tag:blogger.com,1999:blog-48008056440708762002024-03-28T21:14:32.264+01:00Manifest of BlasphemyRe-Carbonizedhttp://www.blogger.com/profile/07070140938585948393noreply@blogger.comBlogger35869125tag:blogger.com,1999:blog-4800805644070876200.post-30108499336957918612024-03-28T21:14:00.000+01:002024-03-28T21:14:00.243+01:00La Cina punta sulle forze produttive di alta qualità. Manager occidentali in fila per saperne di piùLo scorso 24 marzo è iniziato a Pechino l’incontro annuale del China Development Forum (CDF), il primo forum internazionale a larga scala.
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Il Forum di quest’anno ha attirato più di 100 dirigenti di aziende multinazionali provenienti da tutto il mondo. Una delegazione particolarmente folta è quella delle multinazionali tedesche, ma non mancano Apple, GlaxoSmithKline ed altre.
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Dalla sua istituzione nel 2000, il China Development Forum è diventato un appuntamento rilevante per promuovere il dialogo e la cooperazione tra la Cina e il resto del mondo. Questo è un anno cruciale per la Cina per il raggiungimento degli obiettivi e dei compiti indicati dal 14° piano quinquennale.
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Lo scorso 5 marzo 2024 Xi Jinping, segretario generale del Partito Comunista Cinese, ha dichiarato che <i>“lo sviluppo di nuove forze produttive di alta qualità non consiste nel trascurare o abbandonare le industrie tradizionali. Bisogna prevenire la corsa precipitosa ai progetti e la formazione di bolle industriali, ed evitare di adottare un unico modello di sviluppo”</i>.
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Xi Jinping ha sottolineato l’importanza di afferrare con fermezza il compito primario dello sviluppo di alta qualità e di sviluppare le nuove forze produttive di alta qualità in accordo con le condizioni locali. <i>“Di fronte a un nuovo ciclo di rivoluzione scientifica e tecnologica e di cambiamento industriale, occorre cogliere le opportunità, aumentare l’innovazione, coltivare e far crescere nuove industrie, anticipando la pianificazione e la costruzione industriale del futuro e migliorando il moderno sistema industriale”</i>.
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Il premier del Consiglio di Stato, Li Qiang ha affermato nel suo discorso alla cerimonia di apertura del China Development Forum 2024 che il tema dello <i>“sviluppo sostenibile della Cina non è solo una descrizione obiettiva del lungo percorso del paese, ma riflette pienamente anche le aspettative di tutti i ceti sociali per uno sviluppo economico stabile e delle forze produttive di alta qualità della Cina”</i>.
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Prossimamente, Pechino afferma di voler coltivare e sviluppare le nuove forze produttive in tre ambiti: l’innovazione scientifica e tecnologica, l’innovazione amministrativa e istituzionale e l’apertura di alto livello verso il mondo esterno. Sono previsti importanti progetti scientifici e tecnologici, creando nuovi motori di crescita come la bioproduzione, l’aerospaziale commerciale, i nuovi materiali e attuando l’iniziativa «intelligenza artificiale +».
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In termini di espansione dell’apertura di alto livello al mondo esterno, la Cina sosterrà anche le imprese tecnologiche finanziate dall’estero e gli istituti di ricerca scientifica nazionali per promuovere congiuntamente la ricerca scientifica e tecnologica, rafforzare gli scambi e la cooperazione di personale, espandere costantemente l’apertura istituzionale e promuovere ulteriormente l’apertura ad alto livello del commercio e degli investimenti di servizi transfrontalieri.
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Il portavoce del ministero degli Esteri cinese, Lin Jian, ha ribadito che la fiducia nello sviluppo cinese è fondata non solo sulla crescita stabile di lungo termine e di alta qualità dell’economia cinese, ma anche sulla vasta dimensione del mercato cinese, sulla completa struttura industriale e sulle risorse umane di elevata qualità, oltre che sull’ambiente imprenditoriale caratterizzato dalla mercatizzazione, dalla legalizzazione e dall’internazionalizzazione.
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Nel 2023, la Cina ha promulgato i <i>“Ventiquattro regolamenti a favore degli investimenti esteri”</i>, mirando a stabilire uno standard di riferimento conforme alle norme economiche e commerciali internazionali di alto livello, con l’obiettivo di attrarre investimenti nelle cinque zone pilota di libero scambio e nel porto di libero scambio di Hainan.
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È bene rammentare che secondo il Global Innovation Index 2023 pubblicato dall’Organizzazione Mondiale della Proprietà Intellettuale, la Cina risulta essere al primo posto al mondo in sei indicatori.
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<a href="https://contropiano.org/news/news-economia/2024/03/28/la-cina-punta-sulle-forze-produttive-di-alta-qualita-manager-occidentali-in-fila-per-saperne-di-piu-0170762" rel="nofollow" target="_blank">Fonte</a>Re-Carbonizedhttp://www.blogger.com/profile/07070140938585948393noreply@blogger.com0tag:blogger.com,1999:blog-4800805644070876200.post-79332485428860794122024-03-28T19:41:00.000+01:002024-03-28T19:41:00.131+01:00I veicoli della “rivoluzione passiva”Attenzione: la destra italiana sta preparando una operazione politico-culturale di grande portata non limitata al piano istituzionale e alla rottura dell’involucro politico dettato dalla Costituzione Repubblicana.
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Non sarà sufficiente una risposta limitata al terreno del funzionamento degli organismi politici (e non bisogna considerare, ancora una volta, l’obiettivo del cambiamento della formula elettorale come salvifico).
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La trazione a destra, infatti, non è frutto di formazioni improvvisate e misurate semplicisticamente sull’antipolitica ma condotta da un soggetto dotato di un complessivo background capace di produrre attrazione tra i ceti emergenti e aggregazione popolare.
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Si pone una domanda: la destra italiana sta proponendo un enorme processo di “rivoluzione passiva” propedeutico, proprio sul piano della tanto reclamata egemonia culturale, all’installazione sul terreno istituzionale di una “democratura” capace di superare la democrazia repubblicana delineata con la Costituzione del ’48?
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Un interrogativo che si può ritenere pertinente e al quale non è facile fornire risposta.
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Così abbiamo tratto alcune argomentazioni di merito dal numero 6 (novembre/dicembre 2023) di <i>“Critica Marxista”</i> in cui due articoli affrontano temi gramsciani: Lelio La Porta tratta di <i>“Gramsci di destra; pericoloso ma senza fondamento”</i>; Antonio Di Meo scrive su <i>“La Rivoluzione Passiva nell’universo concettuale gramsciano”</i>.
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Procediamo per ordine, preventivando le scuse per qualche forzatura nei passaggi ma ritenendo comunque tutto sommato di percorrere una via analitica sufficientemente corretta.
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Nell’ultima parte del suo saggio Di Meo affronta il tema delle diverse declinazioni di “rivoluzione passiva” attraverso cui Gramsci affronta l’analisi di molti processi storici soprattutto a partire dalla Restaurazione post-napoleonica con l’affermarsi delle forme di blocco delle classi dominanti sia come modificazione al proprio interno, sia nei confronti delle classi subalterne.
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Fenomeno di modifica nel rapporto tra classi dominanti e ceti subalterni (cui oggi punta apertamente la destra) che si esplicitò nell’istituzione delle forme costituzionali di monarchia e dell’allargamento lento ma progressivo della platea degli elettori, della riforma dei codici giudiziari e delle unità di misura oppure nel caso delle leggi eversive della feudalità e della manomorta ecclesiastica e così via.
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La “rivoluzione passiva” era dunque intesa come modalità di ammodernamento degli Stati Europei senza una autentica rivoluzione popolare in un quadro che potrebbe essere definito di “corrosività riformistica“.
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Il concetto di rivoluzione passiva dovrebbe essere quindi dedotto da due principi fondamentali della scienza politica di cui è necessario prendere atto:
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1) che nessuna formazione sociale scompare fino a quando le forze produttive che si sono sviluppate in essa trovano ancora posto per un loro ulteriore movimento progressivo;
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2) che la società non si pone compiti per la cui soluzione non siano già state onorate le condizioni necessarie.
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Nel saggio di Lelio La Porta si affrontano i diversi passaggi relativi alle “prove” che la destra, a partire da De Benoist, ha sviluppato per cercare di annettersi almeno parti del pensiero gramsciano.
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In sostanza si tratta del discorso di gran moda sull’egemonia che la destra recentemente arrivata al potere in Italia sta sviluppando esaltando i valori nazionalistici e costruendo, in questo senso, una sorta di Pantheon tenendo assieme Dante, Leopardi, Prezzolini, Gramsci, Gentile e Croce (utilizzando anche la contaminazione che il pensiero di Gramsci esprime al riguardo del lavoro di Croce e Gentile su Marx, svolto contemporaneamente a Labriola) e dimenticando le aspre critiche di Gramsci nel momento in cui individuava nella prassi la rimessa in circolazione proprio del pensiero di Labriola.
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Leggendo i due testi sorge, a mio modesto giudizio, un ulteriore interrogativo: è possibile che la battaglia per l’egemonia che la destra sta conducendo non rappresenti una sorta di “veicolo” per un complessivo processo di “i”?
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All’interno di questa fase di “rivoluzione passiva” si dovrebbe sviluppare, dal punto di vista della destra, almeno un elemento di fondamentale importanza: la ricostruzione, sul piano teorico, di un “senso comune” opposto a quello che la sinistra ha sviluppato nel corso dei decenni della sua affermazione storica a livello europeo, senza stroncarne la presenza ma con una operazione di “soffocamento sostitutivo”, assumendone anche valori e principi (i campi di “Patria” e “Nazione” appaiono almeno in apparenza i più indicati al proposito, tanto più in un clima crescente di spirale pre-bellica).
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La destra intende sviluppare gli elementi fondativi di questo nuovo senso comune sul terreno culturale e sociale (verrebbe quasi da usare l’antico termine di “controcultura” intendendo il termine cultura nel senso della “kultur” nell’interezza del significato di questo termine che si trova nella lingua di Hegel, Kant e Marx).
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Il terreno del contendere rispetto a questa operazione, dovrebbe indurre la sinistra ad una opera di vera e propria ricostruzione di un opposto “senso comune” (ed è a questo proposito che i due saggi citati, probabilmente in maniera involontaria, finiscono con l’intrecciarsi).
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Per ingaggiare questo scontro, necessario da condurre nel tempo della “modernità” (tecnologia, velocità nella comunicazione di massa, IA e quant’altro) abbiamo allora più che mai bisogno della messa in opera di un’adeguata soggettività politica capace di porre al primo posto proprio la connessione tra cultura e politica, svolgendo funzione pedagogica e costruendo “quadri“.
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Sarà sulla base dei modelli che potranno essere scelti a condizione di realizzare un forte dibattito di massa per decidere la forma da far assumere, nell’oggi, a questa soggettività, che si potranno costruire nel tempo le condizioni culturali e politiche adatte all’affermazione, a tutti i livelli, di una nuova, adeguata, élite dirigente.
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L’élite dirigente della quale è necessario, indispensabile ed urgente procedere alla formazione partendo dalle tante avanguardie sparse in una pluralità di situazioni e attualmente prive di riferimento politico nelle fabbriche, nelle Università, nei nuovi movimenti sociali e che deve essere unificata all’interno di una organica visione dell’intreccio tra azione culturale e agire politico.
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Élite dirigente dalla quale far ripartire quella lotta per l’egemonia che deve rappresentare il vero obiettivo del nostro agire culturale, sociale, politico.
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<a href="https://contropiano.org/interventi/2024/03/28/i-veicoli-della-rivoluzione-passiva-0170747" rel="nofollow" target="_blank">Fonte</a>Re-Carbonizedhttp://www.blogger.com/profile/07070140938585948393noreply@blogger.com0tag:blogger.com,1999:blog-4800805644070876200.post-80868462687996507442024-03-28T17:21:00.000+01:002024-03-28T17:21:00.130+01:00Impoverimento NATOSolo un liberista, o un commentatore dei grandi giornali e delle TV mainstream – oppure un vero e proprio cretino – poteva credere che riducendo i diritti e le garanzie sociali, aumentando le spese militari e praticando l’austerità di bilancio, la povertà non sarebbe aumentata.
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Come invece è ovvio, il rapporto Istat sulla povertà ci dice che essa è in aumento e che ancora di più cresce tra chi ha un posto di lavoro.
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Oggi in Italia ci sono 5,7 milioni di persone in povertà assoluta, cioè che non hanno di che mangiare e di che vivere dignitosamente. Ci sono poi altri milioni di persone che pur lavorando, non riescono a guadagnare un salario sufficiente per poter uscire dalla povertà.
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È bene ricordare che, secondo i calcoli Istat, una famiglia di due persone che abbia a disposizione meno di 1150 euro al mese non è in grado di sopperire a tutte le esigenze fondamentali della vita.
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Ebbene ci sono milioni di lavoratori che prendono un salario inferiore agli 850 euro mensili e spesso quello stipendio è l’unico che entra in famiglia.
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Nello stesso tempo i profitti delle banche sono cresciuti dell’80%, così come la ricchezza dei più ricchi è aumentata di percentuali a due cifre.
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Insomma un colossale fiume di danaro si riversa dal basso verso l’alto; sono proprio i soldi dei poveri che fanno i ricchi più ricchi, ma questa semplice verità viene considerata dal governo, e dal mondo politico economico liberista, come una “posizione ideologica”.
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La tendenza all’aumento della povertà si verifica quando ancora non si è dispiegato tutto l’effetto negativo dell’abolizione del reddito di cittadinanza, che peserà molto di più sulla povertà del 2024 e degli anni successivi, mentre i dati Istat si riferiscono ancora al 2023.
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Così come la mancata approvazione del salario minimo, per volontà del governo e della Confindustria, avrà una progressiva ricaduta dannosa sui salari, di fronte al persistere di un’inflazione che le buste paga non riescono a recuperare.
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Quindi andrà sempre peggio per lavoratori e poveri, sempre meglio per imprenditori e ricchi.
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Per un governo che si era presentato come espressione del popolo contro gli interessi e il potere dell’élite, non c’è davvero male.
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Attenzione però, il governo Meloni ha responsabilità nell’immediato, per la sua particolare ottusità e ferocia sociale, ma l’incremento della povertà nel nostro paese ha basi che vengono da lontano e che si stanno consolidando.
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Siamo il solo paese dell’OCSE nel quale negli ultimi trent’anni le retribuzioni sono diminuite, abbiamo subìto i peggiori tagli alla spesa sanitaria, all’istruzione e alla spesa pubblica e siamo sottoposti a un regime di bilancio fondato sull’austerità, che dal prossimo anno sarà ancor più lacrime e sangue con il ritorno dei vincoli del Patto di Stabilità UE.
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In più, l’economia è tornata in stagnazione se non in recessione, l’industria sta pericolosamente frenando, tranne che nella produzione militare, perché a tutto questo quadro negativo si aggiunge anche quello dell’economia di guerra.
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Siamo dominati da una folle politica di guerra, che la UE considera oramai una scelta definitiva e che il governo Meloni, sulla scia di quello di Draghi, fa propria.
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Per poter reggere un minimo di equilibrio sociale in queste condizioni, occorrerebbe un’opera persino brutale di redistribuzione della ricchezza, ci vorrebbe un bel po’ di tasse sui profitti e sui grandi patrimoni. E questo fa ridere di rabbia pensando a questo governo, che si è fatto infinocchiare dalle banche, alle quali aveva proposto una tassa che alla fine diventata un altro extra profitto.
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La povertà che cresce è frutto di precise decisioni di politica economica e sociale e alla fine penso che, per quanto incapaci e stolidi siano coloro che ci governano, non sia credibile che essi non sappiano mai nulla delle conseguenze delle loro azioni. Tutto a loro insaputa? Non ci credo.
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Ho invece maturato la convinzione che la scelte che aumentano la povertà siano volute, cioè che si pensi che questo paese possa crescere solo se diventa una centrale di sfruttamento del lavoro, un’Italia low cost “competitiva” in Europa e nel mondo occidentale.
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Così come credo che la servile fedeltà agli Stati Uniti e ai guerrafondai occidentali, sia praticata anche nella speranza che essa produca guadagni economici, oltre che politici.
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Sì, per quanto possano sembrare dilettanti allo sbaraglio, io non credo più che Meloni e i suoi siano inconsapevoli di produrre povertà. Io credo che abbiano fatto una scelta, così come un loro referente politico, il fascista presidente argentino Milei, ha fatto nel suo paese.
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I liberaldemocratici occidentali fanno finta che non sia così, ma la verità è che liberismo economico e austerità, politica reazionaria, guerra sono sempre più uniti assieme.
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Quello che stiamo vivendo è un impoverimento causato da anni di liberismo, che ora viene accelerato dalla politica di guerra della NATO.
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Politica estera e politica interna sono sempre più intrecciate e vincolate tra loro; e non credo che si possano cambiare le cose, ridurre la povertà in Italia, senza metterle entrambe in discussione.
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<a href="https://contropiano.org/news/politica-news/2024/03/28/impoverimento-nato-0170817" target="_blank" rel="nofollow">Fonte</a>Re-Carbonizedhttp://www.blogger.com/profile/07070140938585948393noreply@blogger.com0tag:blogger.com,1999:blog-4800805644070876200.post-38984916644896682402024-03-28T15:19:00.000+01:002024-03-28T15:19:00.152+01:00Gli Houthi yemeniti spiegano la loro linea di condotta su GazaIn un discorso tenuto lo scorso 25 marzo in occasione della Giornata della Fermezza, il comandante del movimento yemenita Ansarallah, Sayyed Abdulmalik Badr El-Din Al-Houthi, ha spiegato in alcuni passaggi la postura adottata dall’organizzazione yemenita sulla resistenza del popolo palestinese e i suoi riflessi in Medio Oriente.
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<i>“Il nostro caro popolo è in prima linea tra le nazioni in termini di preoccupazione e interesse per la sicurezza nazionale della nazione araba e per la sicurezza di tutta la nostra nazione islamica. Tutti i paesi arabi e il mondo islamico dovrebbero vedere il popolo yemenita come un popolo che incarna la vera fratellanza e che è un sostegno per l’intera nazione.
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Il nostro nemico è il nemico dell’intera nazione, e il nemico “israeliano” rappresenta un pericolo reale per tutti i musulmani, specialmente per gli arabi”</i> ha affermato il leader di Ansarallah.
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In relazione alle azioni di sostegno ai palestinesi, Sayyed Abdulmalik Badr El-Din Al-Houthi ha sottolineato che <i>“Il nostro paese, con la grazia e il successo di Allah, ha assunto una posizione onorevole con il popolo palestinese e lo ha pienamente sostenuto. Le nostre operazioni militari continuano, così come vari livelli di movimento popolare diffuso e attività in tutti i campi. I nostri media sono diretti con tutta la loro energia e capacità a sostenere il popolo palestinese”</i>.
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<i>“Per il nemico israeliano, la normalizzazione è un mezzo per consolidare e rafforzare il suo controllo e la sua influenza per estenderli all’intera patria araba e al mondo arabo. Il progetto di normalizzazione mirava a superare l’aggressione ‘israeliana’ al fine di provocare guerre e sedizioni all’interno della nostra nazione.
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È un grande disastro e una chiara perdita per la nazione che alcuni paesi arabi impieghino le loro risorse e capacità per servire i piani americani e israeliani. Sfortunatamente, gli Stati Uniti continuano la politica di coinvolgere alcuni regimi arabi in direzioni interne ostili e di provocare sedizioni e conflitti all’interno della nazione”</i>.
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Il sito web economico <i>Calcalist</i> ha riferito che l’ultima volta che una nave con auto è arrivata al porto israeliano di Eilat è stato il 20 novembre dello scorso anno e il mercato automobilistico prevede una carenza di forniture. Nel frattempo, le forze armate yemenite continuano a condurre operazioni contro navi legate al regime israeliano, oltre ad attaccare Eilat con missili balistici e droni.
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Sullo scenario che vede l’intervento di una flotta statunitense e britannica – oltre a quella europea <i>Aspides</i> – nel Mar Rosso per combattere il boicottaggio degli Houthi yemeniti sul traffico navale diretto e proveniente da Israele, il leader yemenita ha chiarito che: <i>“Ora ci troviamo in un confronto chiaro e diretto tra noi e l’asse del male: gli Stati Uniti, Israele e la Gran Bretagna”</i>.
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<i>“L’aggressione contro il nostro paese è un’aggressione sotto la supervisione e la pianificazione americana, britannica e ‘israeliana’ all’interno di un piano mirato all’intera regione. L’obiettivo generale dietro l’attacco alla nostra nazione è quello di liquidare la causa palestinese e fare in modo che gli “israeliani” guidino la regione”</i>.
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Non è mancato un passaggio critico verso le leadership delle petromonarchie del Golfo contro le quali gli Houthi yemeniti hanno condotto per quasi dieci anni una sanguinosa guerra di resistenza. Ma il linguaggio appare decisamente più diplomatico che in passato:
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<i>“I sauditi e gli emiratini dovrebbero passare dalla fase della distensione a quella dei diritti di pace, se vogliono davvero la pace. I diritti di pace sono la fine totale dell’assedio, dell’aggressione, dell’occupazione, dello scambio di prigionieri e del risarcimento dei danni. Consigliamo a tutti di liberarsi dalla cieca dipendenza dagli Stati Uniti e speriamo di raggiungere una soluzione giusta che porti all’attuazione dei diritti di pace”</i>.
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Nel discorso del comandante di Ansarallah, è interessante come non venga fatto alcun accenno alla flotta militare Aspides inviata dall’Unione Europea nel Mar Rosso. In diplomazia sarebbe una finestra interessante, ma al momento i vertici politici-militari europei hanno escluso stupidamente questa strada preferendole quella muscolare.
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<a href="https://contropiano.org/news/internazionale-news/2024/03/28/gli-houthi-yemeniti-spiegano-la-loro-linea-di-condotta-su-gaza-0170766" rel="nofollow" target="_blank">Fonte</a>Re-Carbonizedhttp://www.blogger.com/profile/07070140938585948393noreply@blogger.com0tag:blogger.com,1999:blog-4800805644070876200.post-72101008649175241402024-03-28T13:06:00.021+01:002024-03-28T13:06:00.144+01:00Formata per il declinoViene arrestata una donna che per 30 anni è stata nelle liste delle persone ricercate dalla polizia. L’evento balza al centro dell’eccitazione resa pubblica. Segue una caccia a altri due ricercati sui quali fino ad oggi non si è riusciti a mettere le mani.
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Sono ex appartenenti alla RAF, sono coloro che nel 1998 dopo 28 anni, con un’ampia dichiarazione avevano dichiarato concluso il progetto RAF. Chi ancora conosce i media del periodo attivo della RAF, percepisce il ricordo. Eppure: quali sono i paralleli se il programma della guerriglia urbana non esiste più?
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Università di Graz a gennaio: qui parla Heinz Bude, sociologo in permanente assistenza del potere. Con parole gentili, recitate in stile discorsivo, seguo le parole e i concetti (come »Vorratsreflektion« [riflessione di scorta] che solo la sociologia può inventare), che spiegano che la sociologia deve produrre »disponibilità all’ubbidienza« [Folgebereitschaft], eventualmente attraverso una ‘politica della paura’ ma che allo stesso tempo non deve averne l’aspetto, presentandosi sotto le spoglie della scientificità.
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Ci saranno crisi, catastrofi climatiche, pandemie e anche la guerra torna nuovamente in Europa. All’occorrenza, per questa ubbidienza bisognerà anche »esercitare coercizione« per poter affrontare le crisi con »capacità di azione collettiva«.
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Ciò che qui si ascolta va definito apologia del fascismo, o almeno l’apologia di una fascistizzazione dell’apparato statale. Il suo punto di partenza è: il capitalismo come fondamento della società è intoccabile.
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Non è lui che va messo in discussione – meno che mai negato – per via delle sue crisi, ma il singolo che rifiuta la propria sottomissione o semplicemente fa le bizze perché non vuole capire perché non venga risparmiato lui, che non è mai stato nemico del sistema.
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Oltre la gestualità di una »capacità di azione collettiva« dichiarata necessaria nell’interesse di tutti, dilaga una disponibilità alla fascistizzazione che – poiché si sforza di non essere ideologica – si rivela essere fascismo tecnico.
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Non ha bisogno di ideologia, tranne quella secondo la quale le condizioni mondiali capitaliste seguono una sorta di legge di natura. Su questa base si possono organizzare manifestazioni di Stato contro i fascisti ideologici dell’AFD, mentre la politica governativa ufficiale in materia li ha superati da tempo.
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»Siamo in grado di farlo in una società liberale moderna, è possibile questo?«, chiede retoricamente Bude preso qui come esempio, con un implicito »si« che nessuno ha più bisogno di pronunciare.
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È il segno distintivo della »democrazia liberale« del capitalismo che rispetto alle sue forme autoritarie si spaccia per »fondato su valori«, per essere rimosso nel processo reale della società in conformità al sistema. Rien ne va plus si modifica in: rien ne compte plus.
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Davvero niente vale più. Tutto è negoziabile nella »democrazia liberale«, solo una cosa non lo è: il capitalismo come base vitale.
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Ormai da tempo non esiste più un impegno autonomo in prima persona proveniente dal sociale, vincolante nei confronti degli altri. Questa è una delle ragioni per le quali lo Stato diventa sempre più centralista e autoritario.
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La dissoluzione interna di tutti i valori del processo di capitalizzazione dell’intera vita richiede una cornice di tenuta esterna. La società che strutturalmente si auto-svaluta politicamente e moralmente ha bisogno di sempre più polizia. Questo è inevitabile.
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Pier Paolo Pasolini un tempo lo ha esposto per la diagnosi di una condizione di distruzione sociale che definì »mutazione antropologica«. Nel mondo del consumo e della produzione, uno svuotamento dell’essere umano e la creazione di un nuovo modello di società social-economico: il »fascismo del consumo«.
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Il fascismo è immanente al capitalismo e l’uno non è pensabile senza l’altro. In Ucraina viene condotta la lotta per l’egemonia tra capitalismo »liberale« e »autoritario« fino all’ultimo ucraino e a Gaza si rivela quanta barbarie si pretende di proporre all’umanità come »normale«.
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Coloro che pensano di poter affrontare il fascismo fondato sull’ideologia brandendo la ‘democrazia liberale capitalista’, si troveranno completamente disarmati quando anche la democrazia liberale avrà rivelato il suo punto critico nell’acculare le sue brutalità e nel suo culmine oggi possibile nella grande guerra.
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Qui il clamore sulla RAF che oggi attraversa i media si rivela come parte della promozione della »disponibilità all’ubbidienza«. Anche questo un tentativo di ripetizione: popolo e Stato come comunità investigativa.
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È costante l’eterno odio nei confronti di coloro che si sono presentati come ‘controsovrani’. Tutto è permesso. Qui il giornalismo d’inchiesta di LEGION (4) che si auto-eccita, può rendere KI strumento di uso quotidiano del fascismo tecnicamente possibile.
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Ma da tempo si va oltre: »terroristi climatici«, (troppe fonti per citarle qui), »fattore di trazione-RAF« (redazione digitale di SWR), »Un intero Paese in ostaggio« (la Taz sullo sciopero delle ferrovie).
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Viene richiesta sottomissione e ubbidienza. Tutt’al più una protesta nella forma che non disturba il funzionamento in essere. Tutto viene sottomesso allo schema amico-nemico, quindi alla logica della guerra che precede quella militare, la accompagna e quindi la segue.
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Da tempo la società è formata in modo autoritario. A posteriori il coronavirus si rivela il punto di svolta in cui la politica della paura è diventata momento centrale della trasmissione del dominio. Segue la nuova richiesta di ubbidienza nei confronti dello Stato come virtù e la rivalutazione morale di una figura abietta: il gregario e collaborazionista.
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Dopo che ci si è fatti belli per decenni citando Hannah Arendt (»Nessun uomo ha il diritto di ubbidire«), si lasciano cadere gli augusti gesti nei confronti del passato nazista e si propaga lo Stato del comando [Führungsstaat], vicino a ciò che in seguito prima o poi, non solo per Trump, evolve in Stato del comandante [Führerstaat].
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Libertà per Julian Assange. Per una prospettiva orientata alla libertà per Daniela Klette, Burghardt Garweg, Volker Staub e le e gli antifascisti detenuti e perseguitati dall’Ungheria e dalla Germania.
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<i>Traduzione a cura di Sveva Haertter</i>
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<b>Note</b>
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1) Citazioni di Heinz Bude da »Gesellschaft im Ausnahmezustand – Was lernen wir aus der Coronakrise?« (Società in stato di emergenza – cosa impariamo dalla crisi del coronavirus?) , Iniziativa pubblica Università di Graz del 24.01.2024, accessibile dalla pagina dell’università di Graz
<br /><br />
2) Pier-Paolo Pasolini, colloquio con Gideon Bachmann del gennaio 1965 in: PASOLINI BACHMANN, GESPRÄCHE 1963-1975, Vol. 1, di Gabriella Angheleddu e Fabien Vitali, Galerie der abseitigen Künste, Amburgo 2022 pp. 79
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3) Vedi nota 2: qui Vol. 2, commento Fabien Vitali pp. 137 e 415
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4) Giornalisti di inchiesta per il canale TV tedesco ARD
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<a href="https://contropiano.org/news/internazionale-news/2024/03/27/formata-per-il-declino-0170775" rel="nofollow" target="_blank">Fonte</a>Re-Carbonizedhttp://www.blogger.com/profile/07070140938585948393noreply@blogger.com0tag:blogger.com,1999:blog-4800805644070876200.post-40584861547421030152024-03-28T10:47:00.000+01:002024-03-28T10:47:00.156+01:00“Ha stato l’Isis”, l’ultimo alleato contro la RussiaE fu così che pure a via Angelo Bargoni, al numero 8, a Roma, esclamarono trionfanti che «Putin ammette» quello che i “cari leader occidentali” avevano giurato già mezz’ora dopo l’attentato al Krokus: macché GUR e CIA, è tutta colpa dell’Isis.
