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14/10/2015

Con la dipendenza economica arriva anche la depressione

La storia che ci racconta questa donna non è diversa da tante altre e conferma, una volta di più, come il peggior problema che si possa avere sia l’assenza di un reddito. Perché se sei economicamente dipendente non scegli quello che vorresti. Perfino la convivenza con qualcuno diventa una forzatura. Quando parleremo, allora, molto seriamente, della violenza economica che le persone subiscono? Buona lettura!|

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Lei scrive:

Cara Eretica,

seguo il tuo blog quasi ogni giorno: mi è di grande conforto leggere le storie di persone che come me vivono un limite (personale, culturale, sociale), e ne soffrono. Magari anche la mia lettera potrà essere utile a qualcuno, chissà.

Non che la mia vita sia stata particolarmente originale, fin qui; diciamo che la mia è una storia di ordinaria depressione. Di mancanza di autonomia.

Vorrei partire dalla mia infanzia, anzi, dalla mia famiglia. Perché lì c’è l’epicentro della mia identità, del mio atteggiamento nei confronti della vita.

Sono cresciuta in una famiglia tanto borghese quanto disfunzionale. Mia madre, lo avrei scoperto solo qualche tempo fa, soffre di disturbo bipolare. È sempre stata una donna “singolare”, ma quando ero piccola non avevo gli strumenti per capire quale fosse il suo problema. Qualche mese fa, ho scoperto la sua diagnosi, ed ecco a un tratto spiegati gli sbalzi d’umore, i maltrattamenti, lo svalutamento, l’aggressività che per anni, durante l’infanzia e l’adolescenza, ho subito da lei. Sono stata una bambina piuttosto infelice. Anche se dall’esterno sembrava tutto normale. Mio padre, anche lui con i suoi problemi, ha affrontato un percorso coniugale difficile. Tra di loro fioccavano gli scontri.

Io non vedevo l’ora di andare via di casa, ma ero impelagata in un percorso di studi complesso. Quando finalmente ho concluso un ciclo, ne ho iniziato un altro lontano dalla mia città d’origine. Non è stato semplice andare via, ritrovarmi completamente sola in una città nuova, dovermi arrabattare con pochi soldi durante gli studi, ma in qualche modo ce l’ho fatta. Finito quel corso di specializzazione, è iniziato il vero calvario: infiniti colloqui di lavoro, stage e lavoretti di pochi mesi, sfruttamento, paghe da fame. In una parola: precarietà. Nel frattempo, avevo intrapreso una relazione con un ragazzo che abitava nella mia città d’origine, una storia che, seppur a distanza, andava bene. Dopo qualche anno di aspettative professionali disattese e scarsi risultati, ho deciso di tornare a casa, da lui.

A volte mi sento un po’ in colpa per avere fatto questa scelta, ma, ragionando attentamente sulla questione, cosa mettevo sui due piatti della bilancia? Da un lato c’era una situazione di lavoro difficilissima, insoddisfacente, con la quale non riuscivo a mantenermi, senza prospettive di miglioramento; dall’altra un amore importante, e la possibilità di viverlo pienamente. Tornare, però è stato un trauma. Mi rendo conto ogni giorno di quanto, per tutta una serie di ragioni, odi profondamente questa città. Anche qui, naturalmente, datori di lavoro insolventi e un paio di situazioni umilianti (mi vengono in mente anche episodi schifosamente sessisti), dopo le quali ho tirato i remi in barca.

Mi sono arresa. Non cerco più lavoro, ho paura di affrontare ulteriori situazioni di delusione e di perdita dell’autostima. Nel frattempo, è arrivata la depressione. Da adolescente avevo avuto disturbi psicosomatici ed episodi d’ansia. Adesso mi sento vuota, paralizzata. Passo le giornate a letto, anche se l’insonnia di notte mi perseguita. Ho abbandonato, uno dopo l’altro, tutti i miei interessi, anche quelli in cui eccellevo. Non ho più obiettivi, sogni. Vivo con il mio fidanzato, che, per carità, è un bravissima persona, mi vuole bene, ma che a volte per scuotermi dal torpore mi colpevolizza, senza volerlo, facendomi sentire peggio.

In più abbiamo problemi economici, lui si fa in quattro per mantenerci (ha la fortuna di avere un posto “sicuro”, per quanto orribile e sottopagato) e io mi sento ancora più in colpa e inutile. Vorrei dimostrargli – in realtà, vorrei dimostrare a me stessa – che non ho bisogno di lui, ma invece è così. A casa dei miei non potrei mai tornare. La speranza di trovare un lavoro decente è più che remota. Insomma, non riconosco la mia vita. Mi sento imprigionata in una esistenza che non ho mai scelto né voluto. Io, che sognavo l’autonomia e l’indipendenza, la consapevolezza e la libertà, che immaginavo di farcela con le mie forze, sono schiava della mia stessa vita. Quelle forze sono andate esaurite. Come la capacità di immaginare un futuro.

Grazie del lavoro che svolgi.

Un abbraccio.

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