Presentazione


Aggregatore d'analisi, opinioni, fatti e (non troppo di rado) musica.
Cerco

03/09/2017

Casa, proprietà privata e legge. Magistratura nel pallone

Per una singolare coincidenza temporale, il presidente dell’Associazione Nazionale Magistrati, nonché – quattro anni fa – magistrato che richiese il sequestro preventivo dello stabile di Piazza Indipendenza, a Roma, teatro della violenta azione poliziesca arrivata sui media di tutto il mondo, è stato intervistato dal Corriere della Sera sullo scottante rapporto tra diritti e legalità.

Nella stessa giornata, noi ben più poveri giornalisti di Contropiano, pubblicavamo l’intervento del vicepresidente emerito della Corte Costituzionale, Paolo Maddalena, sullo stesso tema. In particolare proprio sulla questione del diritto ad avere un’abitazione in cui raccogliere la propria famiglia, in qualche misura indipendentemente dall’entità dal reddito.

Il titolo del Corriere è decisamente classista: Albamonte: «Dobbiamo tutelare il diritto alla proprietà. Noi non siamo toghe con l’eskimo». Dobbiamo dire che il discorso svolto dal giudice Albamonte è meno volgare e tranchant del titolo, ma il problema è squadernato in modo molto netto, e crediamo sia corretto riportarlo per intero, senza le inutili forzature tipiche delle citazioni:
«Il diritto alla casa non è rivendicabile davanti a un giudice, a differenza del diritto di proprietà, e noi da questo non possiamo prescindere. Anche perché c’è il rischio di una ulteriore deresponsabilizzazione della politica e della pubblica amministrazione, che invece sono chiamati a farsi carico, ad esempio, del diritto alla casa. La sicurezza sociale non può essere ridotta a un problema di ordine pubblico in capo alle forze dell’ordine, come dice il capo della polizia; allo stesso modo non si possono caricare sulla magistratura scelte che spettano alla pubblica amministrazione e agli enti locali».
In sostanza, Albamonte sposa l’impostazione istituzionale già esplicitata dal capo della Polizia, Franco Gabrielli, intervistato pochi giorni fa dallo stesso giornalista – Giovanni Bianconi, sicuramente una delle firme più lucide e indipendenti su temi scivolosi come questo. In buona sostanza: i problemi sociali debbono essere affrontati e risolti dalla classe politica (governo e amministrazioni locali), ai magistrati compete esclusivamente il controllo della legalità positiva (le leggi che esistono in questo momento), così come alla polizia spetta solo il compito di far rispettare le decisioni della politica e le sentenze della magistratura.

In questo non c’è nulla di reazionario, dobbiamo dire, si tratta della pedissequa riproposizione dello schema liberal-democratico astratto. Semmai, si evidenzia in entrambi i casi una esplicita insofferenza per una classe politica ignobile che – non sapendo o volendo affrontare i problemi sociali – li scarica addosso a polizia e magistratura. Obbligando la prima a prendere decisioni “politiche” in materia di ordine pubblico (e, se ci sta di mezzo il commissario “spezzabraccia”, succede un disastro), e la seconda a forzare l’interpretazione dei testi legislativi per non far esplodere il contenuto delle leggi – questo sì, molto spesso socialmente reazionario e classista – di fronte a sofferenze sociali che solo una bestia può far finta di non vedere.

Il titolista del Corriere – dovrebbe esser noto che nei giornali più grandi è un mestiere a parte, che spesso passa sopra il testo degli articoli – coglie però la contraddizione non detta di questa astratta “correttezza istituzionale” di Albamonte per piazzare la propria impostazione ideologico-padronale: “il diritto alla proprietà” è l’unico diritto garantito dalla legislazione esistente, dunque è anche l’unico che la magistratura (e la polizia) devono difendere.

E in effetti la legislazione esistente non prevede in nessun luogo un diritto alla casa. Un “legalitario” ottuso, o un reazionario conseguente (finiscono per coincidere, sapevatelo...), ne può trarre dunque la conclusione che le occupazioni di immobili, a qualunque fine (abitativo, sociale, culturale, ecc), sono “semplicemente dei reati che vanno perseguiti”. Un politico di media intelligenza, di qualsiasi orientamento ideologico, sa invece che è suo preciso compito comprendere il modificarsi o il venire alla luce di bisogni sociali irrisolti o di nuova formazione, predisponendo gli strumenti legislativi e amministrativi per affrontarli.

L’esempio delle occupazioni di case a fini abitativi, a Roma, torna davvero utile. Si tratta di una pratica sociale esistente di fatto dalla Liberazione in poi, sostenuta prima da Cgil e Pci, poi soprattutto dai gruppi extraparlamentari di sinistra (i fascisti hanno occupato degli immobili a loro volta, ma per tutt’altri scopi, molto più “privati”), infine da movimenti specifici. Stiamo parlando, attualmente, di circa 5.000 persone abitanti in stabili occupati. Una goccia nel mare dei 3 milioni di residenti nella capitale, specie a fronte dei 200.000 appartamenti vuoti censiti dagli specialisti. Sindaci come Petroselli, Argan, Vetere, ma anche qualcuno meno intelligente, risolvevano un problema di queste dimensioni una volta al mese, a dir poco. Qui, dopo quattro anni e tre amministrazioni, siamo magicamente al punto di partenza, con 800 persone buttate per strada.

