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01/08/2017

Una storia cinese

Accade a volte che la capacità intimistica e il respiro narrativo di un buon romanzo possano essere efficacemente riprodotti in una storia a fumetti. Talvolta, poi, una striscia può saper riassumere e rendere intelligibili interi processi storici, magari complessi. Solo raramente, tuttavia, una graphic novel riesce a ottenere l’uno e l’altro risultato. Da questo punto di vista, Una storia cinese di Li Kunwu e P. Ôtié è un caso emblematico.

La casa editrice Add ha pubblicato quest’anno il secondo dei tre volumi cui Li Kunwu ha dedicato molti anni della propria vita, e che al tempo stesso raccontano una storia familiare e una storia politica. Il punto di vista è sicuramente una prospettiva d’eccezione. L’autore infatti è figlio di un importante dirigente del Partito comunista cinese, militante della prima ora, e ha attraversato l’evoluzione della vicenda politica e sociale cinese, dalla fine degli anni Cinquanta alla dimensione dell’oggi.

Nel primo volume, intitolato Il tempo del padre, il piccolo Xiao Li muove i propri primi passi in una collettività che dona sé stessa al grande timoniere, rispetto al quale la sfera della vita familiare e quella scolastica costituiscono elementi di crescita collaterali, non cruciali. Il progetto di trasformazione sociale, della transizione dalla vecchia Cina feudale alla nuova cultura popolare e contadina, è presentato in tutta la sua durezza, ed è capace di travolgere molti nessi personali. Il più drammatico è la reclusione del padre in una scuola di rieducazione politica, dopo l’emersione di documenti che attestano una discendenza ascrivibile alla classe sociale dei proprietari terrieri.

Questo secondo volume, Il tempo del partito, racconta di un’adolescenza affettivamente isolata, ma anche di un ideale politico mai piegato. Il giovane Xiao Li vive l’esperienza della carriera militare, ma tutte le sue speranze sono concentrate nella possibilità di essere ammesso tra i quadri del partito (solo il 3% della popolazione cinese, negli anni Settanta, era iscritta al partito comunista). La famiglia è disgregata. La madre lavora in fabbrica, la sorella è nelle campagne per aiutare i contadini, il padre resta confinato a lungo, lontano da casa e dal proprio lavoro. Tuttavia, dopo la morte di Mao, e la condanna della “banda dei quattro”, accusata degli eccessi della Rivoluzione culturale, trova compimento la resa dei conti che porterà all’affermazione politica di Deng Xiaoping e della sua linea riformatrice. 

La famiglia del protagonista, nonostante le sofferenze patite, riesce a ricomporsi e a ritrovare sé stessa. Al netto dei torti subiti, nulla scalfisce nei protagonisti la fiducia nel partito e nella Cina. La famiglia che si ritrova, è in fondo una metafora della nazione.

È questo forse il nodo cruciale di Una storia cinese, che merita una breve riflessione. L’autore, che ha vissuto da vicino le drammatiche vicende della trasformazione di questo grande Paese, non ne nasconde le storture, gli errori (gravissimi), che hanno colpevolmente determinato la fame, la morte, l’umiliazione di milioni di esseri umani. Questa denuncia è certamente condotta con atteggiamento ironico, con un saper prendere la giusta distanza da simboli e sacralità politiche, e tuttavia senza mai far venir meno rispetto e fiducia nei confronti di quella grande azione collettiva che fu la Rivoluzione. Certamente fu un peccato la distruzione dell’arte antica, riconducibile all’epoca feudale. Fu triste assistere ai bambini che come esaltati andavano nei negozi a minacciare commercianti o nelle scuole a insultare i docenti declamando il libretto rosso. Così come folle appare la dinamica ossessiva con cui ciascuno denunziava pubblicamente i propri vicini per delle inezie. 

Tuttavia, questo è il punto, il fanatismo popolare e militante parrebbe cogliere il vero significato della nota affermazione secondo cui la rivoluzione non è un pranzo di gala. Significa che le masse spesso non discernono, e la forza d’impatto della rivoluzione consiste proprio in questo, nel concepire in modo dozzinale alcune parole d’ordine e spingerle all’estremo. Una volta stabilita la fiducia tra gruppo dirigente e masse, la parola del capo è legge, i cui effetti non sono però controllabili, né completamente prevedibili.

Per il resto vi è anche qualcosa di profondamente e schiettamente orientale, in tutto ciò, che per noi è piuttosto difficile da cogliere. L’assoluta fiducia in Mao e nel partito prosegue e si rafforza anche quando Deng sceglie una strada per perseguire l’emancipazione cinese attraverso parole d’ordine assai diverse, forse opposte, a quelle del grande padre. E allora qui l’intima affezione (e rispetto) per i propri familiari, diventa un unicum con quella più grande fratellanza che lega l’intera comunità cinese, che aspira senza esitazioni o dubbi alla grandezza, e che nutre nei confronti delle proprie istituzioni politiche, e dei propri leader, una fede profondamente radicata.

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