tag:blogger.com,1999:blog-48008056440708762002024-03-19T11:18:47.671+01:00Manifest of BlasphemyRe-Carbonizedhttp://www.blogger.com/profile/07070140938585948393noreply@blogger.comBlogger35795125tag:blogger.com,1999:blog-4800805644070876200.post-32401168368013867162024-03-18T17:27:00.000+01:002024-03-18T17:27:00.246+01:00Russia - Come prevedibile Putin ha vinto le elezioni, per l’Occidente è un problema in piùVladimir Putin ha ottenuto l’87,29% dei voti alle elezioni presidenziali in Russia. In quelle del 2018 aveva ottenuto il 76,69% dei voti e nel 2012 il 63,6%. Dmitry Medvedev aveva vinto le presidenziali nel 2008 con il 70,28% dei voti.
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Gli altri tre candidati, tra cui Nikolai Kharitonov del Partito Comunista della Federazione Russa, hanno ottenuto rispettivamente il 4,30% dei voti (Kharinotov), Vladislav Davankov (Nuovo Partito del Popolo) il 3,84%, Leonid Slutsky (Partito Liberaldemocratico) il 3,21%. Particolare curioso: in un seggio di Barnaul, nell’Altai, tra Kazakistan e Mongolia, il candidato comunista Kharitonov sembrava aver vinto: 84% per lui e 10% a Putin.
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A seguire le elezioni presidenziali erano stati accreditati i rappresentanti di 106 Paesi come osservatori internazionali e 1.447 giornalisti di cui più della metà di mass media stranieri.
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“La domanda non era se, ma con quale percentuale di voti il governante di lunga data della Russia Vladimir Putin sarebbe stato confermato in carica” scrive il quotidiano tedesco <i>Handesblatt</i>.
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“È stato difficile valutare l’entità del reale sostegno del pubblico russo a Putin nelle elezioni, dato che ai candidati dell’opposizione è stato impedito di candidarsi e che l’imbrattamento delle schede e altri casi di frode sono stati comuni nelle passate elezioni russe” commenta il <i>New York Times</i>.
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“Al fronte, le cose vanno bene, con la presa della città di Avdiivka e l’inferiorità non solo numerica ma anche bellica dell’esercito di Kiev. Nonostante le sanzioni occidentali, nessuno dei membri dell’élite russa ha disertato. L’economia cresce del 3,6 per cento, in virtù di una riconversione bellica dell’intero comparto industriale, al quale è destinato il 40% del budget federale” scrive oggi il <i>Corriere della Sera</i>. “L’unico vero tema sul tavolo di queste cosiddette elezioni era la convalida delle scelte strategiche in materia di politica estera”.
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Vladimir Putin ha ottenuto alle urne il suo quinto mandato e potrà governare fino al 2030. La sua ambizione per il risultato era indicata nella formula “70 per 70”: ovvero superare il 70% dei suffragi in un’elezione col 70% dei votanti.
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Putin nel 2018 aveva raccolto il 77,5% dei voti con un’affluenza del 67,5% per 56,4 milioni di voti. In queste elezioni l’affluenza è salita al 74,22%, oltre 6,7 punti sopra il 2018 e Putin ha ottenuto l’87,34%, con 74,6 milioni di voti.
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Alta l’affluenza anche nelle repubbliche della Novarossja cioè il Donbass, la Crimea e gli altri territori: Luhansk: 94,12%; Donetsk: 95,23%; Kherson: 88,12%; Zaporizhzhia: 92,83%; Crimea: 93,6%
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Non sono mancati momenti di contestazione. In alcuni seggi elettorali alcune persone hanno tentato di infliggere danni alle urne elettorali e ai seggi elettorali, versando colorante verde e inchiostro sulle schede elettorali oppure appiccando incendi alle urne. I mass media occidentali hanno mostrato con evidenza e campi lunghi le file ai seggi commentando che si trattava di quelle indicate per mezzogiorno dai sostenitori dell’oppositore Navalny morto in carcere solo poche settimane fa.
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Ma appare comunque difficile spiegare unicamente con la coercizione questo risultato. A due anni dall’intervento militare e della guerra in Ucraina e nonostante le sanzioni occidentali, Putin è più forte e più saldo.
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In questi giorni sia i mass media che i leader politici occidentali hanno dato il massimo e il peggio di se sul piano della demonizzazione del “nemico Putin” e della delegittimazione delle elezioni in Russia, con picchi di assurdità sulla stampa britannica che sembravano richiamare le vignette dell’Ottocento e con toni che non avevano riservato neanche all’Unione Sovietica durante la Guerra Fredda.
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Eppure i leader occidentali ripetono ad ogni occasione che “nel giardino” c’è la democrazia perché si vota e i governi sono scelti dal popolo. Ma alla fine occorre ammettere che se questo è il criterio anche “nella jungla” si vota e i governi sono eletti dal popolo. Forse il vero problema è che la democrazia oggi spacciata come dogma suprematista è cosa assai diversa da quanto diffuso da politici e mass media occidentali. A voler essere precisi il suo significato è potere del popolo. E se una parte della società ritiene che questo non ci sia, diventa legittimo imbrattare le urne o incendiarle senza pretendere conseguenze? Vogliamo provare?
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<a href="https://contropiano.org/news/internazionale-news/2024/03/18/elezioni-in-russia-come-prevedibile-ha-vinto-putin-per-loccidente-e-un-problema-in-piu-0170509" rel="nofollow" target="_blank">Fonte</a>Re-Carbonizedhttp://www.blogger.com/profile/07070140938585948393noreply@blogger.com0tag:blogger.com,1999:blog-4800805644070876200.post-38086265544192834162024-03-18T15:20:00.000+01:002024-03-18T15:20:00.246+01:00Aspri contrasti tra Anp e le altre organizzazioni palestinesi. Quello di cui non c’era proprio bisognoSe la riunione a Mosca lo scorso 29 febbraio delle maggiori organizzazioni della resistenza palestinese – da Al Fatah ad Hamas, dal Fplp alla Jihad – aveva fatto ben sperare, lo sviluppo degli avvenimenti e della discussione nei giorni scorsi ha imbroccato una strada decisamente controproducente, soprattutto in un momento in cui sia a Gaza che in Cisgiordania il popolo palestinese è sottoposto ad un genocidio e ad una oppressione sistematica e brutale da parte di Israele.
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È vero che la riunione di Mosca delle organizzazioni palestinesi aveva prodotto un comunicato unitario al di sotto delle aspettative e della necessità, ma il messaggio di un incontro di tutte le organizzazioni e l’aver riaffermato l’OLP come legittimo rappresentante del popolo palestinese, era stato un segnale importante.
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Negli ultimi quattro giorni invece si è andata riaprendo una contraddizione tra Al Fatah – al governo nell’ANP – e le altre organizzazioni palestinesi che sarebbe stato meglio affrontare per tempo piuttosto che far esplodere.
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Venerdì quattro organizzazioni palestinesi – Hamas, Jihad Islamica, Fronte Popolare per la Liberazione della Palestina e Movimento di Iniziativa Palestinese – hanno criticato la decisione del presidente dell’Autorità Nazionale Palestinese Mahmoud Abbas di formare un nuovo governo senza un consenso nazionale, descrivendo tale decisione come “un rafforzamento della politica di esclusività e un approfondimento della divisione”.
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La crisi è iniziata in seguito alla decisione di Abbas di accettare le dimissioni del governo di Mohammed Shtayyeh. Shtayyeh aveva motivato la decisione affermando che “la prossima fase e le sue sfide richiedono nuovi accordi governativi e politici che tengano conto della nuova realtà di Gaza”.
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Alcune organizzazioni palestinesi, tuttavia, speravano che un nuovo governo potesse, anche se nominalmente, riflettere un certo grado di consenso e unità tra i palestinesi. Tuttavia, non è stato così, poiché il nuovo governo dell’Autorità Nazionale Palestinese sembra una riproduzione dei precedenti governi.
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Il mese scorso, Mohammad Shtayyeh si è dimesso da primo ministro, e giovedì Abu Mazen ha nominato Mohammad Mustafa, il capo del Fondo per gli investimenti palestinesi, come prossimo primo ministro, in una mossa che non è stata discussa con le altre organizzazioni palestinesi e che è stata vista come un’apertura alle richieste degli Stati Uniti di “riforma dell’Anp” anche in vista del “day after” a Gaza.
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Le quattro organizzazioni palestinesi si sono pronunciate pubblicamente contro la decisione, accusando Abu Mazen di “prendere decisioni individuali e di impegnarsi in passi superficiali e vuoti come la formazione di un nuovo governo senza consenso nazionale”.
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Al Fatah ha risposto prontamente alle accuse, ma invece di concentrarsi sulla questione del governo, ha accusato la Resistenza palestinese a Gaza di essere in ultima analisi responsabile del genocidio israeliano nella Striscia.
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La dichiarazione afferma che Hamas ha “causato il ritorno dell’occupazione israeliana di Gaza” “intraprendendo l’avventura del 7 ottobre”.
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Ciò ha portato, secondo la dichiarazione di Al Fatah, a una “catastrofe ancora più orribile e crudele di quella del 1948”, un riferimento alla Nakba e allo sfollamento sionista di quasi 800.000 palestinesi dalla loro terra nella Palestina storica.
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“La vera disconnessione dalla realtà e dal popolo palestinese è quella della leadership di Hamas”, ha detto Fatah, accusando Hamas di non aver “consultato” gli altri leader palestinesi prima di lanciare il suo attacco contro Israele.
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Gli Stati Uniti non nascondono di volere che l’Autorità Palestinese governi Gaza come parte del loro piano del “giorno dopo” per quando la guerra finirà. A margine di un evento di un think tank in Turchia all’inizio di questo mese, il ministro degli Esteri palestinese Riyad al-Maliki ha detto che non c’è “alcun dubbio” che l’Autorità Palestinese sarà quella che governerà Gaza.
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Insomma si è prodotto un pericoloso e inopportuno passo indietro proprio mentre la questione palestinese si trova su un crinale decisivo per il futuro, e almeno davanti a 32.000 morti una maggiore cautela nei passaggi da compiere sul piano della coesione interna della resistenza palestinese era quantomeno un atto dovuto.
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Qui di seguito la dichiarazione congiunta di Hamas, Jihad islamica palestinese, Fronte popolare per la liberazione della Palestina e Movimento di Iniziativa Nazionale palestinese:
<blockquote>
“Nel nome di Allah, il Compassionevole, il Misericordioso
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Alla luce del decreto emesso dal Presidente dell’Autorità Palestinese, che nomina il dottor Mohammad Mustafa a formare un nuovo governo, le fazioni nazionali palestinesi affermano quanto segue:
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1. La massima priorità nazionale ora è affrontare la barbara aggressione sionista, il genocidio e la guerra per fame condotta dall’occupazione contro il nostro popolo nella Striscia di Gaza, e affrontare i crimini dei suoi coloni in Cisgiordania e Al-Quds occupata, in particolare La Moschea di Al-Aqsa e i rischi significativi che la nostra causa nazionale deve affrontare, in prima linea il rischio continuo di sfollamento.
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2. Prendere decisioni individuali e intraprendere passi formali e privi di sostanza, come la formazione di un nuovo governo senza consenso nazionale, rappresenta un rafforzamento della politica di unilateralismo e un approfondimento della divisione, in un momento storico in cui il nostro popolo e la causa nazionale hanno più bisogno di consenso e unità, nonché della formazione di una leadership nazionale unificata, che prepari elezioni libere e democratiche con la partecipazione di tutte le componenti del popolo palestinese.
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3. Questi passi indicano la profondità della crisi all’interno della leadership dell’Autorità [palestinese], il suo distacco dalla realtà e il divario significativo tra essa e il nostro popolo, le sue preoccupazioni e aspirazioni, il che è confermato dalle opinioni del vasto maggioranza dei nostri cittadini che hanno espresso la loro perdita di fiducia in queste politiche e orientamenti.
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4. È diritto del nostro popolo mettere in discussione l’utilità di sostituire un governo con un altro e un primo ministro con un altro, provenienti dallo stesso ambiente politico e partigiano.
<br /><br />
Alla luce dell’insistenza dell’Autorità Palestinese nel continuare la politica dell’unilateralismo, e ignorando tutti gli sforzi nazionali per unire il fronte palestinese e unirsi di fronte all’aggressione contro il nostro popolo, esprimiamo il nostro rifiuto della continuazione di questo approccio che ha danneggiato e continua a danneggiare il nostro popolo e la nostra causa nazionale.
<br /><br />
Chiediamo al nostro popolo e alle sue forze viventi di alzare la voce e di affrontare questa follia con il presente e il futuro della nostra causa e con gli interessi, i diritti e i diritti nazionali del nostro popolo. Chiediamo inoltre a tutte le forze e fazioni nazionali, in particolare ai fratelli del movimento Fatah, di intraprendere azioni serie ed efficaci per raggiungere un consenso sulla gestione di questa fase storica e cruciale, in un modo che serva la nostra causa nazionale e soddisfi le aspirazioni del nostro popolo a estrarre i loro diritti legittimi, liberare la loro terra e i luoghi santi e stabilire il loro stato indipendente con piena sovranità e la sua capitale come Al-Quds”.
<br /><br />
Movimento di resistenza islamica – Hamas
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Movimento della Jihad islamica
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Fronte Popolare per la Liberazione della Palestina
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Movimento di Iniziativa Nazionale Palestinese
</blockquote>
<a href="https://contropiano.org/news/internazionale-news/2024/03/18/aspri-contrasti-tra-anp-e-le-altre-organizzazioni-palestinesi-quello-di-cui-non-cera-proprio-bisogno-0170507" rel="nofollow" target="_blank">Fonte</a>Re-Carbonizedhttp://www.blogger.com/profile/07070140938585948393noreply@blogger.com0tag:blogger.com,1999:blog-4800805644070876200.post-20320127021659272732024-03-18T13:23:00.001+01:002024-03-18T13:23:00.235+01:00Perché il rapimento di Aldo Moro è l’ossessione degli ‘storici da bar’<div>I ciarlatani del caso Moro, quelli che Marco Clementi definisce «storici da bar», hanno riempito in questi decenni scaffali di librerie con le loro pubblicazioni, fatto uscire articoli a pioggia sulla stampa (ancora il 16/3 ne sono apparsi un paio), realizzato trasmissioni televisive, Report su tutti (ma anche lo scomparso Purgatori non scherzava), dando vita a surreali commissioni parlamentari.
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Ultima quella antimafia che si è chiusa nella passata legislatura con una relazione dell’ex magistrato Guido Salvini, seguita ai lavori della precedente commissione Moro 2, presieduta da Giuseppe Fioroni.
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Tra i ciarlatani non mancano di primeggiare, con dichiarazioni alle agenzie, diversi membri del governo attuale.
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Questo fiume di ipotesi mai suffragate, congetture azzardate, ricostruzioni sgangherate – spiega Clementi – resta sempre sul terreno della cronaca, sezionando al millesimo minuti, ore e giorni del sequestro, ripetendosi all’infinito come un disco rigato, eludendo così non solo le smentite ma ancor di più il «tempo storico», le domande di fondo che sole possono aiutare a dare senso e comprensione a quella vicenda.
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<b>La burocrazia della memoria</b>
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La responsabile di un noto archivio che si occupa di «terrorismo e stragi degli anni ’70» ha tenuto nei giorni scorsi presso una università romana un corso di formazione per insegnanti delle scuole secondarie, attività finanziata dalla regione Lazio.
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L’eminente specialista ha raccontato, in barba alle evidenze storiche fino ad ora acquisite, che in via Fani c’erano, la mattina del 16 marzo, non meno di 30 brigatisti, ovvero quasi tre volte i regolari della colonna romana in attività in quel periodo.
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Alla richiesta di spiegare come fossero fuggiti dal luogo, visto che le macchine descritte dai testimoni sono sempre e solo state tre e nessun pullman è mai stato avvistato nei paraggi, ha risposto che si erano... dileguati a piedi per i prati.
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Di fronte alla stupefacente risposta (accanto a via Fani non ci sono prati...) qualcuno ha voluto sapere se fosse mai stata in via Fani: la risposta è stata “no”.
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Le istituzioni hanno creato una ‘burocrazia della memoria’ pubblica cui è stata demandata la funzione di amministrare la produzione pubblica sulla storia di quelli anni, presenziando in commissioni che vigilano sulle modalità di apertura degli archivi, sulla gestione di portali informativi e sulla formazione culturale.
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L’eminente responsabile dell’archivio di cui stiamo parlando, membro a tutti gli effetti di questo apparato, deve aver confuso le 27 persone, condannate a vario titolo per il sequestro nei quattro diversi processi che si sono susseguiti tra gli anni ’80 e ’90, con i partecipanti diretti all’azione del 16 marzo.
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Avrà così pensato che tutti e 27 affollavano via Fani e le strade adiacenti quella mattina. In realtà solo 9 di loro sono stati indicati in sede giudiziaria come presenti direttamente sul luogo dell’agguato. Oggi sappiamo che ve ne fu anche una decima, assolta però durante il processo ma condannata comunque per altri fatti.
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I restanti 17 sono stati ritenuti responsabili per altre ragioni: perché membri dell’esecutivo nazionale o aventi funzioni apicali, oppure perché avevano gestito la custodia del sequestrato nella base-prigione di via Montalcini o ancora perché avrebbero preso parte ad alcune fasi della inchiesta preparatoria.
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Nessuno di loro era in via Fani. Eppure i ciarlatani del caso Moro possono raccontare impunemente quel che vogliono.
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<i>Paolo Persichetti, Insorgenze.net</i>
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Non avrà mai fine l’annosa ricerca di una singola prova, una contraddizione, un elemento di dubbio, capace di far crollare come un castello di carte la narrazione non dietrologica sul rapimento e l’assassinio di Aldo Moro e della sua scorta.
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Gli storici, si può osservare, dovrebbero essere contenti: la ricerca, infatti, non si può fermare e ogni nuovo apporto non può che arricchire i precedenti.
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Teoricamente è così. In pratica non sempre questo accade: si pensi al revisionismo attuato in Russia sulla storia sovietica e la figura di Stalin, per fare solo un esempio.
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Gli storici in questo caso sono stati messi a tacere e la revisione storica è diventa una questione di Stato.
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Per quanto riguarda il caso Moro e più in generale la storia delle Br (o se si vuole la sua contro-storia), il dibattito spesso non si svolge tra storici e la cosa pone una serie di problemi metodologici molto seri.
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Si potrà obiettare che storcere troppo il naso se un giornalista scrive un libro di storia non è una buona cosa. Infatti, esistono giornaliste e giornalisti che hanno studiato, scritto e analizzato questioni storiche in modo molto professionale, aprendo nuove prospettive di riflessione. Con il caso Moro, però, questo è accaduto molto di rado.
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<b>Un popolo di storici e ct</b>
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Tutti gli appassionati di calcio si sono sentiti commissari tecnici della nazionale almeno una volta nella vita. Tutti hanno fatto la propria formazione, criticato scelte, convocazioni e cambi, pensato che se ci fossero stati loro in panchina quella partita sarebbe finita diversamente.
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Peccato che nessuno è stato mai chiamato dalla Federcalcio ad allenare la nazionale. Per allenare serve un patentino, si devono frequentare corsi a Coverciano ecc.. In una parola, bisogna essere professionisti che conoscono il linguaggio del campo e hanno esperienza decennale. Non ci si improvvisa e soprattutto agli improvvisati nessuno dà un lavoro.
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Quando capita di discutere di storia al bar (o sui social), è facile perdere. Qualsiasi cosa si dica, infatti, viene ribattuta con riferimenti fumosi e frasi ipotetiche da chi discute non per capire meglio, ma per imporre la sua tesi di partenza. Le argomentazioni, anche le più precise, non sono prese in considerazione. Al limite, non le ascoltano proprio. È così e basta.
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Rispetto alle fonti (archivi, bibliografie, saggi ecc.) l’interlocutore propone un paio di articoli di giornali o, quando va bene, un libro (che, sebbene pieno di sciocchezze, almeno è un libro). Conosce particolari mai sentiti, ma non è in grado di fare un discorso di ampio respiro per esempio sulla politica estera inglese durante il XIX secolo, sulle relazioni tra Italia e Germania tra le due guerre, sulle fasi della Shoah, sul nazionalismo ecc.
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<b>L’uso politico dei misteri</b>
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Con il caso Moro avviene la stessa cosa. La produzione saggistica è piena di autori/autrici improvvisati. Hanno letto qualcosa, intuito una pista, trovato qualche riferimento (tralasciando gli altri mille) e si sono messi a scrivere che le cose non sono andate come sembra perché c’era questo e quello e poi la Cia o l’ndrangheta, il Kgb o la P2 e dio solo sa ancora chi altri.
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Tutte le volte che qualcuno ha preso sul serio queste note e ha cercato riscontri documentali, ha finito per dimostrare la fumosità delle stesse. Che, peraltro, ritornano anche a distanza di anni per cui, dato che i lettori si sono dimenticati (giustamente) che un decennio o un ventennio prima si era già discusso della cosa, i ricercatori sono costretti a ricominciare da capo in un gioco dell’oca infinito dove si ritrovano sempre al punto di partenza.
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La storia non compie alcun passo in avanti e prevale sempre la cronaca, che seziona una giornata chiave dei 55 giorni in ore, minuti e secondi, ricerca quale funzionario di pubblica sicurezza sia arrivato prima e quale dopo, chi c’era e se non c’era come faceva a sapere ecc. ecc. La storia è colpita al cuore dalla cronaca e gli studiosi sono sommersi e emarginati dalle congetture e dall’uso politico dei misteri.
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<b>I tempi storici e quelli della cronaca</b>
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Inevase restano le grandi domande del caso Moro, che sono, in ordine sparso: il ruolo dello Stato italiano e la sua preparazione o impreparazione, il ruolo dei partiti, la strategia delle Br e la congruità del rapimento di Moro con la storia passata dell’organizzazione, la concomitanza del processo di Torino, le reazioni internazionali, il ruolo del Vaticano, le reazioni del movimento, quelle del mondo operaio, le opzioni di sviluppo della vicenda, gli spazi per una trattativa, le conseguenze politiche del rapimento (vedi voto di fiducia al IV governo Andreotti che fino alla sera prima il Partito comunista non voleva in quella formazione) e quelle dell’uccisione dell’ostaggio.
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Ci sarebbero poi i processi, la storia delle commissioni di inchiesta, dell’associazione delle vittime del terrorismo, la legge sui pentiti, il carcere speciale, le torture e poco altro. Una vicenda complessa, ma non un rebus, che ha un inizio, uno sviluppo e una fine.
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Storicamente quei 55 giorni hanno smesso di avere conseguenze politiche dopo le elezioni del 1979, quando il Pci uscì sconfitto dalle urne dopo essere stato un anno e otto giorni nella maggioranza di governo. Si aprì l’ultima stagione della Prima Repubblica che durò dieci anni, con i governi a guida laica per la prima volta dal 1948 e il preambolo di Carlo Donat-Cattin.
<br /><br />
Nel 1989, con la caduta del Muro di Berlino, cambiò nuovamente tutto e a livello storico la vicenda Moro non ebbe più nulla da dire. ‘Mani pulite’, poi, sconvolse ulteriormente il quadro e Berlusconi mise una pietra tombale sul passato. Il caso Moro continuò a contare per i singoli protagonisti e le loro coscienze, ma su questo versante è giusto non entrare.
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A distanza di 46 anni il continuo riemergere di misteri riporta una vicenda storicamente conclusa da decenni sulle prime pagine della cronaca, impedendo il consolidarsi di una discussione storiografica sulla sua importanza. Il che, alla lunga, rischia di tramutare in farsa una delle maggiori tragedie della nostra Storia.
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<i>Marco Clementi - Domani</i>
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<a href="https://contropiano.org/news/politica-news/2024/03/18/rapimento-aldo-moro-ossessione-storici-bar-0170479" rel="nofollow" target="_blank">Fonte</a></div>Re-Carbonizedhttp://www.blogger.com/profile/07070140938585948393noreply@blogger.com0tag:blogger.com,1999:blog-4800805644070876200.post-90928047637087196142024-03-18T11:46:00.000+01:002024-03-18T11:46:00.250+01:00Guerra in Ucraina - Uccisi 33 mercenari italiani. Silenzio da parte del governoIl ministero della Difesa Russo in un rapporto reso noto dalla agenzia <i>Tass</i>, ha aggiornato la contabilità dei mercenari stranieri che combattono insieme alle truppe di Kiev e che sono rimasti uccisi nel conflitto in Ucraina.
