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22/09/2017

Catalogna: comunque vada, Madrid ha già perso

Pochi giorni fa era stato lo stesso primo ministro spagnolo ad annunciare l’incrudimento della repressione con una frase alla quale pochi media internazionali hanno dato risalto: “Non costringeteci a fare ciò che non vogliamo fare”.

Il governo di Madrid avrebbe potuto tentare di bloccare la road map indipendentista proponendo una via d’uscita di tipo politico. Rajoy avrebbe trovato una sponda entusiasta nei socialisti e nella stessa Podemos se avesse proposto a Barcellona una riforma del grado di autonomia della Comunità Autonoma Catalana (quella stessa negata solo pochi anni fa). Così facendo i nazionalisti spagnoli avrebbero aperto delle consistenti crepe nello schieramento indipendentista catalano, agganciando quella parte del PDeCAT che farebbe volentieri a meno del muro contro muro e preferirebbe continuare a galleggiare in una situazione – l’autonomia all’interno dello Stato Spagnolo – che ha fatto a lungo le fortune dei liberalconservatori di Barcellona.

Una parte consistente, anche se forse non maggioritaria, dello schieramento nazionalista catalano è stato infatti condotto ad abbracciare la rivendicazione del distacco da Madrid da anni di mobilitazione popolare e dalla pressione di una sinistra indipendentista e radicale che ha vissuto una forte crescita negli ultimi anni. Per decenni il partito della piccola e media borghesia catalana, Convergenza Democratica, recentemente trasformatosi in Partito Democratico Catalano, ha sfruttato le rivendicazioni indipendentiste per ottenere da Madrid il monopolio del potere a livello locale. In cambio del sostegno ai governi dei partiti nazionalisti spagnoli e dell’argine opposto alle mobilitazioni e alle richieste autenticamente indipendentiste, il partito dell’imprenditore Jordi Pujol e poi di Artur Mas ha potuto gestire indisturbato gli affari locali anche attraverso metodi clientelari e un elevato grado di corruzione. E’ contro le sue politiche liberiste e autoritarie e contro la corruzione dei suoi leader, oltre che contro i tagli feroci al welfare della troika gestiti da Madrid, che il movimento popolare catalano è cresciuto, rafforzando la sinistra indipendentista e l’associazionismo catalanista.

L’equilibrio politico e sociale inaugurato grazie al patto che portò alla Costituzione del 1978 si è rotto negli anni scorsi: non solo il movimento nazionalista catalano si è spostato notevolmente a sinistra, ma ha abbracciato la rivendicazione indipendentista con determinazione, spiazzando i dirigenti del partito liberal-conservatore obbligati ad adeguare la propria posizione per non essere scavalcati. Nonostante il cambio di paradigma, i centristi del President Puigdemont continuano a perdere consensi, ampiamente superati nei sondaggi da Esquerra Republicana (sinistra nazionalista socialdemocratica) e pungolati dalle sinistre anticapitaliste federate nelle Canditature d’Unità Popolare (Cup). Un’apertura da parte di Madrid avrebbe potuto, come già detto, indebolire il fronte referendario e quanto meno rimandare lo scontro di parecchi anni, favorendo il rafforzamento dei settori regionalisti/autonomisti rispetto alle forze autenticamente indipendentiste e di sinistra.

Ma il Regno di Spagna, erede della dittatura di Franco e prima ancora di Primo de Rivera, non è né l’Inghilterra né tantomeno il Canada. Il nazionalismo spagnolo sciovinista non ha mai smesso di rappresentare il principale argomento di adesione e di identificazione dell’opinione pubblica media spagnola, agitato come una clava contro l’insorgenza basca ed ora contro le spinte emancipatorie catalane. Non solo il Partito Popolare erede della Falange, ma anche Ciudadanos e buona parte dei socialisti non possono rinunciare ad una visione nazionalista aggressiva. Non solo perché la considerano fondamentale per la propria identità politica, ma anche perché essa è redditizia dal punto di vista politico-elettorale. Un cedimento ‘strategico’ del PP nei confronti delle rivendicazioni di baschi e catalani potrebbe costare assai caro a Rajoy con un crollo netto dei consensi e forse la nascita di una forza politica consistente alla propria destra. Il nazionalismo spagnolo è al tempo stesso la benedizione della classe politica spagnola, in quanto ne ha sostenuto le sorti deviando l’attenzione della popolazione dai problemi sociali ed economici ai misfatti dei terroristi. Ma anche la sua maledizione, in quanto le impedisce di trovare una soluzione non traumatica e concordata con Barcellona e Bilbao.

