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25/09/2017

Sabra e Chatila 35 anni dopo: appunti di un viaggio nell’ingiustizia

Il massacro di Chatila ebbe inizio alle 5 di sera del 16 settembre 1982 ed ebbe termine all’una di pomeriggio del 18 settembre. Andò dunque avanti, senza interrompersi, per oltre 45 ore. Il numero totale delle vittime assassinate e di quelle scomparse nel nulla fu di circa 3.000.

Chatila rappresenta il vero sionismo.

Oggi Chatila, 1 Kmq per 22.000 abitanti, “non luogo” di tutti i poveri del mondo (palestinesi, siriani, irakeni, srilankesi) è IL modello della memoria ferita.

Perché anche il luogo sembra un cadavere, un cadavere deformato, con i cavi elettrici a sfiorarti il capo e il fango a terra a lambirti i pantaloni.

Perché ha visto l’uso di tutti i mezzi per praticare il massacro di donne, uomini, bambini palestinesi: sparati, decapitati, squartati, mutilati, stuprati.

Perché è fatto per sminuirti come essere umano, nel degrado e nella soffocante povertà.

Oggi Chatila è nella voce di chi è rimasto, in ogni ruga del volto dell’anziana donna che ti accoglie con tutta l’umanità, la forza e la dignità di chi ha la memoria che sanguina da 35 anni, ma la consapevolezza che la memoria non basta, se non c’è la giustizia.

E racconta, a se stessa e a noi, il massacro dei due figli e del marito, ripercorre i giorni, le ore, i minuti, le strade del campo, come fosse accaduto ieri, con la stessa lucidità e le stesse lacrime con cui ogni anno porta con sé al memoriale, nel giorno dell’anniversario, le loro foto da mostrare al mondo intero.

Perché, ad oggi, nessuno ha ancora pagato per questo massacro.

Oggi Chatila è il “non luogo” dove ti si appiccicano addosso la sensazione di soffocamento e la mancanza di ossigeno, dentro e fuori le abitazioni, dove l’acqua che esce dai rubinetti è acqua salata, dove il lavoro non c’è, dove il sistema sanitario non riesce a fermare l’aumento di pericolose malattie croniche.

Ma Chatila, insieme ad altri 9 campi profughi, ha una grandezza al suo interno: la resilienza del popolo palestinese, che trova un nome e una dimora nell’Associazione Beit Aftal Assomud, La casa dei figli della resistenza. Nata dopo il massacro di Tal El Zaatar, nel 1976, si prende cura dei bambini, dall’insegnamento dell’inglese alle cure dentistiche, all’intervento di sostegno ai disabili, all’aspetto emotivo e psicologico, sociale ed educativo, ad una parte del ciclo scolastico.

L’UNRWA, “agenzia dell’ONU nata nel 1948 per il soccorso e l’occupazione dei rifugiati palestinesi” dovrebbe trovare lavoro ai palestinesi, così come raccontano al campo di Nahr el Bared, ne ha l’obbligo, ha l’obbligo per l’intervento sanitario, l’istruzione, il cibo. Ma non lo fa. Non fa il suo dovere: ha appena tolto 10 Kg di farina, 1 pezzo di sapone e 1/2 Kg di margarina al mese agli abitanti del campo, che ne avrebbero diritto. Se anche un solo componente della famiglia ha un’attività lavorativa, pur modestissima, perde tutti gli aiuti. Inoltre in tutto il campo di Nahr el Bared, 28.000 abitanti, c’è un solo medico e, a scuola, le classi sono di 50 alunni. Non protegge i suoi studenti. Non ci sono istituti per la formazione professionale.

Ma l’UNRWA non fa tutto questo per un crisi finanziaria, è evidentemente una scelta politica, un ricatto politico. E’ una vera e propria aggressione al popolo palestinese.

E tutto questo accade, come racconta un rappresentante del comitato popolare del campo di Al Jalil, mentre il terzo millennio vede il passaggio da una Nakba ad un’altra Nakba, quale è l’uscita dei rifugiati palestinesi e degli stessi siriani, dalla Siria.

Sono 1 milione e 200.000 oggi i profughi siriani in Libano, 1/4 della popolazione libanese.

Nel 2011 la Siria fu attaccata per attuare il progetto di USA, Israele e Arabia Saudita di dividere quel paese arabo, come era già accaduto in Irak e in Libia. Oggi l’esercito siriano e i suoi necessari alleati hanno liberato l’85% del paese, Daesh in Siria è agli sgoccioli, e tra pochi mesi la guerra in Siria sarà terminata. Hanno vinto l’unità della Siria, il suo popolo, la sua direzione.

Ma la Siria avrà bisogno di almeno 10 anni per ritrovare stabilità, ricostruire l’economia e far rientrare i rifugiati.

I rifugiati siriani devono dunque vedere realizzato il loro diritto ad una vita dignitosa in Libano, ma allo stesso modo deve essere garantito il loro diritto al ritorno, perché il loro rientro fa parte del sostegno alla posizione politica della Siria.

Queste, in sintesi, le analisi di forze politiche, intellettuali ed esponenti del mondo della cultura, palestinesi e libanesi, incontrati durante il nostro viaggio.

La questione palestinese oggi rischia dunque di non essere una priorità nei campi, anche per l’alto rischio di infiltrazione di cellule terroristiche oscurantiste islamiche. Questo elemento sposta la priorità verso la sicurezza e la stabilità nei campi. Il rischio è che un campo possa essere cancellato, distrutto, come è accaduto a Nahr el Bared, e questo vorrebbe dire cancellare la simbologia di ciò che il campo rappresenta. Perché il campo è un testimone, è una vittima vivente.

Sabra e Chatila mai come oggi, dunque, rappresentano un indirizzo politico. E il Comitato per Non dimenticare Sabra e Chatila è il testimone che l’ingiustizia, con il tempo, non decade.

Il Diritto al Ritorno è null’altro che un diritto politico, una questione di giustizia.

Quella stessa giustizia a cui ha dedicato la vita il nostro compagno Maurizio Musolino, prematuramente scomparso un anno fa.

“Un combattente per la libertà”, come lo chiamano i palestinesi, al quale, nell’ultimo giorno del nostro viaggio, è stata dedicata una targa apposta su un generatore donato dal Comitato al campo profughi di Chatila.

Perché dobbiamo proteggere i nostri sogni e, soprattutto, realizzarli.

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