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Secondo questo rapporto le forze armate russe hanno ucciso 5.962 mercenari stranieri sui 13.287 arrivati in Ucraina.
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Di questi 90 risultano essere italiani e 33 di essi sono stati uccisi. Ma su questo non si registrano commenti o comunicazioni né da parte del ministero degli Esteri, né degli Interni, né della Difesa. Un silenzio assoluto non troppo dissimile dall’imbarazzo per una notizia decisamente rilevante.
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In una tabella che riassume un bilancio aggiornato reso pubblico dall’agenzia russa <i>Tass</i>, le Forze Armate della Federazione Russa avrebbero ucciso 1.497 mercenari polacchi su 2.960, il contingente più numeroso di militari stranieri. Seguono i georgiani con 561 caduti su 1.042, 491 statunitensi su 1.113, 422 dei 1.005 canadesi, 360 degli 822 britannici, 147 dei 356 francesi.
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Dalla Romania sono arrivati in Ucraina 784 mercenari di cui 349 sono rimasti uccisi finora; dalla Croazia 335 arrivati e 152 uccisi, dalla Germania 88 caduti su 235, dalla Colombia 217 morti su 430, mentre dal Brasile ne sono giunti 268, di cui 136 caduti.
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Il sito specializzato <i><a href="https://www.analisidifesa.it/2024/03/per-mosca-6-000-mercenari-stranieri-sono-stati-uccisi-in-ucraina-33-gli-italiani/" rel="nofollow" target="_blank">AnalisiDifesa</a></i> ritiene che sia “superfluo sottolineare che tali numeri non sono verificabili da fonti neutrali e quasi nessuna nazione occidentale ha fornito informazioni circa i propri ‘volontari’ recatisi a combattere in Ucraina”. Secondo il sito ne hanno riferito sporadicamente fonti in Polonia e Repubblica Ceca, così come nessun dato ufficiale è mai emerso in Occidente circa i caduti tra le fila dei mercenari.
<br /><br />
Il tema non è mai stato trattato ufficialmente neppure in Italia, se non a livello giornalistico con rare interviste a qualche volontario.
<br /><br />
Tra i paesi africani, il maggior numero di mercenari proviene dalla Nigeria: 97 (47 dei quali uccisi), seguita dall’Algeria (28 morti si 60 arruolati), mentre 25 australiani sono stati uccisi sui 60 giunti in Ucraina, insieme a 6 dei 7 neozelandesi.
<br /><br />
L’ultima notizia circolata sulla morte di mercenari stranieri in Ucraina è del 16 gennaio di quest’anno, quando; secondo quel che riportava la <i>Reuters</i>, la Russia aveva dichiarato che un giorno prima le sue forze avevano effettuato un attacco di precisione contro un edificio che ospitava “combattenti stranieri” nella seconda città dell’Ucraina, Kharkiv.
<br /><br />
Il ministero della Difesa russo aveva dichiarato che i combattenti erano per lo più mercenari francesi e che l’edificio era stato distrutto, con oltre 60 morti. Che evidentemente non interessano neanche ai paesi di provenienza...
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<a href="https://contropiano.org/news/politica-news/2024/03/18/in-ucraina-uccisi-33-mercenari-italiani-silenzio-da-parte-del-governo-0170484" rel="nofollow" target="_blank">Fonte</a>Re-Carbonizedhttp://www.blogger.com/profile/07070140938585948393noreply@blogger.com0tag:blogger.com,1999:blog-4800805644070876200.post-44457842708617772592024-03-18T09:41:00.000+01:002024-03-18T09:41:00.127+01:00“AI Act”, l’Unione europea ha la sua legge sull’intelligenza artificialeE così il 13 marzo il Parlamento europeo ha approvato l’AI Act, il regolamento comunitario sull’intelligenza artificiale. In estrema sintesi e lasciando a margine
vari dettagli, ecco quello che c’è da sapere.
<br /><br />Concluse quelle che sono ormai delle formalità, l’AI Act diventerà
ufficialmente legge entro maggio o giugno e le sue disposizioni inizieranno a
entrare in vigore per gradi: <br /><br />– 6 mesi dopo: i Paesi saranno tenuti a
proibire i sistemi di IA vietati; <br /><br />– 1 anno dopo: inizieranno ad
applicarsi le regole per i sistemi di intelligenza artificiale di uso generale;
<br /><br />– 2 anni dopo: il resto della legge sull’IA sarà applicabile;
<br /><br />– 36 mesi dopo: gli obblighi per i sistemi ad alto rischio;
<br /><br />Le sanzioni in caso di non conformità possono arrivare fino a 35
milioni di euro o al 7% del fatturato annuo mondiale. <br /><br />Vietate/i:
<br /><br />– sfruttamento delle vulnerabilità di persone o gruppi in base
all’età, alla disabilità o allo status socio-economico; <br /><br />– le pratiche
manipolatorie e ingannevoli, sistemi che usino tecniche subliminali per
distorcere materialmente la capacità decisionale di una persona; <br /><br />– categorizzazione biometrica, ovvero la classificazione di individui sulla base
di dati biometrici per dedurre informazioni sensibili come razza, opinioni
politiche o orientamento sessuale (eccezioni per le attività di contrasto);
<br /><br />– punteggio sociale (valutazione di individui o gruppi nel tempo in
base al loro comportamento sociale o a caratteristiche personali); <br /><br />– creazione di database di riconoscimento facciale attraverso lo <i>scraping</i> non
mirato di immagini da internet o da filmati di telecamere a circuito chiuso;
<br /><br />– inferenza delle emozioni nei luoghi di lavoro e nelle istituzioni
educative (eccezioni per motivi medici o di sicurezza); <br /><br />– le pratiche
di valutazione del rischio di commettere un reato basate esclusivamente sulla
profilazione o sulla valutazione delle caratteristiche di una persona.
<br /><br />Non è del tutto vietata, bensì limitata, l’identificazione
biometrica in tempo reale in spazi accessibili al pubblico – sulla base di
circostanze definite (gli usi ammessi includono, ad esempio, la ricerca di una
persona scomparsa o la prevenzione di un attacco terroristico) che richiedono
un’approvazione giudiziaria o di un’autorità indipendente.
<br /><br />L’identificazione biometrica a posteriori è considerata ad alto
rischio. Per questo, per potervi fare ricorso, l’autorizzazione giudiziaria
dovrà essere collegata a un reato. <br /><br />Seguono gli ambiti che non sono
vietati ma sono considerati “ad alto rischio” e che dunque saranno valutati
prima di essere immessi sul mercato e anche durante il loro ciclo di vita e su
cui i cittadini potranno presentare reclami alle autorità nazionali.
<br /><br />Includono non solo le infrastrutture critiche o le componenti di
sicurezza ma anche la formazione scolastica (per determinare l’accesso o
l’ammissione, per assegnare persone agli istituti o ai programmi di istruzione e
formazione professionale a tutti i livelli, per valutare i risultati
dell’apprendimento delle persone, per valutare il livello di istruzione adeguato
per una persona e influenzare il livello di istruzione a cui potrà avere
accesso, per monitorare e rilevare comportamenti vietati degli studenti durante
le prove); <br /><br />- la gestione dei lavoratori (per l’assunzione e la
selezione delle persone, per l’adozione di decisioni riguardanti le condizioni
del rapporto di lavoro, la promozione e la cessazione dei rapporti contrattuali,
per l’assegnazione dei compiti sulla base dei comportamenti individuali, dei
tratti o delle caratteristiche personali e per il monitoraggio o la valutazione
delle persone); <br /><br />- servizi essenziali inclusi i servizi sanitari, le
prestazioni di sicurezza sociale, servizi sociali, ma anche l’affidabilità
creditizia;<br /><br />- l’amministrazione della giustizia (inclusi gli organismi di
risoluzione alternativa delle controversie); <br /><br />- la gestione della
migrazione e delle frontiere (come l’esame delle domande di asilo, di visto e di
permesso di soggiorno e dei relativi reclami). <br /><br />I sistemi di IA per
finalità generali e i modelli su cui si basano (inclusi i grandi modelli di IA
generativa) dovranno rispettare una serie di requisiti di trasparenza come:
<br /><br />- divulgare che il contenuto è stato generato dall’IA;
<br /><br />- fare in modo che i modelli non generino contenuti illegali;
<br /><br />- pubblicare le sintesi dei dati protetti da copyright utilizzati per
l’addestramento.<br /><br />I modelli più potenti, che potrebbero comportare rischi
sistemici, dovranno rispettare anche altri obblighi, ad esempio quello di
effettuare valutazioni dei modelli, di valutare e mitigare i rischi sistemici e
di riferire in merito agli incidenti. <br /><br />I Paesi dell’UE dovranno
istituire e rendere accessibili a livello nazionale spazi di sperimentazione
normativa e meccanismi di prova in condizioni reali (in inglese <i>sandbox</i>), in
modo che PMI e start-up possano sviluppare sistemi di IA prima di immetterli sul
mercato. <br /><br />(Sintesi via il
<a href="https://www.europarl.europa.eu/doceo/document/A-9-2023-0188-AM-808-808_IT.pdf">testo</a>, il
<a href="https://www.europarl.europa.eu/news/it/press-room/20240308IPR19015/il-parlamento-europeo-approva-la-legge-sull-intelligenza-artificiale">documento</a>
del Parlamento europeo, e i commenti di<a href="https://twitter.com/LuizaJarovsky/status/1767899302930657704">
Luiza Jarovsky</a>
e
<a href="https://www.linkedin.com/posts/activity-7173637647255506945-QG6c/?utm_source=share&utm_medium=member_desktop">Barry Scannel)</a><br />
<br />Qui i<a href="https://www.europarl.europa.eu/doceo/document/A-9-2023-0188-AM-808-808_IT.pdf">l testo approvato.</a>
<br /><br />C’è un’infinità di reazioni all’AI Act, molte positive e
celebrative, ma per ora riporto solo una paio di comunicati fra chi voleva un AI
Act più fermo nella protezione di alcuni diritti.<br />
<br />“Sebbene la legge sull’IA possa avere aspetti positivi in altri
settori, è debole e consente persino l’uso di sistemi di IA rischiosi quando si
tratta di migrazione”,
<a href="https://edri.org/our-work/protect-not-surveil-eu-ai-act-fails-migrants-people-on-the-move/">scrive</a>
la coalizione #ProtectNotSurveill.<br />
<br />“Non riesce a vietare completamente alcuni degli usi più pericolosi
dell’IA, tra cui i sistemi che consentono la sorveglianza biometrica di massa”,
<a href="https://www.accessnow.org/press-release/ai-act-failure-for-human-rights-victory-for-industry-and-law-enforcement/">ribadisce</a>
l’ong Access Now. <br /><br />P. S. Per altri dettagli sull’AI Act, ad esempio
il tema open source, leggete
<a href="https://guerredirete.substack.com/p/guerre-di-rete-ai-act-via-libera">questa mia precedente newsletter.</a><br /><br /><a href="https://contropiano.org/news/politica-news/2024/03/18/ai-act-lunione-europea-ha-la-sua-legge-sullintelligenza-artificiale-0170488">Fonte</a>
<br />
Re-Carbonizedhttp://www.blogger.com/profile/07070140938585948393noreply@blogger.com0tag:blogger.com,1999:blog-4800805644070876200.post-722893874316695472024-03-17T23:04:00.002+01:002024-03-17T23:04:26.146+01:00Underworld (2003) di Len Wiseman - Minirece<div class="separator" style="clear: both; text-align: center;"><iframe class="BLOG_video_class" allowfullscreen="" youtube-src-id="qb1EO2tgNs8" width="480" height="360" src="https://www.youtube.com/embed/qb1EO2tgNs8"></iframe></div>Re-Carbonizedhttp://www.blogger.com/profile/07070140938585948393noreply@blogger.com0tag:blogger.com,1999:blog-4800805644070876200.post-85525619608307345382024-03-17T18:29:00.000+01:002024-03-18T08:38:01.723+01:00Grandi potenze vs Diritto Internazionale: rompere il ciclo dell’impunitàLe crisi globali hanno raggiunto un punto critico in cui non c’è altro rimedio che reinventare un ordine internazionale che rispetti la vita e la dignità umana.
<br /><br />
Dalla creazione dell’Organizzazione delle Nazioni Unite (ONU) dopo la Seconda Guerra Mondiale, la subordinazione del diritto internazionale agli interessi dell’Occidente collettivo guidato dagli Stati Uniti ha ampiamente dimostrato l’incapacità di questo meccanismo di risolvere le controversie tra Stati, garantire lo sviluppo globale e preservare la pace mondiale.
<br /><br />
L’Algeria e il Vietnam avrebbero ottenuto l’indipendenza, o il Sudafrica avrebbe abolito il regime di apartheid senza la lotta armata? Gli Stati Uniti avrebbero sganciato due bombe atomiche sul Giappone (tra la firma e l’adozione della Carta delle Nazioni Unite, tra l’altro) senza la garanzia che non avrebbero mai dovuto rendere conto?
<br /><br />
Taipei, Seul, Tokyo e Manila sarebbero coinvolte in una corsa agli armamenti nel Mar Cinese Meridionale se Washington avesse onorato i suoi impegni scritti con Pechino e lo spirito della Carta dell’ONU?
<br /><br />
Gli Stati Uniti spingerebbero oggi per la pulizia etnica nei territori palestinesi e nell’est del Congo, fornendo armi letali a “Israele” in un caso e alle milizie ruandesi nell’altro, se la Casa Bianca fosse costretta a mettere il diritto internazionale al di sopra della sua avidità geopolitica e ambizioni egemoniche?
<br /><br />
Le recenti dichiarazioni di Hasan Nasrallah, segretario generale degli Hezbollah libanesi, non lasciano spazio a dubbi:
<br /><br />
“Quello che è successo a Gaza ha dimostrato che la comunità internazionale e il diritto internazionale non possono proteggere le popolazioni. Non possono proteggere nessuno. Sono le vostre forze e i vostri missili che vi proteggono”.
<br /><br />
Gli Stati Uniti continuano a rimanere indifferenti alle richieste globali di riforma dall’ONU. Per anni, le risoluzioni del Consiglio di Sicurezza sono state alla mercé degli interessi geopolitici e delle ambizioni egemoniche statunitensi.
<br /><br />
Tanto che il potere di veto è visto come un via libera affinché Washington e i suoi stati satelliti siano al di sopra della legge, privando gli altri dei loro diritti fondamentali, presumibilmente garantiti dalla Carta delle Nazioni Unite e dalla Dichiarazione Universale dei Diritti Umani. Di conseguenza, la maggior parte dei leader del Sud Globale ha sistematicamente chiesto una riforma del Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite.
<br /><br />
Tuttavia, nonostante le proteste della comunità internazionale, Washington si è sforzata di mantenere lo status quo presso le Nazioni Unite, poiché ha tacitamente permesso di legittimare il ricorso alla legge del più forte: il suo cosiddetto “ordine basato su regole”.
<br /><br />
Tuttavia, negli ultimi anni, di fronte al crescente potere delle economie emergenti, gli Stati Uniti sembrano aver capito che la transizione globale verso una nuova architettura mondiale non può essere fermata. Ciò nonostante, nel tentativo di fermare questa dinamica di cambiamento, che percepisce come sfavorevole alle proprie ambizioni egemoniche, ora favorisce apertamente la distruzione delle Nazioni Unite invece della loro riforma.
<br /><br />
Infatti, per garantire la prevalenza dell'“ordine basato sulle regole”, o legge della giungla, l’amministrazione Biden ha optato per screditare l’operato degli organismi dell’ONU, tramite campagne mediatiche globali accusatorie (misure simili erano state adottate dall’amministrazione Trump, che si è ritirata dal Consiglio per i Diritti Umani delle Nazioni Unite nel 2018).
<br /><br />
L’esempio più recente dell’attacco statunitense all’ONU è la decisione di sospendere i finanziamenti all’UNRWA. Questa è scattata nel bel mezzo del sanguinoso attacco israeliano contro Gaza e della pulizia etnica meticolosamente organizzata, con spostamenti interminabili della popolazione e la deliberata intenzione di far morire di fame e disumanizzare i palestinesi. Per non parlare dei massacri diretti della popolazione civile e della diffusione di malattie da Medioevo.
<br /><br />
In altre parole, i palestinesi stanno pagando con la loro carne il cinico piano degli Stati Uniti di espandere ulteriormente il territorio israeliano – in violazione del diritto internazionale – e aumentare così l’influenza di Washington in Medio Oriente.
<br /><br />
<b>Il comportamento di Washington comporta un grande rischio per la sopravvivenza umana</b>
<br /><br />
In questo contesto, che alternativa può esserci al diritto internazionale per le nazioni e i popoli a cui è negata l’autodeterminazione e la sovranità, che sono vittime del saccheggio delle loro risorse e della violazione del loro diritto alla libertà, alla sicurezza, allo sviluppo, alla vita?
<br /><br />
Certamente il diritto internazionale deriva la sua autorità dagli accordi tra Stati, per quanto antichi che siano, e come tale continua ad essere invocato dai leader mondiali come l’unico mezzo civile per risolvere le controversie ed evitare il destino disastroso riservato ai deboli, destino che ha assunto proporzioni orribili per i palestinesi.
<br /><br />
In ogni caso, il diritto internazionale riflette un consenso globale sulla necessità di seguire regole comuni e di proteggersi dalla legge della giungla sostenuta dall’amministrazione statunitense, che mette in pericolo la stessa sopravvivenza dell’umanità.
<br /><br />
Allo stesso modo, devono essere intese le quattro iniziative globali della Cina per costruire una nuova architettura globale, in particolare l’Iniziativa di Sicurezza Globale (che sembra concentrarsi su aspetti fondamentali del diritto internazionale che sono disprezzati dall’Occidente guidato dagli Stati Uniti).
<br /><br />
Allo stesso modo, la decisione unilaterale della Russia di frenare la continua espansione dell’Organizzazione del Trattato del Nord Atlantico (NATO) ai suoi confini, l’attacco di Hamas del 7 ottobre, che ha ricordato al mondo l’abominio di 75 anni di occupazione (il tempo continuerà a smantellare le tante menzogne associate a questo attacco finalizzate a legittimare la pulizia etnica di Gaza), ma anche l’espansione della SCO e dei BRICS: tutti questi sviluppi derivano dal completo fallimento dell’ordine internazionale guidato dagli Stati Uniti.
<br /><br />
Finora Washington non sembra disposta a partecipare alla progettazione di una nuova architettura internazionale, né sembra disposta a obbedire alle regole, vecchie o nuove che siano. In questo senso è in corso una campagna sui social network per chiedere l’espulsione degli Stati Uniti dal Consiglio di Sicurezza dell’ONU.
<br /><br />
In ogni caso, i paesi del Sud Globale hanno la responsabilità di sostenersi a vicenda nel contrastare la violenza anarchica delle potenze egemoniche. Di fatti, le crisi mondiali hanno raggiunto un punto critico in cui non c’è altra scelta se non quella di reinventare un ordine internazionale che rispetti la vita e la dignità umana.
<br /><br />
Del resto, i Paesi del Sud Globale, che rappresentano quasi i tre quarti della popolazione mondiale, non si rassegneranno a scomparire, a rinunciare al loro diritto alla vita, per permettere alle istituzioni finanziarie e al complesso militare-industriale statunitense di soddisfare la propria insaziabile avidità.
<br /><br />
<a href="https://contropiano.org/news/internazionale-news/2024/03/17/grandi-potenze-vs-diritto-internazionale-rompere-il-ciclo-dellimpunita-0170449" rel="nofollow" target="_blank">Fonte</a>Re-Carbonizedhttp://www.blogger.com/profile/07070140938585948393noreply@blogger.com0tag:blogger.com,1999:blog-4800805644070876200.post-56427922496731496892024-03-17T16:34:00.000+01:002024-03-17T23:01:29.442+01:00Libere di vendere il proprio corpo a pezzidi <b>Carlo Formenti</b>
<br /><br />
Nel mondo esistono due industrie che sfruttano i corpi di milioni di donne esponendole ad altissimi tassi di nocività (non di rado con conseguenze mortali). La condizione di queste "lavoratrici" non è molto migliore di quella dei neri nei campi di cotone del Sud degli Stati Uniti prima dell'abolizione della schiavitù. Sono l'industria della prostituzione e l'industria della maternità surrogata. Vediamo alcuni dati. L’industria della prostituzione impiega 400.000 donne nella sola Germania, dove coinvolge 1,2 milioni di clienti e genera un flusso annuo di denaro pari a 6 miliardi di euro. Il tasso di mortalità è 40 volte superiore alla media e le prostitute corrono un rischio 18 volte maggiore delle altre donne di essere uccise nell'esercizio della propria "professione". Secondo l’OIL (Organizzazione internazionale del lavoro) i profitti della tratta di esseri umani (donne e minori) sono valutabili in 28,7 miliardi dollari anno. Infine una ricerca condotta su 800 donne in nove paesi ha appurato che il 71% ha subito aggressioni dai clienti, il 63% sono state violentate, il 68% soffre di disturbi post traumatici da stress, l'89% ha dichiarato che vorrebbe cambiare vita se ne avesse la possibilità. Passiamo all'industria della maternità surrogata. Solo in India (il maggior fornitore mondiale di uteri in affitto) il giro d'affari è stato di 449 milioni di dollari nel 2006. Qui la nocività fisica è minore (anche se non trascurabile) ma è assai elevata sul piano psicologico: la brusca separazione dal figlio/a che si è portato in grembo per nove mesi, del quale non si potrà mai più avere notizia è per molte un'esperienza traumatica che i miseri compensi non bastano a lenire.
<br /><br />
A snocciolare questi dati è la svedese Kajsa Ekis Ekman autrice di un libro (<i>Essere ed essere comprate. Prostituzione, maternità surrogata e identità divisa</i>) appena uscito per i tipi di Meltemi che, oltre a documentare la cruda realtà appena evidenziata, demolisce gli argomenti con i quali quella che potremmo definire la santa alleanza fra neoliberali e sinistre postmoderne (compresa parte del movimento femminista) si batte per legittimare la prostituzione e maternità surrogata nei Paesi dove già sono legalizzate e per promuoverne la legalizzazione dove sono proibite.
<br /><br />
<b>Prostitute? No, lavoratrici sessuali</b>
<br /><br />
La tesi di fondo di liberali di destra e sinistre postmoderne (socialisti, verdi e femministe) che si battono per la legalizzazione è che la prostituzione è un lavoro come tutti gli altri. La vendita di servizi sessuali (sic.) non viola alcun diritto; al contrario si tratta di un diritto in sé, cioè del “diritto” di vendere il proprio corpo. I veri problemi sono altri: lo status lavorativo, la sindacalizzazione, retribuzioni adeguate, autodeterminazione, sicurezza sanitaria, ecc. Secondo questa narrazione il mondo della prostituzione non mette di fronte donne e uomini bensì venditori e clienti, per cui i proprietari di bordelli (privati o pubblici laddove esiste regolazione statale) diventano imprenditori e fornitori di servizi.
<br /><br />
Le sinistre postmoderne contribuiscono alla narrazione costruendo l'immagine della lavoratrice sessuale come persona forte e indipendente, che sa quello che fa e non si fa mettere i piedi in testa da nessuno, mentre i teorici <i>queer</i> la esaltano in quanto soggetto che trasgredisce le norme, abbatte i confini e mette in discussione i ruoli di genere. Fra questi <i>agit prop</i> della “puttana eroica” Ekman cita, fra gli altri, gli attivisti del COYOTE (Call Off Your Old Tired Ethics) un gruppo americano fondato da una fazione liberale del movimento hippie. Tutta questa gente svolge, consapevolmente o meno, il lavoro sporco per un ordine neoliberale ben felice di sgombrare il campo dall'idea della prostituta come vittima, perché ammettere l'esistenza di vittime implica riconoscere la necessità di una società giusta e di una rete di assistenza sociale, eliminare il concetto significa viceversa legittimare lo status quo, le divisioni di classe e la disuguaglianza di genere: se non ci sono vittime non ci possono essere carnefici.