La chiusura, l’intransigenza, il muro contro muro di Madrid e delle sue istituzioni nei confronti delle rivendicazioni catalane hanno ottenuto l’effetto opposto rispetto a quello dichiarato: hanno compattato il fronte nazionalista catalano subordinando la posizione dei regionalisti/autonomisti a quella degli indipendentisti. Di più, la repressione scatenata negli ultimi giorni ha obbligato le forze federaliste catalane e spagnole – principalmente Podemos e i partiti di centro-sinistra che fanno riferimento alla sindaca di Barcellona Ada Colau – ad avvicinarsi al fronte indipendentista, pur non condividendo la parola d’ordine della disconnessione e della disobbedienza, e in ultima istanza dell’indipendenza. “Non è questione di indipendenza o meno, è questione di democrazia e di libertà” vanno ripetendo negli ultimi giorni i collaboratori di Iglesias e Colau. A mobilitare settori sociali sempre più ampi e trasversali – secondo i sondaggi l’80-85% dei catalani – non è neanche più la richiesta di indipendenza in sé, quanto la volontà di poter votare, dire la propria, decidere.

Addirittura pezzi consistenti del Partito Socialista Catalano, che negli anni scorsi ha perso già consistenti compagini andate ad ingrossare lo schieramento indipendentista o federalista, ha accentuato le proprie critiche non solo nei confronti di Rajoy ma della propria stessa casa madre di Madrid troppo tollerante con le esibizioni muscolari del PP.

Forse i blitz della Polizia Spagnola in Catalogna hanno inferto un durissimo colpo alla macchina elettorale predisposta dalla Generalitat, forse gli indipendentisti non saranno in grado di far votare milioni di cittadini in una condizione di vera e propria occupazione militare del territorio catalano. Forse arresti e sequestri non permetteranno ai catalani di poter decidere. Ma in ogni caso la brutale repressione messa in campo da Rajoy con la complicità di Psoe e Ciudadanos e l’entusiasmo degli ambienti più reazionari daranno ragione agli indipendentisti. L’uso della forza bruta da parte di Madrid dimostra la completa incapacità da parte della classe dirigente nazionalista spagnola di tenere dentro la Catalogna attraverso la condivisione di un destino comune, la cooptazione, la persuasione. Comunque vada a finire, a prevalere sarà la forza e non la democrazia, e un progetto nazionale esclusivista tenuto insieme nell’ultimo secolo da ben due dittature e dall’autoriforma del regime franchista – con la creazione del “Regime del ‘78” – avrà perso ogni residuo di legittimità non solo agli occhi dei catalani, ma anche delle altre nazionalità che nella gabbia rappresentata dal Regno di Spagna si sentono imprigionate.

Se non si capisce come e perché si è arrivati alla convocazione di un referendum che costituisce un atto di rottura nei confronti della legalità dello Stato Spagnolo e la creazione di un contropotere non si può che dare una lettura sbagliata degli eventi.

I consueti giudizi in voga in una sinistra ideologica quanto distratta e disinformata – “I catalani sono come i leghisti”, “I catalani se ne vogliono andare perché sono ricchi” – non si basano su alcuna seria analisi concreta, storica e politica.

A livello politico la “questione catalana” – che poi è la questione di uno Stato Spagnolo frutto di un processo di costruzione nazionale incompleto e quindi autoritario – ha una genesi ottocentesca che a sua volta ha origini assai più antiche. Niente a che vedere con le assai recenti rivendicazioni autonomiste messe in campo negli ultimi decenni dalla media e piccola borghesia di alcuni territori europei, che stritolata e indebolita dal processo di globalizzazione capitalistica e dalla tendenza continentale alla gerarchizzazione e alla concentrazione della ricchezza e del potere tenta di ritagliarsi una zona franca agganciandosi al carro tedesco. Da questo punto di vista – ne abbiamo già scritto – le vicende che hanno portato alla convocazione dei referendum per una maggiore autonomia in Veneto e Lombardia (presto potrebbe aggiungersi l’Emilia Romagna) sono di segno completamente opposto a quanto accade in Catalogna. E’ vero, certo, che una parte dei catalani aspira all’indipendenza perché pensa così di sottrarre le proprie risorse alla redistribuzione nei confronti dei territori più depressi prevista nel quadro dello stato unitario spagnolo. Ma è vero anche che la maggior parte degli indipendentisti non condividono questa visione egoistica, e che il movimento di emancipazione nazionale catalana ha un segno progressista, inclusivo, solidarista, frutto della forza e del radicamento delle forze di classe, dei sindacati e della tradizionale combattività popolare. Al contrario, i promotori dei referendum lombardo-veneti tentano di approfittare dell’operazione d’ingegneria territoriale e istituzionale avviata decenni fa dalla Germania ed estesa all’Unione Europea nel tentativo di ridisegnare i paesi del continente sulla base delle proprie esigenze economiche e strategiche. Una maggiore autonomia dal punto di vista amministrativo ed economico nelle regioni che da sole producono un’importante quota del Pil italiano e la maggior parte dell’export è perfettamente in linea con l’esigenza da parte di Berlino e Bruxelles di integrare direttamente alcuni territori interessanti e appetibili di altri stati all’interno del proprio meccanismo diretto di governance, lasciando a sé stesse le regioni meno appetibili (ad esempio un mezzogiorno italiano i cui confini si spostano sempre più a nord...). Al contrario la rottura della Catalogna con lo Stato Spagnolo crea instabilità sia per Madrid sia per Bruxelles, che infatti conferma, seppur con sfumature diverse a seconda dei vari leader e dei vari paesi, il proprio sostegno a Rajoy e all’inviolabilità delle frontiere. L’Ue preferisce di gran lunga una ricca Catalogna autonoma dentro lo Stato Spagnolo che la spaccatura tra Barcellona e Madrid.