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Anche se, da quell’impenitente che è, il presidente russo si ostina a dire che bisogna trovare non soltanto gli organizzatori, ma soprattutto i committenti. E sì che tutti, ma proprio tutti, «da Washington al Tagikistan, passando per Bruxelles» – come a dire: le fonti della verità assoluta – «si siano ormai convinti della reale colpevolezza dell’Isis».
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Ma, niente. A Mosca non ci sentono, «il Cremlino non si adegua»: ci vorrà forse un’ulteriore spintarella perché si conformi alla verità USA-Tadžika-UE e la smetta con «l’ennesima stoccata agli Usa», nostri cari alleati e maestri?
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E affinché la “cara UE”, in questo momento così tragico e doloroso per centinaia di famiglie che hanno perso i propri cari, faccia sentire la propria voce di vicinanza – a chi? ma a Kiev, ovviamente – ecco che il portavoce della Commissione europea, quel Peter Stano che si fa fotografare in maglietta col tridente banderista, fa sapere al Cremlino che a Bruxelles sono «preoccupati per le indicazioni dei rappresentanti del regime di Mosca che cercano di creare un collegamento tra questo attentato e l’Ucraina che ovviamente respingiamo in toto».
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E dunque i “cari leader UE” ammoniscono Mosca «a non utilizzare gli attacchi terroristici a Mosca come pretesto o motivazione per aumentare l’aggressione illegale contro l’Ucraina».
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E poi, via, perché mai là, “oltrecortina”, si ostinano e non «si adeguano» alla verità provata, quando è addirittura il ministro degli Esteri, Antonio Tajani, vale a dire la bocca della verità, a proferire l’ultima parola, ribadendo che «non ci sono prove di alcun tipo di un coinvolgimento di qualsiasi genere da parte ucraina». E che diamine! Che si «adeguino»!
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Ma è soprattutto dal Potomac che arrivano le tavole della legge: unico responsabile è l’Isis e sui media yankee la parola “Ukraina” compare solo nelle smentite: in quelle diramate da Kiev.
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Di contro, il politologo Daniel Kersfeld, afferma che USA e Gran Bretagna insistano sul ruolo dell’Isis, per cercare di «convincere Mosca ad aprire un secondo fronte in Asia centrale, costringerla a intervenire in Afghanistan, per provocare una destabilizzazione a lungo termine che, alla fin fine, coinvolga anche Iran e Turchia».
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Secondo il politologo russo Bogdan Bezpal’ko, non ci sono dubbi che «beneficiari finali di questo terribile attacco terroristico siano gli anglosassoni. Avevano bisogno di destabilizzare a qualunque prezzo la situazione in Russia. Non tanto per seminare panico e terrore tra i russi, ma per dimostrare di poter colpire il paese dall’interno e nei luoghi più vulnerabili».
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L’obiettivo era anche quello di istigare la popolazione russa contro la forte migrazione dai paesi ex sovietici di religione musulmana e, soprattutto, insinuare cunei tra Mosca e il mondo islamico in generale, come a urlare alla Russia: “eccolo il tuo nuovo alleato, il Sud del mondo, con cui ti stai allineando contro l’Occidente: esso ti seppellirà!”.
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L’Occidente aveva bisogno di una “svolta”, soprattutto dopo il 7 ottobre, quando il mondo islamico ha puntato ancor più il dito contro l’Occidente, accusato di favorire il genocidio del popolo palestinese, mentre le quotazioni della Russia nel “Sud del mondo” hanno continuato a salire.
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Del resto, gli anglosassoni hanno una vasta esperienza nell’incitamento dei musulmani contro la Russia: nella seconda metà del secolo scorso, convincevano l’Arabia Saudita di essere minacciata dal “popolo senza Dio di Mosca”, quindi l’Afghanistan, con l’intervento sovietico spacciato per “guerra contro l’Islam“, e poi la Cecenia, con la Russia accusata di “genocidio dei musulmani”.
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Insomma: “Kiev non c’entra per nulla col massacro di Mosca. I nazigolpisti non hanno mai fatto ricorso a simili metodi e non si sono mai messi in combutta col terrorismo islamista“.
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Mai?
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Negli ultimi dieci anni l’Ucraina ha agito costantemente proprio in questo modo, con metodi terroristici: anno dopo anno, ha terrorizzato la popolazione civile del Donbass (e anche la propria popolazione, se non con bombe e cannoni, con la repressione più violenta); ma lo ha sempre fatto negando il proprio coinvolgimento.
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2 maggio 2014: 48 (la cifra reale forse non si conoscerà mai) antifascisti “si bruciarono da soli” nella Casa dei sindacati di Odessa. Kiev ha sempre incolpato “il forte vento che alimentava le fiamme”, nonostante le migliaia di filmati di persone che si lanciavano dalle finestre dell’edificio in fiamme e venivano uccise in strada.
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2 giugno 2014: a sentire i nazigolpisti, non sarebbe stata Kiev a ordinare agli aerei di bombardare l’edificio dell’amministrazione regionale di Lugansk; no, “erano esplosi i condizionatori”. E ci credevano davvero loro stessi, perché era impossibile immaginare che si potessero uccidere persone innocenti; persone che, all’epoca, erano parte integrante dello stesso popolo ucraino.
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Estate 2014: Novosvetlovka, area di Lugansk, mentre erano in corso pesanti combattimenti, il battaglione nazista “Aidar” (<a href="https://contropiano.org/news/internazionale-news/2016/03/21/russia-condannata-076897" rel="nofollow" target="_blank">quello di Nadežda Savcenko; ricordate?</a>) raduna i residenti per evacuare il villaggio – una tragica anticipazione del film <a href="https://www.lantidiplomatico.it/dettnews-un_pensiero_rivolto_al_sindaco_pd_nardella_dopo_aver_visto_il_testimone/39130_52751/" rel="nofollow" target="_blank">“Il testimone”</a> – e uno dei camion su cui vengono caricate le persone viene fatto saltare in aria, con donne, bambini e anziani. Pochi secondi prima dell’esplosione, l’autista salta fuori dalla cabina.
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Dal 2014, esercito e battaglioni nazionalisti e nazisti hanno costantemente preso di mira ospedali, ospizi, case di cura, scuole, giardini pubblici in Donbass. Non sono forse questi attacchi terroristici?
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Quanto alle cellule Isis accampate tranquillamente a Kiev, di cui in passato hanno scritto anche media occidentali? E i campi di addestramento Isis a Mariupol, di cui si sapeva già dal 2015, con terroristi islamisti provenienti da paesi arabi, operanti anche da truppe mercenarie agli ordini di Kiev?
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Qualcuno si ricorda di quel sanguinoso assalto del 4 dicembre 2014 a Grozny, con 14 poliziotti ceceni uccisi? Ci si ricorda che, appena il il giorno successivo, alla Rada ucraina, deputati del Partito radicale e comandanti di battaglioni neonazisti proponevano di aprire un secondo fronte contro la Russia, fornendo appoggio e basi ai terroristi ceceni e daghestani?
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In quell’occasione, il deputato Igor Mosijchuk (uno dei capi del battaglione “Azov”), invitava a stimolare azioni del tipo di quella di Grozny in tutta l’Asia centrale e parlava della convocazione «a Kiev di una conferenza con ceceni, daghestani e altri popoli che soffrono per l’aggressione russa».
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Ci si rammenta degli islamisti ceceni arruolati nei ranghi di Pravyj sektor già dal 2015, come peraltro testimoniato dal britannico <i>Guardian</i>?
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All’epoca, <a href="https://www.nytimes.com/2015/07/08/world/europe/islamic-battalions-stocked-with-chechens-aid-ukraine-in-war-with-rebels.html" rel="nofollow" target="_blank">anche il <i>NYT</i> scriveva di circa 30 formazioni “volontarie”, tra cui tre battaglioni islamici, schierate con Kiev in Donbass</a>. Il comandante di uno di questi battaglioni, denominato “Sceicco Mansur”, aveva dichiarato al <i>NYT</i> che «I battaglioni “Sceicco Mansur” e “Džokhar Dudaev” si compongono per lo più di ceceni; ma ci sono anche musulmani di altre regioni dello spazio postsovietico, come uzbeki e balkari».
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E del resto, gli stessi ultranazionalisti di Pravyj sektor avevano combattuto a suo tempo contro la Russia dalla parte dei ceceni. Uno degli organizzatori del battaglione “Džokhar Dudaev”, Adam Osmaev – scriveva allora <i>Medias-presse.info</i> – già condannato per altre azioni e detenuto in Ucraina, era stato scarcerato prima del termine, nell’autunno del 2014, come se tra tra «Kiev e l’IS esista un legame segreto».
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Ma, per qualcuno, questa è storia passata.
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In compenso, proprio in questi giorni, l’americano Center for Strategic and International Studies ha reso pubblico un rapporto secondo cui, per prepararsi al «contenimento della Russia» in Europa, gli USA dovranno schierare, su base permanente, un grande contingente militare ai confini orientali dell’alleanza: ulteriori quattro brigate in Polonia, Italia, Germania e Romania entro il 2025, oltre a un ottavo squadrone di caccia F-16, da aggiungere ai sette già di stanza in Europa.
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Si dovranno anche accrescere le scorte di munizioni nel continente europeo, comprese quelle nucleari, e rafforzare i sistemi di difesa missilistica e aerea. La US Navy dovrà «espandere le capacità della NATO nella lotta contro i sottomarini russi».
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Terrorismo e guerra contro la Russia. Ma siamo «ormai convinti della reale colpevolezza dell’Isis»!
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<a href="https://contropiano.org/news/internazionale-news/2024/03/27/ha-stato-lisis-lultimo-alleato-contro-la-russia-0170755" rel="nofollow" target="_blank">Fonte</a>Re-Carbonizedhttp://www.blogger.com/profile/07070140938585948393noreply@blogger.com0tag:blogger.com,1999:blog-4800805644070876200.post-28602097466870334382024-03-28T08:33:00.001+01:002024-03-28T08:33:44.076+01:00Milano calibro 4.0: inquinamento e addio freddoUna domenica di febbraio sui Navigli di Milano: ci aspetteremmo freddo, nebbia, brume malinconiche, secondo la ‘tradizionale’ iconografia di Milano consegnataci dalla letteratura e dal cinema, nonché dall’immaginario comune. E invece lo scorso febbraio c’era un caldo che sembrava maggio, un sole battente ed era pieno di turisti a mezze maniche. Evidentemente, il cambiamento climatico che sta avanzando sempre più rapido sta creando una profonda frattura in certe rappresentazioni mentali, derivate dall’immaginario condiviso e riproposte da diverse forme artistiche (al cinema e alla letteratura potremmo allora aggiungere anche la pittura), che ci proponevano immagini-tipo della realtà. La nebbia a Milano è una di queste. E poco importa che ci siano ancora rare giornate di nebbia, una volta ogni tanto; quello che ci preme sottolineare è che oggi non possiamo più rimanere intrappolati in queste immagini stereotipate, consegnateci dalla tradizione, perché <b>fanno parte di un mondo che non esiste più</b>. La stringente realtà del cambiamento del clima sta perciò mutando inesorabilmente anche le nostre proiezioni mentali e psicologiche.
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Pensiamo al 1956 di <i>Totò, Peppino e la malafemmina</i>, in cui Totò e Peppino, per recarsi a Milano, si vestono (comunque iperbolicamente e comicamente) come se andassero in Siberia, oppure al 1960 di <i>Rocco e i suoi fratelli</i>, che ci mostra un rigido e nevoso inverno milanese. Quella Milano non esiste più, come non esiste più quella rappresentata da Testori nei racconti de <i>Il Ponte della Ghisolfa</i> (1958): è un mondo lontano, uno spazio che è mutato architettonicamente, divorato dall’universo della società dei consumi che ha mutato il volto anche di Milano (basta leggersi, allora, un capolavoro come <i>La vita agra</i> del grande Luciano Bianciardi). Ma è pure uno spazio che ha subito un mutamento in virtù del cambiamento del clima, come moltissimi altri luoghi nel mondo che, in virtù di questi cambiamenti, hanno subito delle trasformazioni anche ben più tragiche. Nel 1972 Fernando Di Leo gira <i>Milano calibro 9</i>, tratto dall’omonima raccolta di racconti di Giorgio Scerbanenco, e ci ripropone l’immagina di una Milano fredda, livida e nebbiosa, rappresa in una malinconia invernale soprattutto nello scenario dei navigli. In alcuni racconti di Scerbanenco, la nebbia si insinua dappertutto, non solo per le strade ma entra anche negli androni dei palazzi, come se fosse una materia vivente. Nel 2024 siamo costretti a pensare che quella Milano lì è ormai uno stereotipo finto, artefatto, appartenente al passato. Viviamo in un tempo in cui non solo è cambiato lo spazio che ci accoglie (ad esempio, lo spazio urbano), come è sempre avvenuto in passato (gli spazi sono sempre stati modificati dall’uomo) ma anche le condizioni climatiche che avvolgono questo spazio. Non c’è più il freddo intenso ma siamo avvolti da un inquinamento che sta raggiungendo livelli altissimi. Come leggiamo in <a href="https://www.greenpeace.org/italy/storia/21509/inquinamento-milano/" rel="nofollow" target="_blank">questo articolo</a>, l’inquinamento non è provocato solo dalle industrie o dalle automobili ma anche, e in misura non certo poco rilevante, dagli allevamenti intensivi che infestano la pianura padana.
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Nella mia immaginazione fantastica e surreale l’atmosfera, bucata come un groviera, fa passare venti caldi e gelidi come un colabrodo. Non è certo così scientificamente ma succede che siamo esposti ai capricci di un clima bizzarro. Il clima si è tropicalizzato e le stagioni si sono spostate avanti, cosicché a ottobre abbiamo spesso 30 gradi a Milano. Abbiamo avuto mesi consecutivi di piogge quest’anno, con un clima mite, mentre avrebbe dovuto essere freddo e ghiacciato. Stando ai ricordi degli anni '70, perlomeno. E così i piumini invernali servono raramente, e raramente ghiacciano le strade. Che poi è subito pronto il famigerato sale grosso che passa alla vegetazione dei campi intorno pronto ad ucciderla (<i>delenda Carthago</i>). Le tecnologie dei pannelli solari sono da decenni in decollo, ma non decollano a livello massivo. Lo stato può dare soldi per la ristrutturazione di palazzi e case con una copertura di un composto di plastiche: altro inquinamento che si produce.
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Ma tornando alla Milano della nebbia, quest’ultima non esiste più da decenni. Era il suo fascino peculiare. Ricordo da bambina quando mano nella mano con mio nonno si camminava tra strade milanesi con questa leggera foschia autunnale che rendeva magica l’atmosfera, come il territorio delle favole dei druidi del nord. C’era una volta il nord.
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<a href="https://codice-rosso.net/milano-calibro-4-0-inquinamento-e-addio-freddo/" rel="nofollow" target="_blank">Fonte</a>Re-Carbonizedhttp://www.blogger.com/profile/07070140938585948393noreply@blogger.com0tag:blogger.com,1999:blog-4800805644070876200.post-2236251144414615672024-03-27T22:23:00.000+01:002024-03-27T22:23:00.257+01:00Cimitero Vivente (1989) di Mary Lambert - Minirece<div class="separator" style="clear: both; text-align: center;"><iframe class="BLOG_video_class" allowfullscreen="" youtube-src-id="CCvb2XuEyMA" width="480" height="360" src="https://www.youtube.com/embed/CCvb2XuEyMA"></iframe></div>Re-Carbonizedhttp://www.blogger.com/profile/07070140938585948393noreply@blogger.com0tag:blogger.com,1999:blog-4800805644070876200.post-77612814515477720532024-03-27T19:21:00.000+01:002024-03-27T19:21:00.152+01:00UE, la notte dei morti viventi Ho rivisto di recente su YouTube il film cult di George A. Romero, <i>“La notte dei morti viventi”</i>. Quei personaggi orribili, i morti richiamati in vita da strane radiazioni, che si muovono come automi e sentono unicamente il richiamo del sangue e della carne umana, per procurarsi i quali si gettano in massa su qualunque persona viva si imbatta in loro, trasformandola a sua volta in uno zombie assetato di sangue, mi hanno ricordato, non so perché, gli attuali governanti europei che si apprestano alle elezioni e nel frattempo hanno deciso di preparare i cittadini all’inevitabile guerra contro la Russia, mentre continuano col loro sostanziale appoggio al regime genocida di Benjamin Netanyahu.
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Quelle cui assistiamo impotenti sono in effetti scene grottesche che si svolgono a Bruxelles e nelle principali capitali europee, Roma compresa. Una sorta di film o commedia horror che pare diretta verso alcuni inevitabili finali, la soppressione del popolo palestinese e la guerra nucleare totale, due scenari fra di loro fortemente connessi e complementari.
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Si tratta di persone totalmente prive del requisito della prudenza, recentemente messo in luce da Papa Francesco, e del quale dovrebbero essere provvisti tutti gli esseri umani, ma soprattutto quelli fra di essi che rivestono ruoli di responsabilità. Stiamo parlando di una classe dirigente mediamente semianalfabeta quanto arrogante, che costituisce la giusta immagine di un Occidente ormai giunto alla frutta, che pur di non prendere atto del proprio definitivo tramonto è disposto a distruggere completamente l’umanità e il pianeta.
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Prima ancora che statunitense questa classe “dirigente” è europea. È dall’Europa del resto che hanno preso le mosse, poco più di cinquecento anni fa, il colonialismo, l’imperialismo, il saccheggio delle risorse del pianeta e la prassi del genocidio contro le popolazioni definite arretrate e primitive, dall’America Latina, all’Africa e all’Asia.
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Ma il bastone del comando dell’Occidente che naufraga è ancora saldamente in mano agli Stati Uniti, che conducono il ballo e ancora meglio lo faranno quando Trump subentrerà al bollito Biden e rilancerà con ben maggiore lucidità ed energia la strategia destinata a salvaguardare la sopravvivenza della dominazione imperiale sul pianeta, destinata peraltro comunque a fallire.
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L’immagine che danno di sé Macron e compagni è quella di una combriccola di dementi totalmente incapaci di intendere e di volere, di lugubri pagliacci autoreferenziali intenti a giocare irresponsabilmente col futuro di ciascuno di noi. In modo insopportabilmente tracotante continuano a ritenersi la culla della democrazia e dei diritti umani, mentre sempre meno hanno a che spartire con l’una e con gli altri.
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Quanto alla prima, continuano a preparare una guerra che solo essi vogliono, non tenendo per nulla in considerazione la volontà della grande maggioranza dei cittadini europei. Quanto ai secondi, assistono imperturbabili, salvo qualche lamentazione di rito falsa quanto una banconota da sei euro, allo sterminio atroce del popolo Palestinese ed anzi vi contribuiscono, continuando a inviare armi a massacratori e genocidi e assecondandone le richieste in sede di Nazioni Unite, a cominciare dalla sospensione degli aiuti all’UNRWA.
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In questo esercizio di insopportabile ipocrisia il governo di Giorgia Meloni non è secondo a nessuno e si nota sempre più evidente uno slittamento nella demenza conclamata, come dimostrato dalla grottesca reazione della premier ai rimbrotti di Conte. Tirandosi la giacca sulla testa la Meloni ha rivelato quanto costi, perfino a lei, mettere la faccia su una strategia politico-militare al tempo stesso genocida e suicida, quale quella oggi richiesta ai leader europei dal loro padrone di Washington.
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Ma non c’è solo la destra a sostegno della guerra. Il PD, come dimostrano i suoi voti in sede europea e nazionale, è anch’esso ben fermo nel chiedere il passaggio all’economia di guerra.
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Quest’ultima del resto presenta vari vantaggi per le oligarchie europee, quelle politiche e ancora più quelle economiche. In primo luogo allontana qualsiasi altra problematica che pure si era timidamente affacciata a ridosso della pandemia COVID, dalla cosiddetta transizione ecologica oramai in buona parte abortita al tema delle disuguaglianze sociali e dello strapotere dei monopoli. In secondo luogo consente l’unificazione dei vari settori del capitale, compresa la finanza e l’alta tecnologia, sotto l’egida dell’industria bellica, che pare loro la più atta a mietere grandi profitti a breve termine e ad elargire sostegno agli esponenti politici affini.
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Unica controindicazione, oltre allo sperpero criminale di risorse che potrebbero essere destinati al benessere degli esseri umani, la prospettiva sempre più probabile del fungo atomico che si erge sinistramente all’orizzonte. Ma qui torna utile l’identità demenziale e da morti viventi di questa ignobile classe dirigente europea, che si eccita quando parla di morte, al pensiero dell’apocalisse bellica in versione nucleare. Contro la quale, ahinoi, si odono solo lamenti inarticolati mentre un’opposizione degna di questo nome continua a brillare per la sua assenza.
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<a href="https://www.altrenotizie.org/articoli/poliitca/10260-ue-la-notte-dei-morti-viventi.html" rel="nofollow" target="_blank">Fonte</a>Re-Carbonizedhttp://www.blogger.com/profile/07070140938585948393noreply@blogger.com0tag:blogger.com,1999:blog-4800805644070876200.post-50215154086372997122024-03-27T17:14:00.005+01:002024-03-27T17:14:52.623+01:00“Kiev, Usa e britannici dietro l’attentato di Mosca ad opera dell’Isis”Come prevedibile, con il passare dei giorni si irrigidisce la contrapposizione tra i vertici russi e il corrispettivo euro-atlantico sull’attribuzione della responsabilità dell’attentato al Crocus City Hall di Mosca.
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Ieri, in un’intervista, il capo del Servizio di sicurezza federale russo (FSB, l’ex Kgb) Alexander Bortnikov ha ammesso che gli Stati Uniti, la Gran Bretagna e l’Ucraina sono responsabili dell’attacco al municipio di Crocus.
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“Crediamo che questo sia vero. In ogni caso, stiamo parlando delle informazioni fattuali di cui disponiamo. Questa è un’informazione generale, ma [questi paesi, ndr] hanno una lunga storia di questo tipo“, ha detto dopo aver partecipato a una riunione allargata del consiglio dell’ufficio del procuratore generale.
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Bortnikov ritiene che l’Ucraina abbia cercato di dimostrare anche ai suoi alleati-protettori, visibilmente sfiduciati nelle sue possibilità di “vittoria”, di essere abbastanza capace.
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“Cosa ci si aspetta che faccia per dimostrare la sua capacità? Si prevede che effettuerà sabotaggi e atti terroristici nelle retrovie. Questo è ciò a cui mirano sia i capi dei servizi speciali ucraini che i servizi speciali britannici. Anche i servizi speciali statunitensi hanno ripetutamente menzionato questa possibilità“, ha detto.
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Il giorno prima lo stesso Vladimir Putin aveva ammesso che gli attacchi sono stati commessi da miliziani dello Stato Islamico, ma non era ancora chiaro chi aveva “ordinato” la strage.
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Bortnikov ha quindi chiarito che “il cliente non è stato ancora identificato”, ma l’FSB ormai “vede” chi ha organizzato l’attacco e ha reclutato gli autori.
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“Riteniamo che l’azione sia stata preparata dagli stessi islamisti radicali e, naturalmente, dai servizi speciali occidentali; gli stessi servizi speciali dell’Ucraina sono direttamente collegati a questo” [attentato, ndr].
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«Affineremo ulteriormente le informazioni per capire se la presenza e la partecipazione della parte ucraina è reale o meno. In ogni caso, per ora c’è motivo di dire che è proprio così».
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Ha osservato che i terroristi volevano fuggire in Ucraina, erano attesi lì e sarebbero stati accolti “come eroi“. Ma i servizi speciali russi hanno fatto di tutto per impedire che ciò accadesse.
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Immediate le smentite dal “fronte occidentale”.
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«Le ipotesi della Russia di un legame con l’Ucraina per quanto riguarda l’attentato a Mosca sono ridicole». Lo dichiara una fonte diplomatica alleata all’<i>Ansa</i>. «Non è stata presentata alcuna prova: si tratta di un altro esempio della disinformazione del Cremlino».
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Sulla stessa falsariga – come ovvio – anche il ministro degli esteri Antonio Tajani, in un intervento su <i>La7</i>. «Mi sembra molta propaganda, chiaramente l’attentato è di matrice islamica, ci sono stati problemi nelle repubbliche musulmane dell’ex Unione Sovietica e c’è sempre una situazione di grande tensione. Credo che sia un’azione dimostrativa di quel mondo contro la Russia, peraltro già prevista».
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Ma proprio Tajani dice poco e troppo. Che la Russia sia odiata da molte organizzazioni islamiste, è certamente vero. Ma sono anche innumerevoli le prove concrete che questo odio è stato nei decenni quanto meno “accompagnato” da un supporto diretto degli Stati Uniti, anche se spesso queste organizzazioni hanno finito per rivoltarsi loro contro (Al Qaeda, in primo luogo, fin dagli anni ‘80 favorita per radicalizzare la resistenza anti-sovietica in Afghanistan e poi diventata “indipendente”).
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Così come è vero che <a href="https://contropiano.org/news/internazionale-news/2024/03/08/attentati-a-mosca-preannuncia-ambasciata-mosca-0170166" rel="nofollow" target="_blank">l’attentato di Mosca era stato più che “previsto” dagli Stati Uniti</a>, la cui ambasciata a Mosca aveva avvertito i propri concittadini a non frequentare “nelle prossime 48 ore” (poi diventate due settimane) “i luoghi affollati, compresi i concerti”.
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<a href="https://contropiano.org/news/internazionale-news/2024/03/24/quello-che-non-torna-sullattentato-di-mosca-0170686" rel="nofollow" target="_blank">Sappiamo di ripeterci</a>, ma se qualcuno conosce i dettagli di un attentato che deve avvenire a breve (“i concerti”) significa sicuramente che ha rapporti diretti con il gruppo degli attentatori. Ovviamente con i “livelli dirigenti”, non tanto con i kamikaze mandati allo sbaraglio.
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All’interno di un qualsiasi Stato questa connessione sarebbe una certezza tale da indirizzare le indagini di polizia e magistratura. Tra Stati diversi, persino avversari o addirittura “nemici” – come Russia e Usa-Nato – ovviamente ci si deve fermare davanti al fatto che le indagini vengono svolte “dalla vittima” e non si può invadere lo spazio investigativo altrui.
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In definitiva gli attentatori – strano che i loro volti continuino ad essere oscurati nei video che circolano sui media occidentali, senza azzardare neanche un raffronto con quelli girati dal vivo, nel teatro, dove hanno agito a volto scoperto – sono in mano russa. E certamente vengono “convinti a parlare” con metodi non troppo diversi da quelli in uso nella base Usa di Guantanamo o (ai tempi) in quella di Abu Graib.
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Una manipolazione dell’informazione pesante è però arrivata nel pomeriggio di ieri nel tentativo di rinforzare la linea euro-atlantica – “ha stato l’Isis e basta”. Da allora tutti i media bombardano all’unisono con il mantra “anche Lukashenko smentisce Putin”, secondo cui i quattro attentatori catturati vicino Bryansk stavano fuggendo verso l’Ucraina.
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Incuriositi, siamo andati in cerca delle fonti originali. E abbiamo scoperto qualcosa di parecchio diverso. Il presidente bielorusso ha infatti “rivendicato” ai sistemi di sicurezza del proprio paese il merito di aver “dissuaso” i quattro dal provare ad entrare dal confine.
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Per la precisione, “Abbiamo messo in allerta le nostre unità. In particolare sono state coinvolte le forze del ministero degli Interni, allestite postazioni sulle strade – comprese quelle alla frontiera con la Russia – e schierate le forze del Kgb, del Comitato per i confini di Stato e alcune unità militari”.
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“Ecco perché (i presunti attentatori, ndr) non sono potuti entrare in Bielorussia. Lo hanno visto e quindi si sono allontanati e si sono diretti verso la sezione del confine ucraino-russo”, dove secondo Lukashenko le operazioni per l’arresto dei presunti autori della strage “sono andate molto bene”.
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Anche da diverse immagini mostrate dai media e attribuite agli autovelox si vede che la macchina con i quattro attentatori era di fatto “monitorata” dalla polizia russa, evidentemente per capirne le intenzioni e individuare con precisione il possibile “paese ospitante”.
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E anche noi, pur nella nostra limitata possibilità di “indagine”, avevamo ipotizzato che i quattro fermati a Bryansk potessero – sì – cercare di arrivare in Ucraina, ma attraverso la Bielorussia, il cui confine è certamente meno militarizzato di quello russo-ucraino (la guerra è in corso).