<br /><br />
Accademici, giornalisti e critici impegnati nel costruire questa immagine eufemistica e glorificata della lavoratrice sessuale, si danno da fare per "dare voce" alle interessate e si eleggono a rappresentanti dei loro interessi, bisogni e punti di vista, identificandosi con loro anche se, commenta sarcastica Ekman, nessuno di questi soggetti si è mai prostituito, così come certi eroi da salotto inneggiano alla guerra senza avere mai visto il fronte. Che dire dei sindacati? Posto che in generale l'argomento della sindacalizzazione cattura il favore degli ambienti sindacali tradizionali e di certa sinistra, i cosiddetti sindacati delle lavoratrici del sesso, come l'autrice ha potuto constatare intervistandone vari esponenti, sono specchietti per le allodole creati per intercettare finanziamenti: gli iscritti, se e quando esistono, sono pochissimi, spesso di tratta di uomini e trans, a volte addirittura di papponi e maîtresse.
<br /><br />
In poche parole le narrazioni appena evocate svolgono il ruolo di infiocchettare il mondo della prostituzione con immagini mutuate dal mondo delle escort d’alto bordo dei Paesi occidentali, mentre calano un velo di ignoranza su una realtà fatta di violenza, sopraffazione, disperazione che coinvolge milioni di persone e attinge livelli inimmaginabili nel Terzo mondo e in alcuni Paesi ex socialisti.
<br /><br />
<b>Tratta di bambini? No immacolata concezione</b>
<br /><br />
La maternità surrogata è un'industria legale in crescita negli Usa, Ucraina, Inghilterra, India, Ungheria, Corea del Sud, Israele, Olanda, Sudafrica ma il primato spetta all'India. Sul mercato di questo grande paese le cose funzionano così: gli ovuli di donne bianche vengono inseminati con lo sperma di uomini bianchi e l’ovulo viene impiantato nel ventre di donne indiane; i bambini non mostreranno traccia della donna che li ha partoriti, non porteranno il suo nome né la conosceranno; dopo il parto le donne firmano un contratto di rinuncia al bimbo e ricevono fra i 2500 e i 6500 dollari; i clienti sono tipicamente americani, europei, australiani, giapponesi o indiani benestanti, coppie etero, gay, lesbiche e uomini single. Cosa impedisce di considerare tutto ciò come una forma estesa di prostituzione, con l'unica differenza che viene venduto l’utero invece della vagina? Per eludere questa domanda, vengono mobilitate due narrazioni complementari: da destra si esalta il sacrificio della madre surrogata che si spende per fare la felicità di una unione sterile; da sinistra si celebra la pratica “trasgressiva” che rovescia lo stereotipo della famiglia tradizionale.
<br /><br />
Dopo avere premesso che la gravidanza in questione non è una "vera" maternità, bensì un servizio e che, stipulando un contratto, la madre surrogata conferma il proprio status di persona dotata di libero arbitrio individuale (persona è chi possiede il proprio corpo!), gli apologeti liberali indorano la pillola presentando la madre surrogata come un’anima gentile, una fata madrina che aiuta i clienti a ottenere ciò che vogliono. I più arditi si spingono a scomodare la tradizione ebraico cristiana per "angelicare" il mercimonio citando la serva Agar che portò in grembo il figlio di Sara e Abramo o il sacrificio della vergine Maria che portò in grembo il figlio del Signore. Ma appena le argomentazioni si fanno più prosaiche vengono alla luce le contraddizioni. La maternità surrogata è un servizio come un altro? Ma qual è il prodotto? Un bambino, che diviene così paragonabile a un’auto o a un cellulare. Una coppia stabile alto borghese, si dice, non darà forse al bambino la migliore educazione possibile e una vita migliore di quella che potrebbe offrirgli una miserabile madre biologica? Con il calcolo economico si riaffaccia insomma lo spettro della tratta di minori.
<br /><br />
Ma c'è sempre la possibilità di mobilitare gli argomenti di sinistra. Per i teorici queer e gli attivisti LGBTQ la maternità surrogata, come la prostituzione, è una pratica trasgressiva che sfida modelli conservatori e obsoleti; è la storia femminista di donne che si ribellano alla maternità tradizionale riscattando altre donne dall’inferno associato dall'impossibilità di avere figli. C'è persino chi (tale Kutte Jonsson citata dalla Ekman) paragona la lotta per la legalizzazione della maternità surrogata a quelle degli anni '70 per il salario al lavoro domestico, sostenendo che le donne non devono essere private dell’opportunità di usare il proprio corpo in cambio di un pagamento, per cui la maternità surrogata sarebbe, al tempo stesso, un diritto e una richiesta di emancipazione.
<br /><br />
In poche parole: l'alleanza fra neoliberali e sinistre postmoderne funziona benissimo anche in questo caso ma, prima di entrare nel merito delle riflessioni teoriche con cui Ekman sostanzia il suo atto d’accusa, vale la pena di dimostrare quali mostri riesca a partorire questa unità di amorosi intenti fra destre e sinistre. Ecco perché, nel prossimo paragrafo, ho raccolto un elenco delle citazioni dalle argomentazioni degli apologeti di prostituzione e maternità surrogata che più mi hanno colpito leggendo il libro della Ekman.
<br /><br />
<b>Fior da fiore liberal femminista</b>
<br /><br />
"Queste donne (le prostitute) prendono il comando sugli uomini e agiscono secondo strategie di potere" (Petra Ostergren).
<br /><br />
"Ogni tipologia non convenzionale di sesso è rivoluzionaria" (Gayle Rubin, antropologa americana).
<br /><br />
La sociologa Lara Augustin definisce le vittime della tratta di esseri umani "Lavoratrici sessuali migranti".
<br /><br />
A proposito della prostituzione minorile in Thailandia l'antropologa sociale Heather Montgomery scrive: "non credo che i modelli psicologici occidentali possano essere applicati ai bambini di altri paesi e risultare ancora utili" (cioè i bambini thailandesi si divertono un mondo nei bordelli per pedofili?).
<br /><br />
"Vendere il proprio corpo è un diritto umano" (Jenness).
<br /><br />
"I papponi non sono necessariamente il nemico, possono essere necessari alla protezione delle lavoratrici sessuali visto che la polizia non riesce a farlo" (Ana Lopes, sindacalista).
<br /><br />
"La maternità surrogata dissolve l’idea “naturale” di maternità, di paternità e di cosa sia una famiglia" (Torbjorn Tannsjo, filosofo)
<br /><br />
"Il divieto (della maternità surrogata) è la prova che abbiamo una visione biologica eteronormativa e orientata alla coppia della genitorialità" (Soren Juvas, attivista per la legalizzazione).
<br /><br />
"Anche le differenze di classe e di razza sono messe da parte quando si tratta di infertilità" (Hélena Ragoné, ricercatrice; cioè: al committente bianco non fa schifo far crescere il proprio figlio nel grembo di una donna di colore povera).
<br /><br />
"Ci sono dei vantaggi nell’essere sfruttati soprattutto quando si vive in totale miseria" (Wilkinson, filosofo inglese).
<br /><br />
"Ciò che viene venduto è un pacchetto di diritti genitoriali non il bambino" (Wilkinson, filosofo inglese).
<br /><br />
"La maternità surrogata non è vendita di bambini ma piuttosto costruisce famiglie attraverso il mercato" (Elly Teman, antropologa).
<br /><br />
<b>Reificazione</b>
<br /><br />
Le narrazioni che perorano la causa della legalizzazione, scrive Ekman, tracciano un confine netto fra bene e male. Dalla parte del bene mettono: la prostituta ribattezzata lavoratrice sessuale, il sesso libertario, il libero arbitrio, il diritto a disporre del proprio corpo, i diritti dei gruppi oppressi, i gay, l’economia di mercato, il progresso, la trasgressione, ecc. Dalla parte del male: le femministe e gli attivisti politici paleo marxisti, la moralità, l’ipocrisia, la stigmatizzazione del diverso, l’essenzialismo, il controllo statale, ecc. L’autrice è tuttavia costretta ad ammettere che anche le femministe che non appartengono all’ala liberal-progressista del movimento si lasciano ricattare da questa polarizzazione infatti, per non essere dipinte come megere moraliste e bacucche patriarcali, preferiscono tacere o allinearsi alla narrazione mainstream.
<br /><br />
La trappola concettuale che impedisce alle femministe di prendere le distanze dalle narrazioni dell’ala liberal progressista del movimento è l'ingombrante eredità ideologica che si portano dietro dal '68, sintetizzata dallo slogan <i>il corpo è mio e ne faccio ciò che voglio</i>. Slogan che, tanto nel caso della prostituzione quanto in quello della maternità surrogata, si ritorce contro le intenzioni di coloro che lo hanno coniato. Esso viene infatti utilizzato per legittimare un’altra asserzione: vendo una parte del mio corpo non il mio io. Il guaio è, commenta Ekman, che la vagina e l’utero sono legati a una persona per cui, nel momento in cui dico che vendo certe parti del mio corpo, rimuovo il fatto che nessuno possiede il proprio corpo perché tutti noi siamo i nostri corpi. Se la vagina e l’utero sono cose, la prostituta e la madre surrogata sono fatte di due parti: il soggetto che vende e l’oggetto venduto e la libertà del primo implica la schiavitù del secondo.
<br /><br />
Per descrivere gli effetti psicologici di questo sdoppiamento, Ekman analizza le modalità di distanziamento che la prostituta, a partire dal momento in cui stipula un accordo con il cliente, è indotta a mettere in atto nei confronti del proprio corpo, nonché delle proprie sensazioni ed emozioni. Si tratta di una serie di pratiche di autodifesa che generano disagi e turbe psichiche e, alla lunga, possono causare veri e propri sdoppiamenti di personalità.
<br /><br />
Per approfondire il tema l’autrice chiama in causa il concetto di <i>estraniazione</i> in Lukács (1) e quello di <i>mercificazione</i> in Marx. Per Lukács il concetto di reificazione descrive quell’aspetto della società capitalistica in ragione del quale gli oggetti appaiono dotati di vita propria a fronte di soggetti ridotti all’impotenza. Da un lato abbiamo l’individuo “liberato” dalla relazione immediata e diretta con la terra, i mezzi di produzione e i mezzi di sostentamento; dall’altro la sua forza lavoro, che assume la forma di merce, cioè di una cosa che egli possiede ed è indotto a vendere per potersi riprodurre. Questa relazione imprime la sua struttura all’intera coscienza umana: qualità e capacità non si connettono più all’unità organica della persona ma appaiono come cose che uno possiede ed esteriorizza al pari degli oggetti del mondo esterno.
<br /><br />
Dal canto suo Marx, premesso che il capitalismo per durare deve costantemente cercare nuove aree di mercificazione, scrive che la mercificazione nasconde sempre la relazione sociale fra due parti. Nel caso della prostituzione, ma anche in quello della maternità surrogata commenta Ekman, ciò va inteso in senso letterale: la relazione è cancellata mentre resta solo la merce. Infine, per dimostrare ulteriormente la congruità delle categorie marxiane rispetto ai fenomeni sociali che analizza, scrive che la maternità surrogata potrebbe essere considerata come un caso particolare del tentativo di regolare il rapporto tra proletariato e classi superiori attraverso un contratto che consenta di mistificarlo come un rapporto fra “pari”.
<br /><br />
<b>L’eredità (sviata?) del '68. Considerazioni conclusive</b>
<br /><br />
Fin qui, fin quando cioè il discorso si mantiene sul terreno della denuncia e della critica filosofico culturale delle tesi di liberali e sinistre postmoderne, le argomentazioni della Ekman mi paiono impeccabili. Viceversa, quando la polemica si sposta sul terreno ideologico-politico, compaiono alcune aporie. La prima si manifesta allorché l’autrice cerca di dare una motivazione psicologica alla conversione delle sinistre all’ideologia liberale. Nel momento in cui il capitalismo conquista una incontrastata egemonia globale, scrive, parti della sinistra “reagirono mascherando come un trionfo la sconfitta”. Così la ricerca di ciò che è provocatorio, ribelle e sovversivo si sposta dall’esterno all’interno del sistema, fino a teorizzare (Ekman non li cita, ma qui le teorie di Negri e altri autori postoperaisti che blaterano di “comunismo del capitale” ci stanno a pennello) che l’ordine esistente è già di per sé sovversivo e/o a riconoscere in ogni manifestazione di insofferenza sociale, anche nelle più conservatrici e reazionarie, nuclei di resistenza e contropotere. La descrizione fenomenica è perfetta ma siamo sicuri che i motivi della svolta siano di ordine psicologico, una sorta di reazione autoconsolatoria per non sprofondare nella depressione?
<br /><br />
La tesi mi pare debole, e ancora più debole mi pare il modo in cui Ekman descrive l’impatto dei movimenti libertari e anti autoritari del '68 sui sistemi di potere politici, economici, accademici e mediatici, i quali, scrive, “hanno dovuto ridefinirsi per giustificare la loro esistenza”. Così, dal momento che l’autorità non poteva più essere considerata come una cosa buona in sé e per sé né potendola più presentare come un dato “di natura”, l’unico modo per legittimare il potere sarebbe diventato quello di negarlo, o almeno eufemizzarlo. Da qui nasce la simbiosi fra destra neoliberale e sinistra postmoderna in ragione della quale capitalisti woke (2), media, intellettuali e politici fanno a gara per costruirsi un’immagine di diverso, dissidente o emarginato.
<br /><br />
A una lettura superficiale potrebbe sembrare che la tesi di Ekman converga con quelle di Boltanski e Chiapello (3) e/o con quelle della filosofa femminista Nancy Fraser (4). Ciò è parzialmente vero nel caso della seconda, ma non lo è nel caso dei primi. Infatti costoro non sostengono che il neo capitalismo si sarebbe adeguato all’ideologia, ai principi e ai valori dei movimenti anti autoritari, sostengono assai più correttamente che l’ideologia, i principi e i valori di quei movimenti erano di per sé funzionali alle esigenze di autoriforma di un capitalismo in rapida trasformazione sul piano economico (finanziarizzazione) tecnologico (informatizzazione) e socioculturale (terziarizzazione e femminilizzazione del lavoro, esternalizzazione nei Paesi in via di sviluppo dei lavori esecutivi e concentrazione dei lavori “immateriali” e “creativi” nelle metropoli occidentali).
<br /><br />
Una trasformazione che esigeva metodi e modelli organizzativi del tutto nuovi di gestione della forza lavoro qualificata, compatibili con le aspirazioni di quella classe media in formazione che nel '68 si era ribellata contro i vecchi dispositivi di potere politico, accademico e familiare. Esauritosi il ciclo di lotte operaie con le quali questi strati avevano brevemente condiviso obiettivi e parole d’ordine, costoro sono transitati dalla “critica sociale” alla “critica artistica” (5) rompendo il blocco sociale con i lavoratori manuali e arruolandosi nell’esercito neocapitalista che, per estendere il processo di mercificazione alla totalità delle relazioni sociali, esigeva che si facesse piazza pulita di tutto il vecchiume borghese (famiglia e costumi sessuali tradizionali compresi). Milioni di appartenenti alle classi medie “riflessive” erano pronti a marciare sotto le bandiere della libertà e dell'emancipazione individuali e ad aiutare il capitale a realizzare l’obiettivo descritto da Marx nel <i>Manifesto</i>: abbattere ogni barriera fisica, morale, ideologica, culturale che limita le opportunità di profitto.
<br /><br />
Lo scoglio che impedisce anche alle femministe anticapitaliste come Ekman e Fraser di cogliere a fondo le radici di questa transizione storica, consiste nel fatto che non riescono a prendere atto che nel vecchiume borghese di cui il neocapitalismo ha bisogno di sbarazzarsi c’è anche quel paternalismo che continuano invece a rappresentare come il bersaglio principale. Queste autrici sono così costrette a fare salti mortali per dimostrare l’esistenza di un rapporto organico, strutturale, fra capitalismo e patriarcato (6). Ciò è del tutto evidente nel caso della maternità surrogata. Ekman parla di un nuovo tipo di mito patriarcale della creazione, nel senso che il padre non è l’uomo che genera un figlio ma colui che lo compra, e aggiunge che la maternità surrogata può essere vista come una forma estesa di prostituzione dal momento che qualcuno (spesso un uomo aggiunge) paga per usufruire del corpo della donna. Infine scrive che, da parte dei sostenitori della legalizzazione, il legame biologico del padre non viene messo in discussione: lui non viene accusato di difendere la biologia o la famiglia nucleare, la critica è rivolta solo a lei. Sono argomentazioni forzate, per non dire speciose. Qui è infatti evidente che è piuttosto la Ekman che cerca di attirare l’attenzione sul padre, rimuovendo il fatto che il desiderio di avere figli, nella stragrande maggioranza dei casi (fatta eccezione per le coppie omosex), vede come protagonista principale la metà femminile della coppia. Non è certo un caso se (vedi sopra) gli argomenti dei fan maschili della legalizzazione sono perlopiù economici, mentre quelli delle fan femminili (che sono larga maggioranza, a giudicare dalle citazioni scelte della stessa Ekman) esaltano il desiderio femminile di maternità che “sovverte” le regole della famiglia tradizionale. È la narrazione femminista che associa le donne che si ribellano alla maternità tradizionale alla sofferenza di non avere figli cui la maternità surrogata pone rimedio. È la storia di un desiderio che viene trasfigurato in bisogno perché lo si possa infine spacciare per un “diritto umano” che solo il mercato riesce a soddisfare (7). Mi pare ovvio che qui non è questione di dominio patriarcale bensì di dominio di classe e razziale, un dominio che le “leggi” del mercato capitalistico consentono a coppie benestanti bianche (donne e uomini) di esercitare a spese di donne povere e di colore.
<br /><br />
Ovviamente mi si potrebbe obiettare che, nel caso della prostituzione, è difficile negare che si tratta di un fenomeno patriarcale più che (o almeno altrettanto che) capitalistico. Anche perché fenomeni come il turismo sessuale e altre forme di violenza e la sopraffazione che i maschi esercitano sui corpi di donne e minori caricano il tema di forti valenze emotive. Ciò detto, muovendo da questo punto di vita unilaterale si finisce per distogliere l’attenzione dalla forma specifica che il fenomeno della prostituzione assume nella società capitalistica. Una società che disintegra i legami comunitari e familiari, trasformando uomini e donne delle classi inferiori in atomi condannati alla povertà e alla solitudine, e generando quella miseria sessuale generalizzata di cui la prostituzione, con il suo corredo di violenza di genere, è uno dei corollari.
<br /><br />
Ma la questione è più generale. Il rapporto fra il modo di produzione capitalistico e i residui antropologici, sociali e culturali delle società precapitalistiche è complesso, nel senso che il capitalismo sfrutta i residui in questione finché può metterli al servizio dell’accumulazione (vedi l’uso della schiavitù nell’America ottocentesca) mentre se ne sbarazza non appena entrano in conflitto con la sua vocazione di dispositivo di sovversione permanente di tutte le forme e relazioni sociali. Il salto di qualità associato ai fenomeni sopra elencati (terziarizzazione e femminilizzazione del lavoro, esternalizzazione nei Paesi in via di sviluppo dei lavori esecutivi e concentrazione dei lavori “immateriali” e “creativi” nelle metropoli occidentali, ecc.) è incompatibile con il permanere di strutture familiari di tipo patriarcale. Il capitale ha bisogno di spezzare queste strutture individualizzando e atomizzando la forza lavoro, uomini e donne, per renderla più ricattabile; ha bisogno di fare piazza pulita dei valori “machisti” dell’operaio tradizionale femminilizzandolo, spezzandone la combattività, l’orgoglio professionale (le donne della classe media hanno competenze che le rendono molto più adatte alla produzione terziarizzata).
<br /><br />
La propaganda politicamente corretta (8) che media, intellettuali e politici spandono a piene mani è l’arma letale destinata triturare ogni residuo di ideologia patriarcale. Il fatto che le donne continuino a percepire stipendi in media più bassi, a occupare meno posti di responsabilità, ecc. non ha niente a che fare con il patriarcato: è il sistema usato dal capitale per dividere e mettere in concorrenza i lavoratori dei due sessi (la femminilizzazione del lavoro non è un fattore di equiparazione delle donne ai maschi, bensì di equiparazione dei maschi alle donne, è un gioco al ribasso). Ovviamente questo non toglie nulla allo straordinario contributo che il libro di Kajsa Ekis Ekman offre alla lotta contro due fenomeni disgustosi come la riduzione del corpo femminile a oggetto di piacere e a macchina riproduttiva. Nè toglie nulla alla sua denuncia della complicità delle sinistre postmoderne nei confronti del progetto neoliberale di mercificazione totale di ogni tipo di relazione umana. Queste mie glosse finali vogliono solo essere uno stimolo critico alla comprensione della sovradeterminazione di tutte forme di vita precapitaliste da parte del mercato.
<br /><br />
<b>Note</b>
<br /><br />
(1) Ekman si riferisce in particolare al Lukács di Storia e coscienza di classe (Tasco, Milano 1997) mentre non sembra conoscere l’opera “definitiva” del filosofo ungherese, quella Ontologia dell’essere sociale (4 voll. Meltemi, Milano 2023) che le sarebbe forse servita a superare alcune limitazioni presenti nella sua analisi filosofico politica (vedi l'ultima parte di questo articolo).
<br /><br />
(2) Del fenomeno del cosiddetto capitalismo woke (vedi C. Rhodes, Capitalismo woke, Fazi, Milano 2023), vale a dire dei capitalisti “progressisti” che applicano i principi del politically correct alla gestione delle proprie imprese, mi sono occupato qualche mese fa su queste pagine: https://socialismodelsecoloxxi.blogspot.com/2023/09/a-proposito-del-cosiddetto-capitalismo.html.
<br /><br />
(3) Cfr. L. Boltanski, E. Chiapello, Il nuovo spirito del capitalismo, Mimesis, Milano-Udine 2014.
<br /><br />
(4) Cfr. N. Fraser, Fortune of Feminism, New York 2013; vedi anche (con R. Jaeggi), Capitalismo, Meltemi, Milano 2019.
<br /><br />
(5) Boltanski, Chiapello definiscono critica artistica la cultura anti autoritaria, libertaria, anti sessista dell’ala intellettuale e studentesca dei movimenti del 68, distinguendola dalla critica sociale del movimento operaio.
<br /><br />
(6) Tipica in questo senso l’analisi teorica di Nancy Fraser. La sua riflessione integra nel concetto di crisi capitalistica quello di “crisi della cura”. Sposta cioè le contraddizioni principali del sistema all’esterno del modo di produzione e delle relazioni di mercato, o meglio le disloca al confine fra produzione e riproduzione. Questo approccio, pur presentando certe analogie con le tesi di autori come Polanyi, Luxemburg, Laclau e altri, se ne distingue in quanto, da un lato sostiene che fin dall’inizio la società capitalistica ha separato il lavoro di riproduzione sociale, esterno all’economia, dal lavoro di produzione economica, dall’altro lato afferma che le attività non economiche rappresentano una precondizione dell’esistenza stessa del sistema economico. Perciò, dal momento che la tendenza capitalistica all’accumulazione illimitata destabilizza i processi di riproduzione sociale, è sul confine che separa produzione e riproduzione che nasce una crisi della cura di intensità inedita. Questa crisi è lo scenario che genera le condizioni della convergenza fra emancipazione femminile e mercificazione del lavoro riproduttivo, convergenza che è il terreno di coltura di quel “neoliberismo progressista” al quale il femminismo mainstream fornisce giustificazione ideologica. Fraser, pur duramente critica nei confronti di questo femminismo neoliberale, si incarta tuttavia nel tentativo di mettere sullo stesso piano giustizia distributiva e giustizia del riconoscimento ma, poiché si tratta di due discorsi che incarnano paradigmi teorici diversi, l’aspirazione a “riequilibrarli” si risolve inevitabilmente nell’egemonia dell’uno sull’altro. Ergo: anche la Fraser finisce per cadere a sua volta preda dell’approccio postmodernista, il che è inevitabile non appena si parte dal presupposto secondo cui le rivendicazioni di riconoscimento avrebbero, non meno delle rivendicazioni di giustizia distributiva, ragioni strutturali, in quanto le stratificazioni interne alla classe degli sfruttati secondo linee di genere e di razza risponderebbero a una precisa necessità del modo di produzione capitalistico. Contestando questa visione in un dialogo con la Fraser, Rahel Jaeggi (vedi nota 4) afferma che, da una analisi teorica di ispirazione marxista, non si evince alcun motivo strutturale per cui gli sfruttati debbano essere categorizzati in base a confini di genere e/o di razza: “E se il capitalismo, si chiede, mirasse a espropriare e ‘riproduttivizzare’ quasi tutti, esigendo manodopera in quelle dimore nascoste dell’intera popolazione che non possiede capitale, oltre a ciò che esso già richiede loro attraverso lo sfruttamento del lavoro salariato? Il risultato non sarebbe un capitalismo non razzista, non sessista?”. Di fronte a questa obiezione Fraser è indotta ad ammettere che l’ipotesi è “logicamente possibile”, dopodiché cerca di cavarsela dicendo che la si può tuttavia escludere “per tutti gli scopi pratici”. Il punto è che il femminismo non può ammettere che sessismo e razzismo non sono di per sé strutturalmente necessari per il modo di produzione capitalistico, in quanto rischierebbe di apparire una lotta di retroguardia contro certi arcaismi culturali e contro le forze politiche che li incarnano. In poche parole: il grumo concettuale che penalizza le analisi di tutte le intellettuali femministe è quello della presunta necessità strutturale della discriminazione di genere ai fini della sopravvivenza del modo di produzione capitalistico; un inciampo che rende loro impossibile emanciparsi del tutto dall’egemonia liberale.