Le responsabilità della politica – nazionale e locale – sono evidenti. A sentire le varie dichiarazioni: a) non si possono costruire nuove case popolari perché le regole europee lo impedirebbero (Francia e Germania vantano una quota di edilizia residenziale pubblica vicina al 40%, l’Italia è scesa sotto il 2); b) non si possono requisire immobili invenduti dei palazzinari perché “bisogna rispettare la proprietà privata”; c) per lo stesso motivo, non si possono consentire le occupazioni. Messa così, non solo non esiste una soluzione possibile per un’”emergenza abitativa” di piccolissime dimensioni, ma nessuno ha il compito di risolvere il problema. “Devono sparire”, riassumeva il sempre sbrigativo “commissario Spezzabraccia”.

Albamonte (e prima di lui Gabrielli) provano a rompere il giochino, rifiutando il carico che la classe politica getta loro addosso ogni giorno in tutto il paese.

Ma lo fanno in un quadro concettuale e politico che di fatto li porta – volenti o nolenti (e Albamonte risulta addirittura un esponente di Magistratura democratica) – nel campo della reazione.

Perché al di sopra della legge esistente (l’insieme delle leggi approvate) c’è la Costituzione nata dalla Resistenza. La quale, come ricorda Paolo Maddalena, a differenza dello Statuto albertino, che tutelava i poteri del proprietario privato, tutela innanzitutto e soprattutto la “dignità della persona umana”, e, quindi, “i diritti inviolabili dell’uomo, sia come singolo, sia come membro delle formazioni sociali ove si svolge la sua personalità” (art. 2 Cost. che, si badi bene, parla di “uomo” e quindi non solo di “cittadino”)”.

Scrivere, come fa l’anonimo titolista del Corriere, in parte avallato da Albamonte, che l’unico diritto da difendere sia quello della “proprietà privata”, ci riporta appunto indietro di un secolo (alla faccia della “modernità”...), ossia a quel “modello sabaudo” che vien fuori da ogni decisione politica e poliziesca di questi tempi.

In pratica, ricorda Maddalena, questa classe politica opera come se fosse stato cancellato l’art. 41 della Costituzione, secondo il quale: “l’iniziativa economica privata è libera. Non può svolgersi in contrasto con l’utilità sociale o in modo da recare danno alla sicurezza, alla libertà, alla dignità umana”.

In punta di diritto, dunque (ed è paradossale che tocchi a dei militanti comunisti doverlo ricordare al presidente dell’Anm), se è vero che “Il diritto alla casa non è rivendicabile davanti a un giudice”, quello stesso magistrato ha tutta l’autorità e gli strumenti per interrogare la Corte Costituzionale sulla assurda situazione in cui si è venuto a trovare: quella di dover “tutelare un diritto” – costituzionalmente garantito, ma purché non rechi danno alla sicurezza, alla libertà, alla dignità umana – calpestandone però molti altri che sono pure garantiti dalla Costituzione, ma non dalle leggi esistenti.

La posizione di Albamonte e Gabrielli, al dunque, diventa quella di Ponzio Pilato. Ne sono comprensibili le ragioni (chiamare “la politica” alle proprie responsabilità), ma sicuramente non le modalità e le conseguenze.

Su questo lasciamo volentieri la parola al costituzionalista Maddalena:
l’art. 2 Cost. oltre a “riconoscere e garantire” i “diritti inviolabili dell’uomo” (tra i quali c’è il diritto all’abitazione: vedi l’art. 47 Cost., letto secondo l’interpretazione da tempo data dalla giurisprudenza costituzionale), impone anche “doveri inderogabili di solidarietà politica, economica e sociale”, per cui, nel caso in esame, l’Autorità competente si trova a dover stabilire se far prevalere l’interesse economico della multinazionale che vuole sempre maggiori guadagni, oppure la “dignità di persone” economicamente debolissime, senza la minima possibilità di procurarsi un alloggio e in uno stato di necessità, assolutamente inconfutabile. La risposta, ovviamente, è insita nella stessa proposizione del problema.
Ogni organo dello Stato, insomma, dovrebbe esser consapevole di questa perenne tensione tra norme costituzionali e leggi esistenti. Limitarsi a dire “il mio compito è solo questo” (rispettando dunque solo il dettato formale della legge) è già un muoversi su un terreno anti-costituzionale. Per essere più chiari: “a termine della vigente Costituzione repubblicana, non è giuridicamente possibile gettare intere famiglie sulla strada, per tutelare un presunto diritto di una multinazionale a compiere attività puramente lucrative”. Milena Gabanelli può non saperlo, Albamonte deve.


Non si tratta dunque di indossare l’eskimo o la grisaglia, ma di mantenere in vita la dignità morale dell’essere che ci cammina dentro. Infondo, ricordiamo sempre, anche le leggi razziali fasciste e i campi di concentramento nazisti erano “perfettamente legali”. Ma non per questo chi li gestiva venne perdonato dalla Storia e dagli uomini.

Fonte

Nessun commento:

Posta un commento