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08/09/2015

Altro che ISIS: Mosca e Washington si giocano la Siria di Assad

di Chiara Cruciati
Ricapitoliamo, perché non è così difficile perdersi dalle parti del Medio Oriente. Quattro anni e mezzo fa, nel 2011, scoppia la guerra civile siriana, manovrata con maestria da attori regionali e globali. Nel 2013 Obama tenta di finirla con il vero problema dell’Occidente e degli alleati del Golfo (il presidente Assad e l’unità del paese braccio dell’asse sciita) e si prepara all’aggressione militare. La Russia di Putin, con un abile e fine lavoro diplomatico a cui si aggiungono le preghiere di papa Francesco, lo ferma in tempo (atto per cui probabilmente il presidente Usa dovrebbe ringraziare l’avversario).

L’anno dopo compare a Mosul lo Stato Islamico dell’Iraq e del Levante, l’Isis, che in pochi mesi occupa un terzo dell’Iraq e oltre un terzo della Siria. O meglio, si espone: perché in Iraq l’Isis era attivo da anni. Fondato alla fine degli anni Novanta, si trasforma in Isi nell’ottobre del 2006 e già ad agosto del 2011 invia cellule in Siria. Insomma, non certo una novità per le intelligence mondiali che però iniziano a preoccuparsene solo a metà del 2014. Ad agosto di quell’anno Obama – ufficialmente disgustato dal dramma degli iracheni yazidi, assediati dagli islamisti a Sinjar – inizia a bombardare le postazioni Isis in Iraq. E mentre gli yazidi venivano presto dimenticati, insieme a tre milioni di sfollati interni, poche settimane dopo i jet a stelle e strisce superavano il confine e andavano a sganciare bombe anche nella vicina Siria.

La distruzione voluta della Siria, il cuore del Medio Oriente, paese laico da sempre impegnato nella lotta agli estremisti islamici (visti da Assad padre e da Assad figlio come diretta minaccia al nazionalismo siriano e al rigido controllo del paese, tanto da massacrarne in quantità tra le fila della Fratellanza Musulmana, uno dei crimini ascrivibili ai governanti siriani), ha provocato in breve tempo la fuga di massa della popolazione civile, un esodo dai contorni drammatici: oltre 4 milioni di persone, riparate per lo più nei paesi vicini, Turchia, Egitto, Giordania. Alcune centinaia di migliaia hanno preso la rotta dell’Europa, spinti dalla disperazione più totale. Il resto è cronaca di queste settimane: muri alle frontiere europee, quote, confusione colpevole tra migranti e profughi, solidarietà di base contro manganellate della polizia e numeri tatuati sulle braccia.

Quale migliore giustificazione ad un intervento militare, deve aver pensato il bellicoso Hollande, presidente socialista francese che in pochi anni ha inviato i suoi aerei da guerra in mezz’Africa? Bombardare la Siria risolverebbe a monte il problema dei rifugiati, la stessa patetica scusa del collega britannico Cameron. Che, oggi, fa sapere di aver compiuto ad agosto un bombardamento in Siria nel quale hanno perso la vita jihadisti di origine britannica, andando contro la decisione del suo stesso parlamento che due anni fa bocciò l’intervento militare in Siria. Così, anche Londra si allarga, dall’Iraq alla Siria, mentre Parigi annuncia in pompa magna l’inizio delle operazioni militari, solo aeree e non terrestri (“o si tratterebbe di un’occupazione”) in chiave anti-Isis.
Solo anti-Isis? No. Di nuovo, il nemico è in realtà un altro e si chiama Bashar al-Assad. Non è un caso che le decisioni di partecipare attivamente alla coalizione globale anti-Stato Islamico giungano a stretto giro dalle dichiarazioni del presidente russo Putin che, smascherando le mire di Occidente e Golfo, ha pochi giorni fa aperto alla formazione di una coalizione ampia contro il terrorismo che da una parte collabori sul piano militare e dall’altra prepari il terreno alla transizione politica, accettata da Assad sotto forma di elezioni.
La Russia, insieme all’Iran, non molla Assad non tanto per ragioni di protezione del popolo siriano quanto per salvaguardare i tanti interessi strategici, energetici e politici nell’area, semi abbandonata dopo il crollo dell’Unione Sovietica. Per quanto non lo ritenga sicuramente il migliore dei presidenti e per quanto siano innegabili i crimini commessi, Mosca sa che – nell’assordante silenzio delle opposizioni moderate – ad oggi è il cavallo su cui puntare, il solo vero fronte contro l’avanzata islamista – accanto alle forze kurde siriane – e di smembramento del paese: ad oggi senza sostenere Damasco la lotta all’Isis è solo aria fritta. Lo è palesemente: ad un anno di distanza dal lancio della coalizione globale contro il terrorismo (di cui fanno parte paesi che hanno palesemente sostenuto, direttamente o indirettamente, la crescita dell’Isis) l’equazione resta la stessa e la forza del califfato non viene intaccata: i raid si concentrano solo in determinate aree, quelle non controllate dal governo o dall’esercito siriano. Perché se si bombardasse l’Isis dove c’è Assad, si darebbe una mano a Damasco e nella visione occidentale è un’opzione da non prendere nemmeno in considerazione.
E chi la prende in considerazione, ovvero Mosca, va boicottato. Ieri un funzionario del ministro degli Esteri greco ha detto che gli Stati Uniti hanno chiesto ad Atene di chiudere i propri cieli al transito di aerei russi diretti in Siria. Una notizia che giunge dopo una serie di voci, pubblicate da agenzie stampa israeliane e britanniche, secondo cui la Russia starebbe organizzando l’invio di propri soldati sul campo di battaglia siriano. Mosca ha finora sempre negato, definendo “prematuro” un intervento sul terreno e ricordando che il paese da tempo rifornisce Damasco di equipaggiamento militare nella lotta al terrorismo di matrice islamista.

Sembra così aprirsi un fronte più ampio, che mostra con chiarezza come il campo di battaglia mediorientale sia in realtà globale. Il confronto tra Russia e Stati Uniti è sempre più palese, giocato da Mosca a livello diplomatico, mostrandosi – come fa da tempo l’Iran – come negoziatore realista, offrendo transizioni politiche concrete e collaborazioni militari anti-Isis, una piattaforma che presenterà ufficialmente questo mese all’Assemblea Generale delle Nazioni Unite. Ma la realtà è un’altra, perché l’obiettivo è un altro: Washington, Ankara, Riyadh, Parigi e Londra vogliono la testa di Assad, non quella del “califfo” al-Baghdadi.

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