<br /><br />
7) Questo slittamento lungo l’asse desiderio-bisogno- diritto è stato il nodo che ha alimentato le critiche che il sottoscritto, assieme a Onofrio Romano e altri amici, ha sollevato nei confronti delle tesi sostenute da Stefano Rodotà nel suo Il diritto di avere diritti (Laterza, Roma-Bari 2012).
<br /><br />
8) Sul carattere violento, autoritario e antidemocratico della cultura politicamente corretta cfr. J. Friedman, Politicamente corretto. Il conformismo culturale come regime, Mimesis, Milano-Udine 2018.
<br /><br />
<a href="https://socialismodelsecoloxxi.blogspot.com/2024/03/libere-di-vendere-il-proprio-corpo.html" rel="nofollow" target="_blank">Fonte</a>Re-Carbonizedhttp://www.blogger.com/profile/07070140938585948393noreply@blogger.com0tag:blogger.com,1999:blog-4800805644070876200.post-31228795332311649742024-03-17T14:43:00.000+01:002024-03-17T22:28:56.458+01:00La guerra e la critica dell’economia politica<div style="text-align: right;">La guerra – riguardata nella lunga prospettiva – rappresenta un organo esecutivo
acceleratore (ma talvolta è anche un freno) del generale sviluppo
economico-sociale. Il ruolo attivo di questo complesso nel quadro della totalità
sociale, nella interazione con lo sviluppo economico, lo si riscontra nel fatto
che le conseguenze di una vittoria o di una sconfitta possono modificare il
cammino dell’economia in generale per un periodo più o meno lungo. Ma che
l’economia costituisca il momento soverchiante, qui appare con nettezza ancora
maggiore che nella lotta di classe. <br /><br />
<i>György Lukács, Ontologia dell’essere sociale, vol. II°, trad. it., Roma 1981, p.
248.</i>
<br /></div><br />
<b>1. La guerra come forma del lavoro sociale</b>
<br /><br />
La prima domanda che occorre porsi per definire la guerra (qui intesa nella sua
accezione moderna e contemporanea) riguarda la natura generale e reale della
guerra, interpretata non in senso figurato o nelle sue espressioni più generiche
di lotta o conflitto o conseguenza di decisioni umane o di reazioni emotive da
parte di singoli uomini o di interi popoli.
<br /><br />
Così, per rispondere a questa domanda si potrebbe partire da un raffronto tra il
processo bellico e il processo lavorativo, cercando di porre in luce la
somiglianza e, al tempo stesso, la differenza tra i due tipi di processo. In
altri termini, la domanda che ora va posta è la seguente: <i>è possibile
considerare la guerra come una forma di lavoro?</i>
<br /><br />
«In primo luogo il lavoro – scrive Marx nel Capitale – è un processo che si
svolge fra l’uomo e la natura, nel quale l’uomo, per mezzo della propria azione,
media, regola e controlla il ricambio organico fra se stesso e la natura:
contrappone se stesso, quale una fra le potenze della natura, alla materialità
della natura».[1]
<br /><br />
Qui emerge un differenza, poiché la contrapposizione che si svolge nel corso di
una guerra non sembra avvenire direttamente tra uomo e natura ma, semmai, tra
uomo e uomo. Dal canto suo, Marx, analizzando il lavoro in quanto forma che
appartiene «esclusivamente all’uomo», distingue fin da principio in esso lavoro
una «volontà conforme allo scopo» e uno sforzo fisico.[2]
<br /><br />
L’attività conforme allo scopo, il mezzo di lavoro e l’oggetto del lavoro
costituiscono secondo Marx i tre momenti del processo lavorativo, fermo restando
che la terra in generale è l’oggetto del lavoro umano, il serbatoio e la
dispensa naturale dell’uomo.
<br /><br />
Sennonché, proseguendo nel raffronto tra i due processi potrebbe sembrare che,
mentre il risultato del processo lavorativo è un prodotto, il risultato del
processo bellico sia un rapporto, nel senso di una divisione (o distruzione) di
prodotti. Del resto, lo stesso Clausewitz definiva la guerra «null’altro che una
reciproca distruzione».[3]
<br /><br />
La terra, inoltre, come obiettivo del lavoro bellico, si presenta come oggetto
di appropriazione più che di trasformazione, mentre come mezzo generale si
presenta come arma di lotta. Infine, si potrebbe osservare che, fin
dall’antichità, viene considerato come tratto specifico della guerra e del
processo bellico sia il carattere antagonistico dei rapporti nei quali esso si
svolge, sia il carattere violento di tale antagonismo.
<br /><br />
Tuttavia, va precisato che né l’antagonismo né la violenza nascono con la guerra
o si estinguono con la guerra; con la guerra, piuttosto, essi si accentuano. Da
questo punto di vista, nello svolgersi dell’azione umana in generale il
passaggio da uno stato di guerra ad uno di pace (intesa come assenza di guerra),
e viceversa, può essere configurato come un mutamento qualitativo determinato da
mutamenti quantitativi.
<br /><br />
Per ciò che concerne la guerra nelle sue forme più complesse – quindi proprie di
società schiavistiche, feudali, capitalistiche – è necessario rilevare che essa
prima di tutto va posta in relazione con le forme più complesse del processo
lavorativo.
<br /><br />
Sebbene ciascuna di queste forme storiche della produzione sociale sia
caratterizzata da forme specifiche di antagonismo e di violenza, per il momento
l’antagonismo da focalizzare è quello classico suscitato, secondo l’approccio
analitico marxista, dalle contraddizioni tra un sistema di rapporti di
produzione e di proprietà, da un lato, e le forze produttive operanti nel quadro
di tale sistema, dall’altro.
<br /><br />
In questa sede, va sottolineato come i vari contrasti antagonistici inerenti ai
processi della produzione sociale siano il prodotto di contraddizioni
strutturali, e come gli antagonismi inerenti ai processi bellici siano il
prodotto delle medesime contraddizioni, ma solo quando hanno raggiunto un
livello determinato di acutezza.
<br /><br />
Ciò significa che l’antagonismo che si manifesta nelle forme complesse del
processo bellico non trae origine dal processo bellico stesso, ma dalle
contraddizioni ìnsite nelle forme complesse del processo lavorativo e negli
stessi rapporti di produzione, quali si configurano in un momento dato dello
sviluppo delle forze produttive.
<br /><br />
Da questo angolo visuale, si tratta allora di modificare l’aforisma
clausewitziano della guerra come “continuazione della politica con altri mezzi”,
nel senso che il processo bellico è la continuazione del processo produttivo in
una forma qualitativamente nuova, ma quale risultato di modificazioni
quantitative connesse all’accrescersi, oltre un certo limite, del numero o della
frequenza o dei contrasti nella società.
<br /><br />
Occorre poi tenere nel debito conto un altro carattere comune tanto al processo
bellico quanto al processo lavorativo, considerati nelle loro forme storiche e
sociali: la cooperazione. Quest’ultima procede di pari passo con la divisione
del lavoro (si pensi al passaggio dalla manifattura alla grande industria) ed è
il fattore propulsivo che determina sia l’accrescimento della forza produttiva
del lavoro sia la creazione di una “forza di massa”.
<br /><br />
Lo stesso Marx, per meglio rendere l’idea della cooperazione, sceglie un esempio
tratto dalla storia militare: «Come la forza d’attacco di uno squadrone di
cavalleria o la forza di resistenza di un reggimento di fanteria è
sostanzialmente differente dalle forze di attacco e di resistenza di ogni
singolo cavaliere o fante, così la somma meccanica delle forze dei lavoratori
singoli è sostanzialmente differente dal potenziale sociale di forza che si
sviluppa quando molte braccia cooperano contemporaneamente a una stessa
operazione indivisa».[4]
<br /><br />
E ulteriori analogie[5] tra processo lavorativo e processo bellico derivano dal
fatto che, come l’anarchia della divisione sociale del lavoro in regime di
libera concorrenza si accompagna al dispotismo della divisione del lavoro
nell’unità produttiva capitalistica, così, a maggior ragione, l’anarchia della
“divisione del lavoro” bellico tra le forze contrapposte si accompagna al
dispotismo che contraddistingue i rapporti nell’ambito di ciascuna forza armata.
<br /><br />
Al lavoratore, inoltre, che all’inizio controlla se stesso e che più tardi viene
controllato, può farsi corrispondere il guerriero che storicamente attraversa
una evoluzione analoga.
<br /><br />
Parimenti, al processo lavorativo che all’inizio riunisce lavoro intellettuale e
lavoro manuale e che più tardi vede separarsi il primo tipo di lavoro dal
secondo, e dividersi il lavoratore intellettuale dal lavoratore manuale, può
farsi corrispondere il ‘processo lavorativo’ nell’ambito di una singola
formazione militare, dalla pattuglia all’esercito: processo che all’inizio vede
riunite in ciascun guerriero le funzioni della decisione, del comando e
dell’esecuzione e che più tardi vede divise fino all’antagonismo quelli che oggi
si chiamerebbero gli ufficiali e la truppa.
<br /><br />
Marx nota infine, ricapitolando la sua analisi comparativa, che la «guerra è
sviluppata prima della pace», che «determinati rapporti economici come il lavoro
salariato, le macchine ecc. si sono sviluppati prima attraverso la guerra e
negli eserciti» e poi «all’interno della società borghese».[6]
<br /><br />
<b>2. La guerra come appropriazione violenta di beni</b>
<br /><br />
A questo punto, si possono formulare alcune ipotesi sul rapporto guerra-lavoro,
sulla natura della guerra in generale e sul nesso tra antagonismo, violenza e
cooperazione.
<br /><br />
Guerra o non-guerra, in primo luogo è sempre questione di attività sociale umana
che si svolge in determinate condizioni storiche e sociali, avente anch’essa per
scopo, per ciascuna delle parti contrapposte, la difesa di condizioni di
esistenza determinate o la conquista di condizioni nuove.
<br /><br />
Quanto ai motivi reali, è sempre questione di proprietà dei mezzi di produzione
fondamentali, a partire dalla terra come “mezzo generale” e come “condizione
oggettiva” della produzione sociale; e questo per quanto nobili o abbietti siano
i motivi dei singoli, dall’ultimo dei non-combattenti al principale dei
comandanti civili e militari.
<br /><br />
Al di là delle intenzioni dichiarate, combattere per la
“liberté-égalité-fraternité” o per (o contro) la libertà, l’indipendenza e
l’unità nazionale del proprio o di un altro popolo, implica pur sempre
l’esistenza di un problema di conquista o di difesa di una proprietà dei mezzi
di produzione, che si tratti di guerra fra Stati, o tra fazioni o classi
all’interno di uno Stato, e che la posta sia la terra stessa come territorio di
residenza o come serbatoio di risorse, oppure il capitale finanziario.
<br /><br />
Il che significa, in altri termini, che fino a quando esisteranno problemi di
appropriazione, in forma più o meno esclusiva, di mezzi di produzione
fondamentali, la guerra sarà sempre inevitabile. In tal modo, la guerra, che si
tratti di una guerra imperialista o di difesa nazionale, di una guerra dinastica
o di una crociata, di una guerra partigiana o di una guerra feudale, conserva
sempre un preciso significato economico, almeno dal punto di vista del
risultato.
<br /><br />
Dal punto di vista della forma dell’azione, questo significato, come si è visto,
si mantiene, se non altro perché le guerre, in quanto si producono su questa
terra, oltre che in contesti sociali come totalità comprendenti le parti
contrapposte, restano la “continuazione” di processi che si rivelano, in primo
luogo e in generale, processi di produzione sociale.
<br /><br />
Ciò, tuttavia, non esclude (anzi, in un certo senso presuppone) che il carattere
dell’azione bellica sia anche politico, di lotta politica, almeno nella misura
nella quale le guerre sono risultati di due o più “attività conformi allo scopo”
poste in essere da intere collettività umane, quindi con un antagonista
soprattutto come soggetto e l’altro soprattutto come suo oggetto.
<br /><br />
<b>3. Il concetto di forza militare</b>
<br /><br />
Da quanto detto risulta che la forza militare è una forza sociale. Ciò basta a
comprendere l’aspetto sostanziale di tale forza. Infatti, nel corso di una
guerra si consumano di solito munizioni, viveri, armi e, ovviamente, effettivi:
componente della forza, pertanto, è la capacità di produrre e riprodurre in
tempo utile ciò che viene consumato, affinché l’azione raggiunga il suo scopo.
<br /><br />
Inoltre, i singoli combattenti posseggono ciascuno una potenza determinata; ma
anche tale potenza fisica è un risultato della capacità produttiva (e
riproduttiva) dell’unità sociale nel suo insieme, e non soltanto dei singoli
combattenti o del gruppo da essi formato, in un dato momento. La potenza dei
singoli combattenti o dell’intero gruppo armato è tanto maggiore quanto più
numerose, diversificate ed efficaci sono le armi disponibili; ma anche tale
disponibilità è determinata dalla capacità produttiva dell’unità sociale presa
in considerazione.
<br /><br />
Del resto, una maggiore abilità nell’uso delle armi o nel modo di condurre
l’azione e la lotta armata presuppongono un periodo precedentemente speso per
l’addestramento. Infine, si fa spesso riferimento a “fattori morali” o
“psicologici” per spiegare taluni elementi di superiorità o inferiorità tra
forze militari contrapposte.
<br /><br />
Tali riferimenti risultano pienamente plausibili, anche se non sono facilmente
determinabili a priori. Per esempio è plausibile pensare ad una superiorità
“morale” e “psicologica” del soldato francese durante le guerre della
Rivoluzione, rispetto ai suoi colleghi degli eserciti avversari.
<br /><br />
Se tuttavia non è questione di qualità innate, il carattere sociale della forza
militare risiede nel fatto che tale forza non si riduce alla ‘capacità
lavorativa’ di combattenti e non-combattenti, sia singolarmente presi sia nel
loro insieme (si pensi, per i non-combattenti, all’importanza del “fronte
interno”), e nemmeno soltanto alla società particolare dalla quale il gruppo
militare proviene.
<br /><br />
Esso risiede anche nel tipo di contraddizioni che accompagnano e contribuiscono
a determinare lo sviluppo delle forze produttive, sia nel contesto particolare
che comprende, fra le altre, le formazioni sociali contrapposte, sia nell’ambito
di ciascun schieramento, sia, infine, all’interno di ciascuna formazione, tra
forza militare e società.
<br /><br />
<b>4. Le contraddizioni che hanno portato alla guerra mondiale</b>
<br /><br />
Resta da precisare, a questo punto, il significato e la natura di tali
contraddizioni. La “contraddizione fondamentale” è oggi, secondo la maggioranza
degli osservatori, la contraddizione tra gli Usa e la Cina come principali
esponenti di due contrapposte egemonie sul mondo capitalistico (quella
nordamericano protezionista e quella cinese dirigista).
<br /><br />
La contraddizione consiste nel fatto che lo sviluppo di una delle due formazioni
socio-economiche non potrebbe aver luogo senza impedire in tutto o in parte lo
sviluppo dell’altra, almeno, rispettivamente, come sistemi, e quindi in
conformità agli interessi prevalenti dei quali ciascuno Stato è l’espressione.
<br /><br />
La qual cosa potrebbe verificarsi in misura sufficientemente ampia da provocare
un conflitto generalizzato solo quando, in maniera graduale o improvvisa,
venissero a mancare soluzioni alternative all’uno o all’altro antagonista.
<br /><br />
Così, ad esempio, la seconda guerra mondiale scoppia non con l’inizio di
operazioni militari di uno dei contendenti (si pensi alla Spagna,
all’‘Anschluss’, alla Cecoslovacchia), ma solo quando l’attività militare della
‘Wehrmacht’ supera quel limite oltre il quale l’espansione delle potenze
dell’Asse secondo la logica che fu loro propria avrebbe impedito lo sviluppo
degli Stati capitalistici democratico-borghesi ciascuno secondo la propria
logica.
<br /><br />
Così, per fare un altro esempio, la prima guerra mondiale scoppia non con un
inizio di operazioni militari da parte di uno dei contendenti (si pensi alle
guerre balcaniche), ma quando le condizioni poste dalle potenze centrali nel
loro ultimatum, come condizioni necessarie per lo sviluppo imperiale,
risultarono “impossibili” per le potenze dell’Intesa.
<br /><br />
D’altra parte, nonostante le denunzie moralistiche dell’irrazionalità della
guerra in generale, non sembra che si possa dubitare che essa abbia avuto luogo
nel quadro di una razionalità che fu quella propria del capitale finanziario,
nel senso leniniano del termine. E questo sia per ciò che riguarda la condotta
delle operazioni, sia dal punto di vista dei costi che ciascuna delle parti
sarebbe stata disposta a sopportare e a far sopportare.
<br /><br />
Certamente, non furono gradite a nessuno le distruzioni di impianti,
costruzioni, installazioni, mezzi di trasporto e via dicendo, nonché i consumi
in quelle proporzioni di rifornimenti, munizioni, interi corpi d’armata ecc.
Sgraditi sicuramente furono anche i sacrifici di intere istituzioni monarchiche
più o meno assolutistiche (ovviamente per i fautori delle medesime).
<br /><br />
Ma in fondo gli impianti e le installazioni si sarebbero potuti ricostruire
anche meglio di prima, le scorte si sarebbero potute ricostituire, anche in
termini di forza-lavoro; nemmeno le istituzioni monarchiche, nonostante la loro
funzione, avrebbero rappresentato delle perdite intollerabili dal punto di vista
del sistema. Nulla insomma di tutto questo rappresentava una componente
essenziale del sistema vigente, sia all’interno che sul piano internazionale.
<br /><br />
Ciò che invece, per le classi dominanti, sarebbe stato assolutamente
intollerabile, cioè tale da suggerire l’interruzione della guerra in corso, a
qualunque punto essa fosse giunta, sarebbe stato il pericolo reale di un
cambiamento del sistema stesso (come si vide chiaramente nei mesi e negli anni
successivi alla vittoria della rivoluzione d’ottobre in Russia).
<br /><br />
La “forza”, in altri termini, delle parti impegnate nel conflitto dal punto di
vista soggettivo non fu né la “politica” né il governo né il comando militare
supremo in quanto tali, bensì innanzitutto la proprietà della parte decisiva del
capitale finanziario. Lì stava il centro delle decisioni fondamentali e lì
ovviamente la principale responsabilità. Tutte le altre componenti della società
si trovarono nella condizione di strumenti, di parti, anzi, dei meccanismi
complessivi rappresentati dalle varie formazioni imperiali.
<br /><br />
Questi ultimi, che si trattasse della Francia, della Gran Bretagna, del II Reich
o dell’impero asburgico ecc., furono parti del sistema mondiale da essi dominato
e facente capo al capitale finanziario internazionalizzato. Se dal conflitto
uscirono sconfitte le formazioni più “deboli” e vittoriose le formazioni più
“forti”, non fu questione di forza o di debolezza legate al maggiore o minore
livello tecnologico, alla maggiore o minore quantità di uomini e di mezzi, al
maggiore o minore livello organizzativo ecc., o, meno che meno, alle più alte o
più basse doti e qualità marziali dei singoli o delle formazioni militari.
<br /><br />
Fu invece questione sia del tipo di contraddizione fondamentale all’origine
della guerra, sia del tipo di contraddizioni da questa derivate o ad essa
legate, all’interno di ciascuna formazione politico-militare e ancor prima di
ciascuna formazione economico-sociale coinvolta nel conflitto, sia dello scopo
dell’azione militare delle forze tra di loro contrapposte.
<br /><br />
<b>5) Le cause materiali dei conflitti militari: la svolta protezionista
americana</b>
<br /><br />
I massimi rappresentanti della politica internazionale non si peritano di
affermare a chiare lettere che la guerra in Ucraina, così come il conflitto
israelo-palestinese e, più in generale, i venti di guerra che soffiano impetuosi
nel periodo che stiamo vivendo, costituiscono un ‘<i>turning point</i>’ di portata
storica non solo sul terreno della definizione dei confini territoriali, ma
anche nel senso che gli esiti delle guerre in corso potrebbero contribuire a
delineare il volto del futuro economico mondiale. Sono in gioco, per l’appunto,
le cause materiali dei conflitti militari, ossia gli interessi economici che
muovono i conflitti militari contemporanei, in Ucraina e nel resto del mondo.
<br /><br />
Orbene, per comprendere questo determinante ordine di cause occorre partire, a
giudizio di taluni analisti economici, da una grande svolta che da diversi anni
caratterizza la politica economica degli Stati Uniti d’America: la crisi
finanziaria del 2008.[7] In quella congiuntura critica gli americani si sono resi
conto, infatti, che stavano importando molte più merci di quante ne riuscissero
ad esportare, e che così stavano accumulando un ingente debito verso l’estero,
non solo pubblico ma anche privato: un debito potenzialmente insostenibile.
Basti pensare che il passivo netto americano verso l’estero è arrivato a 18.000
miliardi di dollari, un primato negativo senza precedenti. Di contro, l’attivo
netto cinese verso l’estero è arrivato a 4.000 miliardi, l’attivo netto russo a
500 miliardi, e così via. Sennonché il problema è che il creditore può
utilizzare il suo attivo per cominciare ad acquisire il capitale del debitore.
In altre parole, l’Oriente può iniziare a comprare aziende occidentali, ponendo
in atto quel fenomeno che Marx definisce come “centralizzazione del capitale” in
un nucleo ristretto di grandi imprese. Tale tendenza è tipica del capitalismo;
la novità però è che, questa volta, si tratta di grandi imprese orientali.
<br /><br />
Dinanzi a questa nuova tendenza, di una potenziale centralizzazione
capitalistica nelle mani dei grandi creditori orientali, dal 2008 in poi
l’amministrazione americana ha compiuto una svolta: non più verso il libero
scambio globale ma verso un protezionismo sempre più unilaterale e aggressivo.
Del resto, le avvisaglie di questa linea risalgono alla presidenza di Obama,
mentre il suo pieno sviluppo si è avuto con la presidenza di Trump e, in piena
continuità con questa, sotto la presidenza di Biden, confermando in tal modo che
il protezionismo è una questione decisiva per gli interessi economici
statunitensi. La storia, d’altronde, ci insegna che questi mutamenti
unilaterali, nella fattispecie il passaggio dal globalismo al protezionismo,
sono stati spesso sorgenti di conflitti economici sfociati poi in vera e propria
guerra militare, che è quanto dire in un classico conflitto imperialista.