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Dunque “la versione di Lukashenko” non smentisce, semmai conferma la lettura russa, dando un ruolo importante anche all’alleata Minsk.
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Strano che i media occidentali, non guardino neanche le fonti e si limitino a copi-incollare una velina... Forse perché il loro ruolo, ormai, è quello di <a href="https://contropiano.org/news/politica-news/2024/03/26/reintrodurre-la-leva-obbligatoria-per-i-giovani-ce-lo-chiedera-leuropa-0170711" rel="nofollow" target="_blank">“preparare il proprio paese alla guerra“</a>.
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Fra l’altro stanno emergendo, da fonti non russe, altre informazioni. Dalerdzhon Mirzoyev, Saidakrami Murodali Rachabalizoda, Shamsidin Fariduni e Muhammadsobir Fayzov, sono tutti cittadini del Tagikistan o di origine tagika. Ma almeno due di loro – Fariduni e Saidakrami – avevano trascorso un periodo in Turchia poco prima dell’attacco ed erano entrati in Russia insieme con lo stesso volo da Istanbul, ha detto un funzionario turco.
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Il primo era arrivato a Istanbul il 20 febbraio ed è ripartito per la Russia il 2 marzo, mentre il secondo è entrato il 5 gennaio per poi andarsene insieme all’altro. Entrambi hanno soggiornato in un piccolo hotel del distretto di Fatih.
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Questa zona, a ridosso del quartiere turistico Eminou, sembra diventata la «preferita» dai militanti, con una serie di alberghetti dove gli estremisti si sono sistemati in attesa di ordini.
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Nella medesima area sarebbero state affittate delle case «sicure» messe a disposizione di elementi provenienti dalle ex repubbliche sovietiche e dal Medio Oriente.
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È appena il caso di ricordare che la Turchia di Erdogan, nonostante le “bizzarrie” politiche che l’hanno fatta diventare una sorta di “cavallo pazzo”, oltre ad avere una lunga storia di “favoreggiamento” dell’Isis in funzione anti-curda e anti-siriana, è un pur sempre un membro della Nato.
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E se è certamente molto improbabile che i quattro “terminali finali” possano dare informazioni di prima mano sul livello politico alto dei “mandanti”, sicuramente l’indicazione sul loro “comandante diretto” rimasto al sicuro e, soprattutto sui meccanismi (armi, documenti, ospitalità, logistica, ecc.) utilizzati nel giro del mondo dal Tajikistan alla Russia via Turchia, potranno fornire un mare di dettagli utili a ricostruire l’ambiente internazionale che li ha favoriti.
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Ne vedremo delle belle, ci sembra...
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P.s. Sulla presunta “estraneità” dell’Ucraina ai contatti con gli integralisti islamici basta forse leggere <a href="https://contropiano.org/news/internazionale-news/2024/03/27/come-spiegare-lisis-al-cremlino-e-a-noi-0170754" rel="nofollow" target="_blank">l’articolo di Alberto Negri</a>, o quelli <a href="https://ilmanifesto.it/ex-isis-estremisti-ceceni-neonazi-da-oggi-sono-cittadini-ucraini" rel="nofollow" target="_blank">apparsi perfino su <i>il manifesto</i></a> o direttamente gli <a href="https://www.nytimes.com/2015/07/08/world/europe/islamic-battalions-stocked-with-chechens-aid-ukraine-in-war-with-rebels.html" rel="nofollow" target="_blank">allarmati articoli del <i>New York Times</i></a> di qualche anno fa).
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<a href="https://contropiano.org/news/internazionale-news/2024/03/27/kiev-usa-e-britannici-dietro-lattentato-di-mosca-ad-opera-dellisis-0170777" rel="nofollow" target="_blank">Fonte</a>Re-Carbonizedhttp://www.blogger.com/profile/07070140938585948393noreply@blogger.com0tag:blogger.com,1999:blog-4800805644070876200.post-60757895960105412172024-03-27T15:53:00.000+01:002024-03-27T16:59:34.571+01:00Come spiegare l’Isis al Cremlino. E a noidi <b>Alberto Negri</b>
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Il terrorismo fabbrica attentati ed eventi che si muovono al confine tra la realtà più sanguinosa e la manipolazione più destabilizzante. Per questo non è decifrabile come un conflitto aperto: il messaggio può apparire chiaro, gli autori noti, le motivazioni apparenti pure, ma le conseguenze e le vere ragioni si valutano con il tempo.
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Chi poteva immaginare che dopo l’invasione sovietica dell’Afghanistan nel 1979 gli Stati Uniti e i loro alleati avrebbero utilizzato i jihadisti contro Mosca? Questi erano degli islamisti radicali, nemici della cultura occidentale.
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Eppure Osama bin Laden con Al Qaeda per anni è stato un alleato degli Usa, del Pakistan e dell’Arabia Saudita prima diventare l’ispiratore dell’11 settembre, epoca in cui – con una giravolta della storia – gli interessi americani e quelli russi si erano saldati di fronte al comune nemico rappresentato dai jihadisti.
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Le ambiguità nelle vicende terroristiche sono molteplici. Il fondatore dell’Isis Al Baghdadi è stato nelle carceri americane in Iraq da dove venne liberato dalle stesse autorità Usa passando dalla porta principale.
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Lo stesso Califfato, che poi colpì anche in Turchia, è stato un interlocutore dei servizi segreti di Ankara per contrastare i curdi siriani – “nostri alleati” contro il Califfato – ed Erdogan l’unico leader della Nato a trattare direttamente con i jihadisti. Forse ce lo siamo dimenticati.
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Il terrorismo deve sorprendere, anche quando lascia spazio agli apprendisti stregoni che pensano di usarlo.
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L’allora generale Lloyd Austin, oggi capo del Pentagono, nel settembre 2015 ci informò del fallimento Usa nel reclutare in Siria e Giordania con 500 milioni di dollari dei «combattenti» arabi e di altre nazionalità da usare contro l’Isis e anche contro l’autocrate Assad: di 5mila ne rimasero soltanto 5, gli altri erano scappati vendendo le armi a chissà chi.
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Di queste contraddizioni la guerra in Ucraina ne è già stata un esempio con l’attentato al ponte di Kersch e ancora di più con quello al gasdotto offshore North Stream: prima che le inchieste giornalistiche americane ci rivelassero come probabile autori del gesto la pista ucraina e occidentale, si sosteneva che a farlo erano stati i russi stessi.
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Oggi la scena internazionale è ancora più complicata di prima perché il terrorismo – se questo è uno dei suoi obiettivi – si vuole inserire come un attore tra i conflitti locali e il più ampio e pericoloso scontro di potenze scatenato dall’invasione russa dell’Ucraina. Come ha dimostrato l’invasione sovietica dell’Afghanistan del ’79 si aprono nuovi e imprevedibili scenari.
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Anzi con il conflitto ucraino, al quale si è aggiunto quello di Gaza – nel cuore di quel Medio Oriente dove l’Isis è nato – le organizzazioni jihadiste hanno largamente approfittato della situazione per tessere le loro trame dal Sahel all’Afghanistan fino all’Asia, come scriveva l’ultimo numero di <i>Le Monde Diplomatique</i>.
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Ci possiamo chiedere, soprattutto, quando i jihadisti interverranno in questa guerra di Gaza dove sono già stati uccisi 1200 israeliani e 32mila palestinesi. Quasi ci stupisce che dopo sei mesi non l’abbiano già fatto visto che gli spetterebbe «per competenza».
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Eppure anche qui ci hanno in parte sorpresi. Quando si sono fatti vivi in Medio Oriente i terroristi dell’Isis Korassan (Isis-k) hanno colpito in Iran, ovvero uno dei maggiori sponsor proprio di Hamas e dei palestinesi della Striscia. L’Iran tra l’altro è uno dei più importanti alleati anche militari della Russia, oltre che il nemico più temuto da Israele.
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Il 3 gennaio scorso i terroristi dell’Isis-K hanno rivendicato un attentato con oltre 100 morti a Kerman nel sud-est dell’Iran durante un cerimonia in omaggio del generale Qassem Soleimani, ucciso a Baghdad nel 2020 da un drone americano. Soleimani aveva combattuto a fianco di Assad e delle milizie sciite per fermare l’avanzata dell’Isis in Iraq.
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Sui canali Telegram, l’Isis-K aveva specificato che questa azione – la quarta in Iran dal 2017 – era stata portata termine in occasione «di un grande raduno di apostati – gli sciiti – a sostegno dei musulmani, in particolare in Palestina».
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L’Isis come Al Qaeda ha fatto sempre più vittime tra i musulmani, nel caso gli sciiti, che tra gli occidentali. Che l’Isis-K faccia fuori i seguaci del loro nemico Soleimani è logico, un po’ meno che colpisca l’Iran uno dei maggiori finanziatori di Hamas che loro vorrebbero vendicare dalla furia israeliana.
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Seguire le logiche del terrorismo come si vede non sempre porta a spiegazioni razionali, se non quella che all’Isis interessa di più colpire i suoi nemici «storici» come l’Iran e la Russia che fare un gesto clamoroso filo-palestinese che forse (speriamo di no) riserveranno all’Europa o da qualche altra parte.
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Ma la memoria è corta e le spiegazioni non sempre convincenti. Può sembrare infatti poco credibile che Putin accusi l’Ucraina per l’attentato al teatro di Mosca. In realtà il Cremlino non ha nessuna intenzione di acuire le tensioni con le popolazioni musulmane della Federazione dopo gli anni della guerra in Cecenia, delle stragi in Tagiskistan e della guerra in Siria.
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Ha bisogno di reclutare soldati e di un fronte interno compatto mentre l’azione dell’Isis mette fortemente in dubbio che abbia vinto la guerra contro gli islamisti radicali dell’Asia centrale del Caucaso mentre i suoi servizi di intelligence hanno mostrato un crepa clamorosa.
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Il terrorismo non contempla, per lungo tempo, sentenze definitive e oggi quella bandiera nera dell’Isis, che ho visto sventolare tante volte tra Siria e Iraq, appare ancora più di prima come un oscuro e tenebroso sipario sul destino dei popoli e delle nazioni.
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<a href="https://contropiano.org/news/internazionale-news/2024/03/27/come-spiegare-lisis-al-cremlino-e-a-noi-0170754" rel="nofollow" target="_blank">Fonte</a>Re-Carbonizedhttp://www.blogger.com/profile/07070140938585948393noreply@blogger.com0tag:blogger.com,1999:blog-4800805644070876200.post-60135458946450808752024-03-27T13:35:00.037+01:002024-03-27T16:52:52.401+01:00Attraversando il PNRR. Parte II: politiche energetiche e filiere produttive (I)<b>I. Articolazione del Piano e REPowerEU</b>
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<b>Missioni, componenti e investimenti</b>
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Il PNRR si articola attorno ad alcuni percorsi di sviluppo settoriali denominati «Missioni». In un certo senso potremmo farli corrispondere ai <i>Programs</i> europei (v. Parte I, Par. II, La strategia della Commissione Europea), solo che le Missioni sono declinate su scala nazionale. Ogni Missione è a sua volta suddivisa in <i>Componenti</i>, per cui ad esempio la Missione 1, Digitalizzazione, innovazione, competitività, cultura e turismo, è composta da: Digitalizzazione, innovazione e sicurezza nella PA; Digitalizzazione, innovazione e competitività nel sistema produttivo; Turismo e cultura 4.0. A voler essere precisi, poi, le Componenti sono a loro volta ripartite in «sotto-componenti». I fondi vengono assegnati «a pacchetti», denominati «Investimenti»[1], che costituiscono una sorta di suddivisione ulteriore di queste sotto-componenti. Ad esempio, la citata Componente 1 della Missione 1 riporta tre sotto-componenti (Digitalizzazione PA; Innovazione PA; Innovazione organizzativa del sistema giudiziario), all’interno delle quali trovano posto ben sette Investimenti differenti (quali «Digitalizzazione delle grandi amministrazioni centrali» o «Processo di acquisto ICT»).
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<b>Il REpowerEU</b>
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Dopo la crisi delle relazioni fra Russia e UE e l’embargo al gas e al petrolio russo, la Commissione Europea ha presentato un piano integrativo dei PNRR, denominato REPowerEU[2], con l’obiettivo di «ridurre rapidamente la dipendenza dai combustibili fossili russi e accelerare la transizione verde»[3]. Come? Gestendo le relazioni commerciali per l’acquisto di gas come UE, in quanto singoli Stati membri, trovando nuovi partner commerciali e siglando accordi, adottando norme comunitarie per lo stoccaggio di gas, investendo sulle infrastrutture per la produzione di idrogeno e promuovendo una sorta di joint venture con le imprese[4] per la produzione di energia solare. Inoltre, si prevedono il sostegno a politiche di riduzione dei consumi e il potenziamento delle filiere del gas, del biometano e dell’idrogeno rinnovabile, nonché di quelle relative «alle materie prime e alle tecnologie critiche connesse alla transizione verde»[5].
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L’obiettivo dell’indipendenza dalle importazioni energetiche estere corrisponde agli interessi dei capitalisti nostrani, ma il fatto che venga presentato come scelta <i>green</i>, sostenibile, non può non far sorgere dei dubbi. Le strategie messe in campo dai paesi europei, infatti, lasciano perplessi per almeno due motivi. In primis, se è vero che i consumi legati alle nuove tecnologie sono in costante aumento e che anche lo sviluppo e la produzione di quelle deputate a contenerli comporti un aumento delle emissioni di CO2, dov’è la garanzia che il processo di transizione verso la green economy non risulti altamente dannoso per l’ambiente e, quindi, l’essere umano?
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Gli investimenti necessari per transitare verso un sistema rinnovabile al 100% richiedono comunque enormi consumi di energia; essendo attualmente questa energia per l’80% di tipo fossile, la transizione implica un eccesso di emissioni di CO2 che deve assolutamente essere compensato con riduzioni di produzione. Questo è in palese contrasto con un modello di sviluppo fondato sull’accumulazione continua e sulla necessità di crescita illimitata come quello capitalistico[6].
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E soprattutto, in secundis, una volta completata la transizione verso questo fantomatico «capitalismo verde», chi ci assicura che i fattori produttivi non vengano spremuti per ottenere il massimo profitto possibile causando comunque dei gravi danni ambientali?
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Come mostrato in alcuni autorevoli studi (vedi Morley et al. 2018, Røpke 2012, Andrae 2019), per contenere la crescita complessiva della richiesta energetica connessa alle nuove infrastrutture digitali, che ci si attende essere imponente negli anni a venire, è necessario limitare la crescita del traffico di dati, almeno tenendolo al passo dell’efficientamento; un equilibrio che fino a oggi non c’è stato. Basti pensare che dal 2002 al 2016 il traffico complessivo di dati al secondo è passato da 100 GB a 26.600 GB (vedi Morley et al. 2018)![7]
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<b>«REpowerITA»</b>
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Dal dicembre 2022[8] è stato concesso agli Stati membri di introdurre nuovi capitoli REPowerEU all’interno dei propri PNRR, ma del resto la stessa normativa comunitaria prevedeva fin dall’inizio la possibilità per ogni singolo paese di aggiornare Piano e obiettivi[9]. I paesi che avranno i maggiori incrementi dei finanziamenti PNRR sono Germania, Francia, Italia, Spagna, Polonia e Romania; staccati, seguono Ungheria, Portogallo e Repubblica Ceca[10].
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Il Governo italiano (per tramite di Raffaele Fitto) ha presentato la propria proposta di modifica lo scorso 7 agosto, nell’ultimo mese disponibile, e la Commissione ha espresso valutazione positiva l'8 dicembre 2023. Oggetto delle modifiche negoziate con la Commissione sono alcune integrazioni al vecchio Piano, consistenti in nuovi finanziamenti, riforme e, soprattutto, una nuova Missione denominata proprio «REPowerEU». Complessivamente il nostro paese riceverà «2,76 miliardi di euro di sovvenzioni non rimborsabili (la quota maggiore, 13,8 per cento del totale, al pari della Polonia)»[11], quando invece la proposta di agosto era di ben 19,2 miliardi.
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Fra i principali aspetti del REpowerEU italiano troviamo i crediti d’imposta per le imprese innovative sul piano dell’efficientamento energetico (6,3 miliardi), cui fa da contrappeso la riduzione dei budget per la tutela del territorio e delle risorse idriche (– 5,19 miliardi). Il proliferare degli incentivi alle imprese in luogo degli investimenti statali diretti servirà anche o soprattutto ad accorciare i tempi e accelerare i processi, per quanto probabilmente al prezzo di una minore omogeneità di intervento e di maggiori sprechi di risorse (sceglieranno le imprese il tipo di intervento da effettuare, anziché lo Stato). Uno degli obiettivi della rinegoziazione del PNRR, del resto, è proprio quello di ottenere un Piano aggiornato che sia applicabile nei tempi, oltre che coerente nella strategia complessiva[12].
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Al di là della questione delle tempistiche si potrebbe discutere sul rimescolamento di risorse, spostate da una Missione all’altra; ad esempio, sulla scelta di tagliare gli investimenti nella rete logistica ferroviaria (– 1,98), avvenuta a fronte di un rafforzamento del programma di digitalizzazione industriale (+ 1,09), oppure su molte altre. In fondo, però, gli aspetti più preoccupanti per i lavoratori riguardano il sociale, come l’emorragia di risorse dall’inclusione sociale e territoriale (Missione 5, Componenti 2 e 3) per quasi 4 miliardi (rispettivamente, – 2,85 e – 1,10). In questo senso la revisione del Piano non lascia adito a dubbi, in quanto la Missione 7 («REpowerEU») rappresenta di per sé un coacervo di risorse da impiegare direttamente per il potenziamento energetico del sistema economico produttivo e pertanto è chiaro che il nuovo PNRR sia più sbilanciato verso le imprese che il sociale: se è vero che all’Italia sono stati concessi 2,76 miliardi in più, la Missione 7 ne vale da sola ben 11,18.
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<b>II. La filiera dei semiconduttori</b>
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Iniziamo ora a esaminare alcuni fra gli investimenti PNRR, relativi a quei settori che a nostro parere rivestono una maggiore importanza strategica per lo sviluppo dell’economia italiana e che meglio chiariscono il ruolo del nostro paese nell’ambito del comparto economico europeo (detto «Factory Europe»). Partiremo quindi dalla filiera dei semiconduttori, assolutamente fondamentale per lo sviluppo economico europeo, e proseguiremo con la filiera dell’idrogeno, che nell’ambito del settore energetico rappresenta la sezione più sperimentale e innovativa. A questo punto analizzeremo le componenti relative alla digitalizzazione industriale e allo sviluppo della rete logistica (produzione e circolazione delle merci). Queste ultime aiutano a descrivere i cambiamenti che potranno avvenire nell’impiego della forza-lavoro, soprattutto riguardo le dinamiche di aumento della produttività. Nel contesto attuale tali dinamiche portano i lavoratori a subire una certa intensificazione del lavoro (aumento dei ritmi) e il conseguente deterioramento della salute (fisica e psicologica), oltre che un aumento del controllo in azienda.
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Il (nascente) comparto industriale italiano per i semiconduttori è investito dalla Missione 1, Componente 2, Investimento 2 del nostro PNRR. Tramite il finanziamento statale del 40% degli investimenti nel settore si mira a sviluppare una certa quota di produzione di semiconduttori (principalmente «wafer» in silicio) che, dopo la trasformazione in chip, possano servire come semi-lavorati per le principali industrie europee.
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L’industria globale dei semiconduttori gioca un ruolo cruciale in tutte le filiere industriali avanzate, tra cui l’elettronica, l’automotive, l’aerospazio, la difesa, la robotica, la meccanica strumentale e le applicazioni industriali [nonché, a nostro parere, sull’intero settore economico in generale, per via delle applicazioni nel campo della connettività, dal cloud ai 5 e 6G]. Nel 2022, l’industria dei semiconduttori ha fatturato circa 600 miliardi di dollari [440 miliardi di € nel 2020, secondo il PNRR tedesco]. Il tasso medio di crescita del fatturato degli ultimi 20 anni è stato pari al 7% e si prevede che continuerà almeno a questi ritmi, raggiungendo un valore superiore a 1 trilione di dollari nel 2030[13].
<br /><br />
I semiconduttori sono materiali la cui conduttività elettrica può essere modificata sulla base degli interessi dell’industria umana; possono anche essere costituiti da composti di materiali diversi o da strati di materiali differenti. I chip sono dispositivi elettronici creati su un supporto di materiale semiconduttore (circuiti elettrici «stampati», «fissati» sul metallo semiconduttore)[14]. Il semi-conduttore ha l’importante particolarità di consentire la realizzazione dei componenti base dei chip, in virtù del proprio livello di conducibilità e resistività elettriche. Il materiale più utilizzato è il silicio, che riesce a consentire «l’integrazione di decine di miliardi di componenti base (per es. transistor, diodi, resistenze e condensatori) su un singolo chip»[15]. Siccome l’industria si sta oggi avvicinando ai limiti fisici di questo materiale, si cerca di manipolarlo in maniera sempre più sofisticata[16].
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La storia di queste tecnologie passa interamente dal settore militare. Tutto inizia prima della fine della Seconda Guerra Mondiale, con i sistemi di calcolo finalizzati a colpire gli obiettivi degli aerei da guerra statunitensi (seppur con molta approssimazione). Dagli anni ’60, invece, i chip erano ormai utilizzati in ogni sistema d'arma dell'esercito Usa. Una spinta propulsiva modernizzatrice fu data dai computer che guidarono l'astronave Apollo e il missile Minuteman[17] e, poi, l'avventura sulla Luna, mentre soltanto in seguito queste tecnologie sarebbero state impiegate per un uso civile di massa (la stessa Silicon Valley, per anni, è stata legata principalmente ai processi militari). È possibile che anche le guerre ora in corso daranno il via a nuove produzioni legate all’intelligenza artificiale.
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La filiera dei semiconduttori è l’insieme di quei processi ideativi, produttivi, logistici e di marketing che, partendo dall’estrazione delle materie prime, servono a creare il prodotto e farlo arrivare al cliente finale: in una sola espressione, il processo di trasformazione delle materie prime necessarie in merce. All’interno di questo percorso vi sono attività imprenditoriali di vario tipo. Alcune di esse consentono larghi profitti (un «ritorno» degli investimenti effettuati molto più grande), mentre altre molto meno. Queste differenti tipologie di attività imprenditoriali sono associabili a vere e proprie fasi del processo di trasformazione: delle «tappe» lungo un percorso obbligato. Il controllo di quelle più remunerative è ciò che serve per battere la concorrenza e a nostro parere è, allo stesso tempo, la chiave di lettura principale per comprendere la competizione fra Stati diversi: la cosiddetta geopolitica.
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Tralasciando di scorporare la logistica, che accompagna quasi tutto il processo di trasformazione del prodotto, possiamo suddividere la filiera dei semiconduttori in: fasi produttive (fabbricazione, test e assemblaggio), che rappresentano il 40% circa del fatturato complessivo mondiale; estrazione delle materie prime, per l’11% del fatturato; fasi ideative (progettazione e design), 32%; attività economiche deputate alla fornitura dei macchinari industriali necessari, 17%[18]. Le fasi produttive sembrerebbero essere quelle più remunerative, ma non bisogna lasciarsi trarre in inganno: rendono molto di più le fasi ideative, solo che la massa degli investimenti è minore. Non è dunque un caso se quasi il 50% dei ricavi di queste fasi sia statunitense e solo 5% rimanga in mano cinese (all’Europa tocca il 10%). Inoltre, «La leadership dominante delle imprese americane nella fase della progettazione e design consente loro di esercitare un controllo sulla proprietà intellettuale e, quindi, su tutta l’industria perché le aziende specializzate nella fase di fabbricazione di chip devono sottoscrivere accordi/licenze per il loro utilizzo»[19], [20].
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Il fatturato della produzione, invece, è più equamente distribuito fra paesi occidentali e nuove potenze asiatiche. Ciò in virtù di parecchi fattori, tra i quali il rilevante peso del fatturato complessivo e degli ingenti investimenti necessari per far progredire l’industria e realizzare ulteriori aumenti dei profitti. Ciononostante, le fasi di test dei semilavorati e assemblaggio delle componenti, che sono a bassissimo valore aggiunto, però, vedono un ruolo relativamente maggiore di paesi come la Malesia (pur se, di nuovo, in un contesto in cui la distribuzione del fatturato è abbastanza uniforme). Siccome il valore aggiunto è scarso non conviene investire per innovare e digitalizzare i processi industriali: meglio mantenere un processo produttivo «labour intensive», ossia con una grossa componente di lavoro operaio manuale, e racimolare quel che si può. Ciò comporta che la localizzazione geografica di queste fasi sia in Stati come la Malesia, le Filippine e il Vietnam, dove il costo della forza-lavoro è nettamente inferiore.
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In ultimo vogliamo segnalare che Corea del sud e Taiwan detengono il 50% del mercato della produzione di semiconduttori all’avanguardia[21] (2019), a testimonianza di come ciò che abbiamo scritto finora sia una rappresentazione esemplificativa, dovuta a necessità di sintesi, più che una descrizione puntuale del fenomeno economico in esame.
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Il fatto che le fasi a minor valore aggiunto registrino una spartizione «più democratica» dei proventi è indicativo anzitutto di una cosa: la tendenza a ricostituire in patria, o nella propria zona di influenza economica, l’intera filiera. Questo è l’insegnamento politico che la classe dirigente, i capitalisti, ha tratto dalla crisi del Covid-19 (che ha comportato gravi interruzioni delle catene di approvvigionamento di semiconduttori) e dalle recenti tensioni geopolitiche. In aggiunta, il settore dei chip è troppo nuovo e tecnologicamente avanzato affinché si possano già essere sviluppate una gestione delle forniture e una stima del fabbisogno industriale precise e puntuali e ciò indica ancor più chiaramente la necessità di sostenere processi di «industrializzazione di ritorno», cioè appunto di re-internalizzazione in patria di fasi produttive che un tempo si sarebbe preferito delocalizzare[22]. Per fare un esempio, il tempo medio di fornitura di semiconduttori all’industria automobilistica europea è di ben 26 settimane, con picchi superiori alle 50! Completamente inaccettabile per un comparto che per aumentare il fatturato punta tutto sull’aumento dei ritmi lavorativi. Non è un caso, come dice Andrea Pannone, che durante la pandemia la sofferenza del settore automobilistico si sia verificata «in particolare a causa dei “colli di bottiglia” nella produzione dei chip. (…) I microchip, infatti, sono componenti essenziali per le auto, in quanto servono per comandare tutti i sistemi elettronici dei veicoli, dai tergicristalli alle tecnologie ADAS per la sicurezza attiva e passiva»[23].
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Senza soffermarci ancora su dettagli di questo tipo, passiamo a vedere il ruolo dell’Europa nell’ambito della filiera globale.
<br /><br />La capacità produttiva europea è passata dal 20% del totale nel 2000 al 10% nel 2020. La situazione è ancora peggiore per quanto riguarda la produzione di chip di avanguardia, infatti si è passati da una quota del 19% nel 2000 ad una quota quasi nulla nel 2020. Questa tendenza negativa è stata favorita in parte dal declino di Nokia, Ericsson e Siemens che hanno perso le loro posizioni dominanti nella produzione di cellulari. Le imprese europee produttrici di chip europei si sono quindi adattate al mercato di riferimento, concentrando la produzione sul settore [dell’]automotive e sul settore industriale[24]
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(I settori appena citati non stimolano adeguatamente l’innovazione e la produzione tecnologicamente avanzata, dal momento che non ne hanno uno specifico bisogno).
<br /><br />
Questo è ciò che avviene quando non si mette in campo una chiara strategia, preferendo delegare al mercato la funzione di regolare i percorsi e definire gli obiettivi industriali. Del resto, sarebbe proprio l’assenza di aiuti di Stato a far sì che «una fabbrica di semiconduttori in Europa costi il 33% in più di una fabbrica in Corea del Sud, 43% in più che in Taiwan e 63% in più che in Cina»[25]. Una chiara indicazione di quali potrebbero essere i futuri orientamenti della spesa pubblica in UE, che determineranno senz’altro un nuovo e più marcato calo della spesa in salari, stato sociale e servizi.
<br /><br />
Un destino difficile, quello della popolazione lavoratrice europea, ridotta a sperare che il proprio sacrificio nei confronti dell’impresa sia sufficiente a garantire il successo dei piani economici dell’UE e, con ciò, il mantenimento di un tenore di vita estremamente più elevato rispetto ai lavoratori di altre parti del mondo (eccettuati gli altri paesi occidentali, per così dire). Il ruolo infame della destra nazionalista è proprio questo: garantire che il processo si svolga come programmato e che i lavoratori accettino il sacrificio. Servi e aguzzini allo stesso tempo, come da tradizione.
<br /><br />
Il drenaggio di liquidità nei confronti della manifattura dei semiconduttori è un fenomeno globale: per prendere degli esempi recenti, gli USA hanno investito 52 miliardi di dollari per rinforzare la produzione di semiconduttori, mentre la Cina ne ha stanziati quasi 180 tramite il China Integrated Circuit Investment Industry Fund, con l’obiettivo di specializzarsi nella produzione di chip avanzati e di intaccare il monopolio americano nelle fasi di progettazione e ideazione. La Commissione Europea «prevede che entro il 2030 il livello complessivo di investimenti potenzialmente attivabili nell’industria europea dei semiconduttori, anche con il supporto di risorse private, sarà pari a circa 43 miliardi di euro»[26], ma sono già molti i programmi di investimento e sviluppo posti in essere[27].
