakr al Baghdadi ha dichiarato la nascita del califfato nel 2014 con la presa di Mosul, lo Stato Islamico è riuscito a rubare 830 milioni di dollari alle banche e riserve irachene secondo un rapporto della Banca Centrale; senza contare le confische alla proprietà e lo sfruttamento dei giacimenti di petrolio. Alle difficoltà della ricostruzione, le spese di guerra ed i gravissimi problemi in materia di acqua e elettricità, il governo iracheno si trova ad affrontare un emergenza di sfollati interni (IDPs) che dal 2014 ad oggi ha raggiunto la cifra di 3.3 milioni di persone secondo i dati forniti da Lise Grande, responsabile umanitaria delle Nazioni Unite in Iraq in una conferenza stampa l’8 agosto a Ginevra.

Del milione di persone scappate alla battaglia di Mosul, 20mila non hanno ancora fatto rientro nella parte est. Per quel che riguarda invece i 230mila abitanti dei 15 quartieri completamente rasi al suolo nella parte occidentali della città ed attualmente residenti nei campi profughi di Dahuk e Kurdistan iracheno, le possibilità di un rapido rientro a casa sono molto scarse.

Nell’area di Tal Afar si contano circa 50mila persone scappate dall’inizio di aprile, esodo che cresce di giorno in giorno con l’intensificarsi delle ostilità. Ancora poco chiara è invece la stima dei rifugiati che hanno superato i propri confini nazionali per stabilirsi nella regione. Un arcipelago di campi profughi si snoda da Dahuk a Bagdad, milioni di sfollati alla quale i “due governi” non riescono a dare risposta. Con il passare degli anni infatti, molti risedenti dei campi  hanno trasformato le proprie tende in piccole strutture in muratura maturando anche una micro economia interna. Servizi in materia di sanità, assistenza sociale e integrazione sono invece unicamente offerti dall’Unhcr e dalle ONG.

A complicare un quadro già abbastanza desolante, nelle ultime settimane si è aggiunta una profonda crisi politica tra Bagdad ed Erbil. Il 25 settembre infatti, con la ratifica del Referendum sull’Indipendenza dal governo di Bagdad avvenuta il 14 agosto, i curdi saranno chiamati alle urne per decidere se continuare a vivere nella stessa famiglia di Baghdad o “da buoni vicini”.

I curdi iracheni, dopo decenni di occupazione militare, torture ed uno sterminio culminato con il genocidio di Anfal ('86 – '89) sotto la guida di Saddam Hussein, erano riusciti ad ottenere una parziale autonomia sancita dalla nuova costituzione irachena del 2005; dieci anni di collaborazione però non hanno dato i risultati sperati. I rapporti già in fase di deterioramento nel 2014, quando l’allora primo ministro Maliki decise il taglio di bilancio al Kurdistan in seguito a violazioni sulle esportazioni di petrolio, sembravano essersi ristabiliti dopo la grande intesa sancita nelle operazioni di riconquista di Mosul.

Ma in un meeting del 16 agosto con il Presidente del Parlamento iracheno Salim al-Jabouri, una delegazione curda ha presentato come ragioni dell’Indipendenza una lunga relazione in cui venivano evidenziati i 50 articoli della Costituzione che Baghdad avrebbe violato in questi anni a danno dei curdi. Tra questi spicca l’annosa questione dei confini e dei territori contesi all’art. 140, i quali secondo la carta costituzionale si sarebbero dovuti risolvere attraverso un Referendum da attuarsi non più tardi del 2007.

Il governo di Erbil ha fatto sapere a tal proposito che la partecipazione al voto interesserà  aree a presenza curda anche se attualmente sotto la giurisdizione di Baghdad. Nelle prime settimane di agosto infatti sono stati aperti numerosi uffici elettorali nelle province di Nineveh, Mosul, Kirkuk, fino alla città curda di Khanaqin situata a circa 400 km a sud est di Erbil. In questo scontro, al momento, tutto politico, Kirkuk rischia di diventare la vera Gerusalemme.

