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09/08/2025

A 80 anni da Hiroshima e Nagasaki, con gli occhi puntati sul genocidio a Gaza

Anni fa tenni diversi corsi sulla composizione di reportage creativi e approfonditi. Un testo obbligatorio era Hiroshima di John Hersey. Sullo stesso tema assegnavo anche En Hiroshima, a un millón de grados centígrados, un reportage di Gabriel García Márquez incluso in una nota antologia dei suoi testi giornalistici pubblicati negli anni ’50.

Il 6 e 9 agosto si commemorano gli 80 anni di questa tragedia che costò la vita a oltre 100mila persone in pochi giorni, lasciando centinaia di migliaia di feriti o mutilati a vita.

La sorte di sei sopravvissuti serve a Hersey per costruire un racconto il cui contenuto ci sconvolge per gli innumerevoli dettagli che descrivono la vita di queste persone al momento stesso dell’esplosione. Vi troviamo esseri umani nella loro semplice quotidianità: un caffè o un tè in mano, in cammino verso l’ufficio o il lavoro, qualche faccenda domestica... e pochi secondi dopo i loro corpi vengono scagliati con violenza contro il muro o il pavimento, dopo un’esplosione mostruosa, fino ad allora sconosciuta e indecifrabile per il Mondo.

Queste sei persone sopravvissero miracolosamente e poterono condividere la loro testimonianza con Hersey, dando così vita, a partire dalla pubblicazione sul New Yorker del 1946, a una squisita tradizione giornalistica che combina creatività e rigore.

Il testo di García Márquez, invece, propone uno sguardo globale sull’esperienza e sugli eventi immediati. Il segreto del suo stile giornalistico risiede nella libertà che si concede nell’identificare dettagli, angolazioni, chiavi di lettura che compongono, nel loro insieme, un testo interessante ed evocativo. Il suo potere di attrazione non riposa necessariamente nei fatti, nella “storia”, ma in come la racconta.

Una citazione diretta di Padre Arrupe, incontrato una decina di anni dopo la tragedia nucleare, sarà sufficiente per addentrarci nell’universo complesso del giorno in cui fu sganciata la bomba e delle sue conseguenze. Vale la pena citare il primo paragrafo (quelle prime righe che in pochi secondi conquistano o perdono i lettori):
“Un testimone oculare della devastazione di Hiroshima causata dalla bomba atomica si trova da ieri a Bogotà: il sacerdote gesuita Pedro Arrupe, che il 6 agosto 1945 – primo giorno dell’era atomica – ricopriva il ruolo di rettore del noviziato della Compagnia di Gesù a Hiroshima. Essendo spagnolo e la Spagna un paese neutrale, Padre Arrupe rimase in territorio giapponese anche dopo che il governo del Mikado aveva espulso tutti gli stranieri originari di paesi belligeranti. A Hiroshima non c’era guerra. Curiosamente, in una delle principali città giapponesi, con 400.000 abitanti, di cui 30.000 militari, non si erano visti i danni di una guerra internazionale di sei anni: una sola bomba era stata sganciata sulla città, e i suoi abitanti avevano motivo di pensare che si trattasse di un bombardamento accidentale, senza alcuna conseguenza”.
Questo reportage è un buon modello del giornalismo contemporaneo latinoamericano, poiché non fa concessioni alla facile svolta informativa o alle frasi fatte. Il giornalismo quotidiano si è a lungo consumato nel raccontare l’ovvio; il reportage, a partire da García Márquez, Wolfe e Capote, ha convocato una libertà di stili che ha salvato il mestiere dalla noia. Senza trascurare nulla dei dettagli demografici, cronologici, militari, scientifici o tecnici, il testo di García Márquez si muove con una cadenza e una fluidità simili al montaggio cinematografico.

A seguito delle terribili conseguenze umane e materiali, si susseguirono diversi eventi importanti: l’architetto della bomba si pentì di ciò che aveva fatto, scienziati che avevano contribuito con formule e ingegneria si ritrattarono; nacque uno sforzo mondiale per la coesistenza pacifica, fu fondata l’Organizzazione delle Nazioni Unite e fu approvata la Dichiarazione dei Diritti Umani. Tutto questo nel giro di pochi anni.

E, non dimentichiamolo, nel 1949 Albert Einstein sottoscrisse un importante saggio non solo per la Pace, ma anche a favore del Socialismo.

A 80 anni dalle bombe atomiche e di fronte alla sorte oggi della Palestina, alle ondate di fame che si vivono in diverse regioni del Mondo e alla mancanza di diplomazia e buon senso nella politica internazionale degli Stati Uniti, sembrerebbe che siamo tornati a guardare al futuro in punta di piedi, sul bordo dell’abisso, sgomenti di fronte a tanto orrore e tanta disumanizzazione.

Davanti a tutto ciò, si moltiplicano gli appelli alla società civile, ai cittadini del mondo di ogni estrazione, perché riprendano l’iniziativa e reinseriscano nel cuore delle nostre illusioni e azioni la cultura della Pace... Sì, a 80 anni dalle bombe atomiche.

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