<br /><br />
Coerentemente con le iniziative comunitarie, i singoli paesi europei partecipano con propri programmi specifici coordinati fra Stato e imprese: la Spagna ha lanciato il Proyectos estratégicos para la recuperación y transformación económica (uno strumento introdotto dal PNRR spagnolo), che prevede 12,5 miliardi per semiconduttori e microelettronica; la Francia scende in campo con il programma Électronique 2030 (nell’ambito dell’Ipcei-Me/Ct), per 5 miliardi; la Germania ha mobilitato quasi 13 miliardi, fra il Programma quadro per la microelettronica (2021-2024), l’Ipcei-Me/Ct (di cui ha assunto la guida) e il PNRR. Il tentativo comune è quello di rafforzare la produzione di semiconduttori e chip, più che di scalzare gli Stati Uniti dalle posizioni raggiunte nelle fasi di progettazione e design[28]: questo denota limiti e difficoltà del comparto industriale europeo.
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La ricerca è un settore molto importante anche nelle fasi produttive, visti i potenziali sviluppi tecnologici (riduzione delle dimensioni dei wafer di semiconduttori e dei chip, al fine di aumentarne la potenza elettronica e ridurre l’impiego delle materie prime necessarie), e l’UE sta compiendo degli sforzi in questa direzione. Il processo di ricerca complessivo, però, rimane saldamente ancorato in altre parti del globo.
<br /><br />
Insomma, se l’Europa è dipendente dagli USA per la progettazione e dall’Asia per la fabbricazione, il tentativo attuale sembra essere quello di acquisire maggiore indipendenza dall’Asia: il resto è al di fuori delle possibilità dei capitalisti nostrani. Si consideri, ad esempio, che mentre in Asia e USA si arriva a chip della dimensione di 2 nanometri (forse anche meno), in UE non esistono fonderie che vadano al di sotto dei 22 (sotto i 10 si può parlare di un livello avanzato). Inoltre, l’UE dipende dall’Asia anche per la fornitura di alcuni tipi di semiconduttori, come quelli al carburo di silicio o al nitruro di gallio.
<br /><br />
L’Italia possiede un proprio comparto industriale di microelettronica, per quanto debole, focalizzato nella produzione di semiconduttori e di macchinari per i processi produttivi e i test dei prodotti. L’azienda più importante è la STMicroelectronics (italo-francese), avente un fatturato annuale di 16,1 miliardi di dollari (quasi il doppio del costo totale del Reddito di Cittadinanza nel 2023). Esistono poi aziende di importanza strategica ma di dimensioni relativamente ridotte, che devono a volte difendersi da tentativi di acquisto esteri (negli ultimi anni lo Stato italiano ha bloccato per decreto proposte di acquisto cinesi e olandesi dell’azienda Lpe[29]). Infine, segnaliamo una debole presenza di aziende multinazionali o a controllo estero e un certo recente sviluppo delle fasi di progettazione (ovviamente ancora del tutto insufficiente per sostenere la concorrenza), avvenuto sulla scorta di collaborazioni fra aziende, Università e amministrazione statale.
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La caratteristica di queste ultime è che, pur essendo collocate nelle fasi produttive, impiegano un numero molto basso di lavoratori dipendenti (eccettuata la STMicroelectronics, che in Italia ne ha circa 12.000). Tuttavia, l’importanza che hanno per il lavoro non è assolutamente trascurabile: oltre al settore automobilistico, infatti, la microelettronica italiana serve quello dell’automazione industriale, cioè della digitalizzazione dei processi produttivi tramite infrastrutture digitali (ad esempio il cloud o sistemi di controllo da remoto) e robot industriali (macchinari di nuova generazione). Tale fenomeno non è marginale come in passato e diventa sempre più rilevante.
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Secondo i dati pubblicati da SIRI e Fondazione UCIMU (2023), il mercato italiano della robotica nel 2022 continua a registrare una crescita della domanda che è passata da 11.672 macchine richieste nel 2021 a 12.432 (+6.5%). (…) In generale, i robot installati hanno sempre come primo settore di sbocco l’automotive. A livello internazionale, il Rapporto World Robotics del 2021 prodotto dalla International Federation of Robotics (IFR) stimava dal 2022 al 2024 una crescita media annua della produzione di nuovi robot pari a circa il 6% (…). L’Asia è il più grande mercato al mondo per i robot industriali. Il 71% di tutti i robot di nuova implementazione nel 2020 è stato installato in Asia. La Cina, il più grande utilizzatore della regione, ha avuto una crescita del 20% con 168.400 unità spedite[30].
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La digitalizzazione dei processi comporta nettamente l’aumento dei ritmi lavorativi e la saturazione dei tempi morti durante il turno di lavoro, al fine di aumentare produttività e rendimento. In un’espressione: meno tempo per compiere le operazioni di lavoro[31]. Come è possibile? Tramite un agire integrato di sistemi di monitoraggio e misurazione del processo lavorativo, di indicatori di performance, di metodologie per la riduzione delle tempistiche, degli errori e delle inefficienze, e così via. Che si tratti di un’azione da compiere in linea di montaggio, della consegna al cliente o dello stoccaggio in magazzino di un pacco, della lavorazione di una pratica al computer, in ufficio, o della preparazione di un panino al negozio di fast food, le nuove tecnologie permettono di eliminare ogni azione – finanche ogni singolo movimento – non necessaria, così da ridurre le tempistiche e il costo del singolo prodotto. Tali azioni vengono chiamate <i>Not Value Added Actions</i> («azioni che non producono valore aggiunto») e il livello di dettaglio cui giungono gli imprenditori per risparmiare è impressionante: nella manifattura si è da tempo arrivati a un’unità di misura di 0,036/0,030 secondi (<i>Time Measurement Unit</i>). Anche se ora non possiamo addentrarci nel discorso, l’importanza delle nuove tecnologie digitali nel lavoro è evidente: vengono prodotte nuove problematiche, trasversali alla forza-lavoro delle categorie più disparate.
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Ma la microelettronica è sindacalmente importante anche per un altro motivo: crea indirettamente moltissimi posti di lavoro, con remunerazioni salariali inferiori. Secondo un report di Intel Corporation, nel 2019 negli USA l’azienda ha creato tredici posti di lavoro per ogni proprio dipendente, su un totale di quasi 52.000 lavoratori.
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La re-internalizzazione in patria dell’intera filiera dei semiconduttori, infine, per quanto resti ancora un obiettivo lontano delle varie borghesie nazionali, facilita la possibilità che scioperi trasversali alle differenti categorie lavorative causino un’interruzione complessiva di una filiera o parte di essa e, quindi, che non si limitino solo al singolo stabilimento. Potenzialmente, almeno sulla carta, ciò potrebbe consentire di spezzare (o quantomeno indebolire) la capacità di difesa dei capitalisti, che in questi casi reagiscono spostando le produzioni o lo stoccaggio di merce in siti dove lo sciopero non attecchisce, oppure assumendo lavoratori sostitutivi con contratti precari, ecc. La presenza di più fasi della filiera sul patrio territorio, inoltre, può essere la condizione per una parziale uniformazione delle condizioni lavorative, non foss’altro che per il fatto di essere definite nell’ambito di una stessa legislazione nazionale sul lavoro.
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Tornando all’Italia, ma rimanendo in tema dell’americana Intel, segnaliamo che nel piano di investimenti da 80 miliardi da realizzare in Europa le fasi di progettazione e design vengono implementate in Francia, la produzione di avanguardia viene collocata in Germania (Magdeburgo), mentre il resto è lasciato a Italia, Spagna, Irlanda e Polonia.
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Dovrebbe essere ormai chiaro, dunque, qual è il ruolo (subordinato) dell’Europa nella filiera dei semiconduttori e quale quello (ancor più marginale) dell’Italia all’interno della strategia comunitaria. Bisogna stare in guardia dai toni trionfalistici del PNRR: non si tratta tanto della «sfida dell’innovazione e della modernizzazione»[32] quanto, piuttosto, del tentativo di non rimanere tagliati fuori da un più generale processo di ristrutturazione economica, che nel mercato dei semiconduttori trova un nodo fondamentale e imprescindibile per qualsiasi economia del XXI secolo. I progetti italiani di finanziamento del settore, del resto, non prevedono investimenti ingenti (tranne che per il Fondo per la Microelettronica, dotato di quasi 4 miliardi)[33].
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Concludiamo con alcuni dati esemplificativi: in Italia, nel 2022, il giro d’affari per le vendite di semiconduttori è stato pari a 1,6 miliardi (3,3% del mercato europeo, che arriva oltre i 54)[34]. Ciononostante, l’Italia è ancora il terzo produttore europeo di componentistica elettronica. Probabilmente questo indica un basso grado di specializzazione e una scarsa efficienza degli investimenti nel settore.
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<b>Note</b>
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[1] Agli Investimenti spesso vengono affiancate le riforme settoriali, trattate nella I parte di questo articolo.
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[2] 18 maggio 2022.
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[3] https://commission.europa.eu/strategy-and-policy/priorities-2019-2024/european-green-deal/repowereu-affordable-secure-and-sustainable-energy-europe_it#documenti .
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[4] Commissione Europea, REPowerEU: New industrial Alliance to boost the EU's solar power and energy security. Comunicato stampa, 09 dicembre 2022.
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[5] Commissione Europea, Comunicazione della Commissione 2023/C 80/01.
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[6] A. Pannone, Che cos’è la guerra? La logica dei conflitti capitalistici tra XX e XXI secolo, DeriveApprodi, Bologna 2023,
<br /><br />
[7] Ivi, p. 69.
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[8] Commissione Europea, Commission welcomes political agreement on REPowerEU under the Recovery and Resilience Facility. Comunicato stampa, 14 dicembre 2022.
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[9] Regolamento (Ue) 2021/241 art. 14, c. 2. Si vedano anche le Linee Guida 2023/C 80/01, Parte I, Cap. IV, p. 13.
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[10] 2023/C 80/01, Tab. 1, p. 7.
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[11] V Commissione Camera dei deputati, Politica economica e finanza pubblica. Il PNRR italiano. Un quadro di sintesi.
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[12] La Commissione ha accettato di concedere all’Italia quindici mesi in più (fino a marzo 2025) rispetto al termine precedentemente previsto, pari a trenta giorni (sessanta in sanità), per azzerare i ritardi nei pagamenti.
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[13] M. R. Pierleoni, L’industria globale dei semiconduttori e il ruolo dell’Italia, MEF, Dipartimento del Tesoro 2023, p. 1.
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[14] Regolamento (Ue) 2023/1781, art. 2, nn. 2 e 3.
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[15] M. R. Pierleoni, op. cit., p. 6.
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[16] Esistono vari tipi di silicio impoverito. Il più performante di questi è il Fully Depleted Silicon On Insulators (FDSOI), su cui la Germania sta lavorando per una migliore integrazione industriale (azienda Globalfoundries, Dresda).
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[17] Entrato a far parte delle forze armate statunitensi nel ’62, il Minuteman I (per distinguerlo dalle versioni successive) è un missile balistico intercontinentale in grado di trasportare testate nucleari. Il computer di bordo costa centinaia di migliaia di $, mentre complessivamente il missile arriva a diversi milioni.
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[18] L. Alessandrini, L’industria dei semiconduttori, LUISS 2022, p. 18. Fonte dei dati: rielaborazione su dati CSET (Khan, Mann, & Peterson, 2021), ulteriormente rielaborata dagli scriventi.
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[19] M. R. Pierleoni, op. cit., p. 9.
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[20] La dipendenza dalle case madri e dai principali produttori americani nasce quando questi iniziano a puntare tutto sull’implementazione dei processi di memoria informatica, per dotare i pc di spazio sufficiente a contenere programmi avanzati e in continua evoluzione (da qui la necessità di costruire un chip standard da accoppiare a un chip di memoria potente e adottabile per diverse tipologie di software).
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[21] Wafer minore di 300 mm.
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[22] Sempre più diffusamente le aziende importanti stanno cercando di passare a un modello di business basato allo stesso tempo sulla progettazione e la produzione di chip e semiconduttori, quando prima erano maggiormente focalizzate sulla sola progettazione (negli USA il 65% del fatturato ricavato dalla vendita di chip viene da aziende che fanno solo progettazione, il 51% da aziende che oramai fanno entrambe le cose, il 25% da quelle che fanno produzione o test/assemblaggio/imballaggio). Non solo: grandi aziende di altri settori, dall’elettronica di consumo all’automotive, stanno sviluppando in massa una produzione interna di manufatti microelettronici (Amazon, Facebook, Huawei, Apple).
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[23] A. Pannone, op. cit., DeriveApprodi, Bologna 2023, p. 78.
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[24] L. Alessandrini, op. cit., p. 48.
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[25] Ibidem.
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[26] M. R. Pierleoni, op. cit., p. 26.
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[27] Elenco dei principali programmi d’investimento europei: Programma ECSEL - Electronics Components and Systems for European Leadership (05/2014) e Key Digital Technologies Joint Undertaking (11/2021); IPCEI microelettronica I (2018-2024) e II (2023-2032); Alliance on Processors and Semiconductor Technologies (07/2021); Regolamento (Ue) 2023/1781.
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[28] Tra l’altro, anziché aiutare le imprese con finanziamenti a pioggia e sgravi fiscali gli Usa finanziano il Darpa (Defense Advanced Research Projects Agency), l'unità del Pentagono per le nuove tecnologie. Questo indica un livello di organizzazione e pianificazione che i paesi europei non possono che osservare da lontano.
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[29] M. R. Pierleoni, op. cit., p. 38.
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[30] Ivi, p. 47.
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[31] E meno lavoratori per compiere il lavoro assegnato: solo un anno fa Meta aveva licenziato oltre 20.000 lavoratori/trici, mentre recentemente la europea Sap ha annunciato 8 mila esuberi. In Germania la Confindustria prevede tagli superiori alle 300.000 unità nel settore metalmeccanico.
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[32] PNRR #NextGenerationItalia, p. 104.
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[33] Elenco dei principali programmi d’investimento italiani: Fondo per la microelettronica (2023-2030), istituito dal D.L. 17/2022, art. 23, e L. 136/2023; Fondazione Centro italiano per il design dei circuiti integrati a semiconduttore, avente l’obiettivo di promuovere la progettazione e lo sviluppo dei chip, istituito dalla LdB 2023; Pnrr e Ipcei-Me I e II.
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[34] World Semiconductor Trade Statistics, 2022.
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<a href="https://www.machina-deriveapprodi.com/post/attraversando-il-pnrr-parte-ii-politiche-energetiche-e-filiere-produttive-i" rel="nofollow" target="_blank">Fonte</a>Re-Carbonizedhttp://www.blogger.com/profile/07070140938585948393noreply@blogger.com0tag:blogger.com,1999:blog-4800805644070876200.post-34015801051931990162024-03-27T11:37:00.000+01:002024-03-27T11:37:00.249+01:00Gaza - Israele imbufalita per il voto al Consiglio di Sicurezza dell’Onu. Trattative fermeIeri il Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite <a href="https://contropiano.org/news/internazionale-news/2024/03/25/gaza-si-torna-a-ipotizzare-ua-tregua-oggi-il-voto-al-consiglio-di-sicurezza-dellonu-0170714" rel="nofollow" target="_blank">ha approvato per la prima volta una risoluzione</a> per chiedere un cessate il fuoco nella Striscia di Gaza.
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Il testo, sostenuto da 14 Paesi tra cui Cina e Russia, è passato dopo che gli Stati Uniti hanno deciso di astenersi, e di non esercitare il diritto di veto. La risoluzione chiede un cessate il fuoco immediato durante il Ramadan e la liberazione di tutti gli ostaggi ancora a Gaza.
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Il movimento palestinese Hamas ha dichiarato di aver accolto con favore la risoluzione del Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite che chiede un cessate il fuoco a Gaza e di essere pronto a uno scambio immediato di prigionieri con Israele.
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Imbufalito invece il premier israeliano Benjamin Netanyahu che ha deciso di non inviare una delegazione a Washington come previsto, dopo che gli Stati Uniti non hanno posto il veto sulla risoluzione approvata dal Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite.
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Il ministro degli Esteri Israel Katz afferma che la decisione degli Stati Uniti di sospendere il veto su una risoluzione del Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite che chiede un immediato cessate il fuoco a Gaza finirà per danneggiare Israele nei colloqui per liberare i suoi ostaggi detenuti da Hamas.
<br /><br />
Parlando alla radio dell’esercito, Katz traccia una linea diretta tra il rifiuto da parte di Hamas delle condizioni israeliane per una tregua e un accordo sugli ostaggi in cambio di prigionieri e la decisione degli Stati Uniti di consentire l’approvazione della misura, che definisce “un errore morale ed etico”.
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Il segretario di stato Antony Blinken ha parlato di Rafah e degli aiuti umanitari a Gaza con il ministro della difesa israeliano Yoav Gallant, riferisce il Dipartimento di Stato.
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Il capo dell’ufficio politico di Hamas, Ismail Haniyeh, si recherà oggi a Teheran per tenere colloqui con il ministro degli Esteri della Repubblica islamica dell’Iran, Hossein Amirabdollahian, sulla guerra in corso nella Striscia di Gaza. Lo ha riferito l’agenzia di stampa iraniana <i>“Mehr”</i>, aggiungendo che il leader di Hamas terrà anche un incontro con la stampa durante la sua visita nella capitale iraniana.
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<b>Le trattative sullo scambio di prigionieri si sono fermate</b>
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“Il movimento Hamas ha informato poco fa i mediatori che il movimento si attiene alla sua posizione e visione presentata il 14 marzo perché l’occupante non ha risposto a nessuna delle richieste fondamentali del nostro popolo e della nostra resistenza: un cessate il fuoco completo, il ritiro dalla Striscia di Gaza, il ritorno degli sfollati e un vero scambio di prigionieri” scrive l’organizzazione su Telegram. “Il movimento ribadisce che Netanyahu e il suo governo estremista hanno la piena responsabilità di aver vanificato tutti gli sforzi negoziali e di aver ostacolato il raggiungimento di un accordo fino ad oggi”.
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Israele ha continuamente respinto le richieste avanzate da Hamas per un ritiro militare completo e un cessate il fuoco permanente, mentre il movimento palestinese ha condizionato qualsiasi ulteriore rilascio di ostaggi all’impegno israeliano a porre fine alla guerra. Israele ha respinto questa richiesta come delirante e ha insistito sul fatto che la sua campagna militare per distruggere le capacità militari e di governo di Hamas riprenderà una volta che qualsiasi accordo di tregua sugli ostaggi sarà attuato.
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Alle prime ore di questa mattina, alcuni testimoni hanno riferito di attacchi israeliani nei pressi di Rafah, dove sono ammassati 1,5 milioni di palestinesi, la maggior parte dei quali sfollati a causa dei bombardamenti israeliani nel resto della Striscia di Gaza.
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<a href="https://contropiano.org/news/internazionale-news/2024/03/26/gaza-israele-imbufalita-per-il-voto-al-consiglio-di-sicurezza-dellonu-trattative-ferme-0170745" rel="nofollow" target="_blank">Fonte</a>Re-Carbonizedhttp://www.blogger.com/profile/07070140938585948393noreply@blogger.com0tag:blogger.com,1999:blog-4800805644070876200.post-77295901029583008812024-03-27T09:20:00.001+01:002024-03-27T09:20:00.243+01:00La destra gioca sporco contro gli studenti in piazza su guerra e PalestinaUna velina dei neofascisti al governo di Fratelli d’Italia, secondo <i><a href="https://www.ilfattoquotidiano.it/in-edicola/articoli/2024/03/24/allarme-di-chigi-rischio-brigatisti-nelle-universita/7489609/" rel="nofollow" target="_blank">Il Fatto Quotidiano</a></i> proveniente dai mattinali di Palazzo Chigi, ha dato avvio nei giorni scorsi ad una sorta di ordine di scuderia della destra nelle valutazioni sulle mobilitazioni nelle università in solidarietà con il popolo palestinese.
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Piuttosto che riconoscere la vergogna del genocidio a cui vengono sottoposti i palestinesi da parte delle autorità politiche e militari israeliane, che ha provocato un’ondata di indignazione in tutto il mondo – e dunque anche tra i giovani delle università italiane – la destra sceglie di rifiutare la realtà ascrivendo questo sacrosanto sussulto di dignità nel paese e nelle nuove generazioni… all’“influenza di vecchi militanti delle Br”.
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Per cercare di legittimare questa chiave di lettura e l’input politico che ne deriva– magari pretendendo che, come nel caso del Comune di Bari, il ministero dell’Interno agisca di conseguenza – la velina di Fratelli d’Italia ha usato il “metodo Sterling”.
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Il riferimento è alla giornalista statunitense Claire Sterling che, durante la Guerra Fredda, scriveva articoli grazie ai materiali che le passava la Cia e poi, nei rapporti al pubblico, la Cia usava gli articoli della Sterling a supporto delle proprie tesi.
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Qui in Italia, allo stesso modo, prima hanno “dato la velina” a un paio di quotidiani di destra – <i><a href="https://www.ilgiornale.it/news/politica/i-vecchi-br-arruolati-nella-lotta-anti-israele-2298419.html" rel="nofollow" target="_blank">Il Giornale</a></i> e <i>Il Tempo</i> – e poi hanno usato quegli articoli come base, fonte e conferma di quanto fatto circolare.
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Per renderla più sostanziosa, i segugi di Fratelli d’Italia fanno anche riferimento alla <a href="https://contropiano.org/news/politica-news/2024/02/28/i-servizi-segreti-italiani-preoccupati-dalle-mobilitazioni-contro-la-guerra-e-per-la-palestina-0169889" rel="nofollow" target="_blank">Relazione annuale dei servizi segreti al Parlamento</a> presentata a fine febbraio.
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Ma quella relazione l’abbiamo letta anche noi e vi è scritto testualmente che:
<blockquote>
“I diversi scenari di crisi internazionali hanno influenzato anche l’eterogeneo movimento antagonista che, partendo dal tema della guerra, ha riproposto strategie di convergenza di temi e istanze, in un rinnovato tentativo di ampliamento e di compattezza del fronte del dissenso.
<br /><br />
Gli attivisti hanno dunque cercato di serrare i ranghi facendo perno, sia a livello propagandistico che di “piazza”, soprattutto sull’antimilitarismo che, oltre a ribadire la sua consolidata valenza aggregativa e trasversale, ha trovato nuovo slancio con gli eventi mediorientali.
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Oltre a cortei e presidi, si è infatti assistito a iniziative di propaganda e controinformazione in chiave “antisionista”, nel più ampio quadro della campagna denominata “Boicotta, Disinvesti, Sanziona” (BDS), volta a orientare l’opinione pubblica verso forme di pressione contro Israele.
<br /><br />
Il dibattito strumentale sulle diversificate ricadute dei “conflitti imperialisti” e dell’“economia di guerra” su vari dossier sociali, come il carovita, l’immigrazione, l’emergenza abitativa e occupazionale, ha poi costituito il filo conduttore dell’agenda contestativa antagonista”.
</blockquote>
Qui, se non altro, la realtà mondiale viene perlomeno riconosciuta, anche se ovviamente se ne dà una lettura “euro-atlantica” in chiave di “attenzione preventiva”.
<br /><br />
Il fatto, per esempio, che contro la guerra o in solidarietà con la Palestina ci sia una maggiore convergenza politica tra tanti movimenti e organismi diversi diventa un fattore di preoccupazione. E non si capisce perché, poi, secondo i servizi di sicurezza, il dibattito su questi temi dovrebbe essere considerato “strumentale”.
<br /><br />
Di guerra, ormai, parlano e straparlano tutti i giorni i capi di stato e leader delle istituzioni europee. Ed è veramente difficile ritenere che questo non provochi conseguenze e preoccupazione nell’intera società. Quanto avviene in Palestina suscita un’indignazione verso Israele enorme e trasversale, come mai negli ultimi cinquanta anni.
<br /><br />
Ma la destra insiste sul fatto che i giovani in mobilitazione sulla Palestina nelle università siano “agitati” perché preda di “cattivi maestri”. In tal senso la relazione annuale dei servizi segreti scrive che:
<blockquote>
“Non sono mancate, inoltre, attività di proselitismo tra i circuiti più giovanili della militanza antagonista con l’intento di plasmare, in una prospettiva di lungo periodo, nuove “coscienze rivoluzionarie”, concretizzatesi, tuttavia, unicamente in opere di studio e di approfondimento della dottrina di riferimento e di vicende legate ai passati “anni di piombo”.
</blockquote>
È in questo contesto che un seminario di studio su un “pericolosissimo” libro… del 1917 – “L’imperialismo” di Lenin, che fino a qualche anno fa figurava anche tra le letture consigliate in qualche corso universitario – diventa l’occasione per fantasticare su malevole “connessioni” tra relatori ormai ultrasettantatenni, ex militanti delle BR quaranta o cinquanta anni fa, e giovani universitari.
<br /><br />
In questa – sì – strumentale caccia alle streghe è stato coinvolto dai giornali di destra anche Francesco Piccioni, redattore del nostro giornale e per quasi venti anni a <i>il manifesto</i>.
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L’ordine di scuderia dei fascisti di governo è abbastanza chiaro, per quanto ridicolo, non per questo meno pericoloso.
<br /><br />
Non dandosi pace sul fatto che parti consistenti della società – e tra questi gli studenti – non accettano né si esaltano per le “sorti meravigliose” promesse dal governo Meloni, i fascisti al potere ricorrono alla vecchia strada della demonizzazione e della criminalizzazione, negando alle nuove generazioni ogni possibile elaborazione sul presente e sul futuro, così come ogni riflessione sulla storia recente del paese.
<br /><br />
Se un governo trascina un paese in guerra, gira la testa dall’altra parte su quanto viene fatto ai palestinesi e ipoteca ogni futuro dignitoso per i giovani e le classi meno ricche, difficile pensare che nella società non germoglino semi di resistenza.
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In secondo luogo, la destra ha preso ormai ad avvelenare il clima politico. Prima ricorrendo sistematicamente al <a href="https://contropiano.org/news/politica-news/2024/03/16/il-vittimismo-aggressivo-allassalto-delle-universita-0170439" rel="nofollow" target="_blank">“vittimismo aggressivo”</a>, che trasuda in ogni passaggio politico o di cronaca di questo paese; poi approfittando del fatto di avere in mano i poteri coercitivi per spingerli ad agire con la mano pesante contro ogni opposizione degna di questo nome.
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Infine, ma non certo per importanza, quando i fascisti al governo evocano “i pericoli degli anni Settanta”, si preoccupano accuratamente di nascondere quelli provocati dai loro padri e fratelli maggiori: le stragi, le bombe, gli omicidi di militanti di sinistra. E l’elenco è lunghissimo.
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È tipico di chi ha davvero troppi scheletri nell’armadio – ma dispone oggi di un qualche potere politico – ergersi a “pessimo maestro” sulla storia recente del paese.
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<a href="https://contropiano.org/news/politica-news/2024/03/26/la-destra-gioca-sporco-contro-gli-studenti-in-piazza-su-guerra-e-palestina-0170723" rel="nofollow" target="_blank">Fonte</a>Re-Carbonizedhttp://www.blogger.com/profile/07070140938585948393noreply@blogger.com0tag:blogger.com,1999:blog-4800805644070876200.post-63771968644400553492024-03-26T23:18:00.000+01:002024-03-26T23:18:00.252+01:00Frusciante al Cinema [Patreon]: The Holdovers - Lezioni di vita (2023) di A. Payne<div class="separator" style="clear: both; text-align: center;"><iframe class="BLOG_video_class" allowfullscreen="" youtube-src-id="wDBgzUJY800" width="480" height="360" src="https://www.youtube.com/embed/wDBgzUJY800"></iframe></div>Re-Carbonizedhttp://www.blogger.com/profile/07070140938585948393noreply@blogger.com0tag:blogger.com,1999:blog-4800805644070876200.post-91169421271442197532024-03-26T21:18:00.047+01:002024-03-26T21:18:00.137+01:00Attraversando il PNRR. Parte I: piani Ue e classe dirigente italiana (II)<b>III. I termini e le condizioni del prestito. Per un approccio pragmatico ma conflittuale</b>
<br /><br />
La questione da agitare a livello politico non è quella delle condizioni del prestito: non si tratta di somme di denaro prestate «a strozzinaggio» e, per di più, una discreta parte di queste non andrà restituita (le stesse commissioni sul finanziamento richieste dall’Ue sono praticamente nulle).
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Non ci sembrano efficaci nemmeno le critiche sul livello di indebitamento del Paese, cioè sulla quantità di debito che svilupperemmo a causa dei fondi PNRR, che dovremo restituire: concretamente il tutto andrebbe a risolversi con 6.000.000.000 euro e più all'anno in aggiunta sul debito pubblico, da corrispondere nell’arco del ventennio che va dal 2033 al 2052. Ora, aggiungere questa cifra a un debito che matura interessi annui di 7-9.000.000.000 euro non ci sembra un ostacolo insormontabile per il bilancio di un'economia avanzata, per quanto non si tratti di spiccioli.
