Presentazione


Aggregatore d'analisi, opinioni, fatti e (non troppo di rado) musica.
Cerco

24/08/2017

Il filo rosso che collega Giulio Regeni agli accordi sui migranti


articolo di Mattia Toaldo tratto da L’Espresso

C’è un filo neanche troppo invisibile che lega la decisione di rimandare l’ambasciatore italiano al Cairo e la politica italiana sull’immigrazione dalla Libia. È un filo con cui abbiamo deciso di legarci le mani quando abbiamo concluso che l’unica cosa che si può fare con gli immigrati è respingerli in Libia: e per parlare con un pezzo di Libia, bisogna parlare anche con l’Egitto.

Il primo snodo di questo filo sono le nostre politiche migratorie. Il flusso principale verso l’Italia parte dall’Africa Occidentale, passa per il Niger, quindi in Libia e poi nel Mediterraneo. Da quando due anni fa l’allora governo Renzi propose il “migration compact”, la Ue ha messo in campo una serie di politiche e di accordi con l’Africa sub-Sahariana in cui si mescolano soldi per lo sviluppo, crescita delle capacità di controllo dei confini e limitazioni all’immigrazione da parte di alcuni Paesi chiave. Il Niger è diventato il modello di questo approccio e infatti i flussi da questo Paese verso la Libia si sono drasticamente ridotti tra il 2016 ed il 2017: probabilmente è questa una delle ragioni principali del crollo degli arrivi in Italia a luglio (è bene ricordarlo: un crollo avvenuto prima della cacciata delle Ong e del protagonismo della Guardia Costiera libica). Ma questa strada di ridurre i flussi alla fonte evidentemente non bastava: dalla Libia continuava ad arrivare sempre più gente e il resto dell’Europa aveva chiuso i confini ai migranti.

L’Italia, su spinta soprattutto del ministro Marco Minniti, è quindi ricorsa a politiche molto più drastiche in Libia, che di fatto coinvolgono la Guardia Costiera nominalmente al servizio del governo di Faiez Serraj e il governo stesso. Serraj è riconosciuto in teoria da tutta la comunità internazionale, incluso l’Egitto, ma chi ha un rapporto privilegiato con lui e in genere con tutta la Tripolitania è l’Italia: unici ad avere l’ambasciata aperta a Tripoli, unici ad avere rapporti profondi addirittura a livello di sindaci, quasi gli unici a mandare imprese e delegazioni.

Lo schema Minniti è di bloccare i flussi non solo dal Niger ma anche dalla Libia. Per farlo, si rafforza la Guardia Costiera libica con navi italiane e addestramento Ue e le si permette di creare una zona di soccorso in mare (la sigla inglese è Sar, Search And Rescue). I migranti “salvati” in questa zona vengono riportati in Libia e non potranno mai chiedere asilo. Per attuare questo schema, si è chiesto a Serraj di fare un gesto che lui aveva in precedenza rifiutato: permettere una presenza italiana in acque libiche per “guidare” la Guardia Costiera locale verso i gommoni. Serraj ha fatto questa concessione ma è stato subito accusato dai suoi oppositori di aver svenduto la sovranità del Paese all’ex potenza coloniale.

E qui arriviamo al secondo snodo: gli oppositori di Serraj che sono anche amici dell’Egitto. Il Primo ministro di Tripoli è figura assai debole, non controlla direttamente quasi nulla e anche la Guardia Costiera è più che altro un arcipelago di milizie locali, in alcuni casi molto vicine ai trafficanti stessi. Dall’altra parte della Libia, tra Bengasi e il confine con l’Egitto, c’è invece un uomo molto forte: il generale Khalifa Haftar, nemico giurato degli islamisti e per questo beneficiario di armi e sostegno politico da parte del Cairo e degli Emirati Arabi Uniti. Haftar ha colto la palla al balzo della “concessione” di Serraj agli italiani per accusarlo di tradimento e minacciare l’Italia e le sue navi. Proprio negli stessi giorni sono apparsi sulla stampa italiana articoli in cui si diceva che, fatto l’accordo con Serraj, ne serviva uno con Haftar. La ratio era che se i gommoni non potevano partire dalla Libia occidentale, sarebbero partiti da quella orientale. Basterebbe dare uno sguardo alla cartina, vedere quanto è lontana la Cirenaica dalle nostre acque per capire che il rischio non è proprio immediato.

Si giunge quindi al terzo snodo: l’Egitto. Dall’omicidio Regeni i rapporti tra il Cairo e Roma si erano raffreddati e ancor di più dopo il ritiro dell’ambasciatore italiano. In molti, attorno a Minniti, dicevano che non si poteva gestire la Libia senza parlare con gli egiziani: e senza l’ambasciatore veniva a mancare il rapporto diretto e quotidiano. Questo argomento in favore della ripresa dei pieni rapporti diplomatici con l’Egitto è precedente ai fatti di questi giorni ma dipende in larga parte dall’approccio “securitario” dato al tema immigrazione.

Il filo che lega lo schema Minniti e l’Egitto è quindi il seguente: dobbiamo bloccare gli immigrati in Libia ma non potendo fare noi i respingimenti (sono vietati), appaltiamo il blocco ai libici; questi libici sono indeboliti e minacciati dai libici amici dell’Egitto; quindi dobbiamo riattivare i rapporti con l’Egitto.

In questo schema ci sono poche cose inevitabili ma una di queste è la scarsa solidarietà europea. Ce ne fu poca fin dai tempi dell’omicidio Regeni: basti ricordare la visita del presidente francese François Hollande al Cairo la settimana dopo il ritiro del nostro ambasciatore, con tanto di contratti miliardari proprio nel settore della Difesa da cui era scaturito l’omicidio. La scarsa solidarietà è continuata sul tema migranti, forzando la mano allo schema Minniti.

Eppure, in tutto questo, una politica alternativa sull’immigrazione è possibile. Ad esempio, una politica che proponga agli stati africani un patto: vi daremo dei visti per l’immigrazione legale se vi riprenderete chi emigra illegalmente. Per i profughi l’Unhcr ha proposto 20 mila posti legali in Europa ma l’Ue ha rifiutato. Queste politiche “salterebbero” la Libia perché chi emigra legalmente prende l’aereo, non i gommoni dei trafficanti libici. Ci renderebbero meno schiavi dei “fili” descritti qui sopra ma richiederebbero scelte coraggiose che mirino davvero, proprio come dice Minniti, a “gestire i flussi”. Gestire e regolarizzare, non bloccare.

A quel punto in Egitto potremmo mandarne anche due di ambasciatori. Perché il problema non è inviare un professionista il cui lavoro è tenere i rapporti con un altro Paese. Il problema è il mandato che ha quell’ambasciatore. Potremmo (anzi, dovremmo) spedirlo lì e chiedergli di ricordare ogni giorno al governo egiziano che vogliamo la verità sull’omicidio di Giulio Regeni. Ma saremo un po’ più liberi di dargli queste istruzioni quando ci libereremo dai fili descritti fin qui e ci doteremo di una politica diversa sull’immigrazione.

(L’autore, Mattia Toaldo, studioso di Medio Oriente e Nord Africa, è analista senior presso l’European Council on Foreign Relations a Londra)

Per approfondimenti sulla vicenda Regeni leggi l’articolo e traduzione di Senza Soste

Nessun commento:

Posta un commento