<br /><br />
Così, le rimostranze dei creditori orientali verso la svolta protezionista
americana rappresentano chiaramente un indizio significativo, anche se non il
fattore decisivo, per comprendere l’origine delle attuali tensioni
internazionali. In questo senso, l’Ucraina è diventata uno dei molteplici
focolai di una contesa che non ha semplicemente a che fare con i temi
tradizionali della geopolitica (sovranità, sicurezza, confini), poiché è
l’espressione di un colossale scontro capitalistico in atto a livello mondiale:
scontro che ha una sua precisa base materiale, di carattere economico. E il
fatto che l’Unione europea si sia accodata all’aggressiva linea americana, pur
non avendo un problema di debito verso l’estero, è la dimostrazione
inoppugnabile della sua debolezza politica e della sua complementarità
strategica rispetto alla potenza egemonica degli Stati Uniti.
<br /><br />
<b>6. Le cause economiche del conflitto russo-ucraino</b>
<br /><br />
Nei paragrafi precedenti di questo articolo è stato esposto, circa la natura e
il significato della guerra, un reticolo concettuale ricavato dalla teoria
marxista. Vediamo ora come, tenendo presente questo reticolo, si possa giungere
a definire non solo sul piano del rapporto guerra-lavoro, quindi a livello della
produzione, ma anche sul piano del mercato mondiale, quindi a livello della
distribuzione, del consumo e dello scambio, le coordinate fondamentali del
conflitto russo-ucraino.
<br /><br />
Per questa analisi delle cause economiche del conflitto russo-ucraino,
inquadrato in una specifica congiuntura critica della formazione imperialistica
mondiale, sono debitore all’importante libro di Giulio Palermo, <i>Il conflitto
russo-ucraino. L’imperialismo USA alla conquista dell’Europa</i>, Roma 2022.
<br /><br />
Orbene, la prima cosa che va detta riguardo al testo in parola è che esso è
imperniato sul concetto di imperialismo elaborato da Lenin nel celebre saggio
del 1917 intitolato <i>L’imperialismo fase suprema del capitalismo</i>. Scrive Lenin:
«L’imperialismo è il capitalismo giunto a quella fase di sviluppo in cui si
formano il dominio dei monopoli e il capitale finanziario, l’esportazione del
capitale ha acquistato grande importanza, è cominciata la ripartizione del mondo
tra i trust internazionali, ed è già compiuta la ripartizione dell’intera
superficie terrestre tra i più grandi paesi capitalistici».[8]
<br /><br />
Laddove è opportuno precisare che, secondo la classica definizione formulata da
Rudolf Hilferding e ripresa da Lenin, il capitale finanziario risulta dalla
fusione tra il capitale bancario e il capitale industriale. Una volta fissate
tali coordinate, l’autore del libro in questione ricostruisce la storia e i
retroscena del conflitto russo-ucraino, precisando che esso non inizia nel
febbraio 2022 e non ha come protagoniste soltanto la Russia e l’Ucraina, bensì
da un lato la Russia e dall’altro l’alleanza imperialista Ucraina + Nato + Ue.
<br /><br />
Mentre suscita perplessità la tesi dell’autore, secondo la quale gli Usa e la
Cina sono accomunati dalla stessa natura imperialistica, appare interessante e
anche convincente la tesi secondo cui la Russia va esclusa dal campo
propriamente imperialistico in quanto non può essere inquadrata nelle classiche
coordinate di tale campo testé indicate.
<br /><br />
Che la Russia sul piano militare non sia orientata all’espansione è infatti
dimostrato, secondo l’autore, dal fatto che le principali basi militari
all’estero rimaste alla Russia dopo il crollo dell’Unione Sovietica si trovano
in paesi ex-sovietici (con l’eccezione della Siria in cui la presenza russa è
stata richiesta esplicitamente dal governo del Presidente Bashar al-Assad).
<br /><br />
Dal punto di vista economico, poi, viene sottolineato il fatto che, a differenza
delle potenze imperialistiche che si caratterizzano per la massiccia
esportazione di capitali, la Russia esporta principalmente merci, mentre nei
rapporti con l’estero utilizza i rapporti finanziari soltanto come uno strumento
funzionale allo sviluppo dei rapporti commerciali, ma non come un obiettivo
strategico.
<br /><br />
La tesi principale di Palermo è che al centro del conflitto tra i diversi
interessi imperialistici vi è il controllo delle “nuove tecnologie”, e proprio
tale obiettivo spiega perché «in questo processo, la Russia e l’Ucraina non sono
certo protagoniste» (p. 67): i protagonisti, infatti, sono e restano i capitali
statunitensi e quelli cinesi.
<br /><br />
A questo proposito, l’autore pone in risalto il fatto che il processo di
unificazione europea, lungi dall’avere lo scopo di affrancare il vecchio
continente dalla subordinazione agli Stati Uniti, si configura in realtà come la
creazione di un satellite dell’impero nordamericano, talché «la nascita dell’Ue
e dell’euro non costituiscono affatto una sfida al capitale Usa e all’egemonia
del dollaro» (p. 94).
<br /><br />
La prova della natura artificiale e della funzione meramente sussidiaria della
Ue rispetto all’imperialismo Usa viene esposta là dove l’autore rileva che «la
Ue ha inoltre un problema storico strutturale, un peccato originale che si porta
dietro dalla nascita: l’Ue non è una nazione, non ha un sistema fiscale e non ha
un esercito» (p. 68).
<br /><br />
Sennonché la categoria di imperialismo rivela tutta la sua produttività dal
punto di vista conoscitivo, allorquando viene applicata all’analisi del
conflitto intra-imperialistico (ossia tra i vari capitali di una stessa potenza
imperialistica) mediante la ricognizione puntuale della composizione del potere
economico statunitense, delle contraddizioni che lo attraversano e dei fattori
di convergenza che lo cementano nell’attuale congiuntura: «Lo scontro interno al
capitale finanziario [statunitense] è guidato dai settori ad alta tecnologia
(aerospazio, finanza, armi, elettronica, informatica, mass media, farmaceutica,
‘green economy’) ai danni dei settori tradizionali (petrolio-gas-carbone,
trasporti, turismo, agricoltura, manifatturiero, immobiliare, alimentare,
tessile)» (p. 71).
<br /><br />
Esaminando i fattori di convergenza tra i due settori, l’autore afferma che
questi prevalgono sui fattori di divergenza, poiché nell’attuale congiuntura
critica «lo scontro interno al capitale statunitense si scarica sul contesto
russo-ucraino in due modi: primo, accelerando il processo di penetrazione dei
capitali verdi […] in Europa; secondo, offrendo sbocco al settore petrolifero
Usa, in difficoltà sul fronte interno […].
<br /><br />
Un’accelerazione delle tensioni in Ucraina piace in effetti a entrambi gli
schieramenti: da una parte consente alle multinazionali green di andare alla
conquista del mercato europeo; dall’altra, dà modo alle compagnie petrolifere di
rifarsi all’estero della sconfitta subita in patria» (p. 75).
<br /><br />
Del resto, lo stesso discorso vale, a livello strettamente politico, per la
complementarità (“le due ali dell’aquila”) tra la strategia di Trump e la
strategia di Biden, fermo restando che, pur avendo esse in comune l’obiettivo
strategico (attaccare la Cina), la strategia di Trump punta a distaccare la
Russia dalla Cina e a stabilire con la prima un ‘<i>modus vivendi</i>’ per poi
rivolgere il colpo fondamentale contro la seconda, mentre la strategia di Biden
mira a piegare definitivamente la Russia dividendola in più tronconi mediante
l’arma delle “rivoluzioni colorate” e proseguendo, a tal fine, la penetrazione
militare in Asia centrale, così da realizzare in prospettiva l’accerchiamento
della Cina.
<br /><br />
È evidente che la differenza tra queste due linee consiste nel grado di
pericolosità insito in esse: se prevale la strategia di Biden ogni indebolimento
della Russia rappresenta un passo in più verso la guerra mondiale, mentre è un
dato di fatto indiscutibile che Trump non abbia iniziato alcuna guerra durante
il suo mandato (il che, beninteso, non prova che egli non sia un guerrafondaio,
non avendo goduto, purtroppo o per fortuna, di un secondo mandato consecutivo).
<br /><br />
L’autore delinea quindi il profilo strettamente economico dell’attuale
congiuntura critica, svolgendo alcune importanti considerazioni sul rapporto
debito pubblico/Pil, sottolineando che tale rapporto è un fattore determinante
rispetto alla valutazione della solidità di uno Stato e ponendo a confronto
l’incidenza di tale fattore nei casi rispettivi della Russia e degli Stati che
fanno parte dell’Unione monetaria europea (Ume).
<br /><br />
In tal senso, esaminando le sanzioni degli Usa e della maggioranza degli Stati
europei contro la Russia e le efficaci risposte di quest’ultima all’offensiva
sanzionatoria, egli scrive quanto segue (p. 56): «La Russia è solida: […] i dati
di finanza pubblica sono assolutamente invidiabili. Il debito pubblico è pari al
17,7% del Pil, il nono più basso del mondo, contro il 90,0% dell’Ue, il 97,2%
della zona euro, il 128% degli Usa, il 93,9% del Regno Unito» (e, aggiungiamo
noi, il 140,3% dell’Italia, quinto paese con il debito pubblico più alto del
mondo: dato fornito dal Fmi nel 2023).
<br /><br />
Dopodiché l’autore precisa che «per anni il problema del debito pubblico è
rimasto confinato ai Piigs [Portogallo, Italia, Irlanda, Grecia, Spagna],
caratterizzati da un alto rapporto debito/Pil. Tuttavia, il rallentamento della
crescita e i piani di rilancio, interamente a debito, lo trasformano ora in un
problema generale» (p. 102).
<br /><br />
La conclusione cui giunge infine l’autore è che la partita con la Russia è un
momento dello scontro imperialistico globale sul controllo delle nuove
tecnologie, scontro che vede gli Stati Uniti e la Cina come principali
protagonisti.
<br /><br />
In gioco non vi sono solo le vecchie ostilità politiche e i piani di conquista
militare definiti all’indomani del crollo dell’Unione Sovietica, ma
l’instaurazione, in tutto il mondo, di un nuovo modello di rapporti economici e
sociali incentrato sulle nuove tecnologie.
<br /><br />
Da questo punto di vista, il continente europeo costituisce la scacchiera, ma
gli scacchi sono per lo più americani e russi e, sullo sfondo, cinesi. La
strategia europea semplicemente non esiste; esistono soltanto interessi
economici convergenti e divergenti tra settori e tra Stati. A comandare sono i
settori finanziari e dell’alta tecnologia, forti soprattutto nei paesi nordici
della zona euro, quelli maggiormente integrati con i capitali statunitensi.
<br /><br />
Sono questi gli attori europei che più hanno da guadagnare in questo conflitto.
Gli altri settori e gli altri paesi, così come la classe lavoratrice dell’Europa
intera, sono invece quelli che devono pagare il conto di questa convergenza di
interessi tra i blocchi del capitale finanziario statunitense ed europeo in
conflitto con il capitale cinese.
<br /><br />
<b>Note</b>
<br /><br />
1) K. Marx, Il capitale, 1867, trad. it. Torino 1975, p. 215.
<br /><br />
2) Ivi, p. 216.
<br /><br />
3) K. von Clausewitz, Della guerra, 1832-34, trad. it. Milano 1975, IV, 5.
<br /><br />
4) K. Marx, Il capitale, cit., p. 398.
<br /><br />
5) Forse, essendo la connessione fra i due processi sia funzionale sia
strutturale, quindi di carattere organico, sarebbe più corretto parlare (non di
analogie ma) di omologie.
<br /><br />
6) Id., Grundrisse, 1857-58, trad. it. Torino 1976, pp. 34-35.
<br /><br />
7) Cfr. E. Brancaccio, R. Giammetti, S Lucarelli, <i>La guerra capitalista.
Competizione, centralizzazione, nuovo conflitto imperialista</i>. Milano 2022. Dopo
la prima guerra mondiale, nel 1919, John Maynard Keynes spiegò nel suo saggio su
Le conseguenze economiche della pace che il principale fattore di conflitto tra
gli Stati è il debito: il rapporto tra i debitori e i creditori porta molto
facilmente, se non inevitabilmente, alla guerra. Questo approccio interpretativo
keynesiano, mescolato ecletticamente con frammenti di categorie marxiane e
leniniane, fornisce un esempio interessante del valore e dei limiti del
contributo conoscitivo che la cultura accademica ‘di sinistra’ è in grado di
fornire circa il rapporto tra guerra ed economia.
<br /><br />
8) Vladimir Ilic Lenin, <i>L’imperialismo fase suprema del capitalismo</i>, in Opere
scelte, Roma 1965, p. 639.
<br /><br />
<a href="https://contropiano.org/interventi/2024/03/14/la-guerra-e-la-critica-delleconomia-politica-0170235" rel="nofollow" target="_blank">Fonte</a>
Re-Carbonizedhttp://www.blogger.com/profile/07070140938585948393noreply@blogger.com0tag:blogger.com,1999:blog-4800805644070876200.post-35777095168194025062024-03-17T12:42:00.000+01:002024-03-17T21:43:08.352+01:00Ramadandi <b>Giovanni Iozzoli</b>
<br /><br />
Come negli ultimi 1445 anni, è cominciato il mese di Ramadan per 1,9 miliardi di musulmani nel mondo. Un tempo, in Occidente, questa pratica evocava l’eco lontana di mondi esotici. Oggi, con il restringimento e la densificazione degli spazi globali, il digiunatore è il nostro vicino di casa, il collega di postazione o il calciatore che idolatriamo. Paradossalmente, nonostante questa crescente condizione di prossimità, negli ultimi vent’anni lo stereotipo dell’Islam come figura dell’“alterità” per eccellenza, si è sedimentato nell’immaginario collettivo nostrano. Nelle nostre società, la percezione di questa irreversibile presenza islamica, oscilla oggi tra due estremi: la mostrificazione dell’“altro” percepito come presenza aliena, che induce persino sottili suggestioni di “reconquista”; oppure un paternalismo progressista che legge l’identità religiosa come ritardo della storia, inevitabilmente destinato ad essere riassorbito dalla griglia valoriale liberale.
<br /><br />
Agli occhi occidentali, il digiuno del Ramadan è forse la più estranea ed “estrema” delle prescrizioni islamiche. È soprattutto la più radicata e massificata pratica collettiva pre-moderna che ancora persiste dentro le nostre società, che hanno sradicato ogni riferimento al trascendente, smontando e ricostituendo più e più volte il senso comune del loro stare al mondo – sotto l’incedere dello sviluppo scientifico e tecnologico che tutto divora e riplasma.
<br /><br />
Il Ramadan è un moto spirituale di riconduzione al corpo e alle sue verità elementari. L’atto di culto si pratica col corpo, attraverso il corpo, ma in una allusione di superamento della dimensione mondana e materiale. Digiunare è una pratica antica – che nei secoli passati connotava più o meno tutte le grandi religioni – che solo nell’Islam è rimasta attiva e largamente partecipata. Rappresenta il residuo di epoche pre-tecnologiche in cui solo il corpo era a disposizione degli uomini per esprimere i sentimenti o le aspirazioni più radicali o profonde. Il corpo – prigione samsarica o veicolo di liberazione, a seconda del suo utilizzo – era l’unica realtà su cui l’uomo primordiale potesse contare con certezza. Quella “organica” era l’unica tecnologia disponibile.
<br /><br />
Il corpo che digiuna sta “nuotando controcorrente” – come in ogni ascesi psico-fisiologica, a partire dallo Yoga – rispetto alla direzione naturale e inerziale. Ordinariamente, l’esperienza umana produce una tendenza centrifuga dell’uomo rispetto all’idea di Dio. Il digiuno serve ad arrestare questo allontanamento dal centro, dal Logos, dall’origine, che inizia semplicemente quando veniamo al mondo. Il digiuno deve provvisoriamente imbrigliare la “fuga dall’essere” che il dipanarsi della vita quotidiana provoca e rivela in ogni suo aspetto.
<br /><br />
Arrestata la traiettoria centrifuga, il digiuno deve contribuire a riorientare e reintegrare l’individuo verso un suo centro misterioso e nascosto, che solo nel silenzio e nella sottile sofferenza dell’astensione dal cibo e dal bere, si può percepire. Lo scorrere delle ore del giorno appare come calato in una dimensione irreale, in uno stato di sospensione, di attesa. Si crea uno spazio vuoto, libero, in cui le faccende mondane perdono consistenza, si rivelano effimere, vacue, perché il corpo ci ricorda ogni istante che siamo dentro un’anomalia, una eccezionalità, un allarme – abbiamo sete e abbiamo fame.
<br /><br />
La vita ricomincia a correre, come l’orologio del tempo biologico, solo al calare del sole. Lì, con la rottura del digiuno, c’è un ritorno ai fondamenti basici dell’esperienza umana – nutrimento e sessualità – che però rappresentano solo una parentesi. Il vero credente usa la sazietà e la notte che incede, per ritornare al piano dell’ascesi e utilizzare le ore del buio e le sottili vibrazioni che da esse emanano.
<br /><br />
Per gli occidentali questa esperienza è imperscrutabile, aliena o addirittura folle. La si attribuisce ad una caratterizzazione etnico-geografica – un presunto carattere mistico dell'“orientale”. Ma Oriente e Occidente sono invenzioni provvisorie che servono a fissare le coordinate identitarie – io e l’altro. Il cristianesimo, ad esempio, è stato faccenda orientale per lungo tempo e diventa “occidente” solo faticosamente, nei secoli, relegando nei monasteri le pratiche cultuali e “liberando” le comunità da obblighi che ne avrebbero zavorrato lo sviluppo economico. L’Islam ha riportato “il cenobio” dentro casa, dentro la vita delle persone comuni, rompendo il dualismo e la divisione dei compiti che divideva il sacro e il profano. La preghiera che scandisce la giornata, il Libro senza mediatori, il digiuno, appunto – sono tutte eredità del monastero o dell’ashram, che l’Islam colloca nella vita ordinaria. Nell’Islam non c’è monachesimo perché il monastero pervade la quotidianità, con i suoi riti silenziosi.
<br /><br />
Nelle fabbriche del nord Italia – dentro cantieri, magazzini, verniciature, fonderie e zincature – ogni imprenditore sa, con disappunto mal sopportato, che in questo mese si registrerà un calo della produttività e un aumento dell’assenteismo. Nei paesi islamici l’attività lavorativa è istituzionalmente limitata al minimo; ma in Europa i digiunatori devono convivere con i ritmi ordinari del lavoro, dello studio, persino dello sport. I padroni mugugnano ma abbozzano. Weberiani inconsapevoli, non capiscono come persone spesso povere, dedichino il loro tempo a simili arcaismi: il favore divino è testimoniato dall’abbondanza degli straordinari, mica dei digiuni...
<br /><br />
Questa testarda propensione verso le ragioni dello spirito – pur con tutte le prosaiche deformazioni dei tempi presenti – è sostanzialmente incompatibile con la modernità. Anzi, è l’ultimo ostacolo al pieno dispiegamento dell’“uomo nuovo” che il cyber-capitalismo sta faticosamente sgravando dal suo seno. La “coazione a godere”, lo spettacolo come surrogato della vita, l’iper-individualizzazione delle esistenze e la loro presunta “liberazione” dai ceppi del genere, dell’identità e delle radici, le malattie dello spirito come normale condizione umana. E la durezza della fame, delle privazioni – la dimensione naturale che abbiamo impiegato secoli per allontanare da noi come incubo antico (che è invece la quotidianità dei poveri del mondo...). Tutto ciò cozza irriducibilmente con il modello di vita che il tardo liberalismo sta scolpendo.
<br /><br />
È per quello che oggi il Ramadan è visto da molti occidentali come residuo intollerabile, fanatico e inspiegabile: perché riporta l’uomo alla nudità, alla fragilità della sua condizione essenziale, lo priva degli orpelli identitari; se digiuni puoi essere ricco, ma soffrirai lo stesso la fame; device e tecno-chincaglieria non aiutano. Torni un neonato affamato, una bocca avida che non può fare altro che affidarsi. L’ego deve mollare la presa, affievolire – almeno per un po’ – la sua ostinazione, per spogliarsi di tutte le maschere con cui abbiamo faticosamente coperto la nostra essenzia. Il permanere sulla faccia della terra di una cultura che non subisce unilateralmente e totalmente la fascinazione del “paese dei balocchi” della modernità, è l’espressione di una preziosa resistenza antropologica da indagare e capire.
<br /><br />
L’occidentale ha impiegato secoli per sottrarsi alla consapevolezza del limite del corpo; ha cercato di sconfiggere fame, sete, malattie, dolore; ha cercato di controllare, sedare, riattivare; e oggi ha raggiunto una falsa coscienza di semi onnipotenza che il capitale e la tecnologia alimentano come una bolla artificiale. Vedere uomini e donne del ventunesimo secolo fermarsi a digiunare è un oltraggio alla contemporaneità e alle sue promesse; un rifiuto potenziale, uno schiaffo valoriale, una sfida che lascia l’uomo occidentale ancora più disorientato e solo, nonostante lo stomaco pieno di false certezze.
<br /><br />
Buon Ramadan a tutti, allora. A chi digiuna e a chi si abbuffa, nella comune deriva di senso in cui navighiamo. Buon Ramadan: nella speranza non che “l’altro” diventi come noi – a condividere uno strapuntino nell’inferno piatto dell’omologazione – quanto piuttosto si renda disponibile a pompare sangue fresco e idee e vita dentro il corpo esausto della modernità. L’olio della Lampada viene da un Ulivo che non è ne’ d’Oriente ne’ d’Occidente, come recitano i coranici “versetti della luce”.
<br /><br />
<a href="https://www.carmillaonline.com/2024/03/12/ramadan/" rel="nofollow" target="_blank">Fonte</a>Re-Carbonizedhttp://www.blogger.com/profile/07070140938585948393noreply@blogger.com0tag:blogger.com,1999:blog-4800805644070876200.post-27745058646289296032024-03-17T10:39:00.000+01:002024-03-17T21:29:12.262+01:00L’industria dell’OlocaustoL’Olocausto non è un concetto arbitrario, si tratta piuttosto di una costruzione intrinsecamente coerente, i cui dogmi-cardine sono alla base di rilevanti interessi politici e di classe.
<br /><br />
Per meglio dire, l’Olocausto ha dimostrato di essere un’arma ideologica indispensabile grazie alla quale una delle più formidabili potenze militari del mondo, con una fedina terrificante quanto a rispetto dei diritti umani, ha acquisito lo status di «vittima», e lo stesso ha fatto il gruppo etnico di maggior successo negli Stati Uniti.
<br /><br />
Da questo specioso status di vittima derivano dividendi considerevoli, in particolare l’immunità alle critiche, per quanto fondate esse siano. Aggiungerei che coloro che godono di questa immunità non sono sfuggiti alla corruttela morale che di norma l’accompagna.
<br /><br />
Da questo punto di vista, il ruolo di Elie Wiesel come interprete ufficiale dell’Olocausto non è un caso. Per dirla francamente, non è arrivato alla posizione che occupa grazie al suo impegno civile o al suo talento letterario: Wiesel ha questo ruolo di punta perché si limita a ripetere instancabilmente i dogmi dell’Olocausto, difendendo di conseguenza gli interessi che lo sostengono.
<br /><br />
Lo stimolo iniziale per questo libro è stato uno studio fondamentale di Peter Novick, <i>The Holocaust in American Life</i> (L’Olocausto nella vita americana), che ho recensito per una rivista letteraria inglese.
<br /><br />
Le pagine che seguono sono pervase del dialogo critico che ho avviato con Novick e ciò spiega la messe di riferimenti al suo studio. Più un insieme di intuizioni provocatorie che un saggio critico strutturato, <i>The Holocaust in American Life</i> si colloca nel solco della venerabile tradizione americana della denuncia di scandali.
<br /><br />
Ma, come la maggior parte dei cacciatori di scandali, Novick si concentra solamente sugli abusi più clamorosi. Per quanto pungente e piacevole in molti punti, <i>The Holocaust in American Life</i> non è una critica radicale. Gli assunti di base non vengono messi in discussione.
<br /><br />
Pur rimanendo all’interno dell’orizzonte delle opinioni tradizionali, il libro, né scontato né eretico, si colloca agli estremi margini di questo stesso orizzonte, su posizioni controverse e, come prevedibile, ha avuto una vasta eco, suscitando commenti sia positivi sia negativi sui media americani.