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La questione da trattare dovrebbe essere un’altra: l’attuale ripartizione degli investimenti fra capitale e lavoro e la futura ripartizione delle spese per la restituzione del prestito, sempre fra capitale e lavoro. Forse si potrebbe lavorare a una rivendicazione per la quale la restituzione dei fondi PNRR vada richiesta ai soggetti che li hanno utilizzati, attraverso aliquote, tasse, riduzione degli sgravi fiscali per fascia di utile netto, ecc. Tutto ciò considerando, magari, solamente imprese con determinate fasce di fatturato (non troppo basse) e considerandole assieme al relativo indotto di servizi alle imprese e finanziari, per poter ascrivere così a bilancio pubblico soltanto le quote di finanziamento PNRR destinate (sulla carta) al potenziamento dei servizi pubblici. Se vogliamo interagire col dibattito mainstream, forse sarebbe ipotizzabile un discorso del genere. Del resto i sindacati e «l’opposizione» parlamentare avrebbero potuto tranquillamente chiedere ai destinatari dei fondi PNRR di contribuire alle spese sostenute con un contributo a un fondo appositamente costituito. Presupposto irrinunciabile di qualsiasi rivendicazione di questo tenore, però, sarebbe stata una critica politica ai meccanismi europei di funzionamento. Ma proseguiamo.
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Per una parte questi fondi sono sovvenzioni a fondo perduto[1] e, per l’altra, prestiti. La loro erogazione è subordinata ad alcuni adempimenti da parte dei governi nazionali, per cui non è scontata e non avviene in un’unica tranche. Gli unici paesi che finora[2] hanno ricevuto soldi in prestito sono: Italia, Grecia, Romania, Slovenia, Portogallo, Cipro. L’Italia è sia la nazione ad aver ricevuto la percentuale maggiore dei fondi previsti (44%), che l’unica ad aver ricevuto più soldi in prestito che sotto forma di sovvenzioni.
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I fondi spettanti a ciascun paese, così come la destinazione d’uso e le condizioni di prestito degli stessi, sono stati stabiliti contrattualmente fra la Commissione Europea e il governo nazionale: stiamo parlando del cosiddetto <i>Loan Agreement</i> («contratto di prestito»). Questo documento, di norma accessibile dai siti governativi degli altri paesi europei, curiosamente in Italia non sembra essere stato reso pubblico[3].
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In caso di utilizzo non corretto dei fondi comunitari è prevista la restituzione degli stessi[4], e la norma non è puramente simbolica: per l’Italia, nel 2019 «l’ammontare totale di irregolarità e frodi tra Fonti Strutturali e Politica agricola equivale a 63.441.868 euro di cui 51.774.935 ancora da recuperare»[5].
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Il totale dei fondi messi a disposizione dalla Commissione Europea per tutti gli Stati è di quasi 750.000.000.000 euro divisi circa a metà fra prestiti e sovvenzioni. Per dare un’idea della mole di denaro in gioco forniamo alcuni dati: nel 2022 il PIL italiano è stato di circa 1.930.000.000 euro, quello della Germania 3.877.000.000 e quello del Portogallo 224.000.000. L’Italia, da questo punto di vista, è la quarta economia europea[6]. Il dispositivo del PNRR, perciò, rappresenta un investimento ingente, potenzialmente in grado di andare a influenzare le strategie e i risultati delle economie dell’Unione. Tra l’altro il PNRR fa parte del programma Ngeu, che «comprende due strumenti di sostegno agli Stati membri. Il REACT-EU [47,5 miliardi in totale] è stato concepito in un’ottica di più breve termine (2021-2022) per aiutarli nella fase iniziale di rilancio delle loro economie. IL RRF ha invece una durata di sei anni, dal 2021 al 2026»[7].
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Per quanto riguarda le condizioni dei prestiti vi è la questione della restituzione degli interessi sul prestito e quella della restituzione del prestito vero e proprio.
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Gli interessi li stiamo già ripagando e, per ora, sono convenienti, in quanto i tassi sui prestiti concessi all’Ue risultano inferiori a quelli italiani. Questa, infatti, prende a sua volta in prestito il denaro (la maggior parte, anche quello da erogare come sovvenzioni) man mano che provvede a erogare le rate ai vari Stati nazionali. In che modo? Emettendo titoli obbligazionari. Come funzionano? L’investitore privato li compra e, alla loro scadenza, riceverà indietro la somma iniziale maggiorata dagli interessi. Questi ultimi vengono stabiliti al momento della transazione e tendenzialmente sono più bassi quando l’istituzione dalla quale si comprano i titoli è solida e ha un rischio di insolvibilità del debito (alla scadenza dell’obbligazione) basso. Ora, se fondamentalmente è questo il motivo per cui l’Ue prende soldi a prestito a costo inferiore rispetto all’Italia, bisogna considerare che: qualora le condizioni di mercato peggiorassero, i tassi salirebbero e le previsioni economiche di spesa andrebbero riviste al rialzo; i tassi d’interesse concessi all’Ue sono circa la metà di quelli italiani, ma stanno lentamente salendo; generalmente le obbligazioni a lungo termine comportano a priori tassi d’interesse più alti e possono finire per catalizzare (più delle obbligazioni a breve scadenza) gli eventuali incrementi dei tassi che dovessero occorrere nel corso degli anni, favorendo una sorta di «effetto amplificatore».
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Una scommessa sulla stabilità dell’Unione, dunque, e un cappio al collo delle classi popolari, pronto a stringersi in caso di necessità. Al momento però simili problematiche sono prefigurabili soltanto per via puramente ipotetica. A quanto ci risulta, infatti, dato che il Ministero dell’Economia e delle Finanze ha previsto ad hoc due nuovi capitoli di spesa in bilancio[8], sulla scorta dell’aggiornamento contenuto nella nuova Legge di Bilancio è possibile affermare che non si tratta di somme elevate: 278.000.000 euro nel 2023, 504 nel 2024 e 714 nel 2025[9]. In questi anni i costi dei soli interessi sull’intero debito pubblico saranno di 75.000.000.000 e 718.000.000 euro per il 2023, 84.829.000.000 euro l’anno seguente, 91.517.000.000 euro nel 2025[10].
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Il debito vero e proprio (che per l’Italia dovrebbe essere di 194.300.000.000 euro, di cui però solo 126 da restituire, essendo i rimanenti finanziamenti a fondo perduto) andrà ripagato a partire da 10 anni dopo la ricezione dei soldi e nell’arco di ulteriori 20 anni. Facciamo presente che complessivamente (comprendendo quindi anche le sovvenzioni a fondo perduto) «l’ammontare dei prestiti RRF all’Italia è stato stimato in base al limite massimo del 6,8% del reddito nazionale lordo in accordo con la task force della Commissione»[11].
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<b>IV. PNRR italiano: obiettivi generali e predisposizione del quadro amministrativo</b>
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Pensiamo che possa essere utile esaminare brevemente le riforme collegate al Piano, ossia quelle norme in carico al governo nazionale che è necessario promulgare per poter utilizzare correttamente ed efficacemente i fondi PNRR. Alcune di queste servono a garantire l’attuazione del piano (riforme abilitanti) e a preparare il contesto (riforme orizzontali o di contesto)[12], mentre altre sono molto più specifiche (riforme settoriali).
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Le <i>riforme abilitanti</i> puntano alla semplificazione burocratica e alla digitalizzazione dell’amministrazione pubblica, nonché a stimolare la concorrenza nei mercati.
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Fra queste troviamo la legge annuale per il mercato e la concorrenza[13], attraverso cui i governi hanno tentato (e tenteranno ancora) di semplificare le procedure per gli investimenti e lo sviluppo delle infrastrutture, rilasciando più facilmente le concessioni e riducendo gli oneri amministrativi, nonché di liberalizzare completamente i settori dell’energia elettrica, idroelettrica e da gas naturale, e le autostrade. Importante poi sottolineare come uno degli obiettivi di riforma dichiarati nel PNRR sia stabilire che il pubblico, per ricorrere a risorse interne anziché al mercato (appalti ed esternalizzazioni, consulenze...), debba fornire adeguate giustificazioni, anche di carattere economico: «andranno introdotte specifiche norme finalizzate a imporre all’amministrazione una motivazione anticipata e rafforzata che dia conto delle ragioni del mancato ricorso al mercato, dei benefici della forma dell’in house dal punto di vista finanziario e della qualità dei servizi e dei risultati conseguiti nelle pregresse gestioni in auto-produzione, o comunque a garantire una esaustiva motivazione dell’aumento della partecipazione pubblica»[14]. Fra i settori che probabilmente verranno più colpiti da questo approccio troviamo quello della raccolta e dello smistamento rifiuti.
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Un’altra riforma abilitante punta a dotare l’amministrazione di un unico sistema di contabilità, di piattaforme informatiche compatibili e capaci di operare congiuntamente, di personale specializzato ed esperto negli strumenti di vendita e di misurazione delle performance.
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Questo vorrebbe dire aumentare l’efficienza e la produttività dello Stato (stimolando ritmi di lavoro più alti e passando dalla misurazione collettiva della produttività a quella individuale, relativa al singolo dipendente). Ma vuol dire anche stimolare la compra-vendita di prodotti digitali hi-tech creando un mercato <i>ad hoc</i> che veda lo Stato come primo cliente, nel tentativo (che immaginiamo sarà solo parzialmente efficace) dichiarato di spingere il tessuto imprenditoriale italiano all’innovazione produttiva e a investire nei settori più remunerativi dell’economia. Vuol dire, infine, aumentare il controllo politico sui cittadini lavoratori: questi saranno suddivisi per categorie di rischio (ad esempio in riferimento all’evasione fiscale), in maniera tale da rendere il controllo «mirato» e scovare i colpevoli; la stima del rischio verrebbe fatta con l’ausilio di strumenti informatici come i <i>big data analysis</i>[15], che consentono l’analisi e la «clusterizzazione» (categorizzazione) di mole di dati anche molto grandi e il cui uso, non a caso, si sta diffondendo largamente nei settori produttivi dell’economia. A tal fine, l’organico dell’Agenzia delle Entrate è già stato rafforzato con 4113 unità in più, deputate all’utilizzo di strumenti informatici avanzati a fini di controllo. Unico argine democratico è la «pseudonomizzazione» delle informazioni, che protegge la privacy del cittadino informalmente indagato dai lavoratori dipendenti dell’Agenzia.
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Le <i>riforme orizzontali</i> servono a intervenire nella Pubblica Amministrazione e nella Giustizia, al fine di stimolare gli investimenti: quelli pubblici, nel caso della PA, o quelli delle imprese private sul territorio nazionale, nel caso della riforma della Giustizia. E se per la PA fondamentalmente tornano le solite parole d’ordine (semplificazione burocratica, digitalizzazione, nuove assunzioni e investimenti sulle competenze della forza-lavoro), per la Giustizia il problema è inquadrato nella lentezza dei processi, vista come il principale fattore di disturbo per gli investimenti.
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Insomma, l’intento celato dietro queste (e altre) riforme sembra chiaro: attrarre gli investimenti e farli fruttare, eliminando lentezze e storture procedurali di tipo amministrativo e giudiziario. Gli investimenti, difatti, sono la base di un piano capitalistico di sviluppo come il PNRR. Tuttavia, bisogna essere più specifici e cercare di capire a cosa, in concreto, la classe dirigente stia mirando.
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<b>Una sintesi dei tre obiettivi centrali nel PNRR Italiano</b>
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Potremmo riassumere in tre punti gli obiettivi generali del Piano italiano: produttività, efficienza e posizionamento. La <i>produttività</i> indica la riduzione delle tempistiche di produzione e circolazione delle merci (approvvigionamento di materiali, manifattura e manifattura informatica, logistica, vendita); per «<i>efficienza</i>» intendiamo l’efficienza degli investimenti (la capacità di sviluppare il massimo potenziale economico con investimenti mirati) e allo stesso tempo la loro redditività (il guadagno che garantiscono al capitalista); il <i>posizionamento</i> è riferito al risultato di questi processi di implementazione economica sul mercato mondiale, ovvero alla possibilità di conquistare o mantenere le posizioni più remunerative nell’ambito delle filiere produttive di alcune tipologie di merci, considerate strategiche[16].
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<b>V. PNRR italiano: ritardi nell’utilizzo dei fondi</b>
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I paesi europei non sono tutti uguali. L’Italia, come forse in molti si sarebbero aspettati, sembra essere ben poco capace e disciplinata nel portare a termine il percorso di attuazione degli investimenti. Certo, sarebbe stato utopico porsi come sfida quella di sviluppare tecnologie in grado di monitorare il processo di implementazione tecnologica in itinere, utilizzando gli stessi fondi del PNRR: questo è, in maniera esemplificativa, il livello tedesco[17]. Anche volendo però fare un raffronto con un paese per alcuni versi più simile al nostro, quale ad esempio la Spagna, non emergerebbe un quadro edificante. Da un lato, l’Italia ha presentato quattro richieste di finanziamento (erogazione delle rate PNRR), mentre la Spagna tre, ma al nostro paese ne sono state accettate due, mentre per la Spagna sono state accolte tutte: «l’intervallo di tempo che intercorre tra la richiesta di pagamento e l’effettiva erogazione della rata (...) si allunga quando compaiono difformità tra gli obiettivi originariamente fissati dal Piano in corrispondenza della rata in questione e quelli effettivamente realizzati, discrepanze che devono essere valutate e validate dalle istituzioni europee. Ebbene, nel caso della prima rata, la Spagna ha ricevuto l’erogazione dei fondi dopo appena 45 giorni dalla richiesta, l’Italia dopo 104; per la seconda rata Madrid ha riscosso il pagamento dopo 90 giorni, Roma dopo 132; per la liquidazione della terza rata alla Spagna ci sono voluti 140 giorni, mentre l’Italia la sta ancora aspettando e sono passati 272 giorni dalla richiesta, inviata a Bruxelles il 30 dicembre dello scorso anno [la rata è infine stata versata il 09/10/2023][18]».
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Dimostrando puntualità ed efficienza, inoltre, la Spagna è riuscita a sostenere con successo la richiesta di un notevole incremento dei fondi concessi (84.000.000.000 euro di prestiti in più, a cui vanno aggiunti altri finanziamenti e trasferimenti di denaro). Nel caso italiano, invece, «alla data del 26 novembre risultano spesi complessivamente 28.100.000.000 euro, pari a circa il 14,7% del totale delle risorse europee del PNRR: 1.300.000.000 euro nel 2020 (tutto il programmato per l’anno), 6.200.000.000 euro nel 2021 (leggermente più di quanto programmato), 18.100.000.000 nel 2022 (leggermente più di quanto programmato) e 2.500.000.000 euro nel 2023 (il 7,4%del programmato)»[19]. Non esattamente un risultato brillante, per il governo a guida Meloni: ad oggi il PNRR italiano ha dovuto essere ridotto di circa 17.000.000.000, al fine di ottenere l’erogazione delle rate. Vedremo se nel 2025-2026 si potranno recuperare quei soldi[20]... Per ora, concentrandoci sul presente, proviamo concretamente a vedere quali siano i problemi.
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<b>Ritardi nell’affidamento degli appalti</b>
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L’affidamento degli appalti risulta frequentemente in ritardo e spesse volte viene sospeso dopo l’assegnazione. Queste inefficienze non si verificano tanto nella fase della progettazione degli investimenti («cosa fare»), quanto in quella della messa a gara e dell’assegnazione dei progetti («chi deve farlo»). Da questo punto di vista sono evidenti le disparità territoriali fra nord e sud:
<blockquote>
«la quota dei progetti conclusi è bassa dappertutto, ma al centro e al mezzogiorno è poco più della metà di quella del nord. I ritardi nella messa a gara e nell’assegnazione dei lavori, invece, si concentrano soprattutto nel mezzogiorno. (…) A fine novembre [2023] nel mezzogiorno risulta aggiudicato il 9,4% dei progetti finanziati, contro il 14,1% del nord e il 15,2% del centro[21]».
</blockquote>
Le cause dei ritardi sono molte, ma incidono soprattutto la carenza di personale all'interno della PA e la conseguente, eccessiva mole di lavoro. A ciò si lega una diffusa difficoltà, sia da parte degli impiegati che dei dirigenti, a portare a termine gli adempimenti burocratici relativi ai progetti e ad assumersi la responsabilità di procedure che o non si conoscono, o non sono facili da gestire. In tale contesto, diventa ancor più difficile accertare la trasparenza dei processi di affidamento.
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La soluzione del governo, allora, è stata quella di diminuire i controlli e le sanzioni e di escludere la Corte dei Conti dal controllo delle operazioni del PNRR e del Piano Nazionale Complementare; prorogare fino al 30 giugno 2024 lo scudo per i dirigenti al fine di scongiurarne la contestazione del danno erariale per colpa grave[22]; limitare l’ammontare economico delle condanne (riducendo i poteri di controllo della magistratura contabile sugli appalti); obbligare i dirigenti pubblici a sottoscrivere un’assicurazione; un maggior uso dei crediti d’imposta, più rapidi rispetto alla realizzazione diretta di opere pubbliche, per l’assegnazione dei finanziamenti. Tutto ciò mentre si tamponano le inefficienze con assunzioni ad hoc per il PNRR nel pubblico, principalmente a tempo determinato, e con riorganizzazioni interne degli uffici, finalizzate alla gestione e alla realizzazione dei piani e quindi foriere più che altro di un aumento del carico di lavoro degli impiegati.
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A parer nostro, per tutelare i lavoratori sarebbe stato meglio intervenire istituendo clausole sociali di salvaguardia e stipulando contratti più favorevoli. Evidentemente però il PNRR è anche il banco di prova di soluzioni forti, che andranno a cadere negativamente sulle condizioni salariali e di contrattazione.
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D’altro canto l’idea di garantire ad amministratori e dirigenti pubblici uno scudo quasi totale, che eviterebbe loro ogni accusa e contestazione di colpa grave per danno erariale in caso di un controllo preventivo, fa rabbrividire, perché elimina tutti i controlli successivi della Corte dei Conti, anche su appalti da milioni di euro. Eppure sarà così: il governo ha scelto di rendere più complicati i controlli sugli atti firmati da dirigenti pubblici che abbiano precedentemente richiesto un «controllo preventivo» sugli stessi. Fino a oggi questa procedura era limitata per legge a pochi atti di grande rilevanza, mentre ora verrebbe consentita – per quel che riguarda gli appalti del PNRR (e non solo) – a tutte le amministrazioni pubbliche, anche quelle locali, e a tutti i «soggetti attuatori», comprese le aziende. Tutti avranno facoltà di chiedere un controllo preventivo sull’atto e, in caso di via libera, non potranno più subire contestazioni per danno erariale per averlo adottato. I tempi concessi ai giudici per rispondere, fra l’altro, vengono dimezzati e se non arriva la risposta vale il silenzio assenso e scatta lo scudo erariale (salvo che per dolo). È facile capire cosa potrebbe succedere: gli uffici della Corte verrebbero subissati di una tale mole di atti, difficile da esaminare puntualmente, e il rischio è quello di dare il «liberi tutti». Per quegli atti che continuano a non poter essere sottoposti al controllo preventivo viene invece estesa a dismisura la cosiddetta «attività consultiva»[23].
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Insomma, l’esclusione di responsabilità amministrativa per condotte gravemente colpose e l’eliminazione dei controlli in itinere sull’andamento dei progetti definiscono l’approccio di un governo che, forte di una certa quota di sostegno fra la piccola e media imprenditoria, cerca una sponda politica sicura per poter coprire alcune mancanze e difetti del proprio mandato. Peccato che, così facendo, si spalanchino le porte alle mafie...
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<b>Infiltrazioni della criminalità organizzata: l’appetito vien mangiando</b>
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Secondo Vincenzo Musacchio, criminologo forense, giurista e saggista di chiara fama, «i controlli in itinere sul PNRR servono perché così si monitorano i processi di spesa pubblica senza i quali si rischia davvero che il sistema cada nell’illegalità, nella corruzione e nelle mani della criminalità organizzata»[24]. Purtroppo vari decreti dei governi precedenti (Conte e Draghi) hanno gradualmente elevato la soglia di investimento (sino ai 5.000.000 euro) oltre cui non sono necessarie gare d’appalto ed è concesso l’affidamento diretto dei finanziamenti[25]. Il rischio allora «è di rivolgersi, anche inconsapevolmente, alle imprese colluse con la mafia o a quelle che accettino la corruzione facendo aumentare i prezzi, favorendo il lavoro nero e non garantendo né qualità, tantomeno risparmi di tempo»[26]. Secondo Maria Di Mauro, Procuratore aggiunto della Repubblica presso il Tribunale di Napoli Nord, quello dell’infiltrazione della singola impresa mafiosa non è, però, l’unico rischio: «sodalizi delinquenziali, fortemente radicati nel tessuto economico e sociale, [potrebbero essere in grado] di “gestire” direttamente tutte le procedure di aggiudicazione ed esecuzione delle opere realizzate con fondi pubblici»[27].
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Ora, è vero che gli investimenti risultano meno efficaci senza un coerente adeguamento amministrativo e normativo, ma tale adeguamento può essere fatto in varie maniere. In questo senso giova presentare ancora una volta l’esempio del capitalismo spagnolo, meno interessato a sfruttare la deregolamentazione dell’attività d’impresa in alcuni settori (alias «mafia») per incrementare i profitti e rendere efficaci gli investimenti.
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<b>Un confronto tra Italia e Spagna sul sistema di controllo</b>
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Anzitutto, in Spagna il piano di gestione dei fondi è separato dal piano di controllo, in un’ottica di interazione reciproca tra due ambiti mantenuti differenti. Il piano di controllo è basato sull’implementazione (almeno sulla carta) dei meccanismi già in uso presso la PA, piuttosto che su un loro superamento o «aggiramento». L’indipendenza del potere giudiziario dall’assegnazione e dalla successiva gestione degli investimenti (legislativo ed esecutivo) permette una maggior correttezza (minor spreco di soldi, lavori condotti «a regola d’arte») e linearità nell’applicazione del PNRR. Ciò in virtù di quattro meccanismi di base:
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- monitoraggio dei doppi finanziamenti: l'identificazione, la caratterizzazione e l'assegnazione di progetti o azioni da parte degli enti attuatori e le loro fonti di finanziamento faciliteranno il monitoraggio per evitare il doppio finanziamento;
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- analisi dei conflitti di interesse: l'identificazione dei beneficiari delle sovvenzioni negli inviti a presentare proposte e degli aggiudicatari dei contratti faciliterà l'analisi dei conflitti di interesse;
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- indagine sulla corruzione: l’identificazione dei beneficiari delle sovvenzioni negli inviti a presentare proposte e degli aggiudicatari dei contratti fornirà la base per le indagini sulla corruzione;
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- controllo delle frodi: la natura completa del sistema, che include informazioni sulla gestione e sui risultati dei progetti e delle azioni, il controllo contabile delle spese sostenute e le informazioni sui bandi e sui contratti attuati, faciliterà l'analisi di potenziali frodi.
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Sarà ormai chiaro al lettore quanto detto anche sopra: per un’efficace attuazione degli investimenti serve un piano di assunzioni straordinario a tempo indeterminato nella PA e il miglioramento delle condizioni contrattuali, a partire dagli enti locali, subissati di lavoro per il PNRR e con la forza lavoro meno pagata di tutto il pubblico impiego. Potrebbe essere la soluzione per arrivare almeno a un servizio completo di informazioni pubbliche sull’avanzamento dei progetti finanziati.
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Per completezza citiamo infine un altro fattore – stavolta forse più «tecnico», per così dire – che potrebbe causare ritardi considerevoli: la bassa dimensionalità (e poca esperienza) di molti dei soggetti attuatori, ossia di chi si è aggiudicato l’appalto o se lo è visto affidare, nel caso del pubblico, come piccole imprese, scuole, associazioni, Partite IVA individuali, ecc. Questo è vero nonostante sia comunque forte il ruolo svolto da alcuni grandi soggetti, in primis gli ex-monopoli pubblici (Rfi, Infratel, Anas, ecc.): «i primi cinque soggetti attuatori[28] arrivano a contare per il 18,6%, mentre i primi dieci per il 22,5%»[29].
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In conclusione: la borghesia italiana non sembra essere in grado di portare il paese a quella capacità e organicità dell’intervento economico che sarebbero necessarie per ottenere realmente qualcosa dai fondi PNRR; per far sì, cioè, che non finisca tutto in un po’ di «doping economico», in grado soltanto di attrarre investimenti per qualche tempo e dare così un sollievo momentaneo ai capitalisti nostrani. La consolidata italica strategia di deregolamentazione normativa e di riduzione del costo del lavoro, così necessaria in un paese ad alto tasso di piccole e medie imprese, è la stessa che ha portato alla scomparsa dei piani industriali e all’indebolimento della Pubblica Amministrazione: le competenze per trattare il PNRR come un piano industriale, anziché come una iniezione di ossigeno, non ci sono e non possono essere formate subitaneamente. In questo contesto, i grandi progetti imprenditoriali italiani tendenzialmente sono o naufragati, oppure hanno campato sui finanziamenti statali, rapinando la popolazione per arraffare quanti più denari possibile (specie se provenienti dalla finanza speculativa). Non esattamente quel che si possa dire essere un’iniziativa coordinata ed efficiente. Purtroppo in Italia abbiamo una classe dirigente arraffona, spregiudicata e arrogante, e il modo in cui verranno usati i fondi PNRR lo testimonierà.
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<b>VI. Note conclusive</b>
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La strategia europea descritta dai <i>Flagship programs</i> ruota attorno ad alcune priorità ben definite: il contenimento dei consumi energetici e lo sviluppo di una certa indipendenza dalle fonti estere; l’integrazione economica e l’interconnessione digitale delle varie economie nazionali; l’aumento e il miglioramento (specializzazione) della capacità produttiva.
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Gli Ipcei indicano i settori ritenuti basilari per lo sviluppo economico o perlomeno, tra questi, quelli su cui è possibile adottare piani di sviluppo coordinati a livello comunitario: batterie, idrogeno come fonte energetica, microelettronica e connettività (tecnologie per la comunicazione, Cloud computing)[30].
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L’Italia, dal canto proprio, si trova a interagire con questa strategia da una posizione di relativa difficoltà, dovuta soprattutto alle problematiche storiche che la nostra economia si trascina appresso da decenni: rispetto ai desiderata dei capitalisti, da noi si produce poco, si investe poco e gli investimenti non rendono bene. Il lavoro è poco specializzato e questo anche per via di un tessuto imprenditoriale fatto di moltissime piccole e medie imprese, poco capaci di innovare[31].
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Vedremo nella prossima parte dell’articolo come l’Italia intenda utilizzare i fondi del PNRR per «dimostrarsi utile» e acquisire un ruolo importante nel processo di ristrutturazione economica continentale. Per ora possiamo soltanto affermare che tali fondi non dovrebbero comportare un livello di indebitamento eccessivo e che ci sono stati concessi secondo modalità tutto sommato convenienti, per quanto non esenti da rischi o aspetti potenzialmente problematici[32].
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Preoccupano di più, semmai, le modalità scelte dalla nostra classe dirigente per stimolare gli investimenti privati, che hanno un ruolo necessario e complementare a quelli pubblici del PNRR. Eliminare le lentezze burocratiche e uniformare le procedure amministrative per la gestione degli investimenti, in Italia, vuol dire diminuire i controlli e facilitare la concessione dei permessi per evitare di rafforzare il sistema amministrativo. Quest’atteggiamento sta portando a ritardi e sospensioni nell’affidamento degli appalti, anche per via delle numerose infiltrazioni della criminalità mafiosa. Un aspetto, quest’ultimo, che ci offre già un indizio sulle difficoltà italiane nello «stare al passo» con gli altri paesi[33].
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<b>Note</b>
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[1] Soldi pubblici che non vanno restituiti, non sono soggetti a interessi e non vanno garantiti da adeguate coperture finanziarie o di Enti.
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[2] Europarlamento, dati del 20/12/2023.
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[3] C. Canepa, M. Taddei, Quanto costano davvero i prestiti del Pnrr, «pagella politica», 03/05/2023, https://pagellapolitica.it/articoli/costo-prestiti-pnrr. Ciò testimonia per l’ennesima volta un atteggiamento ingiustificabile da parte del Governo (e di quello precedente), a prescindere da quali siano le cause della mancata pubblicazione. Un Governo che definire «scarsamente consapevole» dei propri oneri e responsabilità nei confronti del rafforzamento dell’ordine democratico-costituzionale equivarrebbe, già oggi, a una colpevole piaggeria.
<br /><br />
[4] Regolamento UE 2021/241, art. 22.
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[5] Redazione Fiscal Focus, La clausola che rischia di far saltare (e restituire) i fondi del PNRR, in «fiscal focus», 01/07/2021 .
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[6] «Quarta economia», a livello di PIL. Sulla base del PIL pro-capite il nostro Paese si trova nella metà inferiore degli Stati dell’UE. Dati 2019, Ragioneria Generale dello Stato.
<br /><br />
[7] PNRR #NextGenerationItalia, p. 10.
