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13/09/2017

Il classismo nascosto delle prove Invalsi

“Del resto mia cara, di che si stupisce, ormai l’operaio vuole il figlio dottore...” Mai avrei detto che ci sarebbe voluto così poco tempo per ritornare indietro così in fretta.

Quando l’Invalsi, istituto nazionale preposto alla valutazione dei risultati dell’istruzione scolastica, mosse i primi passi, non partii prevenuta. Facevo già la maestra elementare da una decina d’anni e osservai con curiosità “l’innovazione”. Urge il virgolettato perché altro non è che una scopiazzatura del sistema anglossassone, che da un bel po’ lo sta rivedendo, accompagnato dalla colonna sonora delle continue proteste del mondo dell’istruzione.

Ma si sa, a volte noi italiani siamo degli artisti nell’importare gli scarti altrui, sia mai che importiamo le cose buone poi, che ci sarebbero anche...

Negli anni ho potuto toccare con mano i limiti della pratica Invalsi, più di una volta ne ho constatato l’inefficacia come metodo oggettivo di valutazione, tanto più che il nostro sistema, retto ancora da indicazioni nazionali, ne contraddice appieno la finalità.

Detto in soldoni: ha senso che io sproni senso critico e pensiero in soggetti che saranno valutati con risposte multiple? Tutto ciò per dire che mi ero abituata a tutto, e ogniqualvolta alla mia classe spetterebbero tali prove, le boicotto con lo sciopero. Non comprendendo, in realtà, come mai il Ministero continui a cercare di imporre qualcosa che la scuola stessa rigetta.

Poi scopri che chi decide le sorti degli studenti italiani è un ente parallelo al ministero, con 45 impiegati (quasi tutti precari), che fa capo a chissachì, commissariato da anni, locato in una villa di Frascati che costa all’erario 259 mila euro l’anno e al quale si trova sempre, nel Def, un finanziamento di qualche milioncino. Ma tant’è.

La scoperta a mio avviso più raccapricciante la faccio comunque un paio d’anni fa. Quando, dopo vent’anni di quartieri popolari, insegno in un quartiere benestante, frequentato da benestanti. Durante una riunione si leggevano i risultati delle prove svolte e, nell’illustrazione dei parametri si faceva riferimento al fatto che tale scuola venisse valutata alla stregua di altre scuole d’Italia, anch’esse benestanti.

Rabbrividisco. Mi alzo indignata, ribatto. Mi si guarda come se fossi una marziana. Mi si spiega che non era un’iniziativa locale ma uno dei parametri adottati a livello nazionale...

Ebbene sì. È così. Se si va sul sito dell’istituto non si trovano i parametri e certamente saranno stati pensati per garantire diritti, ma che tristezza infinita fa, da fuori, da insegnante, vedere i ricchi valutati con i criteri da ricchi confrontati solo con altri ricchi e i poveri con i loro simili. Il sud col sud, il nord col nord.

Mi risuonano nelle orecchie le parole di “Contessa” di Pietrangeli. Va bene che ormai ci facciamo dettare le riforme dalla Fondazione Agnelli, va bene che ormai finanziamo le private con soldi pubblici, ma questa m’ha fatto più male di tutte.

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