<br /><br />
La categoria analitica centrale di Novick è la «memoria». Attualmente di gran moda tra gli intellettuali, il concetto di «memoria» è senza dubbio il più impoverito fra quelli prodotti negli ultimi anni dal mondo accademico. Con l’allusione d’obbligo a Maurice Halbwachs, Novick mira a dimostrare come la «memoria dell’Olocausto» sia stata forgiata da «preoccupazioni di oggi».
<br /><br />
C’era un tempo in cui gli intellettuali dell’opposizione mettevano in campo robuste categorie politiche come «potere», «interessi» da una parte e «ideologia» dall’altra. Tutto quello che resta oggi è il fiacco, spoliticizzato linguaggio di «preoccupazioni» e «memoria». Eppure, data la documentazione che Novick adduce, la memoria dell’Olocausto è una costruzione ideologica elaborata sulla base di precisi interessi.
<br /><br />
Secondo Novick, per quanto scelta, la memoria dell’Olocausto è «il più delle volte» arbitraria; questa scelta, cioè, non verrebbe tanto condotta in base a un «calcolo di vantaggi e svantaggi», quanto piuttosto «senza dare troppo peso... alle conseguenze». Al di là di queste sue parole, però, la documentazione che lui stesso raccoglie suggerisce la conclusione opposta.
<br /><br />
Il mio interesse nei confronti dell’Olocausto nazista prese le mosse da vicende personali.
<br /><br />
Mia madre e mio padre erano dei sopravvissuti al ghetto di Varsavia e ai campi di concentramento. Tranne loro, tutti gli altri membri dei due rami della mia famiglia furono sterminati dai nazisti.
<br /><br />
Il mio primo ricordo, per così dire, dell’Olocausto nazista è l’immagine di mia madre incollata davanti al televisore a seguire il processo ad Adolf Eichmann (1961) quando io rientravo a casa da scuola. Anche se erano stati liberati dai campi solamente sedici anni prima del processo, nella mia mente un abisso incolmabile separò sempre i genitori che conoscevo da quella cosa.
<br /><br />
A una parete del soggiorno erano appese fotografie di parenti di mia madre. (Nessuna foto della famiglia di mio padre sopravvisse alla guerra). In pratica non riuscii mai a mettere in relazione me stesso con quelle facce, men che mai a immaginare quello che era successo. Erano le sorelle, il fratello e i genitori di mia madre, non le mie zie, mio zio e i miei nonni.
<br /><br />
Ricordo di avere letto da bambino <i>The Wall</i> (Il muro di Varsavia, di John Hersey) e <i>Mila 18</i>, di Leon Uris, due romanzi ambientati nel ghetto di Varsavia. (Mi torna alla mente mia madre che si lamentava perché, immersa nella lettura di <i>The Wall</i> aveva sbagliato fermata andando al lavoro).
<br /><br />
Per quanto mi sforzassi, non riuscii mai, nemmeno per un istante, a fare quel salto d’immaginazione che saldava i miei genitori, con tutta la loro normalità, a quel passato. Francamente, non ci riesco neanche ora.
<br /><br />
Ma il punto più importante è un altro: se si esclude questa presenza spettrale, non ricordo intrusioni dell’Olocausto nazista nella mia infanzia e la ragione principale sta nel fatto che a nessuno, fuori della mia famiglia, sembrava interessare quello che era accaduto.
<br /><br />
I miei amici di gioventù leggevano di tutto e discutevano appassionatamente degli avvenimenti contemporanei, eppure, in tutta onestà, non ricordo un solo amico (o un suo genitore) che abbia fatto una sola domanda su quello che mia madre e mio padre avevano passato.
<br /><br />
Non era un silenzio dettato dal rispetto, era semplice indifferenza. Sotto questa luce, non si possono che accogliere con scetticismo le manifestazioni di dolore dei decenni seguenti, quando quella indifferenza era ormai consolidata.
<br /><br />
A volte penso che la «scoperta» dell’Olocausto nazista da parte dell’ebraismo americano sia stata peggiore del suo oblio. I miei genitori continuavano a ripensarci nel loro privato e la sofferenza che patirono non ricevette pubblici riconoscimenti. Ma non fu forse meglio dell’attuale, volgare sfruttamento del martirio degli ebrei?
<br /><br />
Prima che l’Olocausto nazista divenisse l’Olocausto, sull’argomento furono pubblicati solo pochi studi scientifici, come <i>The Destruction of The European jews</i> (La distruzione degli ebrei d’Europa), di Raul Hilberg, e testimonianze come <i>Man’s search for Meaning</i> (Alla ricerca di un significato della vita), di Viktor Frankl, e <i>Prisoners of Fear</i> (Prigionieri della paura), di Ella Lingens-Reiner.
<br /><br />
Eppure questa piccola raccolta di gemme è migliore degli scaffali di cianfrusaglie che ora affollano biblioteche e librerie.
<br /><br />
I miei genitori, pur rivivendo giorno dopo giorno il passato fino alla fine della loro vita, negli ultimi anni persero interesse per l’Olocausto come pubblico spettacolo.
<br /><br />
Uno degli amici di più lunga data di mio padre era stato con lui ad Auschwitz ed era, o almeno sembrava, un incorruttibile idealista di sinistra che per principio rifiutò dopo la guerra il risarcimento tedesco.
<br /><br />
In seguito divenne un dirigente del museo israeliano dell’Olocausto, lo Yad Vashem. Con riluttanza e sinceramente deluso, mio padre dovette ammettere che perfino un uomo come quello era stato corrotto dall’industria dell’Olocausto, adattando le proprie idee al potere e al profitto.
<br /><br />
Dal momento che l’interpretazione dell’Olocausto assumeva forme sempre più assurde, a mia madre piaceva citare, non senza ironia, Henry Ford: «La storia è una sciocchezza». I racconti dei «sopravvissuti all’Olocausto» (tutti prigionieri dei campi di concentramento, tutti eroi della resistenza) a casa mia erano una fonte particolare di amaro divertimento.
<br /><br />
D’altronde già molto tempo fa John Stuart Mill aveva compreso che «le verità se non sottoposte a continua revisione, cessano di essere verità. E, attraverso le esagerazioni, diventano falsità».
<br /><br />
Mio padre e mia madre si chiesero spesso perché m’indignassi di fronte alla falsificazione e allo sfruttamento del genocidio perpetrato dai nazisti. La risposta più ovvia è che è stato usato per giustificare la politica criminale dello Stato d’Israele e il sostegno americano a tale politica. Ma c’è anche un motivo personale. Ho infatti a cuore che si conservi la memoria della persecuzione della mia famiglia.
<br /><br />
L’attuale campagna dell’industria dell’Olocausto per estorcere denaro all’Europa in nome delle «vittime bisognose dell’Olocausto» ha ridotto la statura morale del loro martirio a quella di un casinò di Montecarlo. Ma anche tralasciando queste preoccupazioni, resto convinto che sia importante preservare l’integrità della ricostruzione storica e lottare per difenderla.
<br /><br />
Alla fine di questo libro sostengo che nello studio dell’Olocausto nazista possiamo imparare molto non solamente riguardo ai «tedeschi» o ai «gentili», ma a noi tutti. Eppure penso che per fare questo, cioè per imparare sinceramente dall’Olocausto nazista, occorra ridurre la sua dimensione fisica ed enfatizzarne quella morale.
<br /><br />
Troppe risorse pubbliche e private sono state investite nella commemorazione del genocidio e gran parte di questa produzione è indegna, un tributo non alla sofferenza degli ebrei, ma all’accrescimento del loro prestigio.
<br /><br />
È da tempo che dobbiamo aprire il nostro cuore alle altre sofferenze dell’umanità: questa è la lezione più importante impartitami da mia madre. Non l’ho mai sentita dire: «Non fare paragoni». Lei li fece sempre.
<br /><br />
Certo si devono fare distinzioni storiche, ma porre distinzioni morali tra la «nostra» sofferenza e la «loro» è a sua volta un travisamento morale. «Non potete mettere a confronto due sventurati» osservò Platone «e dire quale dei due sia più felice.»
<br /><br />
Di fronte alle sofferenze degli afroamericani, dei vietnamiti e dei palestinesi, il credo di mia madre fu sempre: siamo tutti vittime dell’Olocausto.
<br /><br />
<a href="https://contropiano.org/interventi/2024/03/16/lindustria-dellolocausto-4-0170390" rel="nofollow" target="_blank">Fonte</a>Re-Carbonizedhttp://www.blogger.com/profile/07070140938585948393noreply@blogger.com0tag:blogger.com,1999:blog-4800805644070876200.post-38648677736368713602024-03-16T22:35:00.000+01:002024-03-17T19:37:03.169+01:00Villaggio dei dannati (1995) di John Carpenter - Minirece<div class="separator" style="clear: both; text-align: center;"><iframe class="BLOG_video_class" allowfullscreen="" youtube-src-id="AyJF8St0GPg" width="480" height="360" src="https://www.youtube.com/embed/AyJF8St0GPg"></iframe></div>Re-Carbonizedhttp://www.blogger.com/profile/07070140938585948393noreply@blogger.com0tag:blogger.com,1999:blog-4800805644070876200.post-11248738536734332372024-03-16T20:33:00.001+01:002024-03-17T19:34:42.211+01:00La zona d'interesse - 2023 - di Jonathan Glazer<p>In un'epoca in cui la crisi delle sale e la disaffezione delle
generazioni più giovani ha spinto anche chi si professa cinefilo a
rispolverare i discorsi sulla morte del cinema, dubitando sulla capacità
di incidere nelle nostre esistenze rivelandone le complessità meno
evidenti, un film come "La zona d'interesse" riporta indietro le
lancette della Storia mettendo in qualche modo lo spettatore nella
stessa condizione di quei fortunati che si trovarono ad assistere alle
proiezioni dei primi cortometraggi dei Fratelli Lumière. In un tempo di
sensi anestetizzati e coscienze sopite il film di Jonathan Glazer prende
in contropiede la vista e lo stomaco, raccontando l'Olocausto come
ancora non si era mai visto sullo schermo. Lungi dall'essere un
esercizio di stile "La zona d'interesse" restituisce alla forma la sua
caratteristica principale, ovvero quella di accrescere il senso del
contenuto.<br /><br />Abbracciando il concetto di indicibile relativo alla
tragedia della Shoah, Glazer fa la cosa più semplice e allo stesso tempo
più difficile, celando il misfatto agli occhi dello spettatore e in
parte a quelli degli stessi personaggi, attraverso il muro di cinta che
separa il campo di concentramento di Auschwitz dallo spazio famigliare
in cui la famiglia del comandante della guarnigione vive come niente
fosse, assorbita dalla bellezza bucolica del paesaggio e viziata dai
privilegi di una posizione lavorativa di prestigio, quella del
colonnello Rudolf Höss, in cui lo sterminio non implica nessuna
questione morale e dove l'unico problema è quello di elevare al massimo
l'efficienza dei carnefici e dello loro procedure logistico-matematiche.<br /><br />Per
mettere in scena l'orrore Glazer non spreca neanche un minuto dei 105 a
sua disposizione. Prova ne siano i titoli di testa, rappresentati in
toto dall'intestazione del film, destinata a scomparire un poco per
volta dallo schermo, sopraffatta dai rumori della "morte al lavoro" e
assorbita dal buio di una dissolvenza in nero che, insieme al finale
altrettanto astratto, dominato com'è dall'improvviso presagio della fine
che assale Höss, inchioda l'incoscienza dei personaggi all'abisso delle
proprie anime.<br /><br />La differenza fra bene e male diventa così una
questione legata alla dicotomia dello sguardo, laddove l'invisibile
smette di essere tale quando si rivolge alla vita del carnefice, immersa
in una fotografia surreale, tanto nitida e pulita quanto monocorde e
glaciale, capace com'è di far diventare la bellezza vuota e piatta della
sua illuminazione sinonimo della crudele prosaicità di cui si colora il
quotidiano della famiglia Höss predisposta per natura a non farsi
toccare da quanto accade al di là del muro.<br /><br />Scegliendo
di raccontare gli aguzzini e non le loro vittime Glazer fa una scelta
di campo che riguarda l'oggi, ragionando sulla banalità del male
attraverso un identikit in cui il paradosso della famiglia tedesca,
incurante dell'abominio che le sta accanto, moltiplica all'ennesima
potenza quello dell'Occidente nei confronti delle guerre che del tutto o
in parte ha contribuito ad accendere.<br /><br />Come "<a href="https://www.ondacinema.it/film/recensione/figlio_saul.html" rel="noopener" target="_blank">Il figlio di Saul</a>"
anche il film di Glazer fa del fuoricampo un elemento fondante. A
differenza di László Nemes, però, Glazer sceglie un punto di vista
opposto. Tanto quello del regista ungherese era il risultato di una
ricognizione interna al personaggio, tanto quello del regista inglese è
il risultato di un'osservazione isolata ed esterna al contesto. Se "Il
figlio di Saul" traeva forza da una narrazione febbrile e allucinatoria
"La zona d'interesse" propone allo spettatore un'osservazione raggelata
ed entomologica, capace di resistere all'impassibilità dei personaggi
per cogliere l'attimo in cui la normalità diventa affezione patologica.
Debitore nei temi e nella forma del <a href="https://www.ondacinema.it/monografie/scheda/michael_haneke.html" rel="noopener" target="_blank">Michael Haneke</a> de "<a href="https://www.ondacinema.it/film/recensione/das_weisse_band.html" rel="noopener" target="_blank">Il nastro bianco</a>",
"La zona d'interesse" deve parte della sua riuscita a un dispositivo
che da qui in avanti potrebbe costituire un compendio pratico da
mostrare agli studenti per far comprendere la bellezza e la potenza del
linguaggio cinematografico. Valga per tutti il modo in cui Glazer
restituisce dignità a campo e controcampo, altrove segnale di povertà
registica (lo aveva già fatto <a href="https://www.ondacinema.it/speciali/scheda/speciale_registi_piu_bel_film_paul_thomas_anderson.html" rel="noopener" target="_blank">Paul Thomas Anderson</a> con "<a href="https://www.ondacinema.it/film/recensione/licorice-pizza.html" rel="noopener" target="_blank">Licorice Pizza</a>"), qui
determinante nel restituire la vertigine derivata dall'orrore del
quotidiano, quando, dopo una serie di sequenze girate secondo un unico
punto di vista e volte a introdurci nell'ovattata quotidianità della
famiglia Höss, a spalancare le porte dell'inferno è l'uso improvviso del
campo opposto all'immagine precedente, mostrandoci la prospettiva della
fornace del campo di concentramento, visibile in tutta la sua atroce
abiezione dietro le spalle del padrone di casa. È la prima volta che
succede e tanto basta a cambiare la storia del film che da quel momento
non potrà più mondarsi dal peccato originale di quell'immagine.<br /><br />Adattamento
cinematografico del romanzo omonimo del 2014 scritto da Martin Amis,
"La zona d'interesse" è stato presentato in concorso al Festival di
Cannes 2023, dove ha vinto il Gran Premio della Giuria. Prodotto dalla
A24, il film di Glazer è atteso nelle sale il 25 gennaio 2024,
distribuito da I Wonder Pictures. Da vedere e rivedere per non
dimenticare.<p><a href="https://www.ondacinema.it/film/recensione/la-zona-d-interesse.html" rel="nofollow" target="_blank">Fonte</a> </p>Re-Carbonizedhttp://www.blogger.com/profile/07070140938585948393noreply@blogger.com0tag:blogger.com,1999:blog-4800805644070876200.post-56926761012111407022024-03-16T18:51:00.000+01:002024-03-17T19:29:13.825+01:00Le tentazioni guerrafondaie dei leader europei. Contro la Russia, ma con o senza gli Stati Uniti?Scrive un editoriale di <i>Le Monde</i>: “In verità, la possibilità di una guerra tra Europa e Russia tormenta le menti delle persone. La Svezia, il Regno Unito, la Finlandia, la Polonia e gli Stati baltici stanno discutendo di questa prospettiva. Non senza una buona ragione. Perché la Francia dovrebbe ignorarlo? Perché aver paura delle parole e non dare per scontata l’alleanza con l’Ucraina? Volens nolens, siamo in conflitto con la Russia da due anni ormai”.
<br /><br />
“Siamo vicini e fermi al fianco dell’Ucraina”, ha dichiarato il cancelliere tedesco Scholz nel vertice di ieri a Berlino del cosiddetto “Triangolo di Weimar” insieme con il presidente francese Macron e il primo ministro polacco Donald Tusk.
<br /><br />
“Faremo di tutto affinché la Russia non vinca la guerra“, ha detto Macron mentre Tusk ha respinto le “voci” di disaccordo, dicendo che hanno parlato con una sola voce.
<br /><br />
“Di recente erano sorte tensioni, soprattutto con la Francia. Macron ha suscitato rabbia a Berlino quando non ha escluso il dispiegamento di truppe di terra occidentali in Ucraina e ha insultato altri paesi definendoli “codardi”. Ma anche la Polonia sta aumentando la pressione, ad esempio perché sta sostenendo una maggiore spesa per la difesa nel quadro della Nato” scrive oggi il quotidiano tedesco <i>Handesblatt</i>.
<br /><br />
L’obiettivo comune è sostenere l’Ucraina in modo tale che possa difendersi efficacemente dall’attacco russo, ha detto Scholz. Come? “Procureranno armi all’Ucraina sull’intero mercato mondiale, amplieranno le proprie capacità produttive, sottrarranno i proventi dei beni russi congelati e forniranno congiuntamente all’Ucraina artiglieria missilistica a lungo raggio” sottolinea il quotidiano economico tedesco.
<br /><br />
Emmanuel Macron e Olaf Scholz si sono incontrati ieri a Berlino per una dimostrazione pubblica di unità dopo una serie di caustici battibecchi sulla politica ucraina che hanno sollevato enormi preoccupazioni sullo stato delle relazioni franco-tedesche. “La disputa tra il presidente francese e la cancelliera tedesca aveva raggiunto un’intensità tale che gli alleati temevano che stesse minando l’armonia europea in un momento critico della difesa dell’Ucraina contro l’aggressione russa” sottolinea il <i>Financial Times</i> commentando il vertice del Triangolo di Weimar.
<br /><br />
Nell’incontro di Berlino Macron e Scholz sono stati tutti sorrisi, promettendo insieme il loro continuo sostegno all’Ucraina e annunciando che avrebbero spinto per utilizzare i profitti dei beni russi congelati in Europa per acquistare armi per Kiev.
<br /><br />
“Ma gli esperti hanno detto che è improbabile che l’incontro di venerdì dissipi completamente le preoccupazioni sullo stato delle relazioni franco-tedesche. Le tensioni sono ora così grandi che sono diventate una questione di preoccupazione pubblica in entrambi i paesi” commenta il <i>Financial Times</i>.
Scholz ha negato l’esistenza di un problema con la Francia. I due Paesi hanno sempre lavorato a stretto contatto, ha detto, “anche quando non siamo d’accordo su singole questioni”.
<br /><br />
Con 60 miliardi di dollari di sostegno militare a Kiev bloccati al Congresso degli Stati Uniti e l’Ucraina che affronta battute d’arresto sul campo di battaglia, Macron ha esortato i partner europei a fare di più per aiutare Kiev. A tal fine, il mese scorso ha ospitato una conferenza dei leader a Parigi per stimolare nuove donazioni di armi. Ma l’evento è stato oscurato dalla disputa sull’invio di truppe in Ucraina.
<br /><br />
“Per quanto riguarda l’Ucraina, i nostri obiettivi sono gli stessi e siamo d’accordo sulla maggior parte degli aspetti della questione”, ha affermato Brigitte Klinkert, deputata del partito Renaissance di Macron.
<br /><br />
Ma lo scontro ha rivelato una differenza fondamentale nell’approccio dei due leader di Francia e Germania. “Lo stile di Macron è quello di usare la pressione e disturbare mettendo le idee sul tavolo, un metodo che non è sempre popolare, ma può aiutare a far avanzare la conversazione”, ha commentato Camille Grand all’European Council on Foreign Relations. “Scholz è più cauto e non è un gran chiacchierone”.
<br /><br />
La tendenza di Macron ad andare avanti solleva spesso polemiche a Berlino, dove molti ricordano con orrore la sua affermazione nel 2019 secondo cui la Nato era “cerebralmente morta”. “Il problema è che non si sa mai quale sarà la sua prossima idea”, ha detto Nils Schmid, portavoce della politica estera della Spd tedesca.
<br /><br />
Durante un viaggio a Praga la scorsa settimana, Macron ha detto che l’Europa si sta “avvicinando a un momento... quando bisognerà non essere vigliacchi”. Ciò è stato interpretato da molti a Berlino come un colpo a Scholz, che si è rifiutato di inviare missili da crociera a lungo raggio Taurus in Ucraina per paura che avrebbe reso la Germania parte belligerante nella guerra con la Russia. Tali preoccupazioni non hanno invece impedito alla Francia e al Regno Unito di inviare all’Ucraina i propri missili da crociera con relativo personale militare sul campo. Evidente l’imbarazzo emerso quando questa realtà è venuta fuori dall’intercettazione di una riunione di alti ufficiali tedeschi.
<br /><br />
Boris Pistorius, il ministro della Difesa tedesco, ha risposto ai commenti di Macron a Praga dicendo che “non abbiamo bisogno di discussioni su chi è più o meno coraggioso”. Le due parti hanno anche litigato sugli aiuti militari all’Ucraina. Durante la sessione di domande e risposte del Bundestag di mercoledì, Scholz ha sottolineato che la Germania ha fornito 7 miliardi di euro di aiuti all’Ucraina quest’anno, rispetto ai 3 miliardi di euro della Francia.
<br /><br />
Con il rischio incombente che Donald Trump possa essere eletto presidente degli Stati Uniti a novembre e ridurre il ruolo degli Stati Uniti nella Nato, Macron vuole che l’Europa aumenti la sua “autonomia strategica”. Scholz, nel frattempo, cerca ancora copertura dagli Stati Uniti per ogni grande passo che fa sull’Ucraina. “Penso che Macron abbia l’impressione che i tedeschi di Scholz si siano ritirati nella loro identità transatlantica, che agiranno solo di pari passo con la Casa Bianca”, ha detto Jacob Ross, analista del German Council on Foreign Relations.
<br /><br />
Ciò segna una rottura con l’esperienza di Angela Merkel, la quale durante il primo mandato di Trump ha affermato che i tempi in cui l’Europa poteva contare sugli Stati Uniti erano finiti e ha intrapreso programmi di armamento congiunti con i francesi.
<br /><br />
Quindi la discussione vigente tra i leader europei non sembra essere se arrivare o meno alla guerra contro la Russia, ma se arrivarci da soli – e quindi con un intenso processo di riarmo e di coordinamento militare tra i vari paesi della UE – oppure, come avvenuto sistematicamente fino a ieri, di attendere le decisioni degli Stati Uniti. Uno scenario da incubo in entrambi i casi.
<br /><br />
<a href="https://contropiano.org/news/politica-news/2024/03/16/le-tentazioni-guerrafondaie-dei-leader-europei-contro-la-russia-ma-con-o-senza-gli-stati-uniti-0170450" rel="nofollow" target="_blank">Fonte</a>Re-Carbonizedhttp://www.blogger.com/profile/07070140938585948393noreply@blogger.com0tag:blogger.com,1999:blog-4800805644070876200.post-15675126433723587012024-03-16T16:17:00.002+01:002024-03-17T19:19:11.288+01:00Gaza - Niente tregua ma possibile scambio di prigionieriIl primo ministro israeliano Benjamin Netanyahu ha respinto l’ultima proposta di tregua e scambio di prigionieri da parte del Movimento di resistenza palestinese Hamas e, invece, ha approvato un piano militare israeliano per lanciare un’operazione nella città di Rafah, a sud di Gaza, secondo quanto riferito venerdì dai media israeliani.
<br /><br />
“L’IDF (esercito israeliano) è pronto per l’operazione e per evacuare la popolazione (civile)”, ha detto l’ufficio di Netanyahu in una dichiarazione, che è stata citata dal <i>Times of Israel</i>.
<br /><br />
Nella giornata di ieri, Hamas ha annunciato sui social media di aver presentato la sua visione di uno scambio di prigionieri con Israele ai mediatori del Qatar e dell’Egitto e stava cercando un accordo di cessate il fuoco che comporterebbe il ritiro delle forze d’invasione israeliane da Gaza.