<br /><br />
[8] Ministero dell’Economia e delle Finanze, Decreto 8 giugno 2022, art. 4. I capitoli in questione sono il numero 2226, per la spesa per gli interessi dei prestiti del Pnrr, e il 2246, per i costi amministrativi e di gestione, comunque in capo al Paese destinatario dei fondi.
<br /><br />
[9] Ministero dell’Economia e delle Finanze, Decreto di ripartizione in capitoli, pp. 152 e 153.
<br /><br />
[10] Ministero dell’Economia e delle Finanze, Nota integrativa al Disegno di Legge di Bilancio per l’anno 2023 e per il triennio 2023 – 2025, 2022.
<br /><br />
[11] PNRR #NextGenerationItalia, p. 22.
<br /><br />
[12] Esistono infine le riforme d’accompagnamento al Piano, interventi necessari a evitare che, in seguito all’utilizzo dei fondi PNRR, possano sorgere contraddizioni di vario tipo. Interventi di questo genere potrebbero riguardare il regime fiscale, oppure gli ammortizzatori sociali.
<br /><br />
[13] «Prevista nell’ordinamento nazionale dal 2009 (con legge n. 99/2009), la legge annuale per il mercato e la concorrenza è stata in concreto adottata solo nel 2017 (legge n. 124/2017)». Tratto da «PNRR #NextGenerationItalia, p. 79».
<br /><br />
[14] PNRR #NextGenerationItalia, pp. 80-81.
<br /><br />
[15] Ma anche l’intelligenza artificiale, il machine learning, il text mining o l’analisi delle relazioni.
<br /><br />
[16] L’Italia, per esempio, è un importante produttore di tecnologie belliche e controlla segmenti importanti di quelle filiere produttive, mentre al contrario nel settore aeronautico non riesce a esprimere appieno le proprie «potenzialità», trovandosi divisa fra poche grandi imprese di punta e una miriade di aziende minori poco dinamiche.
<br /><br />
[17] «La strategia dei dati viene monitorata anche durante la sua attuazione, ciò significa che lo stato di avanzamento della realizzazione dei progetti viene registrato quantitativamente». Darp (Deutscher aufbau und resilienzplan), p. 339 (traduzione effettuata tramite applicazione informatica).
<br /><br />
[18] L. Rizzo, R. Secomandi, A. Zanardi, Spagna batte Italia «a Pnrr», «lavoce.info», 03/10/2023.
<br /><br />
[19] Ufficio Parlamentare di Bilancio, Memoria della Presidente dell’Ufficio parlamentare di bilancio, 05/12/2023, p. 10.
<br /><br />
[20] Esiste anche la possibilità che il Governo si trovi a praticare comunque alcuni degli investimenti rinviati, finanziandoli però, a questo punto, coi titoli di Stato anziché con i fondi comunitari.
<br /><br />
[21] Ibidem, p. 6.
<br /><br />
[22] Stando alle dichiarazioni degli esponenti di maggioranza, infine, le intenzioni sono di estendere la riforma fino a ridefinire il concetto di «colpa grave» e rendere il più possibile permanenti le attuali, nuove misure, che ad oggi sarebbero transitorie.
<br /><br />
[23] Oggi riservata ad atti o pareri forniti a regioni e comuni e inerenti alle materie di contabilità pubblica, di bilancio o di ordine generale.
<br /><br />
[24] V. Musacchio, Scudo erariale su Pnrr? Rischio aumento corruzione e maggiori infiltrazioni mafiose, «antimafiaduemila», 23/12/2023.
<br /><br />
[25] V. Musacchio, Appalti Pnrr, quasi il 90% è affidato senza gara. Le mafie banchettano, «huffpost», 23/10/2023.
<br /><br />
[26] Ibidem.
<br /><br />
[27] R. Patscot e V. Ricchezza, I fondi del PNRR e le possibili infiltrazioni della criminalità organizzata. Intervista a Maria di Mauro, «unicost», 12/11/2022.
<br /><br />
[28] «Primi soggetti attuatori» per valore dei progetti aggiudicati. Agli attuatori spetta poi il compito di selezionare le imprese esecutrici (compreso, nel caso sia un’impresa, il soggetto attuatore stesso).
<br /><br />
[29] Ufficio Parlamentare di Bilancio, op. cit., p. 12.
<br /><br />
[30] V. Par. II, La strategia della Commissione Europea.
<br /><br />
[31] V. Par. I, La situazione dell’economia produttiva italiana.
<br /><br />
[32] V. Par. III, I termini e le condizioni del prestito.
<br /><br />
[33] V. Parr. IV, Pnrr italiano: obiettivi generali e predisposizione del quadro amministrativo, e V, Pnrr italiano: ritardi nell’utilizzo dei fondi.
<br /><br />
<a href="https://www.machina-deriveapprodi.com/post/attraversando-il-pnrr-ii" rel="nofollow" target="_blank">Fonte</a>Re-Carbonizedhttp://www.blogger.com/profile/07070140938585948393noreply@blogger.com0tag:blogger.com,1999:blog-4800805644070876200.post-73578067832293040962024-03-26T19:27:00.000+01:002024-03-26T19:27:00.132+01:00Assange può fare appello. Estradizione bloccata, per oraJulian Assange ha ancora una carta da giocare per cercare di sfuggire alla contestatissima estradizione negli Usa, che gli danno la caccia da quasi 15 anni.
<br /><br />
Assange è diventato una sorta di nemico pubblico numero uno a Washington per essersi permesso di divulgare, a partire dal 2010, circa 700.000 documenti riservati – autentici e ricchi di rivelazioni agghiaccianti, anche su crimini di guerra commessi fra Iraq e Afghanistan – sottratti al Pentagono o al Dipartimento di Stato.
<br /><br />
L’Alta Corte di Londra ha infatti dato oggi, martedì 26 marzo, il via libera all’istanza della difesa del giornalista australiano e fondatore di WikiLeaks – respinta in primo grado – per un ulteriore estremo appello di fronte alla giustizia britannica contro la consegna alle autorità americane.
<br /><br />
I giudici di secondo grado, Victoria Sharp e Adam Johnson, hanno fissato il nuovo appello per il 20 maggio giudicando non infondate le argomentazioni della difesa sui timori per la vita di Assange.
<br /><br />
Se fosse stato confermato il ‘no’ di primo grado, invece, per Assange sarebbe scattato il termine massimo di 28 giorni per l’estradizione effettiva negli Usa, anche in presenza di un tentativo di ricorso alla Corte europea dei diritti dell’uomo.
<br /><br />
I giudici dell’Alta Corte si erano presi più di un mese, dopo i due giorni di udienza in febbraio, per considerare le argomentazioni dei legali dell’attivista australiano, incentrate sull’idea di “una persecuzione contro la legittima attività giornalistica” e il rischio di una serie di diritti negati davanti alla giustizia americana con l’incubo di una condanna ‘monstre’ di 175 anni di carcere, e quelle delle autorità statunitensi, decise a perseguire chi a loro avviso è andato “oltre i limiti del giornalismo” (quello ridotto a “stenografia” delle dichiarazioni del potere).
<br /><br />
La Corte di Giustizia di Londra ha in pratica chiesto al governo degli Stati Uniti di fornire entro tre settimane garanzie credibili sul fatto che Assange, in caso di estradizione, potrà fare affidamento sul Primo Emendamento della Costituzione degli Stati Uniti (che protegge la libertà di parola), sul fatto che non sarà pregiudicato durante il processo (compresa la sentenza) in ragione della sua nazionalità e che gli saranno concesse le stesse protezioni del Primo Emendamento di un cittadino Usa.
<br /><br />
Sembra folle anche nominarla, ma l’ultima richiesta della Corte riguarda l’esclusione della pena di morte. Come si vede, si tratta di una buona notizia soltanto per metà. L’estradizione per ora non avviene.
<br /><br />
Nei giorni scorsi era circolata la voce di un possibile patteggiamento offerto da Washington ad Assange, incentrato su una dichiarazione di colpevolezza da parte del giornalista per un reato meno grave.
<br /><br />
Si era detto che l’eventuale intesa gli poteva evitare l’estradizione negli Usa, spianandogli la strada verso la libertà, ma si trattava probabilmente solo di una “mossa propagandistica” per diminuire la pressione sugli Usa, diventati ormai agli occhi del mondo uno Stato antidemocratico che si permette di dare lezioni di “libertà”.
<br /><br />
Ma è fin troppo prevedibile che il governo statunitense avrà gioco facile a fornire verbalmente (e documentalmente) “garanzie” che potranno essere riviste o dimenticate una volta che Assange sarà stato portato negli Usa. Chi mai potrà “imporre” a Washington qualcosa?
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<a href="https://contropiano.org/news/internazionale-news/2024/03/26/assange-puo-fare-appello-estradizione-bloccata-per-ora-0170764" rel="nofollow" target="_blank">Fonte</a>Re-Carbonizedhttp://www.blogger.com/profile/07070140938585948393noreply@blogger.com0tag:blogger.com,1999:blog-4800805644070876200.post-2243100428899322912024-03-26T17:40:00.000+01:002024-03-26T17:40:00.131+01:00Reintrodurre la leva obbligatoria per i giovani. Ce lo chiederà l’Europa?I Paesi europei dovrebbero <a href="https://www.milanofinanza.it/news/il-consiglio-europeo-si-prepara-alla-guerra-gli-europei-lo-sanno-202403251937531040" rel="nofollow" target="_blank">reintrodurre il servizio militare obbligatorio e aumentare la spesa per la difesa</a> riportandola ai livelli della Guerra fredda a causa della presunta minaccia proveniente dalla Russia.
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Ad affermarlo in una intervista al <i><a href="https://www.ft.com/content/aa03ef7f-7c09-4c8c-b78e-8e3d892dfb14" rel="nofollow" target="_blank">Financial Times</a></i> è il presidente lettone Edgars Rinkevics, secondo cui “La questione della coscrizione militare deve essere discussa seriamente”.
<br /><br />
Secondo Rinkevics, ciò aiuterà a far fronte ai problemi legati alle carenze di personale nelle forze armate dei Paesi europei, nonostante il fatto che i vertici militari preferiscano “truppe pienamente professionali”. Le autorità della Lettonia hanno ripristinato la coscrizione obbligatoria l’anno scorso, mentre l’Estonia sta prendendo in considerazione questa iniziativa.
<br /><br />
Il governo della Danimarca intende far approvare una legge che, a partire dal 2026, renderà obbligatorio il servizio militare anche per le donne e aumenterà il periodo durante il quale si svolge l’addestramento all’uso delle armi.
<br /><br />
Attualmente le giovani donne danesi possono arruolarsi solo volontariamente nelle forze armate, ma non sono soggette al servizio militare obbligatorio valido invece per gli uomini, estratti a sorte per coprire i posti non occupati dai volontari.
<br /><br />
In tutto l’Occidente le forze armate stanno facendo i conti con una crescente carenza di “vocazioni militari”, cioè con il crollo verticale dei reclutamenti: una tendenza riscontrabile da diversi anni ma che si è aggravata negli ultimi due anni in seguito al conflitto in Ucraina e al rischio tangibile di uno scontro militare tra NATO e Russia.
<br /><br />
Sulle difficoltà del reclutamento di carne da cannone, già da tempo sono emersi problemi in paesi guerrafondai come Stati Uniti, Francia e Gran Bretagna.
<br /><br />
In quest’ultima il 2023 aveva visto un crollo verticale del numero dei militari britannici. A rivelarlo era stato un rapporto del ministero della Difesa di Londra il quale confermava come la tendenza fosse già apparsa evidente nel 2022 ma nel 2023 il numero dei membri delle forze armate britanniche è sceso ulteriormente a 184.860 contro i 195.050 dell’ottobre 2020.
<br /><br />
Negli Stati Uniti la percentuale di giovani americani che prenderebbero in considerazione una carriera militare è scesa dal 13% nel 2018 al 9% nel 2021-22. Nel 2022 la Us Air Force ha scontato un sottoreclutamento del 10% rispetto al fabbisogno di unità.
<br /><br />
La Us Army addirittura del -25%, con un buco di 15.000 soldati corrispondenti alle unità di un’intera divisione. Per il 2023, dal Pentagono fanno sapere che l’obiettivo dell’Esercito di reclutare 65.000 soldati è fallito.
<br /><br />
Ma il problema è venuto fuori anche in Germania da due anni alle prese con una frenesia militarista sconosciuta dalla fine della Seconda Guerra Mondiale.
<br /><br />
La Bundeswehr ha dichiarato di disporre di 181.383 unità invece dei 203.000 che Berlino punta a raggiungere entro il 2025. Nell’ultimo anno il ministro della Difesa Pistorius ha puntato a rendere la carriera nella Bundeswehr più attraente, tra le proposte vi è anche la reintroduzione della coscrizione obbligatoria, sospesa in Germania nel 2011. Provvedimento a cui ha fatto seguito una profonda riforma e riduzione delle forze armate.
<br /><br />
In Europa, ad oggi, la leva obbligatoria esiste ancor in appena otto paesi: Danimarca, Estonia, Finlandia, Lituania, Svezia, Austria, Cipro e Grecia. Ad eccezione della Svezia, la coscrizione obbligatoria riguarda però soltanto gli uomini. Per il resto dell’Unione Europea, si è proceduti all’abolizione graduale, tra il 1992 il 2011.
<br /><br />
L’Italia ha sospeso – ma non abolito – la leva obbligatoria nel 2005. Sono infatti previsti due scenari per i quali il governo potrebbe procedere alla riattivazione della coscrizione obbligatoria: lo stato di guerra o una grave crisi internazionale che richieda un aumento numerico delle Forze Armate.
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Due scenari verso cui l’Italia si sta dirigendo come un treno in corsa. Fermiamoli!
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<a href="https://contropiano.org/news/politica-news/2024/03/26/reintrodurre-la-leva-obbligatoria-per-i-giovani-ce-lo-chiedera-leuropa-0170711" rel="nofollow" target="_blank">Fonte</a>Re-Carbonizedhttp://www.blogger.com/profile/07070140938585948393noreply@blogger.com0tag:blogger.com,1999:blog-4800805644070876200.post-56612177906145838762024-03-26T15:33:00.002+01:002024-03-26T15:33:00.241+01:00Il naufragio della “barca delle spie” italiane e israeliane era una operazione ufficialeUna targa commemorativa è stata dedicata nel corso di una cerimonia ufficiale ai due agenti dei servizi segreti italiani, Claudio Alonzi e Tiziana Barnobi, deceduti nel tragico naufragio avvenuto un anno fa nelle acque del Lago Maggiore.
<br /><br />
Questo gesto conferma ufficialmente che i due agenti italiani deceduti erano coinvolti in una missione operativa delicata e non erano presenti sul posto per partecipare “a una festa di compleanno tra colleghi italiani e del Mossad”.
<br /><br />
Sull’imbarcazione il 28 maggio dello scorso anno infatti erano riuniti 21 agenti dei servizi segreti italiani e del Mossad israeliano. Ufficialmente per una “festa di compleanno”. Adesso sappiamo che invece era per una operazione congiunta dei servizi dei due paesi.
<br /><br />
La barca affondò a una profondità di 16 metri, causando la morte di quattro persone, tra cui i due agenti dell’Aise, l’agente del Mossad Shimoni Erez, 54 anni e di Anya Bozhkova, 50 anni, moglie di Claudio Carminati, armatore e comandante della barca, sopravvissuto.
<br /><br />
La conferma ufficiale del coinvolgimento dei due agenti in missione è giunta durante <a href="https://www.sicurezzanazionale.gov.it/chi-siamo/giornata-della-memoria/commemorazioni/2024" rel="nofollow" target="_blank">una cerimonia tenutasi il 22 marzo dedicata ai Caduti dei servizi di informazione per la sicurezza</a>, come riportato sul sito governativo dedicato al sistema di informazione per la sicurezza della Repubblica.
<br /><br />
“Sono un funzionario della Presidenza del Consiglio” e “Faccio parte di una delegazione governativa israeliana”. Questo si erano limitati a dichiarare un anno fa ai magistrati gli agenti dei servizi segreti italiani e del Mossad testimoni del naufragio e che erano a bordo della ‘Gooduria’, la barca affondata nel Lago Maggiore.
<br /><br />
La cerimonia ufficiale e l’ammissione che quella al Lago Maggiore finita tragicamente era dunque una operazione congiunta tra servizi segreti italiani e israeliani dice molte cose, ma non tutte, sulla collaborazione consolidata tra gli apparati del nostro paese e Israele oggi indagata alla Corte Internazionale di Giustizia per genocidio contro i palestinesi.
<br /><br />
Una collaborazione che secondo molti osservatori è spesso sconfinata nella subalternità.
<br /><br />
È interessante rammentare che a marzo dello scorso anno, due mesi prima del naufragio della barca delle spie italiane e israeliane, Netanyahu era stato in visita in Italia.
<br /><br />
Un veterano del giornalismo italiano come Alberto Negri ci tiene a sottolineare che “L’8 marzo del 2023, praticamente un anno fa, il primo ministro israeliano Netanyahu è venuto a Roma e ha firmato una serie di accordi. Uno, il più importante, è passato praticamente inosservato: si tratta dell’appalto della cybersecurity dei nostri servizi ad Israele. Questo accordo non è piaciuto, al punto che il capo della cybersecurity Roberto Baldoni si è dimesso prima di doverlo firmare...”.
<br /><br />
Esattamente un anno fa, a marzo 2023, Roberto Baldoni, si era dimesso dall’incarico di direttore dell’Agenzia per la Cybersicurezza Nazionale. Era stato messo lì dal governo Draghi nell’agosto del 2021.
<br /><br />
“L’intensa cooperazione tra Italia e Israele nel campo della cybersicurezza, a livello sia istituzionale che privato, è un esempio virtuoso. Ma restano ancora molte opportunità da sfruttare nella sinergia tra i due governi e tra i due mercati“, ha dichiarato a ottobre Alon Bar, Ambasciatore d’Israele in Italia, inaugurando il Padiglione Nazionale Israeliano presso CyberTech Europe 2023, il più grande evento europeo dedicato alla cybersicurezza, organizzato in collaborazione con la Leonardo e giunta alla sua quinta edizione (<i>MilanoFinanza</i>).
<br /><br />
Alla questione della cybersicurezza italiana affidata agli israeliani, Alberto Negri aggiunge poi un altro tassello: “L’Italia, attraverso l’Eni, è andata a firmare un contratto che deruba i palestinesi del proprio gas a Gaza in violazione delle convenzioni internazionali in materia”.
<br /><br />
L’Eni, precisa Negri, avrebbe dovuto quanto meno sospendere l’appalto firmato in precedenza dopo l’inizio dell’operazione. “Questi due episodi di pubblico dominio non hanno innescato che labili proteste interne, ma ci danno la misura di quanto sia grande la subordinazione verso lo Stato di Israele.”
<br /><br />
Sono tanti, troppi, gli episodi di questa subalternità della politica e degli apparati italiani a quella israeliana e forse sarebbe il momento di tirare fuori tutto, anche cosa fanno gli agenti del Mossad a spasso nelle città italiane, e magari di mettere fine a tutto questo.
<br /><br />
<a href="https://contropiano.org/news/politica-news/2024/03/26/il-naufragio-della-barca-delle-spie-italiane-e-israeliane-era-una-operazione-ufficiale-0170729" rel="nofollow" target="_blank">Fonte</a>Re-Carbonizedhttp://www.blogger.com/profile/07070140938585948393noreply@blogger.com0tag:blogger.com,1999:blog-4800805644070876200.post-55625417741065877492024-03-26T13:56:00.000+01:002024-03-26T14:56:43.912+01:00Storia di classe. La svendita dell’articolo 18 dello Statuto dei lavoratoriIl 24 marzo 2002 la Cgil di Sergio Cofferati riempiva il Circo Massimo “contro l’attacco del governo Berlusconi e di Confindustria all’articolo 18“.
<br /><br />
Dal 13 giugno 2004 Sergio Cofferati andrà a fare il “sindaco-sceriffo” del PD a Bologna, carica che manterrà fino al 21 giugno 2009. Dal 2009 al 2019 verrà poi eletto membro del Parlamento europeo sempre nelle liste del Partito Democratico.
<br /><br />
Intanto, il governo guidato dal Partito Democratico di Matteo Renzi approva il Decreto Legislativo 4 marzo 2015 n.23 entrato poi in vigore in data 8 ottobre 2016 e, tristemente, noto come “Jobs Act”.
<br /><br />
Quella norma sciagurata cancella l’articolo 18 dallo statuto dei lavoratori, ovvero, il divieto di licenziamento senza giusta causa e la possibilità di rivolgersi ad un giudice terzo per chiedere il reintegro sul posto di lavoro.
<br /><br />
Ora unite i puntini.
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<a href="https://contropiano.org/news/lavoro-conflitto-news/2024/03/26/storia-di-classe-la-svendita-dellarticolo-18-dello-statuto-dei-lavoratori-0170724" rel="nofollow" target="_blank">Fonte</a>Re-Carbonizedhttp://www.blogger.com/profile/07070140938585948393noreply@blogger.com0tag:blogger.com,1999:blog-4800805644070876200.post-80158282767385118772024-03-26T11:46:00.000+01:002024-03-26T14:52:38.011+01:00Senegal - Vince Faye, leader panafricanistaIl candidato espresso dall’establishment politico senegalese, Amadou Ba, ha riconosciuto nella giornata di lunedì la vittoria di Bassirou Diomaye Faye al primo turno delle presidenziali che si sono svolte domenica.
<br /><br />
É un terremoto politico – <a href="https://contropiano.org/news/internazionale-news/2024/03/22/la-posta-in-gioco-nelle-elezioni-in-senegal-0170616" rel="nofollow" target="_blank">che avevamo previsto oltreché auspicato</a> – non solo per gli equilibri interni al paese africano, ma per le mire occidentali che non trovano più acconsenzienti esecutori dei desiderata dei consigli d’amministrazione delle multinazionali e dell’establishment occidentale.
<br /><br />
Se i risultati finali del primo turno verranno ufficializzati nel corso di questa settimana, è chiaro che l’opposizione ha vinto la sfida elettorale nonostante il processo di criminalizzazione che va avanti almeno dal 2021; è così naufragato il tentativo del presidente uscente Macky Sall di posticipare il voto per restare al potere.
<br /><br />
La commissione elettorale nazionale ha tempo fino a venerdì per pubblicare i risultati “provvisori” prima che vengano validati dal Consiglio costituzionale, ma la vittoria “eclatante” di Faye – scarcerato da poco grazie ad una travagliata amnistia – è un fatto evidente.
<br /><br />
Faye, che fino a poche settimane fa era un “prigioniero politico”, insieme al principale leader dell’opposizione Ousmane Sonko – e a tanti altri – diverrà il 5° presidente del paese dell’Africa Occidentale, con 18 milioni di abitanti, di cui solo 7,3 aventi diritto di voto.
<br /><br />
Faye si definisce legittimamente “candidato del cambiamento di sistema” e di “panafricanismo di sinistra”, insistendo su una sovranità nazionale calpestata dai paesi stranieri con il beneplacito dei loro tirapiedi locali.
<br /><br />
La sua schiacciante vittoria è forse la peggiore notizia che potevano ricevere Parigi e Bruxelles (ma anche Washington) dopo l’affermarsi in Sahel di un nuovo corso politico inaugurato dai colpi di Stato dei “militari patriottici”, sostenuti dalla maggioranza della popolazione, in Mali, Burkina Faso e Niger.
<br /><br />
Il nuovo presidente si era impegnato nel corso della campagna elettorale, tra l’altro, per la rinegoziazione dei contratti minerari, del gas e del petrolio stipulati – a tutto loro vantaggio – dalle compagnie straniere.
<br /><br />
Se in un primo momento, quasi subito dopo la chiusura delle urne, c’era ancora il dubbio di una vittoria al primo turno o il ricorso al ballottaggio, nel corso della giornata di lunedì le cose si sono chiarite definitivamente.
<br /><br />
Gli elettori e le elettrici non si sono sbagliati, ed hanno seguito alla lettera lo slogan in Wolof dell’opposizione: “Sonko moy Diomaye, Diomaye moy Sonko”, letteralmente “Sonko è Diomaye, e Diomaye è Sonko”.
<br /><br />
Sonko era “ineleggibile” per una delle classiche strategie di uso strumentale del potere giudiziario, che si era accanito contro di lui.
<br /><br />
Fin dai primi exit pool le persone sono scese in strada, in particolare i giovani e le donne, per urlare la loro gioia e danzare ai bordi delle strade, e per impedire sempre possibili “colpi di mano” da parte di un potere morente.
<br /><br />
Un’ultima avvisaglia era stata l’indicazione del PDS dell’anziano presidente Abdoulaye Wade che, tre giorni prima del voto, ha chiamato a votare per Faye, per provare a “salire sul carro dei vincitori” dopo essere stato a lungo l’utile idiota delle trame del presidente uscente.
<br /><br />
Già in mattinata 13 candidati su 19 si erano già complimentati con Faye per la vittoria, mentre Ba andava ancora dicendo che “nel peggiore dei casi” sarebbe andato al secondo turno, in data ovviamente imprecisata.
<br /><br />È stata una doccia fredda per l’establishment e, come sempre in questi casi, la tracotanza di un potere crepuscolare appare in tutta la sua paradossale ilarità attraverso le prime dichiarazione di Ba.
<br /><br />
“Il campo che festeggia prima di conoscere il risultato dimostra solamente una volontà di manipolazione e di conquista del potere per vandalismo. Il precipitare del Senegal nell’avventurismo populista non è una fatalità”.
<br /><br />
In realtà, è proprio l’establishment politico che portava la responsabilità di una possibile precipitazione nel caos del paese.
<br /><br />
Dopo la repressione e la messa al bando dell’opposizione, Macky Sall (e Ba) le avevano tentate tutte, cercando di posticipare le elezioni e continuando con la scia di morti: 4 persone hanno perso la vita nelle manifestazioni contro il loro possibile rinvio.
<br /><br />
Una vittoria conquistata attraverso la mobilitazione popolare e l’organizzazione in condizione di “clandestinità” per il PASTEF, che avrà conseguenze dirette in tutta la regione, al di là della frontiera del Senegal.
<br /><br />
Come ha affermato lo specialista di storia senegalese Mamadou Diouf: “la regione è arrivata alla fine del ciclo post-coloniale nato con i primi presidenti. Altri paesi come la Costa d’Avorio potrebbero fare lo stesso”.
<br /><br />
Un effetto domino che si è realizzato sia con i colpi di Stato dei “militari patriottici” sia per via elettorale, e che segna la nuova alba dei popoli africani.
<br /><br />
<a href="https://contropiano.org/news/internazionale-news/2024/03/25/terremoto-politico-in-senegal-vince-faye-leader-panafricanista-0170726" rel="nofollow" target="_blank">Fonte</a>Re-Carbonizedhttp://www.blogger.com/profile/07070140938585948393noreply@blogger.com0tag:blogger.com,1999:blog-4800805644070876200.post-48380136823859587562024-03-26T09:37:00.000+01:002024-03-26T14:43:49.800+01:00Gaza - Il Consiglio di Sicurezza dell’Onu chiede il cessate il fuoco a Gaza<div>Ultim’ora.Il Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite ha approvato per la prima volta una risoluzione per chiedere un cessate il fuoco nella Striscia di Gaza, dopo quattro tentativi falliti.
<br /><br />
Il testo, sostenuto d 14 Paesi tra cui Cina e Russia, è passato dopo che gli Stati Uniti hanno deciso di astenersi, e di non esercitare il diritto di veto. La risoluzione chiede un cessate il fuoco immediato durante il Ramadan e la liberazione di tutti gli ostaggi ancora in mano ad Hamas.
<br /><br /></div><div style="text-align: center;">
*****
<br /></div><div><br />
Il Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite voterà oggi una nuova bozza di risoluzione che chiede il “cessate il fuoco sostenibile e permanente” nella Striscia di Gaza dopo che la Cina e la Russia hanno posto il veto venerdì sulla proposta degli Stati Uniti.
<br /><br />
La nuova bozza chiede “un cessate il fuoco immediato” in concomitanza con il Ramadan, il mese sacro all’Islam, iniziato lo scorso 10 marzo. Il documento chiede anche “il rilascio incondizionato e immediato di tutti gli ostaggi” ancora trattenuti nell’enclave palestinese e la ”rimozione degli ostacoli per la consegna di aiuti umanitari” alla popolazione di Gaza
<br /><br />
La Cina ha annunciato che sosterrà la nuova bozza di risoluzione al Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite su un cessate il fuoco “immediato” a Gaza, un via libera che arriva dopo che Pechino, insieme alla Russia, venerdì aveva posto il veto su un testo proposto dagli Stati Uniti.
<br /><br />
“La Cina sostiene questa bozza di risoluzione e loda l’Algeria e gli altri Paesi arabi per il loro duro lavoro in questo senso”, ha detto il portavoce del ministero degli Esteri Lin Jian. “Speriamo – ha aggiunto – che il Consiglio di sicurezza la approvi il prima possibile e invii un segnale forte per la cessazione delle ostilità”. Il voto al Palazzo di Vetro è previsto in giornata.