Il governo di Baghdad ha preso accordi qualche giorno fa con Teheran per la costruzione di un oleodotto che colleghi il governatorato all’Iran nonostante l’opposizione del capo degli affari del consiglio provinciale della città. L’accordo infatti violerebbe l’articolo 112 della Costituzione irachena che prevede il consenso dei governi regionali in materia di sfruttamento delle risorse energetiche. Talabani, leader del partito curdo PUK, ha accusato il governo di Baghdad di attuare una politica dell’inganno, mentre lo stesso governatore della provincia esprimendosi in modo favorevole sull’estensione del referendum alle aree contese, ha rimproverato il governo iracheno per aver lasciato i curdi soli nell’affrontare le milizie del Califfato mentre lo Stato maggiore organizzava la ritirata.

Ma la faccenda rischia di diventare molto di più di una semplice contesa curdo irachena. L’Iran, secondo partner commerciale curdo dopo la Turchia, il 13 agosto ha fatto sapere ad una delegazione di Erbil arrivata nel paese per firmare un accordo da 200 milioni di dollari in scambi commerciali, che un esito positivo del Referendum procurerebbe “non buone risposte” da parte di Tehran. La Turchia invece, nonostante un oleodotto curdo che rifornisce di petrolio il porto turco di Ceyhan, si è espressa con toni molto più forti il 17 agosto attraverso le dichiarazioni del Presidente Erdogan ed il Ministro degli esteri Meylut Cavusogl parlando di possibile guerra civile con interessamento dei paesi confinanti.

Gli Stati Uniti hanno cercato più volte di far slittare la data del Referendum proponendo incontri bilaterali con i rappresentanti curdi dopo le aperture di dialogo da parte del governo di Baghdad, ma Barzani sulla possibilità di un rinvio si è dimostrato categorico. Unica voce fuori dal coro ad oggi risulta essere quella di Netanyahu, triste paradosso di chi si impegna da vent’anni in uno sterminio in casa propria, salvo poi farsi garante dell’autodeterminazione dei popoli fuori dai confini nazionali.

Intanto nonostante i pronostici parlino di una vittoria schiacciante del Si, il dibattito interno alla regione non esclude possibili sorprese. Tutto questo lo si avverte man mano che ci si lascia alle spalle i check point del partito giallo procedendo verso il sud della regione. Al clima militante della provincia di Erbil fatto di conferenze e manifestazioni, si oppone il mutismo di Sulaymaniyah, roccaforte del PUK, dove la campagna elettorale  viene lasciata alle sole bandierine che da qualche giorno hanno invaso la città. Infatti sono parecchi i curdi che, pur senza dimenticare le atrocità del passato e riconoscendo gli attuali problemi di collaborazione con il governo centrale, ritengono che in questo momento ci sia più che ma bisogno di un unità nazionale arabo-curda.

L’8 agosto una campagna di opposizione al Referendum dal nome “No for Now”è stata lanciata da membri della società civile e alcuni esponenti politici. Un movimento imbavagliato e privo di spazi di dialogo che ha visto il rapimento di uno dei suoi leader Farhad Sangawi compiuto da uomini armati nella mattinata del 20 agosto, salvo poi essere liberato poco più tardi; un atto condannato dal capo dell’ufficio del parlamento curdo e dal legislatore Soran Omer che ha definito il sequestro un “infarto” contro tutti i popoli della regione del Kurdistan.

Di certo, lo stesso governo di Erbil non è immune da problemi di cattiva gestione, corruzione e svolte anti-democratiche. Barzani infatti continua a governare il paese nonostante il suo mandato sia scaduto da un anno e mezzo. E’ di qualche giorno fa appunto la richiesta congiunta di PUK e Gorran, secondo partito all’ultima tornata elettorale, di riattivare il Parlamento prima dello spoglio referendario in modo da stabilire insieme tempi e termini di un eventuale processo di transizione, ma il governo di Erbil è stato irremovibile.

Lo Stato Islamico arretra, ma le battaglie in materia di diritti civili, politici e di autodeterminazione sono ancora distanti dal trovare un vincitore.

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