Da questo punto di vista alcune dichiarazioni sibilline della diplomazia di Washington – “lavoreremo con il governo o l’entità che sarà legittimata dal referendum” ha detto la portavoce del Dipartimento di Stato Heather Nauert lo scorso 14 settembre – dimostrano l’interesse statunitense per un potenziale indebolimento dell’Unione Europea derivante dall’indipendenza catalana.

Se nel caso delle regioni autonomiste del Nord Italia la rivendicazione leghista è frutto della mobilitazione e dell’espressione di una sola famiglia politica, nel caso catalano la mobilitazione indipendentista è trasversale e rappresenta l’aspirazione di un popolo intero.

Di più: se nel caso lombardo-veneto le classi imprenditoriali locali sono le promotrici del processo di autonomizzazione che potrebbe valorizzarne e rilanciarne il ruolo all’interno di una filiera economica europea sempre più centralizzata, in Catalogna la grande e media borghesia sono decisamente ostili al fronte indipendentista e al referendum del 1 ottobre, considerandolo un ostacolo alla propria integrazione all’interno della borghesia spagnola che le garantisce potere e proiezione internazionale (ad esempio nelle ex colonie latinoamericane). Le dichiarazioni di fuoco della Confindustria catalana contro la ‘secessione’ sono in questo senso più che esplicite e rimuoverle dal dibattito rappresenta un grave errore. Non si può rimanere indifferenti quando la quasi totalità dei sindacati catalani, compresi quelli di tradizione spagnolista, si schierano contro lo Stato, o quando migliaia di lavoratori portuali dei porti di Barcellona e Tarragona boicottano il dispositivo repressivo messo in campo da Madrid in Catalogna.

Mettendo insieme il ruolo della sinistra indipendentista nel processo di emancipazione nazionale del popolo catalano, l’ostilità della borghesia catalana nei confronti dell’indipendenza, la forte tradizione di mobilitazione democratica e antifascista di Barcellona, gli oggettivi problemi che la secessione da Madrid creerebbe ad uno stato autoritario e corrotto, per non parlare dell’instabilità prodotta all’interno dell’angusto quadro rappresentato dall’Unione Europea, non si può che dare un giudizio positivo delle spinte emancipatorie del popolo catalano. Schierarsi con lo status quo in nome della legalità – che è frutto di rapporti di potere e ha spesso poco a che fare con la giustizia – sarebbe un gravissimo errore, a maggior ragione per quelle forze che si richiamano al cambiamento e al progresso sociale. La vicenda catalana potrebbe rappresentare un’ottima opportunità, per la sinistra e i comunisti, di affrontare con serietà il tema della questione nazionale, partendo dall’analisi concreta della situazione concreta.

Le rivendicazione nazionali non solo sono ancora vigenti anche e soprattutto all’interno delle frontiere dell’Unione Europea e dello stesso stato italiano, ma a causa della crisi economica e della perdita di legittimità dei meccanismi di democrazia formale travolti dal processo di centralizzazione europea riprendono vigore e diventano formidabili strumenti di mobilitazione sociale e politica. Nascondere la testa sotto la sabbia o schierarsi dalla parte degli stati contro i popoli non servirà a nulla, se non a rendere la sinistra ancora più ininfluente e inutile.

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