<br /><br />
Nella sua proposta per una tregua a Gaza, Hamas avrebbe chiesto il rilascio di un migliaio di prigionieri politici palestinesi detenuti nelle carceri israeliane. In cambio sarebbero rilasciate 40 ostaggi tra donne, anziani e feriti israeliani.
<br /><br />
Questa, secondo il sito internet d’informazione israeliano <i>“Walla!”</i> (collegato al <i>Times of Israel</i>) e ripreso da agenzia <i>Nova</i> – la risposta dell’organizzazione palestinese all’ultima proposta di accordo in tre fasi.
<br /><br />
Il rapporto tra detenuti palestinesi e ostaggi israeliani è più basso rispetto alla precedente richiesta avanzata da Hamas, ma comunque oltre il doppio di quanto concordato da Israele durante un vertice a Parigi il mese scorso. Nell’incontro di Parigi, al quale hanno partecipato i capi dell’intelligence di Israele, degli Stati Uniti e dell’Egitto insieme al primo ministro del Qatar, era stato stabilito il rilascio da parte di Israele di 400 prigionieri. In cambio del rilascio di ciascuna delle cinque donne militari israeliane prese in ostaggio – che dovrebbero essere tra le prime a essere rilasciate durante le sei settimane della prima fase dell’accordo – Hamas aveva chiesto 50 prigionieri.
<br /><br />
Secondo <i>“Walla!”</i>, le richieste più difficili da digerire per Israele, riguardano però la seconda fase dell’accordo, dove Hamas chiede il ritiro dei militari israeliani dal corridoio creato a sud di Gaza City, un cessate il fuoco permanente e il rilascio di un numero considerevole di prigionieri politici palestinesi in cambio del rilascio dei restanti ostaggi di sesso maschile.
<br /><br />
Nella terza fase dell’accordo, Hamas dovrebbe consegnare i corpi dei deceduti, chiedendo in cambio garanzie riguardanti la ricostruzione di Gaza e la rimozione dell’embargo israeliano.
<br /><br />
Secondo <i>“Walla!”</i>, le divergenze tra le parti in seguito alla risposta di Hamas rimangono ampie, ma la risposta fornita dal gruppo palestinese ha spinto Israele ad inviare per domani, domenica 17 marzo, una delegazione guidata dal capo del Mossad, David Barnea, per un altro round di colloqui a Doha, in Qatar. Alla riunione parteciperà anche una delegazione di Hamas.
<br /><br />
Intanto è salito a 31.490 morti e 73.439 feriti il bilancio delle vittime palestinesi dall’inizio delle operazioni militari israeliane nella Striscia di Gaza a ottobre.
<br /><br />
<a href="https://contropiano.org/news/internazionale-news/2024/03/16/gaza-niente-tregua-ma-possibile-scambio-di-prigionieri-0170445" rel="nofollow" target="_blank">Fonte</a>Re-Carbonizedhttp://www.blogger.com/profile/07070140938585948393noreply@blogger.com0tag:blogger.com,1999:blog-4800805644070876200.post-89117242763454288652024-03-16T14:14:00.002+01:002024-03-17T19:17:54.115+01:00Il “vittimismo aggressivo” all’assalto delle università“<a href="https://contropiano.org/news/politica-news/2024/03/15/basta-con-i-supporter-di-israele-nelle-universita-a-napoli-contestato-molinari-0170419">I fatti di Napoli</a>” – dopo quelli Roma – rimbalzano sui media e riscuotono la condanna anche del Presidente della Repubblica. <br /><br />Lo scandalo è sollevato dal rifiuto di una parte consistente degli studenti universitari della Federico II e de La Sapienza di assistere in complice silenzio alle “conferenze” di due giornalisti noti per le loro sparate da sionisti ultrà. <br /><br />Un breve elenco delle <i>lamentatio</i> è utile a restituire il ridicolo di queste reazioni scandalizzate. <br /><br />Il rettore, Matteo Lorito, si è affrettato a chiarire che «i giovani della Federico II sono quei 250 che erano in aula e che hanno pazientemente atteso per più di un’ora per poter assistere a un dibattito che a loro stava a cuore». E che, invece, «non ne rappresentano lo spirito» gli studenti «che hanno dato vita a questo parapiglia, con un’azione inqualificabile di intolleranza, non hanno chiesto il confronto e hanno agito anche con la forza». <br /><br />Scontata anche l’immediata strumentalizzazione da parte della presidente dell’Unione delle comunità ebraiche italiane, Noemi Di Segni, del presidente della Comunità ebraica di Roma, Victor Fadlun, e del presidente della Comunità ebraica di Milano, Walker Meghnagi: «È inconcepibile e inaccettabile che l’Università Federico II sia stata costretta a cancellare una conferenza per le intimidazioni e la violenza di un gruppo di facinorosi contro il relatore, Maurizio Molinari, solo perché ebreo». <br /><br />Il carico da undici è arrivato con la nota di Mattarella: «Con l’università è incompatibile chi pretende di imporre le proprie idee impedendo che possa manifestarle chi la pensa diversamente». <br /><br />Sorvoliamo sulle altre decine che costituiscono soltanto variazioni individuali su un tema fisso: “viene impedito di parlare”. <br /><br />Fosse vero, sarebbe certamente grave. Fosse “interruzione di pubblico servizio” – come la <a href="https://www.ilfattoquotidiano.it/2024/03/15/sapienza-i-giovani-di-fi-interrompono-il-corso-di-di-cesare-la-docente-intimidazione-squadrista-non-ci-sono-le-condizioni-per-le-lezioni/7480752/">paranza fascista schierata in aula al momento della lezione di Donatella Di Cesare</a> – anche più grave (ma in questo caso nessuna istituzione si è detta scandalizzata; strano...). <br /><br />Sorvoliamo anche sui falsi evidenti (“Molinari zittito solo perché ebreo”), visto che sia i cartelli che gli slogan citavano espressamente il “sionismo”, che è una <a href="https://www.treccani.it/enciclopedia/sionismo/">corrente politica relativamente recente</a> e non condivisa neanche da <a href="https://contropiano.org/video/2024/02/13/moni-ovadia-se-i-veri-antisemiti-sono-i-sionisti-0169346">moltissimi ebrei</a>, anche <a href="https://twitter.com/TorahJudaism/status/1721395944623591524?ref_src=twsrc%5Etfw%7Ctwcamp%5Etweetembed%7Ctwterm%5E1721395944623591524%7Ctwgr%5Ea9bcefed296deaec73ee5bc1eabb3ed5dce4a61e%7Ctwcon%5Es1_&ref_url=https%3A%2F%2Fcontropiano.org%2Feditoriale%2F2023%2F11%2F09%2Fantisionismo-antiebraismo-antisemitismo-0166155">ultra-ortodossi</a>. Sorvoliamo persino sulla più clamorosa delle falsità – “con la violenza” – perché i video fanno giustizia in entrambi i casi. <br /><br />Stiamo al punto.<br /> <br />Molinari è il direttore di <i>Repubblica</i> – secondo quotidiano nazionale, sia pure <a href="https://contropiano.org/corsivo/2024/03/16/la-miseria-delle-redazioni-0170425">in drammatico declino anche “grazie” alla sua direzione</a> ultra-atlantista e pro-Netanyahu – non un povero testimone di fatti che non trovano spazio mediatico. <br /><br />Scrive e parla – in televisione, dove è ospite fisso di talk show altrettanto guerrafondai e suprematisti – ogni giorno che dio manda in terra. La sua opinione su qualsiasi evento mondiale è stranota anche perché ripetuta sempre uguale. E nota anche prima di essere espressa (“l’America ha sempre ragione ed è la guida, Israele ha tutti i diritti e i palestinesi nessuno”). <br /><br />Così anche <a href="https://contropiano.org/regionali/lazio/2024/03/09/roma-contestato-alla-sapienza-david-parenzo-strumentalizzi-le-donne-per-legittimare-israele-0170196">David Parenzo, contestato una settimana fa a La Sapienza</a>, attualmente conduttore della trasmissione <i>In onda</i> su La7, altrettanto onnipresente in una miriade di talk show. <br /><br />Entrambi, oltretutto, non sono certo noti per l’“apertura al pluralismo” nei media che controllano, visto che non si registrano lì voci differenti dalla stretta “alternanza” tra esponenti di centrodestra e di centrosinistra, al punto da far sembrare l’evanescente Fratoianni quasi un “autonomo”... <br /><br />Aggiungiamo anche la considerazione tutt’altro che peregrina che in questi casi l’università viene usata come una <i>location</i> per iniziative “di parte”, non istituzionali. Al pari insomma di assemblee o analoghe iniziative da parte di gruppi di studenti. Per le quali, insomma, è surreale pretendere un regolamento simil-parlamentare... <br /><br />Ma il punto essenziale è sempre quello: chi è che impedisce di parlare, in questo paese? <br /><br />Sono i media “ufficiali” (Rai, Mediaset, gruppo Cairo, gruppo Gedi, ecc.) che non ammettono voci discordanti in nessuno spazio, neanche notturno, oppure gruppi di studenti che reagiscono quando “opinion maker” che straparlano tutti i giorni – falsificando e disinformando, quasi sempre – invadono il loro spazio vitale per imporre anche lì la “narrazione” dell’estabishment? <br /><br />Domanda retorica, certo. Ma è paradossale che i “padroni del megafono” lamentino di essere impossibilitati a parlare... E quando si incontra un paradosso – spiegano i migliori matematici, fisici e filosofi – ci si trova davanti a una contraddizione rivelatrice. Luminosa e semplice, in fondo. <br /><br />Questi gestori dell’informazione ufficiale sanno, sentono, verificano tutti i giorni, che la loro parola – per la popolazione – vale ormai meno di nulla. Un accento qualsiasi nel rumore di fondo che ottunde il pensiero individuale e collettivo. <br /><br />Ma i loro emolumenti dipendono comunque dal dimostrare la loro capacità di “presa” nella costruzione dell'“opinione pubblica”. E quindi, se l’audience popolare si allontana da loro, loro devono inseguirla anche fisicamente fin dove è possibile. Anche dentro le università, dove sta rinascendo una capacità di pensiero critico che sembrava da anni addormentata, in caccia di quelle opinioni divergenti che riconoscono un genocidio per quello che viene fatto, non per la religione di chi ne resta vittima. <br /><br />Sono però troppo riconoscibili. Le loro intrusioni sono “naturalmente” intollerabili. E dunque vengono spesso contestate. Lo sanno anche loro, e per quello insistono. Vanno alla attesa contestazione, con le telecamere al seguito o in mano, a recitare la parte della vittima proprio mentre conducono un’aggressione. <br /><br />Tecnica consolidata, nell’imperialismo occidentale. In versione Usa, ucraina o israeliana, non cambia mai. <br /><br /> È il “vittimismo aggressivo”. Quello che ormai tre quarti del mondo – e anche la parte migliore dell’Occidente – rifiuta d’istinto.<br /><br /><a href="https://contropiano.org/news/politica-news/2024/03/16/il-vittimismo-aggressivo-allassalto-delle-universita-0170439">Fonte</a> Re-Carbonizedhttp://www.blogger.com/profile/07070140938585948393noreply@blogger.com0tag:blogger.com,1999:blog-4800805644070876200.post-20607596128427116542024-03-16T12:42:00.008+01:002024-03-17T19:02:50.474+01:00Elezioni in Russia e fantasie “europee”di <b>Francesco Dall'Aglio</b>
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Le elezioni in Russia sono cominciate ieri mattina. Non ho idea dell’affluenza, nel senso che non mi sono messo a cercare dati perché mi interessano poco, e credo siano facilmente reperibili altrove.
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Si segnala qualche atto di sabotaggio, circolano due filmati: in uno una ragazza butta del liquido colorato in un’urna elettorale, in un altro una donna tenta con poco successo di lanciare una molotov contro la parete di un ufficio elettorale (da quello che ho visto mi pare abbia usato una bottiglia non adatta – ora certo non mi metto qui su FB a spiegare come si fa, però – insomma – le basi...).
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Le forze della “Russia libera” hanno, almeno per ora, rinunciato ad ulteriori azioni, anche se ci si aspetta di tutto e di più, ma per fortuna c’è sempre Twitter, se uno vuole togliersi tutte le illusioni sulla specie umana, sulla sua razionalità e capacità di comprensione del reale.
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Il primo tweet che condivido è di Edgars Rinkēvičs, che è solo il Presidente della Lettonia. Non solo si dice d’accordo con Macron, ed è certamente suo diritto, non solo dice che la Russia deve essere sconfitta (immagino non dalla Lettonia, che conta 17.250 soldati in servizio attivo e 36.000 in riserva, 57 M109, nessun pezzo d’artiglieria fisso e nessun carro armato, e la cui intera forza aerea è composta da tre UH-60 Black Hawk), ma dice anche che deve essere distrutta – <i>Russia delenda est</i>, affermazione nient’affatto escalatoria e che in nessun modo può essere considerata ostile.
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Il secondo tweet viene dalla ricca miniera di scempiaggini di <i>Visegrád 24</i>, uno dei principali account da cui i nostri “analisti” si riforniscono, che posta un filmato nel quale si vedono i risultati di un attacco nucleare statunitense preventivo alla Russia, con un numero di vittime stimato in 45 milioni e spiccioli.
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Il filmato è “buffo” per tre motivi (oltre al fatto che ci sono 45 milioni di russi morti, che per <i>Visegrád 24</i> è un buon inizio).
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Uno, <i>Visegrád 24</i> immagina che un attacco preventivo consista nell’impiego dell’intero arsenale strategico nucleare degli USA.
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Due, che la Russia non abbia modo di rendersi conto che gli USA stanno per lanciarle addosso l’intero arsenale strategico.
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Tre, che la Russia non abbia modo di lanciare il suo e si limiti a incassare la distruzione di tutte le sue città e di tutti i suoi centri di comando.
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Del resto le fantasie di vendetta non prevedono mai che l’oggetto della propria fantasia sia in grado di reagire. Per il resto, sempre Twitter è convinto che la Russia sia nel panico per le parole di Macron.
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Ora, io non voglio fare il guastafeste, ma la Russia ha costruito buona parte della sua mitologia nazionale sull’aver distrutto la Grande Armée di Napoleone, e con tutta la stima che ho per Macron (in realtà pochissima, ovviamente dal punto di vista politico) non penso che né i condottieri né le armate possano essere paragonabili.
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Non mi spingerò a dire che non vedono l’ora di prendere i francesi a cannonate un’altra volta, ma poco ci manca.
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<a href="https://contropiano.org/news/internazionale-news/2024/03/16/elezioni-in-russia-e-fantasie-europee-0170432" rel="nofollow" target="_blank">Fonte</a>Re-Carbonizedhttp://www.blogger.com/profile/07070140938585948393noreply@blogger.com0tag:blogger.com,1999:blog-4800805644070876200.post-338370032473403082024-03-16T10:03:00.000+01:002024-03-17T18:56:01.684+01:00La miseria delle redazioniLeggevo i quotidiani e m’è salita una tristezza, il senso di un incommensurabile miseria antropologica, a cominciare dal tristo Rampini che scrive che la tensione tra USA e Cina “per fortuna non dà segnali di scivolare verso una guerra”.
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Un po’ come “Ambrogio, non è proprio fame, ma voglia di qualcosa di buono”. Grande giornalismo.
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Poi, improvvisamente, mi imbatto ne <i>Il Riformista</i>, che scodella una intervista niente meno che a Claudio Martelli. Che dice: “Leader? Vedo solo leaderini”. Mi figuro, come un flash, il pulpito che rovinosamente crolla sui fedeli per il troppo peso della predica.
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E allora non può che erompere una risata a pieni polmoni, alla faccia di tutti quelli che rinnegano il Sessantotto, quegli anni in cui sulla facciata della Statale di Milano, in via Festa del Perdono, apparve, a lettere cubitali, la scritta: “Martelli, cretino, gioca col trenino”.
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Che lungimiranza!
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<a href="https://contropiano.org/corsivo/2024/03/16/la-miseria-delle-redazioni-0170425" rel="nofollow" target="_blank">Fonte</a>Re-Carbonizedhttp://www.blogger.com/profile/07070140938585948393noreply@blogger.com0tag:blogger.com,1999:blog-4800805644070876200.post-40375151781723060362024-03-15T22:24:00.001+01:002024-03-17T18:53:10.071+01:002019 - Dopo la caduta di New York (1983) di Sergio Martino - Minirece<div class="separator" style="clear: both; text-align: center;"><iframe class="BLOG_video_class" allowfullscreen="" youtube-src-id="JmlAouU2RbQ" width="480" height="360" src="https://www.youtube.com/embed/JmlAouU2RbQ"></iframe></div>Re-Carbonizedhttp://www.blogger.com/profile/07070140938585948393noreply@blogger.com0tag:blogger.com,1999:blog-4800805644070876200.post-73844958963853682312024-03-15T19:42:00.000+01:002024-03-17T18:50:35.540+01:00È ora di rompere i “vincoli esterni”I primi scricchioli si vedono già. Ma è davvero inutile aspettarsi che il prevedibile aumento della conflittualità all’interno del governo possa produrre un qualsiasi “cambiamento” degno di nota.
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Al massimo, come in tutte le legislature precedenti, potrebbe avvenire un rimescolamento che lascia le cose come stanno; una diversa maggioranza, insomma, ma non una diversa stagione politica.
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Come sempre, un cambiamento reale richiede che si faccia avanti e si affermi un soggetto diverso, una presenza di massa – nelle piazze, nei luoghi di lavoro e di studio e di vita – in grado di mettere in discussione la “narrazione” dominante e riattivare un corpo sociale da troppo tempo sotto anestetici.
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Il governo Meloni – come i precedenti – è un governo di crisi, guerra e declino. Una rovina per le classi popolari e per le prospettive stesse del Paese.
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Questo governo rivendica per esempio di aver “aumentato l’occupazione”, ma se questo non si traduce in crescita della ricchezza prodotta e dei consumi di massa – sostanzialmente fermi al palo – significa che si tratta di “lavoretti”, in settori ad alta intensità di manodopera, con bassi salari e senza garanzie.
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Si tratta insomma di crescita del lavoro povero, servile, di pura sopravvivenza. Spesso anche sotto questo livello.
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Come i precedenti è un governo dell’austerità, che taglia la spesa sociale – dice – per diminuire il debito pubblico. Ma al tempo stesso aumenta forsennatamente la spesa militare. Gli obblighi Nato infatti richiedono più armi da mandare in Ucraina e nuove armi per un esercito da sviluppare in chiave europea.
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La “coperta corta” di una spesa pubblica più sbilanciata verso gli armamenti viene ancora una volta tessuta progettando “privatizzazioni” del patrimonio pubblico. Questo mantra neoliberista che da quasi 30 anni sta distruggendo la capacità industriale del Paese viene ripetuto alla faccia degli innumerevoli e clamorosi fallimenti delle privatizzazioni nell’industria di proprietà pubblica. Ossia “nostra”, di tutta la cittadinanza.
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Ricordiamo per brevità soltanto pochi casi. Quello delle acciaierie Italsider, regalate ai Riva, ribattezzate Ilva, poi passate agli indiani di ArcelorMittal, poi “commissariate” e ancora in cerca di un padrone qualsiasi. Mentre a Taranto si continua a morire di inquinamento...
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Non parliamo neanche di quello che è avvenuto nella sanità pubblica, destrutturata a beneficio esclusivo di quella privata, ridotta a fortino su cui si scaricano tutti i malesseri sciali e che resta in piedi solo per lo spirito di servizio del personale meno pagato d’Europa e continuamente svillaneggiato dal potere.
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E poi Telecom, nel settore strategico delle telecomunicazioni, regalata prima a Colaninno, poi a Tronchetti Provera, quindi spacchettata e con la rete fissa ormai venduta al fondo statunitense KKR, che ha ai suoi vertici anche il generale Petraeus, ex capo delle truppe Usa in Iraq, Afghanistan nonché – ciliegina sulla torta – ex capo della Cia. Le nostre comunicazioni private e pubbliche in mani davvero “sicure”, insomma...
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Ma non possiamo dimenticare Alitalia, distrutta e svenduta prima alla cordata dei “capitani coraggiosi”, poi a Emirates, poi ridotta a una compagnia low cost per il business di Lufthansa.
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Potremmo continuare a lungo, descrivendo un deserto industriale creato lì dove “gli imprenditori italiani” sono ormai degli estranei che trasferiscono le proprie attività – e le sedi fiscali – all’estero. L’esempio della Fiat e dell’ignobile famiglia Agnelli è ormai un format per tutti gli epigoni minori.
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Ma il degrado divora da decenni anche l’istruzione pubblica, nel folle tentativo di inseguire le fantasie al ribasso di una classe imprenditoriale dalla vista cortissima – stile Briatore che chiede “più istituti alberghieri” – e che non sa che farsene delle competenze scientifiche o umanistiche di alto livello.
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Generazioni di studenti vengono annientate con percorsi di studio sempre meno formativi e stimolanti, spinti al lavoro gratuito e mortale attraverso “l’alternanza scuola-lavoro”, incentivati dunque all’abbandono scolastico. Un percorso che priverà loro stessi, e dunque il Paese, di un futuro all’altezza delle speranze e della Storia.
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Siamo in definitiva avviati verso un baratro da cui sarà tanto più difficile riemergere quanto più si tarderà ad arrestare la corsa al disastro.
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Il quadro politico attuale non permette illusioni.
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Le “alternative” sono quelle che hanno dato vita ai governi precedenti. Hanno praticato e predicato le stesse politiche di bilancio, le identiche politiche di privatizzazione e desertificazione industriale, i medesimi tagli al welfare, all’istruzione, alla ricerca.
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Sono quelle che hanno preceduto i fascisti al governo anche nelle politiche repressive, tra daspo, “giustizia creativa”, poteri abnormi e incontrollati alle varie polizie, salvo lamentarsene quando poi invadono anche il recinto del potere politico.
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Che hanno dissestato l’edificio costituzionale e le stesse istituzioni, la struttura dei diritti, fino a fare della parola “democrazia” un termine senza corrispettivo nella realtà quotidiana. E che ha nell’astensionismo al 50% la riprova di uno scollamento irrimediabile tra classe politica e Paese reale.
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Fermare la corsa all’impoverimento popolare e al declino definitivo del paese richiede, in modo ormai evidente, davanti ai rischi di guerra mondiale che si sommano e superano quelli della crisi economica, una rottura decisa con il tran tran degli ultimi 40 anni.
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Una rottura, in primo luogo, con i vincoli esterni che ogni governo – e ancora di più quello Meloni – ha rispettato, difeso, esteso, fino alla paralisi.
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Parliamo del vincolo europeo all’austerità, che ha vanificato persino 30 anni di tagli e di “avanzo primario” senza mai ridurre il debito pubblico (che anzi è sempre cresciuto...). E del vincolo Nato che sta trascinando l’Europa e il mondo intero verso la notte nucleare, che rischia addirittura di anticipare quella ambientale e climatica.
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Occorre una rottura decisa per determinare almeno la possibilità di decidere autonomamente, come classi popolari, le modalità per risollevare il Paese, dare un futuro alle nuove generazioni, costruire un equilibrio di giustizia sociale che spezzi il circolo vizioso delle diseguaglianze in perpetua crescita.
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Fuori del sedicente “giardino” occidentale e neoliberista il mondo sperimenta nuove strade, percorsi, relazioni, progetti. E cresce, al contrario di quanto avviene qui.
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C’è spazio per cambiare. Ma bisogna rompere quei vincoli, a cominciare dal governo Meloni, il più fascista della storia del dopoguerra.
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È tempo che tutto questo si manifesti apertamente, nelle piazze di questo paese, dando visibilità e contenuti ad una rottura sempre più necessaria.
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<a href="https://contropiano.org/editoriale/2024/03/15/e-ora-di-rompere-i-vincoli-esterni-0170416" rel="nofollow" target="_blank">Fonte</a>Re-Carbonizedhttp://www.blogger.com/profile/07070140938585948393noreply@blogger.com0tag:blogger.com,1999:blog-4800805644070876200.post-21390699031745003122024-03-15T17:33:00.000+01:002024-03-17T18:41:37.549+01:00Russia - Chi sono i competitori di Putin nelle presidenzialiDa ieri e fino a domenica 17 marzo in Russia si svolgono le elezioni presidenziali, con Putin in testa ai sondaggi e che punta ad essere confermato per il quinto mandato alla guida della Federazione Russa.