<br /><br />
Israele ha nuovamente bloccato l’ingresso di tutti i convogli di cibo nel nord della Striscia di Gaza questa settimana, ha detto il commissario generale dell’Agenzia delle Nazioni Unite per i rifugiati palestinesi (UNRWA), Philippe Lazzarini.
<br /><br />
“A tutti i nostri convogli di cibo è stato negato l’accesso al nord di Gaza questa settimana. Con un accesso senza ostacoli, questa fame causata dall’uomo può ancora essere evitata”, ha dichiarato sabato scorso Lazzarini.
<br /><br />
La sua dichiarazione arriva dopo che Israele ha negato per la seconda volta questa settimana l'ingresso di un convoglio di cibo a nord e alcuni giorni fa ha vietato anche l’ingresso a Gaza allo stesso Lazzarini.
<br /><br />
Il segretario generale delle Nazioni Unite, Antonio Guterres, ha dichiarato durante una visita in Giordania che c’è un crescente consenso internazionale per dire a Israele che è necessario un cessate il fuoco e che un assalto a Rafah causerebbe un disastro umanitario.
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Israele intanto sta cercando di bypassare i suoi fornitori militari storici per ottenere armi e materie prime da punti vendita non americani e superare le lacune materiali delle attrezzature da combattimento critiche, ha riferito lunedì mattina la televisione israeliana <i>KAN New</i>s.
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Un funzionario della sicurezza israeliana intervistato dalla televisione sostiene che “le crescenti critiche e la delegittimazione alimentate sia dai gruppi musulmani che dagli antisemiti mettono in pericolo il trasferimento di munizioni e la guerra da parte dagli Stati Uniti.
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Si teme che le tensioni con gli Stati Uniti siano accentuate dall’eventuale ingresso di truppe israeliane a Rafah e dalla questione umanitaria a Gaza e che questi fattori influenzeranno la volontà degli americani di continuare ad assistere Israele con la stessa intensità”.
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L’ex capo del Dipartimento di Pianificazione del Comando di Stato Maggiore israeliano, il Maggiore Generale Nimrod Scheffer, ha escluso un attacco israeliano su larga scala a Rafah, nel sud della Striscia di Gaza.
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Ha detto in un’intervista a <i>103 FM</i> di Maariv che una tale operazione non è possibile senza il via libera di Washington.
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Scheffer, che in precedenza ha diretto la Israeli Aerospace Industries Company, ha detto che gli Stati Uniti “hanno il potere di prendere la decisione su Rafah”, non Israele, “e che è ridicolo per (il primo ministro israeliano Benjamin Netanyahu) resistere anche sapendo che non combatteremo e che gli americani si rifiutano di farlo”.
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Al contrario, Scheffer ha previsto operazioni militari limitate a Rafah, che, a suo avviso, non assomiglieranno ai grandi attacchi lanciati da Israele nella Striscia di Gaza nei primi cinque mesi dell’aggressione israeliana.
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“Una grande operazione a Rafah era possibile (solo) nelle prime settimane di guerra, ma non abbiamo combattuto e l’opportunità non è più disponibile”, ha detto.
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Scheffer ha anche fortemente criticato Netanyahu per aver contraddetto l’amministrazione statunitense sulla questione dell’invasione di Rafah, nonostante il sostegno senza precedenti di quest’ultima a Israele.
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L’ex funzionario, tuttavia, ha affermato che la “testardaggine” di Netanyhau sulla questione non è in realtà sincera. “Mente quando manda questo messaggio. I comandanti dell’esercito sanno che non combatteranno a Rafah se gli americani chiederanno che ciò non accada”.
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<a href="https://contropiano.org/news/internazionale-news/2024/03/25/gaza-si-torna-a-ipotizzare-ua-tregua-oggi-il-voto-al-consiglio-di-sicurezza-dellonu-0170714" rel="nofollow" target="_blank">Fonte</a></div>Re-Carbonizedhttp://www.blogger.com/profile/07070140938585948393noreply@blogger.com0tag:blogger.com,1999:blog-4800805644070876200.post-16414960229670180952024-03-25T23:19:00.001+01:002024-03-25T23:19:00.136+01:00Frusciante al Cinema [Patreon]: "Mimì – Il principe delle tenebre" di B. De Sica<div class="separator" style="clear: both; text-align: center;"><iframe class="BLOG_video_class" allowfullscreen="" youtube-src-id="4S73_1tJi3I" width="480" height="360" src="https://www.youtube.com/embed/4S73_1tJi3I"></iframe></div>Re-Carbonizedhttp://www.blogger.com/profile/07070140938585948393noreply@blogger.com0tag:blogger.com,1999:blog-4800805644070876200.post-35330870157528819582024-03-25T21:22:00.000+01:002024-03-26T14:36:46.612+01:00Il terrorismo e la guerra contro la RussiaAlcune semplicissime osservazioni a proposito dell’attentato di Mosca, anche “terra-terra” si può dire, mutuate da varie “fonti”.
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Le sanzioni euroatlantiche contro la Russia hanno dimostrato di non avere particolari effetti sull’economia russa, mentre ne hanno di sempre più manifesti su quelle “europeiste”.
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Anche i miliardi di dollari e di euro sottratti alla spesa pubblica e gettati nel calderone del complesso militare-industriale occidentale per rimpinguare di armi i nazigolpisti di Kiev, dimostrano di non raggiungere l’effetto proclamato.
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Non funziona nemmeno la chiamata <i>urbi et orbi</i> a “stringersi attorno all’Ucraina”: le masse popolari e i lavoratori occidentali non intendono più pagare il “sostegno all’Ucraina aggredita” con il precipitare dei propri livelli di lavoro e di vita.
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Tanto più che anche la famosa “controffensiva di primavera” del 2023, a suo tempo presentata come moderna <i>Vergeltungwaffe</i> in veste banderista, si è risolta in una disfatta dietro l’altra per le truppe ucraine, rinsanguate con giovani e anziani accalappiati per le strade, privi di ogni motivazione e anzi assolutamente contrari a morire per gli interessi delle cricche euroamericane e delle élite oligarco-naziste di Kiev.
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Cosicché, anche il martellamento propagandistico sui “valori occidentali sotto attacco di Mosca” deve formalmente cambiare di impostazione, virando dal “dovere di difendere Kiev”, all’aperta chiamata alle armi contro “Mosca che minaccia l’intera Europa”.
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Ecco allora che, di fronte al fallimento di tutte le “strategie” fin qui tentate, si ricorre alla via del terrorismo: gli assalti dei neo-vlasoviani “partigiani russi filo-ucraini” alle cittadine confinarie della regione di Belgorod, in vista delle elezioni presidenziali russe e l’attacco in “stile islamista-caucasico” del 22 marzo, ai confini nordoccidentali della periferia di Mosca, a voto concluso.
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L’obiettivo è quello di cercare di aprire un solco tra la popolazione e il Cremlino, che porti a una rivolta interna “euroatlantista”: un obiettivo che i clan liberal-europeisti della “dissidenza” russa perseguono per altra via, puntando forse non tanto a far presa sulle masse dei lavoratori, che dovrebbero invece rimanere atterrite dai fiumi di sangue dei raid terroristici, quanto piuttosto sulle congreghe oligarchiche che più perdono dalla contrapposizione Washington-Bruxelles-Mosca.
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Del resto, già nel 2014, i “più fini” cervelli yankee, di fronte ai ripetuti smacchi di attacchi diretti (all’epoca, ancora non armati) vedevano quale unica soluzione «una pallottola sparata alla nuca di Putin» da qualcuno degli oligarchi russi più vicini alla cerchia presidenziale.
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Ma, sia con una strada che con l’altra – “dissidenza” o terrore – l’effetto più probabile è esattamente contrario a quello voluto e porta, volenti o nolenti, al riproporsi della famosa formula: «<a href="https://www.lantidiplomatico.it/dettnews-per_il_voto_in_russia_mosca_ringrazia_loccidente_e_i_golpisti_di_kiev/52637_53664/" rel="nofollow" target="_blank">il potere rimase saldo e il popolo fedele</a>», così che il nemico, alla fine dei conti, non raggiunge nessuno degli obiettivi postisi.
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Irina Alksnis, su <i>RIA Novosti</i>, osserva semplicemente che l’Occidente è venuto a trovarsi di fronte a una tale disfatta – militare, geopolitica, economica – nella propria guerra contro la Russia, da sentirsi minacciato nelle finanze e in «tutti i privilegi derivanti dalla leadership globale»: una minaccia di rapido collasso generale, non solo militare.
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Così, le uccisioni di civili nelle zone confinarie, prima, e ora l’eccidio del “Krokus”, non sono che il tentativo disperato di «fiaccare il nostro popolo», ma finiscono per ottenere l’effetto contrario, spingendo i russi a serrare ancor più le file.
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E uno dei veterani dei social russi, il perenne <i>“La voce di Mordor”</i>, ha buon gioco nell’affermare che esecutori, committenti e intermediari della strage del 22 marzo non hanno capito e non capiscono nulla della Russia.
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Questo, indipendentemente da chi realmente siano gli esecutori materiali e a quali “alternative” religiose-nazionalistiche dicano di far riferimento, tra le altre cose, contravvenendo al rituale islamista di farsi uccidere sul luogo della strage e fuggendo così platealmente verso il confine ucraino, quasi a mettere alla prova la perspicacia degli investigatori, come a dire: “saranno loro una volta più astuti, o noi due volte più stupidi?».
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Quanto poi a committenti e intermediari, rimangono pochi dubbi, tanto che il 23 marzo la <i>CNN</i>, oltre ad imboccare gli “oceanisti” italici sull’asserto che la Russia utilizzerà l’attentato come ulteriore giustificazione del conflitto in Ucraina, pronostica addirittura nuove stragi contro aerei e scuole.
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Sia come sia, la strada è segnata: da un lato, tentare sempre di nuovo lo sfaldamento della società russa – qui non si tratta delle contrapposizioni di classe, ben presenti, e del carattere di classe del potere eltsiniano-putiniano, pur coi seri distinguo tra i due periodi della storia post-sovietica – portando il terrore in casa, data l’accertata impossibilità di resistere sul campo di battaglia.
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Dall’altro lato, preparare i paesi liberal-europeisti alla guerra aperta, inculcando nelle proprie popolazioni il dogma della “inevitabilità” della guerra, del suo carattere “sacrosanto” per i “valori occidentali” e, soprattutto, della “normalità” di una guerra contro la Russia.
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Ma, quegli imbecilli che si ritrovano il pomeriggio a smarronare nelle sale da tè di Bruxelles, Parigi, Roma o Londra, si pongono la elementarissima domanda di cosa possa significare una “guerra con la Russia”?
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Non sono state sufficienti le campagne di Napoleone e di Hitler, a fornire qualche minima lezione di intelligenza?
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Lasciamo stare la carneficina in cui, nel 1914, i capitali anglo-francesi coinvolsero lo zarismo, i cui generali, salvo rarissime eccezioni, mandarono al macello i propri soldati senza una qualche strategia che non fosse quella del bestiale massacro.
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Ma, oggi, quegli imbecilli, pensano forse che poche centinaia di migliaia di “professionisti della guerra” e mercenari tagliagole occidentali potrebbero riuscire a fare in Russia quello che i nazisionisti israeliani stanno facendo coi civili palestinesi?
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In una guerra “convenzionale” – non parliamo nemmeno di un conflitto nucleare – in cui i “potenti” carri armati euro-yankee verrebbero liquidati prima ancora di mettersi in marcia, in cui a ogni missile lanciato da ovest si risponderebbe con quattro-cinque missili partiti da est, quelle poche centinaia di migliaia di “professionisti” (pensano forse di riattivare la leva obbligatoria, per far fare ai giovani dei paesi europei la fine dei poveri giovani ucraini che Washington impone a Kiev di mandare al macello? E, anche in quel caso, quanti anni sarebbero necessari per cercare di avere interi eserciti di leva? E con quale “spirito guerresco” i nostri giovani partirebbero per il fronte a vantaggio degli interessi militar-finanziari europei?) si impantanerebbero senza scampo nelle pianure russe prima ancora di trovarsi di fronte alcune decine di milioni di soldati russi che, a differenza degli inermi civili palestinesi, saprebbero bene cosa contrapporre ai nuovi nazi-europeisti: ecco, in una simile malaugurata guerra, i novelli Napoleon-hitleriani troverebbero pane per i loro denti e, purtroppo, anche per i nostri.
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Quegli imbecilli di Bruxelles, Parigi, Roma o Londra (non i cervelloni di Washington, che sanno bene come servirsi della carne da cannone altrui) anche senza bisogno di andare troppo indietro nel tempo, non hanno imparato nulla della lezione impartita appena una settimana fa dal voto presidenziale in Russia, anche volendo accettare la necessaria tara di percentuali da verificare?
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Quegli imbecilli, non hanno ancora imparato la lezione de «il potere è rimasto saldo e il popolo fedele», che si ripete ogni qualvolta i russi si sentano attaccati dall’esterno e percepiscano l’attacco come portato a loro stessi in prima persona, al di là di chi sieda al Cremlino?
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E c’è da star sicuri che, questa malaugurata volta, i milioni di uomini russi che prontamente correrebbero alle armi per respingere l’aggressione, non si affiderebbero nemmeno al cosiddetto “piano scita” strategico di erodotiana memoria: non lascerebbero al nemico né il tempo né il modo di penetrare in profondità in territorio russo, ma lo accoglierebbero, come dovuto, sulla soglia di casa.
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Imbecilli!
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<a href="https://contropiano.org/news/internazionale-news/2024/03/25/il-terrorismo-e-la-guerra-contro-la-russia-0170692" rel="nofollow" target="_blank">Fonte</a>Re-Carbonizedhttp://www.blogger.com/profile/07070140938585948393noreply@blogger.com0tag:blogger.com,1999:blog-4800805644070876200.post-14183681693092521752024-03-25T18:02:00.000+01:002024-03-25T18:02:00.141+01:00Attraversando il PNRR. Parte I: piani Ue e classe dirigente italiana (I)Le difficoltà economiche del capitalismo italiano sono il frutto di scelte sbagliate dell’attuale ceto imprenditoriale, che si sta dimostrando inadeguato e magari poco dinamico o hanno radici più profonde?
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Quale la ratio dietro l'implementazione del PNRR e quali gli obiettivi generali che si pone il piano italiano? In che modo potrà incidere sul tessuto produttivo e sul posizionamente dell'economia italiana nella divisione internazionale del lavoro?
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Parte da queste domande il preciso studio, articolato in più parti di cui oggi pubblichiamo la prima, che proponiamo su «transuenze» a cura di Emiliano Gentili, Federico Giusti e Stefano Macera.
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<b>I. La situazione dell’economia produttiva italiana</b>
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Non saremo certo i primi a parlare delle difficoltà nelle quali da tempo si dibatte l’economia italiana. Lo hanno fatto governi e centri studi, fondazioni legate a poteri economici e finanziari e analisti di varia provenienza ogni qual volta dovevano proporre, supportare e approvare controriforme in materia di lavoro, previdenza e spesa pubblica. Del resto sono decenni che, a confronto con i Paesi più sviluppati, l’Italia sta accumulando ritardi nello sviluppo dei propri fondamentali (produttività del lavoro, entità e rendimento degli investimenti, implementazione dei processi produttivi e delle infrastrutture territoriali). È possibile che questi ritardi strutturali stiano determinando un rischio sempre più concreto di espulsione dell’Italia da alcuni dei mercati più importanti e remunerativi nei quali le imprese nazionali sono da tempo collocate e, secondo la nostra lettura, ciò finirebbe per comportare un ulteriore progressivo impoverimento delle fasce popolari.
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Queste difficoltà di sviluppo sono note da tempo e se ne intravedono già i risultati:
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- «Tra il 1999 e il 2019, il Pil in Italia è cresciuto in totale del 7,9 per cento. Nello stesso periodo in Germania, Francia e Spagna, l’aumento è stato rispettivamente del 30,2, del 32,4 e del 43,6 per cento»[1];
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- l’andamento della produttività è «molto più lento in Italia che nel resto d’Europa. Dal 1999 al 2019, il Pil per ora lavorata in Italia è cresciuto del 4,2 per cento, mentre in Francia e Germania è aumentato rispettivamente del 21,2 e del 21,3 per cento»[2]. Nel 2021 il divario nei confronti dei Paesi del G7 ha toccato il 25,5%[3];
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- l’entità degli investimenti è in diminuzione rispetto ai livelli degli altri Paesi «avanzati» e, difatti, «Nel ventennio 1999-2019 gli investimenti totali in Italia sono cresciuti del 66 per cento a fronte del 118 per cento nella zona euro»[4];
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- anche l’efficienza degli investimenti è in netto calo. La TFP[5], un indicatore economico che descrive il rendimento di un’economia in rapporto alle proprie potenzialità, «è diminuita del 6,2 per cento tra il 2001 e il 2019, a fronte di un generale aumento a livello europeo»[6] (e non solo).
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Parallelamente, fra il 1991 e il 2022, i salari sono cresciuti di appena l’1%, contro il 32,5 della media dei Paesi Ocse[7], mentre i salari reali (che rappresentano ciò che realmente, in base ai prezzi delle merci e dei servizi, si può comprare con la quantità di denaro ricevuta ogni mese) sono diminuiti del 12% fra il 2008 e il 2022[8]. Si consideri, poi, che l’indice[9] che misura i salari reali non tiene conto dell’aumento dei prezzi dei beni energetici importati… e abbiamo detto tutto.
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Il sistema imprenditoriale italiano, dunque, soffre grosse difficoltà. È chiaro che vi sia un tentativo di scaricare il peso di questa situazione sulle spalle dei lavoratori e delle lavoratrici ed è soprattutto per questo che vogliamo restituire a chi legge un’immagine intuitiva di quanto sta accadendo. Lo facciamo prendendo dati chiari e relativamente semplici per ricostruire criticamente un punto di vista alternativo ed evitando, volutamente, di sviluppare una spiegazione magari «più esaustiva», ma tecnica e difficile e per questo destinata a una ristretta cerchia di lettori; di «addetti ai lavori», per intenderci.
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Quanto detto finora è sufficiente a porci una prima domanda: queste difficoltà economiche del capitalismo italiano sono il frutto di scelte sbagliate dell’attuale ceto imprenditoriale, che si sta dimostrando inadeguato e magari poco dinamico, o hanno radici più profonde?
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Fondamentalmente la risposta giusta è la seconda e, su questo, è difficile avere dubbi. Ma quali sono, allora, queste radici? Volendo fornire un quadro funzionale – per quanto ancora una volta non esaustivo – del problema, potremmo individuare due elementi fondamentali: la progressiva riduzione del totale delle ore lavorate[10]; la scarsa dimensione delle aziende del tessuto imprenditoriale italiano, ossia la forte, fortissima presenza di piccole e medie imprese (Pmi).
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<b>La specializzazione della forza-lavoro</b>
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Anche negli altri Paesi europei si è verificato un calo delle ore lavorate, ma a fronte di una riallocazione della forza-lavoro rimasta attiva in segmenti produttivi più remunerativi e tecnologici. Tendenzialmente, questi ultimi prevedono una riduzione del numero di lavoratori necessari e garantiscono, allo stesso tempo, utili nettamente maggiori. La riduzione delle ore lavorate, pertanto, può essere dovuta a cause differenti. Da noi, probabilmente, ha il significato dell’abbandono di quote di mercato e di delocalizzazione all’estero di parte delle attività produttive[11], con l’obiettivo di abbassare il costo del lavoro e recuperare, così, margini di competitività nei confronti della concorrenza; altrove dall’Italia, invece, si è spesso accompagnata a un incremento del lavoro specializzato, anche operaio (per dirla nei termini capitalisti: valorizzazione delle competenze nel lavoro).
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Qual è il motivo di tale differenza? Presupposti per l’innesco di un processo di specializzazione del lavoro sono: l’esistenza di aziende dotate di un processo lavorativo moderno e tecnologico, efficiente e Lean (senza sprechi di tempo e risorse, associato a un alto grado di controllo, anche psicologico, della forza-lavoro); la presenza, sul territorio nazionale, di un contesto adeguato all’operatività di questo tipo di aziende, ossia essenzialmente di infrastrutture all’avanguardia quali le reti a banda ultra larga (fibra, FWA, 5G), che consentano lo sviluppo aziendale del <i>cloud computing</i> e della <i>big data analytics</i>, oppure le tecnologie satellitari («SatCom, Osservazione della Terra, Space Factory, In-Orbit Economy»[12]); una logistica moderna (implementazione delle reti ferroviarie, stradali, marittime e aeree) e integrata (maggior efficienza nel passaggio delle merci fra un tipo di rete e l’altro); una giurisdizione e un’amministrazione statale moderne, digitali e interconnesse; un sistema di formazione orientato ai bisogni delle imprese e al lavoro in generale (atto a sviluppare le competenze adeguate per la forza-lavoro di un sistema imprenditoriale di livello).
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L’obiettivo economico della specializzazione del lavoro è invece quello di aumentare i rendimenti, favorendo «imprese o industrie capaci di svolgere un ruolo chiave nelle moderne filiere internazionali, presidiando i nodi di maggior pregio dal punto di vista tecnologico ed economico e rendendosi così indispensabili nei nodi che garantiscono controllo strategico, maggior redditività e migliori prospettive future»[13].
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<b>Il riposizionamento presso i settori economici più remunerativi</b>
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La collocazione delle aziende in un nodo specifico del mercato, qualunque esso sia, è detta «posizionamento». Il miglioramento di posizione viene chiamato <i>upgrading</i>; il peggioramento, <i>downgrading</i>. Il posizionamento di un’impresa ne indica il «livello», il <i>rank</i>, il «grado» (all’interno del quale è comunque possibile sviluppare fatturati più o meno grandi). Complessivamente (per semplificare), il posizionamento delle aziende di un Paese può comunicare il «livello generale» dello stesso, per quanto quasi non esistano indicatori economici specifici atti a descrivere tale aspetto[14]. Utilizzando le suddette categorie, l’Italia potrebbe essere dipinta come un Paese «a rischio downgrading».
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Ma in cosa consiste, concretamente, questo riposizionamento delle attività economiche? Quali sono le posizioni che garantiscono un guadagno maggiore e quali, invece, no? Facendo degli esempi, quelle che garantiscono un miglior ritorno dell’investimento tendenzialmente sono: «assemblaggio dei componenti finali (a maggior ragione se ad alto tasso di sviluppo tecnologico); lavorazioni con alto contenuto di competenza specialistica; distribuzione finale ai clienti; progettazione; ricerca e sviluppo; elaborazione dell’informazione; marketing; gestione della proprietà intellettuale; commercializzazione; assistenza post-vendita». Quelle meno remunerative, al contrario, potrebbero essere individuate in fasi come «assemblaggio componenti poco costosi, o a basso contenuto tecnologico, o relativi alle fasi iniziali della produzione, o intercambiabili (cioè, non esclusivi di un solo tipo di merce), ecc.; logistica relativa a queste fasi; lavoro manuale non specializzato; lavoro impiegatizio non specializzato»[15]. Si noti che si tratta di attività ripetitive, tipicamente operaie.
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L’estrazione delle materie prime è generalmente, anch’essa, un passaggio molto remunerativo, il che la dice lunga sull’importanza del controllo politico e/o economico di certi territori o Stati e sulla causa di molte guerre (così come sui reali interessi che stanno dietro le prospettive di «riconversione ecologica»).
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Di norma i passaggi citati sono tutti presenti all’interno della catena di trasformazione di una materia prima in prodotto finito e, con ciò, in merce per il mercato di destinazione finale. Tale catena è comunemente detta <i>supply chain</i>. Le <i>supply chain</i> sono assolutamente internazionali, a partire da quelle di rilevanza economica e strategica, e i vari Paesi lottano per accaparrarsi le migliori posizioni.
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Le politiche economiche e commerciali, così come la «geopolitica» e le attività militari, a nostro avviso servono a sostenere processi di posizionamento verso l’alto (<i>upgrading</i>) e a scongiurare lo scivolamento verso il basso (<i>downgrading</i>).
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È chiaro, dunque, che l’aumento del PIL, della produttività del lavoro, dell’entità e dell’efficienza degli investimenti siano oggi legati all’avvio di un processo generale di specializzazione del lavoro o, per meglio dire, all’implementazione dei processi produttivi centrali per sostenere i risultati economici del Paese. I settori delle <i>supply chain</i> in grado di garantire accrescimenti maggiori dei capitali investiti vedono tutti, non a caso, un ruolo centrale della forza-lavoro specializzata.
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<b>Rischio downgrading per l’Italia?</b>
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Se l’Italia vuole scongiurare il rischio <i>downgrading</i> del proprio «sistema-Paese», allora, deve obbligatoriamente sviluppare un contesto economico adatto a battere la concorrenza in tali settori, in maniera da monopolizzarli il più possibile e da garantirsi una posizione stabile all’interno di questi[16]. La scelta degli alleati «geopolitici» è essenziale, in tal senso, e viene fatta sulla base delle relazioni economiche e commerciali esistenti e della strategia per lo sviluppo di quelle future[17]. Il collocamento del nostro paese all’interno dell’Ue e della Nato rappresenta pertanto una scelta strategica difficilmente discutibile, a meno di non voler tentare opzioni politiche radicali, per le quali andrebbero però sviluppati programmi politici ed economici nuovi che al momento non esistono o sono relegati ad un ambito prettamente ideologico. In questo senso, il presente articolo costituisce il tentativo di mettere a disposizione della comunità militante perlomeno una prima e parziale rappresentazione complessiva dei fondamenti della realtà politica in cui operiamo, con una forma e un contenuto condivisibili (al di là delle reciproche differenze) e intelligibili, seppur magari – e ce ne rendiamo conto – con fatica.
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La rappresentazione complessiva del nemico ci è stata occasionalmente offerta all’interno del PNRR[18], un documento di quasi trecento pagine che indica con chiarezza la direzione dello sforzo del nostro ceto imprenditoriale per non perdere posizioni all’interno del mercato internazionale. Questo documento, tuttavia, non ci sembra sincero: dipinge un quadro in cui l’Italia sembra essere al centro dei processi di implementazione economica continentali (europei) e ciò ci lascia perplessi. La classe dirigente ha una sua propria ideologia e la nostra analisi, che seguirà queste righe introduttive, proverà a verificare se l’Italia sia veramente una pedina di primaria importanza nella strategia con cui il cosiddetto «blocco occidentale» vuole affrontare la concorrenza (economica, politica e militare) asiatica, oppure se stia invece accettando un ruolo di secondo piano nella «divisione internazionale del lavoro», vale a dire nella spartizione delle migliori posizioni all’interno delle <i>supply chain</i>.
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I processi di «industrializzazione di ritorno» (diminuzione delle delocalizzazioni produttive all’estero, nei settori economici strategici), di nuova industrializzazione (ad esempio per lo sviluppo, sul suolo nazionale e continentale, di un forte settore di produzione di semiconduttori e di componentistica avanzati) e di espansione del settore delle energie rinnovabili (indipendenza dalle forniture energetiche estere e produzione in loco di energia) sono probabili quanto affidabili indicatori del ruolo assegnato, al momento, al nostro Paese.
<br /><br />
Si tenga presente che l’Ue non è uno Stato, ma essenzialmente un’organizzazione di razionalizzazione economica che mira innanzitutto all’efficientamento dei processi economici e produttivi e che, di conseguenza, le decisioni della Commissione sono almeno in parte il frutto di rapporti di forza fra Stati e interessi diversi, piuttosto che di una strategia comune, condivisa e relativamente consapevole.
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<b>Dimensione delle aziende italiane</b>
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Per quanto concerne la scarsa dimensionalità aziendale italiana, anche detta «nanismo dimensionale», è importante capire come e perché la diffusa presenza di piccole e medie imprese (Pmi) sia essenzialmente un ostacolo allo sviluppo economico, nonostante possa presentare anche dei potenziali vantaggi (ma meno di quanto dica la nostra classe dirigente).
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Anzitutto, gli svantaggi: difficoltà a sostenere economicamente, pianificare consapevolmente e mettere in atto investimenti di sviluppo e i conseguenti processi di implementazione tecnologico-digitale; difficoltà di coordinazione fra le varie attività imprenditoriali di una stessa <i>supply chain</i> (il che va a compromettere il rendimento).
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Dal lato dei vantaggi: capacità di specializzazione aziendale (potenzialmente) maggiori; possibilità di mutare più rapidamente la strategia commerciale e produttiva dell’impresa, ossia di riorientare il proprio business.
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Entriamo nel dettaglio di ognuno di questi aspetti e spieghiamo, per bene, cosa intendiamo dire.