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I primi a votare giovedì alle 23:00 ora di Mosca sono stati gli abitanti della Kamciatka e dell’Okrug autonomo di Chukotka.
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I seggi elettorali saranno aperti il 15, 16 e 17 marzo. Quest’anno, gli elettori delle regioni del Donbass e quelli di Zaporozhye e Kherson prenderanno parte alle elezioni presidenziali per la prima volta.
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In competizione con il capo di Russia Unita ci sono tre candidati della opposizione: Leonid Slutsky, Vladislav Davankov e Nikolai Kharitonov. La Commissione Elettorale Centrale ha escluso dalla corsa per un cavillo burocratico, Boris Nadejdine ritenuto in occidente l’unico candidato alternativo.
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Il primo competitore è Nikolai Kharitonov, 75 anni, che si presenta per la seconda volta alle Presidenziali. È un veterano e deputato del Partito Comunista della Federazione Russa.
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Kharitonov guida la commissione parlamentare per lo sviluppo dell’Estremo Oriente e dell’Artico. Nella sua campagna elettorale ha dato particolare attenzione ai veterani di guerra, all’aumento delle pensioni e contro l’aumento dei prezzi.
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Il Partito Comunista di Russia, il secondo partito più grande del parlamento, ha scelto Nikolai Kharitonov a dicembre scorso.
“La candidatura di Kharitonov è stata sostenuta dalla stragrande maggioranza dei partecipanti al congresso in una votazione segreta”, ha dichiarato il dirigente del partito comunista Alexander Yushchenko.
Kharitonov si era candidato contro Putin anche nel 2004, ottenendo poco meno del 14% dei voti nazionali.
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Nelle elezioni del 2021 il Partito Comunista della Federazione Russa si era rivelato come la seconda forza politica del paese ed aveva quasi raddoppiato i consensi alle elezioni legislative, passando dal 13% del 2016 a quasi il 25%,
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Poi c’è Leonid Slutsky 56 anni, deputato dal 2003 e da maggio 2022 presidente del Partito liberaldemocratico. È un nazionalista di destra, che nel 2018 è stato coinvolto in uno scandalo in cui fu accusato di molestie sessuali da tre giornaliste. La Commissione etica della Duma lo ha però scagionato dalle accuse. Slutsky è anche il presidente del Comitato della Duma per gli Affari internazionali ed ha partecipato nel 2022 all’unico negoziato che si era cercato di fare con l’Ucraina.
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Infine c’è l’imprenditore Vladislav Davankov, membro del Partito Nuovo popolo e vicepresidente della Duma. Rispetto a Kharitonov e Slutsky, Davanakov ha una posizione più moderata sul conflitto in Ucraina.
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L’affluenza nelle elezioni del 2021 era stata del 45,15% in tre giorni di urne aperte, con la possibilità di optare per il voto elettronico.
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Per il voto dall’estero, in Europa Germania, Estonia, Lituania e Lettonia, hanno limitato il numero dei seggi elettorali rispetto agli anni precedenti. In Italia, in particolare, i cittadini russi potranno esprimere il voto nelle città di Roma, Milano, Genova e Palermo.
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La Commissione Elettorale Centrale ha accreditato i rappresentanti di 106 Paesi come osservatori internazionali e 1.447 giornalisti da 90 media, la metà di cui sono stranieri.
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Intanto la guerra continua a farsi sentire sulle città occidentali della Russia. Più di 20 appartamenti in sette blocchi residenziali sono stati danneggiati e tre civili sono rimasti feriti in un attacco ucraino a Belgorod questa mattina, ha dichiarato il governatore Vyacheslav Gladkov.
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La Guardia nazionale russa ha dichiarato ieri di aver respinto l’assalto di un gruppo di “sabotatori” nei pressi della cittadina di Tiotkino, nella regione di Kursk, al confine con l’Ucraina.
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Il ministero della Difesa russo ha fatto sapere di aver distrutto cinque droni ucraini e nove missili sulla regione di Belgorod, al confine con l’Ucraina. Altri due droni sono stati neutralizzati sulla regione di Lipetsk, situata a circa 400 km a sud di Mosca. Tre bambini sono stati uccisi in un attacco ucraino a Donetsk, una città nell’Ucraina orientale controllata dalle forze russe.
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<a href="https://contropiano.org/news/internazionale-news/2024/03/15/elezioni-in-russia-putin-in-testa-nei-sondaggi-chi-sono-i-competitori-0170409" rel="nofollow" target="_blank">Fonte</a>Re-Carbonizedhttp://www.blogger.com/profile/07070140938585948393noreply@blogger.com0tag:blogger.com,1999:blog-4800805644070876200.post-5820172366278952802024-03-15T15:40:00.000+01:002024-03-17T18:32:11.625+01:00Macron ‘a la guerre’, anzi no…<div class="separator" style="clear: both;"><a href="https://blogger.googleusercontent.com/img/b/R29vZ2xl/AVvXsEg9vs-YcRHXC3BiOg3aJh6El972A8kSqv7gqIcdJzlYZwZuktt4Rymq3GO4YXI0p3rIQJ7SQZijnIMg-Em4QVE1psZa31p4VeSNDVMximkrcFKUF3vk0zj8glultK2ddeGnQuJmOW2GVRf-UEENNt7cuW1du0XEiQGam80vSLLJP39LX5dxLqbq5v9U4Eo/s2048/macron-guerre-anzi.jpg" style="display: block; padding: 1em 0; text-align: center; clear: left; float: left;"><img alt="" border="0" width="400" data-original-height="1225" data-original-width="2048" src="https://blogger.googleusercontent.com/img/b/R29vZ2xl/AVvXsEg9vs-YcRHXC3BiOg3aJh6El972A8kSqv7gqIcdJzlYZwZuktt4Rymq3GO4YXI0p3rIQJ7SQZijnIMg-Em4QVE1psZa31p4VeSNDVMximkrcFKUF3vk0zj8glultK2ddeGnQuJmOW2GVRf-UEENNt7cuW1du0XEiQGam80vSLLJP39LX5dxLqbq5v9U4Eo/s400/macron-guerre-anzi.jpg"/></a></div>
di <b>Francesco Dall'Aglio</b>
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Come era prevedibile, dopo essere stato scaricato più o meno da tutti tranne che dalle poderose armate del Baltico (e nemmeno tutte), Macron ha deciso di buttarla in caciara.
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Intervistato su France 2 e TF1 ha detto tutto e il contrario di tutto: non abbiamo intenzione di mandare le truppe ma potremmo farlo; non siamo in guerra contro la Russia ma non può e non deve vincere; la Russia è il nostro avversario, non un nostro nemico, ma è anche un “pericolo esistenziale” che ha causato tutti i mali della Francia, dall’aumento dei prezzi agli ospedali che non funzionano; se vincesse in Ucraina non si fermerebbe lì, e insomma tutto il campionario sentito negli ultimi mesi.
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È stato sostanzialmente un discorso patetico, indegno di quella che è pur sempre una potenza nucleare e una delle colonne del sistema difensivo della NATO. Del resto, dopo l’angolo in cui si era messo da solo, qualcosa doveva pure inventarsi.
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La pateticità macroniana fa passare in secondo piano il fatto che, per il terzo giorno consecutivo, le truppe della “resistenza russa” continuano i loro tentativi di passare il confine, non lesinando né uomini né soprattutto mezzi: carri armati, veicoli blindati, e oggi addirittura elicotteri.
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Il copione si ripete bene o male uguale, con perdite piuttosto alte e, al momento, nessun guadagno. Alcuni commentatori ucraini sono francamente irritati dal fatto che, apparentemente, queste unità hanno a disposizione una gran quantità di materiale e non si fanno scrupoli a sprecarlo, quando tornerebbe molto più utile in altre zone del fronte.
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Non tengono conto però del fatto che lo scopo di queste azioni non è ovviamente militare, ma propagandistico. Da questo punto di vista l’intenzione sembra piuttosto chiara: le elezioni presidenziali si terranno da domani al 17, e l’obiettivo è stabilire il controllo su almeno un villaggio della fascia di confine per rivendicarlo come “Russia libera”, far fare una figuraccia a Putin e sostenere che le elezioni sono illegittime, come stanno facendo decine di account su Twitter (non esattamente il social media più diffuso e praticato in Russia, quindi è chiaro chi è il bersaglio di queste azioni e di queste dichiarazioni).
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Ma che le elezioni in Russia non saranno riconosciute lo ha detto poco fa, senza perdite né di uomini né di mezzi, Peter Stano, il portavoce degli Affari esteri dell’Unione Europea, che ha dichiarato appunto che i singoli Stati si comporteranno come meglio credono, ma l’Unione non le riconoscerà.
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Di qui a domenica aspettiamoci un crescendo di dichiarazioni surreali, operazioni militari velleitarie e tonnellate di propaganda. Poi forse si daranno tutti una calmata.
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P.S. Nella foto, un momento dell’intervista a Macron. Le facce dei giornalisti sono il miglior commento.
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<a href="https://contropiano.org/news/internazionale-news/2024/03/15/macron-a-la-guerre-anzi-no-0170407" target="_blank" rel="nofollow">Fonte</a>Re-Carbonizedhttp://www.blogger.com/profile/07070140938585948393noreply@blogger.com0tag:blogger.com,1999:blog-4800805644070876200.post-4719570629037193522024-03-15T13:47:00.000+01:002024-03-17T17:49:42.002+01:00ImpunitàLe manganellate di Pisa hanno fatto rumore. Giustamente. Ma in un’altra stagione politica, quella degli Anni Settanta, i fatti contrassegnati dalle spietatezze delle presunte forze dell’ordine sono stati troppi e tutti indirizzati verso un’unica direzione: l’impunità.
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Ecco un elenco, a partire dal 1970, dei morti ammazzati (difficile non rischiare di dimenticarne qualcuno).
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Saverio Saltarelli, ucciso il 12 dicembre 1970, a Milano, da un candelotto sparato ad altezza d’uomo.
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Sei anni dopo, il capitano di Ps, Alberto Antonetto, comandante del reparto cui apparteneva l’agente (senza identità) che aveva esploso il colpo, viene assolto per “insufficienza di prove”.
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Ignoti anche i macellai delle forze dell’ordine che picchiano selvaggiamente Franco Serantini. Pisa 7 maggio 1972. Una quindicina di celerini saltano addosso a Serantini. Due giorni dopo muore per emorragia cerebrale.
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“Non doversi procedere in ordine di omicidio preterintenzionale in persona di Serantini Franco per esserne ignoti gli autori,” scrive nella sentenza conclusiva il giudice Nicastro.
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Per l’assassinio di Roberto Franceschi, avvenuto a Milano il 23 gennaio 1973, l’iter giudiziario si conclude in una farsa.
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La perizia balistica pur accertando che la pallottola che ha colpito Roberto Franceschi, provenisse dalla pistola calibro 7, 65 in dotazione all’agente Gianni Gallo, il 18 luglio 1979 il poliziotto viene assolto per non aver commesso il fatto. Viene prima incriminato il vicequestore Paolella, poi assolto.
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“Può ritenersi pienamente provato che il proiettile estratto dalla nuca di Franceschi, fu esploso dalla pistola in dotazione all’agente di polizia Gallo Gianni, che la pistola fu impugnata e il colpo sparato da una persona appartenente alle forze dell’ordine e che l’uso dell’arma, lungi dall’essere un episodio isolato, si inquadrava in un ricorso generalizzato all’impiego delle armi da fuoco nei confronti dei manifestanti che si stavano allontanando…”
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Roma 8 settembre 1974. San Basilio, lotta per la casa, Fabrizio Ceruso, viene colpito in pieno petto da un proiettile esploso dalla polizia. Nessun colpevole. Inchiesta archiviata.
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Piero Bruno il 22 novembre 1975, prima viene ferito alla schiena da un colpo sparato dal carabiniere Pietro Colantuono. Poi, mentre è a terra, un poliziotto, Romano Tammaro, gli spara di nuovo.
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Alla fine, in applicazione della “legge Reale” non si arriva nemmeno al processo: “Se per gli interessi superiori dello Stato, congiuntamente alla difesa personale, si è costretti a una reazione proporzionata all’offesa, si può compiangere la sorte di un cittadino la cui vita è stata stroncata nel fiore degli anni, ma non si possono ignorare i fondamentali principi del diritto. La colpa della perdita di una vita umana è da ascrivere alla irresponsabilità di chi, insofferente della vita civile, democratica, semina odio tra i cittadini,” è scritto nella sentenza del giudice istruttore Lacanna.
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Per la morte di Giannino Zibecchi, Milano 17 aprile 1975, gli imputati – l’agente Sergio Chiarieri, autista del camion che lo travolge, il tenente Alberto Gambardella, capo macchina sullo stesso automezzo, e il capitano Alberto Gonnella, responsabile dell’autocolonna – vengono assolti.
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Il primo per insufficienza di prove, gli altri due per non aver commesso il fatto.
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“Nell’impossibilità di sciogliere con una risposta attendibile il dubbio sul livello e sull’ampiezza dello stato di coscienza del Chiarieri, manca il presupposto del possesso della piena capacità di comprensione e autodeterminazione negli attimi che precedettero l’investimento”, questa sentenza infarcita di bizantinismi, del 29 novembre 1980, reca la firma di Francesco Saverio Borrelli.
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18 aprile 1975. Corteo antifascista per le vie di Firenze, per protestare contro l’assassinio di Claudio Varalli e Giannino Zibecchi. L’agente di polizia Basile prende la mira e spara, uccidendo Rodolfo Boschi e ferendo Francesco Panichi.
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Orazio Basile viene condannato a otto mesi con la condizionale per “eccesso colposo di legittima difesa”.
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Napoli, il 16 maggio 1975, durante una carica contro una manifestazione di disoccupati, una jeep della polizia travolge uccidendolo, Gennaro Costantino.
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La camionetta della celere, secondo la versione ufficiale, era priva di conducente, sbalzato dal posto di guida in seguito a sbandamento. Nessun colpevole.
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7 aprile 1976. Roma. Mario Salvi viene ammazzato con un colpo di pistola alla nuca dall’agente carcerario in borghese, Domenico Velluto. L’8 luglio 1977 la Corte d’Assise lo assolve per aver fatto uso legittimo delle armi.
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Massimo Tramontani, il carabiniere che uccide Francesco Lorusso, a Bologna l’11 marzo 1977, viene scagionato perché reputata legittima la sua condotta in base alla “legge Reale”.
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L’inchiesta sull’assassinio di Giorgiana Masi, 12 maggio 1977, viene sepolta il 9 maggio 1981 dal giudice istruttore Claudio d’Angelo con la dichiarazione di “impossibilità di procedere, perché rimasti ignoti i responsabili del reato”.
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Abuso di potere, impunità, anticomunismo.
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È una vecchia storia. Dieci anni prima, era il 1960 con i morti Reggio Emilia e Palermo. Polizia e carabinieri sparano su chi protesta contro il governo Tambroni.
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Il 7 luglio a Reggio uccidono 5 operai. Il giorno dopo, la strage di via Maqueda: altri 4 morti. 9 morti in 48 ore.
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Tutti “assolti per non aver commesso il fatto”. Molti di questi: promossi, premiati, decorati.
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È sano tenerlo sempre a mente: la storia non conta solo per ieri, vale anche per oggi e per domani.
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<a href="https://contropiano.org/interventi/2024/03/15/impunita-0170351" target="_blank" rel="nofollow">Fonte</a>Re-Carbonizedhttp://www.blogger.com/profile/07070140938585948393noreply@blogger.com0tag:blogger.com,1999:blog-4800805644070876200.post-45791588273712403312024-03-15T11:42:00.006+01:002024-03-17T17:47:34.037+01:00Argentina - Chi pagherà i piatti rotti da Milei?di <b>Atilio Boron</b>
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Javier Milei ha appena insultato brutalmente, ancora una volta, il presidente colombiano Gustavo Petro. Disorientato, il presidente argentino persiste nei suoi attacchi contro se stesso e gli altri.
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Pochi giorni fa, ha descritto i membri del Congresso argentino come un “nido di topi” (eletti dalla cittadinanza, per la cronaca); o uno dei suoi ex compari, Ricardo López Murphy come “traditore e spazzatura“; e il suo attuale ministro della Sicurezza, Patricia Bullrich, che ha fulminato in campagna elettorale per essere una “montonera assassina“.
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Gli insulti a papa Francesco sono stati di una bassezza che raramente si è vista nella storia, e così potremmo continuare a elaborare un’interminabile raccolta delle escrescenze verbali di un personaggio allucinato, che abita una realtà parallela, che parla con il suo cane morto (ai cui consigli si ispira) e che non ha la più pallida idea della responsabilità istituzionale che gli spetta come presidente dell’Argentina e che dovrebbe impedirgli di dire la prima barbarie che gli attraversa la mente, tenendo conto che le sue parole e i suoi gesti intemperanti e irrispettosi compromettono le relazioni internazionali del nostro Paese.
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Ora, nell’ambito della conferenza Conservative Political Action tenutasi nel Maryland – uno spettacolo di Las Vegas messo in scena per sostenere le ambizioni elettorali di Trump – ha appena detto che il presidente Petro “sta affondando i colombiani, e che è una piaga letale” per gli abitanti di quel grande paese. In precedenza, aveva dichiarato che era un “assassino colombiano che sta affondando la Colombia“.
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Petro, personaggio integro ed esemplare di coerenza, non ha bisogno che nessuno lo difenda dal vomito verbale dell’impresentabile presidente argentino. Soprattutto se si tiene conto che sta sprofondando questo travagliato paese in una crisi globale, che giorno dopo giorno alimenta una “tempesta perfetta” che probabilmente – insisto sulla probabilistica delle previsioni – finirà per gettare l’energico uomo della Casa Rosada nelle discariche della storia.
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Non è superfluo dire che se ci fosse un dibattito tra i due presidenti su questioni economiche, sociali o internazionali, Milei non resisterebbe all’attacco di Petro oltre il secondo round, se posso usare la metafora della boxe. Sarebbe una batosta fenomenale per l’argentino.
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La totale irresponsabilità di Milei negli affari internazionali lo spinge a lanciare insulti a destra e a manca contro i presidenti di Colombia, Brasile, Cuba e Venezuela, per rimanere solo nella regione; o quella che si manifesta anche nel rifiuto di aderire ai BRICS, il gruppo più dinamico e promettente dell’economia mondiale, che rivela la supina ignoranza del personaggio e del suo Cancelliere in queste materie.
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A questi va aggiunto il veto alla costruzione del Canale della Magdalena, che garantirebbe l’accesso sovrano dei fiumi argentini all’Atlantico, bypassando Montevideo, alla politica di capitolazione indegna sulla questione delle Malvinas, che costò tante vite alla gioventù argentina.
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Sfoghi verbali che si traducono in gravissimi errori politici che questo paese dovrà pagare per molti anni, frutto delle cupe fantasie di Milei su quell’inesistente capitalismo apolide proposto dai rozzi stregoni della Scuola Austriaca e del fatto, cruciale dal mio modesto punto di vista, che per il presidente né la sovranità né la nazione sono questioni importanti.
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Soprattutto per chi, come lui, crede che la nazione non esista e che non sia altro che una fastidiosa intelaiatura architettata dai collettivisti per fornire una base allo Stato, carnefice dei mercati.
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<a href="https://contropiano.org/news/internazionale-news/2024/03/15/argentina-chi-paghera-i-piatti-rotti-da-milei-0170391" target="_blank" rel="nofollow">Fonte</a>Re-Carbonizedhttp://www.blogger.com/profile/07070140938585948393noreply@blogger.com0tag:blogger.com,1999:blog-4800805644070876200.post-39970537322051721722024-03-15T09:35:00.000+01:002024-03-17T17:41:09.363+01:00Rumori molesti intorno alla morte di Barbara BalzeraniGirano molti commenti molesti intorno alla storia e alla morte di Barbara Balzerani. Per i giornali e i commentatori borghesi o della destra corre l’obbligo della demonizzazione della persona e del contesto, una sorta di esorcismo ripetuto e ossessivo che dura ormai da decenni. <br /><br />Poi è partita la criminalizzazione di chiunque – giornalisti, attivisti o <a href="https://contropiano.org/interventi/2024/03/13/balzerani-di-cesare-e-la-polizia-del-pensiero-0170289">docenti universitari</a> – abbia provato a non utilizzare esclusivamente il linguaggio della vendetta o della “verità di Stato” per ricordare o salutare Barbara Balzerani. Anche i ricordi, talvolta più personali che politici, sono stati brutalizzati dai plotoni di esecuzione mediatici e “disciplinari”. <br /><br />Ma rumori molesti sono arrivati anche da alcuni ambiti erroneamente ritenuti “di movimento”, fin troppo tollerati. <br /><br />Se si potesse prenderli sul serio, i Carc sarebbero una microformazione da “caso di studio”. Da quasi 40 anni, infatti, si ergono a custodi testamentari della stagione della lotta armata – con particolare attenzione alle BR – sfornando documenti, condanne, critiche a questo o quel militante di quei tempi, aprendo polemiche cui nessuno risponde, ecc., stabilendo a proprio insindacabile giudizio cosa sia ammissibile dire o pensare. <br /><br />Una identità davvero temeraria e potenzialmente suicida, se fosse seria... <br /><br />Se si potesse prenderli sul serio, dei Carc andrebbe infatti spiegata prima di tutto la sopravvivenza in una stagione politica in cui anche il passare a miglior vita diventa un’occasione – per il potere e i suoi menestrelli mediatici – per ri-criminalizzare nomi e fatti di quei tempi. <br /><br />Viviamo una stagione in cui chi salva vite in mare viene descritto – e imputato – come “complice degli scafisti”. Oppure si manganellano studenti minorenni “armati” solo di dignità e idee di giustizia sociale, accostando strumentalmente e minacciosamente le piccole forme di conflitto sociale presenti oggi, ai fuochi veri degli anni Settanta. <br /><br />Una stagione in cui un anarchico accusato di aver fatto esplodere un petardone nei pressi di una caserma, senza provocare né danni né feriti, può essere tranquillamente condannato all’ergastolo per “strage politica” e sepolto al 41 bis. <br /><br />Tempi, insomma, in cui non si scherza né con i fatti né con le parole. <br /><br />Ma, naturalmente, neanche volendo si possono prendere i Carc sul serio. <br /><br />Tanto meno quando – anche loro – <a href="https://www.carc.it/2024/03/05/sulla-morte-di-barbara-balzerani-e-la-diversione-sulle-brigate-rosse/">sfruttano la morte di una compagna per “provocare discussioni”</a>... riproponendo oggi i propri deliri di otto anni fa anche contro il nostro giornale. <br /><br />Questo giornale, notoriamente, non si cura affatto di questa gente, neanche quando viene da loro preso di mira nella speranza di una reazione. Ce ne siamo occupati solo in occasione di un’<a href="https://contropiano.org/news/politica-news/2016/12/27/giu-le-mani-michele-087378">aggressione ad un compagno</a> che era stata, in modo obliquo, <a href="https://www.carc.it/2017/04/11/la-lotta-ideologica-il-dibattito-franco-aperto-e-lunita-delle-forze-rivoluzionarie/">da loro “giustificata”, se non proprio “rivendicata”</a>. <br /><br />Ma le generazioni di attivisti fortunatamente si rinnovano e dunque sorge ogni tanto la necessità di far sapere anche a chi si affaccia per a prima volta al conflitto sociale e politico che tipo di “fauna” popola questo angolo di mondo. In modo da semplificare le relazioni ed evitare di perder tempo con chi sta lì proprio e solo per fartene perdere. <br /><br />In occasioni come queste un silenzio dignitoso sarebbe stato apprezzabile, ma è un auspicio del tutto sprecato.<br /><br /><a href="https://contropiano.org/news/politica-news/2024/03/14/rumori-molesti-intorno-alla-morte-di-barbara-balzerani-0170280">Fonte</a> Re-Carbonizedhttp://www.blogger.com/profile/07070140938585948393noreply@blogger.com0