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<b>Processi di sviluppo e relativi investimenti</b>
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Da un’importante ricerca accademica condotta sulle imprese italiane [Secchi, Cannas, Ciano, Saltalamacchia e Vigorelli, 2022] è risultato che, mediamente, la digitalizzazione dei processi lavorativi (in particolare, l’adozione di Intelligenza Artificiale) conduce a vantaggi competitivi maggiori tanto più grande è la dimensione dell’azienda[19]. Le Pmi, dunque, non sembrano essere in grado di sfruttare i vantaggi della digitalizzazione quanto le grandi imprese e, frequentemente, nemmeno di avviare i processi di innovazione. In generale le difficoltà sembrano dipendere sia dalla mancanza di personale in grado di gestire le nuove tecnologie che dall’elevato costo degli investimenti e, questo, vale anche per le grandi imprese. Le Pmi, tuttavia, presentano forse le problematiche più ingenti: innanzitutto perché, per definizione, possiedono capitali aziendali più piccoli[20], ma poi anche perché incontrano «maggiori difficoltà sia a ridurre occupazione (per effetto delle resistenze di carattere personale dell’imprenditore, oppure per le difficoltà organizzative dovute al licenziamento) sia a trovare adeguate posizioni ai lavoratori più qualificati»[21]. Se a volte in alcune analisi non viene riscontrata una maggiore difficoltà delle Pmi a sostenere la digitalizzazione, probabilmente il motivo è che il tipo di digitalizzazione voluta e i risultati attesi (e, con ciò, il livello di investimento e le «competenze» richieste) sono, di norma, diversi da quelli delle grandi aziende.
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<b>Avvento della Intelligenza artificiale e delle tecnologie <i>dual use</i></b>
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Prescindendo per un momento dalle dimensioni aziendali, sembrerebbe possibile «evidenziare come l’importanza dell’IA sia più facilmente percepibile, senza particolari differenze rispetto alle dimensioni di impresa, quando collegata agli ambiti più operativi»[22]. Un’indicazione importante, se si ha coscienza del fatto che l’implementazione della tecnologia digitale conduce in molti settori, ma soprattutto negli ambiti operai della manifattura e della logistica, a un aumento dei ritmi di lavoro, alla saturazione dei tempi (eliminazione di pause e «tempi morti»), al deterioramento della salute personale e a un netto aumento del controllo aziendale sul dipendente [Fontana, 2021]. Quello della digitalizzazione industriale è un processo che genera contraddizioni trasversali ai differenti settori lavorativi, comprendendo gli impiegati, il settore dei servizi e la logistica «di ultimo miglio» (<i>drivers</i> e <i>riders</i>). La cosiddetta «eccellenza operativa» (ossia il perfezionamento dei processi lavorativi a danno dei dipendenti, unito a una più efficiente razionalizzazione delle risorse e a una riduzione di sprechi, guasti-macchina ed errori di processo) sembra dipendere dall’adozione di tecnologie digitali per ogni grado di dimensionalità aziendale, anche se, tendenzialmente, in misura direttamente proporzionale alle dimensioni: più è grande l’azienda e più, mediamente, la digitalizzazione gioca un ruolo chiave[23].
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<b>Coordinamento della <i>supply chain</i></b>
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Un rendimento veramente elevato è ottenibile solamente armonizzando l’intera catena produttiva, sincronizzando i vari passaggi, coordinando e uniformando le modalità organizzative fra le varie aziende interessate lungo la <i>supply chain</i>. Questo porta immancabilmente a ridurre le tempistiche e i costi. L’elevata presenza di Pmi nel nostro Paese è una delle principali ragioni per cui i segmenti di <i>supply chain</i> nei quali «siamo» presenti tendano a non essere coordinati ed «efficientati» (il caso opposto si verifica quando un’unica grande azienda gestisce un intero segmento della catena produttiva, magari anche attraverso l’utilizzo di esternalizzazioni e di aziende controllate). Oltre agli aspetti operativi della produzione aziendale, dunque, la pianificazione del business e del processo lavorativo rappresentano l’altra grande area privilegiata di intervento tramite adozione di tecnologie digitali. Nello specifico stiamo parlando di: pianificazione del business; analisi, controllo e correzione della messa in pratica del piano; gestione delle performance, dei dati, delle risorse umane, degli asset (programmazione, manutenzione, «salute informatica» dell’azienda), della rete produttiva sul territorio.
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<b>Specializzazione aziendale</b>
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Quest’espressione sta a indicare la possibilità di ottenere un vantaggio competitivo specializzandosi in certi aspetti specifici del proprio business, risultando attrattivi sul mercato in quanto in grado di attrarre specifici segmenti della domanda. Volendo fare un esempio di specializzazione si potrebbe citare l’azienda di delivery UPS, perfezionatasi nelle consegne di pacchi a stretto giro: i pacchi <i>sever</i> vanno consegnati in giornata, quelli <i>express</i> entro le 10:30 e gli <i>express plus</i> entro le 8:30[24]. A quest’azienda, di conseguenza, capita spesso di servire imprenditori e personaggi importanti, consegnando loro materiale significativo.
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Dunque, le piccole e medie imprese possono orientare il proprio business in direzioni molto specifiche per provare a ritagliarsi un posticino nella giungla del mercato. In questo caso, le dimensioni limitate possono anche costituire un vantaggio.
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<b>Riorientamento del business</b>
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Stessa cosa dicasi nei casi in cui si debbano fare degli aggiustamenti di mercato, magari perché, così com’è, la vecchia attività non rende abbastanza. Anche in questo caso le organizzazioni piccole possono riconvertirsi più facilmente, pur avendo a disposizione meno risorse. Una delle scommesse su cui si fonda il PNRR sembra essere proprio la presunta reattività del sistema imprenditoriale italiano agli stimoli (finanziamenti).
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<b>II. La strategia della Commissione Europea</b>
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<b>I <i>programs</i> del PNRR</b>
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La Commissione ha promulgato sette <i>Flagship programs</i> comuni, a cui tutte le varie componenti in cui si articolano i PNRR nazionali devono poter essere ricondotte. Questi <i>programs</i> descrivono una strategia unica di sviluppo continentale che, pur presentando grandi margini di flessibilità, definisce con precisione il tentativo di acquisire protagonismo e indipendenza (sarebbe meglio dire «autonomia») economici da parte dell’economia europea. Certo, in realtà non si tratta di un’unica economia: un’economia europea vera e propria, di fatto, non esiste. Stiamo parlando piuttosto di quella che dai commentatori specializzati è chiamata <i>Factory Europe</i>, ossia di un coacervo di attività economiche profondamente interconnesse e che hanno relazioni societarie e di mercato orientate nelle medesime direzioni (al livello di scelta dei partner commerciali e dei mercati di riferimento), così come una sensibilità e tipi di risposta relativamente comuni ai mutamenti delle politiche economico-commerciali degli Stati o a variazioni del quadro «geopolitico». Oggi le altre due principali Factories globali sono quella asiatica e quella nord-americana.
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In questo contesto, il tentativo della Commissione punta a: «1) Power up (Accendere); 2) Renovate (Ristrutturare); 3) Recharge and refuel (Ricaricare e Ridare energia); 4) Connect (Connettere); 5) Modernise (Ammodernare); 6) Scale-up (Crescere); e 7) Reskill and upskill (Dare nuove e più elevate competenze)»[25].
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I primi tre <i>programs</i> mirano a contenere i consumi energetici per unità produttiva (non si dice nulla riguardo all’aumento della massa numerica di tali attività), incrementando lo sfruttamento delle rinnovabili, procedendo all’efficientamento energetico degli edifici e potenziando la mobilità sostenibile. Si tratta di un’iniziativa strategica che vuole andare a colmare il forte grado di dipendenza energetica dall’estero, tipico della <i>Factory Europe</i>.
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Per vari motivi, poi, lo sfruttamento delle rinnovabili e la mobilità sostenibile consentono anche di abbattere i costi delle attività industriali e della logistica. In particolare, lo sviluppo di una rete di trasporto stradale e ferroviario capillare e moderna consentirebbe di tagliare notevolmente i costi e i tempi dello spostamento di merci, nonché di presentare sul mercato un’offerta maggiore (come se si producesse di più)[26]; la creazione di un sistema di trasporto navale interconnesso – sviluppando gradualmente una legislazione portuale comune e armonizzata, nonché integrando meglio, laddove serva, le aree portuali con le reti di trasporto dell’entroterra – favorisce soprattutto l’abbattimento dei costi logistici per le compagnie navali di trasporto merci, rendendo i porti europei più attrattivi per i flussi commerciali internazionali e, di nuovo, riducendo costi e tempi logistici.
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Potremmo accomunare i primi tre programmi sotto l’etichetta di «Approvvigionamento», riguardando, questi, il reperimento di materie prime energetiche e la rete di trasporto merci.
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I secondi tre sono invece centrali per lo sviluppo della capacità produttiva in senso stretto. Si basano su due assi fondamentali: lo sviluppo della capacità di connettività del nostro sistema economico; l’incremento della capacità produttiva e la possibilità di riposizionarsi meglio nei settori <i>hi-tech</i> delle <i>supply chain</i> (l’oggetto del contendere è lo stesso per tutti: dai paesi asiatici, Cina in primis, agli Stati Uniti). Si punterà, dunque, a una «rapida diffusione delle connessioni a banda ultra-larga sia con reti in fibra, sia con FWA, utilizzando anche le tecnologie radio 5G ora disponibili»[27], sviluppando un unico sistema di reperimento, immagazzinamento e condivisione dei dati (anche quelli privati dei cittadini) che sia comune fra tutte le istituzioni nazionali e, a poco a poco, anche europee. Per quanto riguarda il riposizionamento, la volontà della Commissione Europea è di provocare una specializzazione della Factory nella produzione di semiconduttori avanzati («L’obiettivo è di raddoppiare la produzione in Europa di semiconduttori avanzati e che siano dieci volte più efficienti dal punto di vista energetico»[28]) e nella componentistica hi-tech della microelettronica in generale. Implementare questi settori vuol dire, al contempo, rafforzare l’autosufficienza economica della Factory. Ciò per due motivi: semiconduttori e microelettronica consentono una maggiore diffusione della connettività; l’avanzamento tecnologico e l’accorciamento delle filiere <i>hi-tech</i> rende relativamente indipendenti dall’importazione di componenti e semi-lavorati ad alto contenuto tecnologico. Quindi, diminuzione dei costi di produzione e aumento della produttività. O, per dirlo in una sola parola: competitività. Non sarà un caso se «per quanto concerne la transizione digitale, i Piani devono dedicarvi almeno il 20 per cento della spesa complessiva per investimenti e riforme»[29].
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Il settimo programma serve a correggere l’insufficienza di competenze specialistiche sul mercato del lavoro e a rendere compatibili («specializzate» in senso tecnologico) quelle di base. Abbiamo già detto di come la mancanza di competenze, dentro e fuori l’azienda, sia uno dei principali ostacoli alla digitalizzazione.
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In sintesi, l’Ue intende «promuovere gli investimenti in tecnologie, infrastrutture e processi digitali (…); favorire l’emergere di strategie di diversificazione della produzione; migliorare l’adattabilità ai cambiamenti dei mercati; incentivare l’avvio di attività imprenditoriali nuove e ad alto valore aggiunto (…); salvaguardare le catene del valore e le infrastrutture critiche, nonché garantire l'accesso alle materie prime di importanza strategica e proteggere i sistemi di comunicazione»[30]. È evidente il tentativo di sviluppare un’adeguata capacità di coordinamento e sincronicità fra le filiere produttive, dotandole a livello continentale di un sistema di infrastrutture digitali, tecnologie e linguaggi informatici compatibili e interscambiabili tra tutti i loro gangli nazionali.
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Ciò pone però una domanda: come si articolerà il miglioramento dell’organizzazione della <i>Factory Europe</i> a livello dei singoli Stati nazionali? Pianificare una divisione della produzione fra gli Stati comunitari, stabilendo a priori (per quanto possibile) una spartizione <i>inter nos</i> dei posizionamenti migliori nell’ambito delle <i>supply chain</i>, è una <i>conditio sine qua non</i> affinché tale miglioramento si realizzi.
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<b>Gli Ipcei</b>
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Per approcciare simili interrogativi è utile conoscere un ulteriore strumento di pianificazione economica: l’Ipcei (Importante Progetto Comune di Interesse Europeo). Si tratta di un piano di sviluppo relativo a singoli settori economici, avente come obiettivo dichiarato il rafforzamento delle prestazioni della <i>Factory Europe</i> nel settore considerato e, come stimoli per un effettivo raggiungimento del risultato, la declinazione delle risorse economiche disponibili e l’assegnazione, ai singoli Stati, di ruoli nell’ambito del processo di sviluppo.
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Ogni Ipcei prevede un budget statale, proveniente dai paesi membri, e una stima degli investimenti privati potenzialmente attivabili di conseguenza; ogni Stato partecipa con la propria quota di finanziamento e alcune aziende di punta (gli Ipcei si basano sulla collaborazione Stato-imprese).
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Gli Ipcei promulgati in passato sono cinque: uno riguardante la microelettronica, due sulle batterie e due sull’idrogeno come fonte energetica. I PNRR contengono misure e finanziamenti ascritti all’interno di ulteriori due Ipcei, di recente istituzione[31]: uno sulla microelettronica e le tecnologie per la comunicazione (Ipcei-Me, o Ipcei-Me/Ct) e uno sulle infrastrutture per il Cloud computing (Ipcei-Cis). Tratteggiamoli brevemente.
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L’intervento sulla microelettronica[32] da una parte punta al rafforzamento degli ambiti specifici in cui l’Ue è già ben posizionata, come l’elettronica di potenza o la produzione di sensori, mentre dall’altra serve a recuperare terreno, in termini di capacità produttiva e innovazione, lì dove l’Ue è fortemente dipendente dalle importazioni estere (chip speciali per l’Intelligenza Artificiale, produzione e progettazione di processori ad alte prestazioni, memoria informatica...). L’obiettivo economico generale è l’indipendenza dalle forniture estere di semiconduttori. In termini di sviluppo lo scopo della misura è di implementare la connettività in ogni direzione, di aumentare la capacità produttiva e di sviluppare il settore dell’assemblaggio di componenti hi-tech.
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Secondo quanto scritto nel PNRR tedesco, «i componenti a semiconduttori sono la pietra angolare dell’innovazione e un elemento centrale per la competitività dell’industria in un mondo digitale. Infatti, è ormai difficilmente concepibile che esista una catena del valore industriale in cui la produzione continua e le innovazioni future possano fare a meno di un approvvigionamento sicuro ed efficiente di questi componenti»[33]. Il caso della Germania è emblematico perché si tratta di un paese già incamminatosi sulla via indicata dalla Commissione. Esempi ne sono la produzione di semiconduttori da 300 mm in una fabbrica altamente tecnologica di Dresda (Robert Bosch SMD GmbH), oppure lo sviluppo di nuove tecnologie di risparmio energetico da applicare ai semiconduttori al silicio impoverito, utilizzabili nelle nuove tecnologie industriali (particolarmente nell’industria automobilistica) e per il 5G (Globalfoundries, di nuovo a Dresda).
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Attualmente il mercato globale dei semiconduttori ha un valore stimato di 440 miliardi di € e l’Europa ne controlla circa il 10%[34]. Ciò garantisce soltanto un basso livello di profitti, è vero, ma probabilmente il nodo cruciale è che le imprese debbono ordinare i semiconduttori con anche oltre 50 settimane di anticipo, soprattutto nei settori automobilistico e delle telecomunicazioni, causando sprechi, ritardi e inefficienze nei processi produttivi.
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In ultimo un inciso sulla questione ambientale: constatiamo che le emissioni di CO2 dovute alle tecnologie che utilizzano semiconduttori è aumentata del 9% all’anno, tra il 2015 e il 2020[35], e che «la domanda di chip semiconduttori si quintuplicherà entro il 2030»[36]. Si consideri che la riduzione delle emissioni può ottenersi solamente sviluppando i processi produttivi e di ricerca, per ottenere semiconduttori più piccoli (contenenti meno materiale) e più efficienti (minor consumo energetico per quantità di dati trasferita), ma che sono proprio lo sviluppo produttivo e il sorgere di un’estesa infrastruttura digitale a determinare il permanere del progressivo aumento degli inquinanti. Questo la dice lunga sulla tanto sbandierata attenzione dell’Ue per l’ambiente.
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Il cloud è un sistema di archiviazione online di infrastrutture informatiche e dati. Questi possono essere utilizzati da soggetti terzi (imprese o singoli cittadini) senza che debbano acquistare costosi hardware e software per immagazzinarli. L’archiviazione, però, è solo una fase: la filiera produttiva dei dati prevede anche lo sviluppo (l’Europa sviluppa già una quantità di dati sufficiente, pur senza disporre della capacità di utilizzarla in maniera efficace) e l’organizzazione sistematica degli stessi. Per quest’ultima l’Europa prevede la creazione di luoghi virtuali (<i>data rooms</i>) in cui dati dello stesso tipo, o che hanno funzioni simili, vengano fusi o collegati per poter essere poi archiviati e utilizzati dalle imprese. Si tratterebbe di un punto sensibile dell’economia[37], di una sorta di «nodo logistico» informatico.
<br /><br />
Connessa all’organizzazione dei dati vi è la questione della collaborazione tra imprese (nel condividere i propri con la concorrenza) e fra imprese e Stato (fornitura di dati in cambio di servizi e infrastrutture informatici). La linea della Commissione è di stimolare la concorrenza ed evitare il monopolio. Checché ne dicano, con ogni probabilità si tratta di una linea momentanea, adeguata alla fase pioneristica di sviluppo del settore e di incremento di efficacia degli investimenti, ragion per cui il «quid politico» non è tanto la «democrazia economica» del mercato, comunque da verificare in itinere, quanto l’aumento del controllo sul processo di sviluppo economico. In una società capitalistica ciò porta facilmente a una riduzione degli spazi democratici: in Germania è stato dato il via libera al trattamento dei dati, anche personali, senza consenso (purché vengano rispettate le norme sull’anonimizzazione e depersonalizzazione delle informazioni), nonché a un sistema di monitoraggio continuo delle capacità di utilizzo e dell’effettivo utilizzo dei dati da parte dell’intera popolazione. Sapendo ciò, le seguenti parole, contenute nel PNRR tedesco, assumono contorni cupamente orwelliani:
<blockquote>
(...) il ricercatore che comprende e modella meglio la diffusione dei virus utilizzando i dati. L’agricoltore che deve concimare meno grazie all’analisi del terreno basata sui dati e affinché le acque sotterranee e il clima siano tutelati. Il lavoratore che riceve informazioni sulla formazione continua adeguata alla sua situazione lavorativa sulla base di dati dettagliati del mercato del lavoro. Voi tutti state già approfittando dell'opportunità di valutare dati affidabili e disponibili per modellare positivamente il nostro futuro comune. In questo contesto, l’obiettivo centrale della strategia sui dati è aumentare l’utilizzo dei dati a vantaggio della scienza, dell’economia e della società[38].
</blockquote>
Accanto al cloud vi è l’<i>edge</i>. Se il cloud immagazzina risorse informatiche concentrandole al proprio interno, l’<i>edge</i> consiste nel distribuire i centri di elaborazione dati nel territorio, avvicinandosi al luogo in cui i dati vengono «estratti», in maniera da ridurre i tempi di elaborazione e di risparmiare sull’utilizzo di banda larga (elaborare i dati direttamente sul campo). Combinando le due tecnologie l’Ue darà vita al
Distributed Multi Provider Cloud Edge Continuum (DMPCEC). L'elaborazione dei dati in questo continuum si basa su una combinazione di gestione dei dati decentralizzata (edge) e centralizzata (cloud) e consente di ordinare, interpretare e dare priorità a grandi volumi di dati nel punto di origine. (...) Solo in questo modo è possibile effettuare analisi complesse di grandi volumi di dati in modo autodeterminato e utilizzarli per sviluppare processi industriali efficienti in modo tempestivo[39].
<br /><br />
Secondo le stime della Commissione, infine, il mercato europeo dei dati vale fino a 110 miliardi. Seguendo i piani di sviluppo europei la Germania avrebbe il potenziale di raggiungere, da sola, i 425 miliardi di euro entro il 2025. Tuttavia, al momento attuale le principali tre società del settore dominano il mercato globale delle infrastrutture cloud pubbliche controllandone complessivamente il 75%, «mentre il più grande fornitore di cloud europeo genera solo circa il 2% delle vendite totali nel mercato europeo»[40]. Per dare un’idea dei numeri in gioco, diciamo soltanto che in totale, nel 2023, il Reddito di Cittadinanza italiano è costato all’incirca 8,5 miliardi di €[41].
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<b>Note</b>
<br /><br />
[1] PNRR #NextGenerationItalia, p. 2.
<br /><br />
[2] Ibidem.
<br /><br />
[3] Istituto nazionale per l’analisi delle politiche pubbliche, Rapporto Inapp 2023, p. 29.
<br /><br />
[4] PNRR #NextGenerationItalia, p. 3. Si consideri che la quota di investimenti necessaria a mantenere stabile un’economia, in una società capitalistica, dev’essere in costante crescita nel lungo periodo, e che perciò un aumento inferiore a quello degli altri Paesi è un segnale di grave allarme.
<br /><br />
[5] Total Factor Productivity, ossia il risultato economico netto di un investimento, dato dal «guadagno lordo» meno le spese effettuate. Un paese con una TFP alta è un paese dove gli investimenti rendono bene.
<br /><br />
[6] PNRR #NextGenerationItalia, p. 2.
<br /><br />
[7] Fonte OECD - Dataset: Average annual wages «2022 constant prices and NCU» oppure In 2022 constant prices at 2022 USD PPPs, in Istituto Nazionale per l’Analisi delle Politiche Pubbliche, Rapporto Inapp 2023, p. 24.
<br /><br />
[8] Organizzazione internazionale del lavoro, Rapporto mondiale sui salari 2022-2023. L’impatto dell’inflazione e del COVID-19 sui salari in Italia, p. 7.
<br /><br />
[9] Indice IPCA, Indice dei Prezzi al Consumo Armonizzato. Tali beni sono esclusi perché sono considerati essere fra le merci i cui prezzi sono più difficilmente controllabili, proprio in quanto dipendono dall’estero. Di conseguenza rischierebbero di generare una spirale prezzi-salari: un aumento eccessivo dei salari dovuto all’adeguamento ai prezzi dei beni energetici importati (a loro volta precedentemente aumentati) rischierebbe di comportare un aumento generalizzato della domanda e, quindi, dei prezzi delle altre merci. In questi casi, infatti, appena possono le imprese scaricano sui prezzi di vendita l’aumento del costo di materie prime, macchinari e forza-lavoro (cosiddetta «inflazione da costo»). In ragione di ciò, siccome l’adeguamento dei salari all’inflazione (almeno in Italia) si basa oggigiorno sui dati prodotti da questo Indice, è possibile riconoscere al lavoratore un adeguamento inferiore alla percentuale spettantegli di diritto, abbassando, così, il costo del lavoro.
<br /><br />
[10] Particolarmente evidente nel settore manifatturiero, che in Italia riveste un ruolo di peculiare importanza e che in generale è centrale nella scuola economica marxista.
<br /><br />
[11] Le delocalizzazioni sono un aspetto significativo dell’orientamento economico di un Paese per vari motivi. Ad esempio perché «la capacità di presidiare i mercati internazionali è divenuta un elemento cruciale per la tenuta competitiva del sistema produttivo italiano» e, con ciò, gli investimenti all’estero diventano quanto mai necessari. Oppure perché il tipo di delocalizzazione (accordo fra aziende o Investimento Diretto Estero, detto IDE) può indicare se l’impresa italiana che la effettua lo fa da una posizione paritaria o dominante, nei confronti nel mercato estero in cui va a inserirsi: un’impresa che fa accordi potrebbe semplicemente stare cercando di abbassare il costo del lavoro, perché troppo alto in patria; un’impresa che fa IDE dimostra di controllare le imprese e le fasce di mercato estere nelle quali investe. Da un lato, quindi, si starebbe cercando di recuperare margini di competitività abbassando i costi; dall’altro, di incrementare tali margini allargando la quota di mercato controllata. Nel 2016, l’87,3% delle piccole imprese italiane praticavano accordi, anziché IDE; stessa cosa dicasi per il 53,0% delle medie imprese; solamente per le grandi la situazione era invertita, in quanto solo il 32,1% praticava accordi all’estero. Quanto detto non esaurisce minimamente il tema ma dà indicazioni utili al lettore per orientarsi. Fonte dei dati e della citazione: S. Costa e F. Luchetti, La delocalizzazione nel sistema delle imprese: strategie, «performance», ostacoli, in Agenzia per la promozione all'estero e l'internazionalizzazione delle imprese italiane, Rapporto ICE: L’Italia nell’economia internazionale. 1986-2016, 2016, pp. 356-357.
<br /><br />
[12] PNRR #NextGenerationItalia, p. 105.
<br /><br />
[13] S. Bolatto et alii, La produttività dell’industria manifatturiera italiana: un confronto con gli altri Paesi industrializzati, in AA. VV., Evoluzione della grande impresa e catene globali del valore, Fondazione Ansaldo Editore, Recco (GE) 2014, p. 31.
<br /><br />
[14] L’eccezione potrebbe essere costituita dal cosiddetto «grado di specializzazione» di un Paese. Con questo indicatore le supply chain vengono suddivise in: «reperimento del materiale», «prime lavorazioni», «produzioni di beni intermedi e semilavorati», «prodotti finiti» e «distribuzione». Per un singolo settore produttivo, ad esempio l’elettronica, viene misurato il livello di specializzazione (con un valore che va da -1 a +1) in ognuna delle cinque fasce summenzionate. Per cui, esaminando il grado di specializzazione di un Paese in tutti i settori fondamentali dell’economia produttiva, è possibile farsi un’idea del livello complessivo di una data economia.
<br /><br />
[15] E. Gentili, Ridurre l’orario di lavoro a parità di salario. Il significato delle aperture del Governo, «la città futura», 31/03/2023, https://www.lacittafutura.it/dibattito/ridurre-l%e2%80%99orario-di-lavoro-a-parit%c3%a0-di-salario-il-significato-delle-aperture-del-governo.
<br /><br />
[16] Ovviamente stiamo semplificando: ci sono settori economici in cui l’Italia è ben posizionata, altri in cui lo è meno… così come sono presenti contemporaneamente aziende ben posizionate e altre che lavorano in segmenti di mercato a basso valore aggiunto, e così via. Questo vale per ogni Paese.
<br /><br />
[17] «In realtà [il commercio internazionale] non solo è un elemento che va a comporre la politica estera dei Paesi ma soprattutto un pivot attorno al quale vengono fatte scelte di alleanze e collaborazione, vengono imposte politiche economiche e monetarie, si creano unioni e si possono creare divisioni». Tratto da D. Bevere, Catene globali del valore e interessi economico nazionale, Master Executive in Affari Strategici, LUISS, A. A. 2017/2018, p. 2.
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[18] Regolamento (UE) 2021/241 del Parlamento Europeo e del Consiglio, 12/02/2021.
<br /><br />
[19] R. Secchi, a cura di, Supply chain management e intelligenza artificiale. Migliorare i processi e la competitività aziendale, Università Cattaneo Libri, Guerini Next, Milano 2022, pp. 101-102-103.
<br /><br />
[20] La dimensione aziendale può essere calcolata in base al numero di dipendenti o all’entità del fatturato.
<br /><br />
[21] S. Bolatto et alii, op. cit., p. 36.
<br /><br />
[22] R. Secchi, a cura di, op. cit., p. 105.
<br /><br />
[23] Ibidem, p. 104.
<br /><br />
[24] Da un’intervista a un lavoratore UPS effettuata il giorno 16/08/2022.
<br /><br />
[25] PNRR #NextGenerationItalia, p. 32.
<br /><br />
[26] Asserendo questa posizione non sposiamo, ovviamente, la creazione delle opere cosiddette «strategiche» che provocano dissesti nei territori, come l’alta velocità. Dipende sempre di quale «strategia» si parli.
<br /><br />
[27] PNRR #NextGenerationItalia, p. 33.
<br /><br />
[28] Ibid., p. 34.
<br /><br />
[29] Ibid., p. 12.
<br /><br />
[30] Ibid., pp. 15 e 13.
<br /><br />
[31] Decisione della Commissione europea C(2023) 3817 final dell’8/06/2023 (Ipcei-Me). Ipcei-Cis è stato approvato con documentazione riservata. «La versione non riservata della decisione» sarà consultabile per l’Italia, «una volta risolti eventuali problemi di riservatezza», sul sito della Commissione (chiave di ricerca: SA.102519).
<br /><br />
[32] L’Italia vi prende parte con quattro aziende di punta e 1 miliardo di € di sussidi. Gli 8,1 miliardi complessivi, provenienti da 14 paesi membri, dovrebbero «sbloccare» circa 13,7 miliardi di investimenti privati.
<br /><br />
[33] Darp (Deutscher aufbau und resilienzplan), p. 332 (traduzione effettuata tramite applicazione informatica).
<br /><br />
[34] Ibidem, p. 367 (traduzione effettuata tramite applicazione informatica).
<br /><br />
[35] Ibid., p. 376 (traduzione effettuata tramite applicazione informatica).
<br /><br />
[36] Ibid., p. 413 (traduzione effettuata tramite applicazione informatica).
<br /><br />
[37] Non per caso gli investimenti in sicurezza informatica sono rilevanti.
<br /><br />
[38] Darp (Deutscher aufbau und resilienzplan), pp. 335-336 (traduzione effettuata tramite applicazione informatica).
<br /><br />
[39] Ibidem, pp. 384-385 (traduzione effettuata tramite applicazione informatica).
<br /><br />
[40] Ibid., p. 382 (traduzione effettuata tramite applicazione informatica).
<br /><br />
[41] Fonte: INPS, Bilancio preventivo 2023. Tomo I, p. 82.
<br /><br />
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