Armenia ed Azerbaijan hanno stretto un accordo sulla questione del cosiddetto corridoio di Zangezur o corridoio di Syunik per gli Armeni, ora comicamente ribattezzato “rotta di Trump per la pace e la prosperità internazionale”. Si tratta della striscia di terra che divide l’exclave di Naxçıvan, appartenente all’Azerbaijan, al resto del territorio azero, tramite la regione armena del Syunik, al confine con l’Iran.
Per anni, le frontiere fra i due paesi sono state chiuse a causa del conflitto secolare riesploso dopo caduta dell’URSS, rispetto al quale il garante del cessate il fuoco e, soprattutto della parte più debole, ovvero l’Armenia, era la presenza militare russa dispiegata sui confini ed in alcune infrastrutture armene strategiche. Il tutto per effetto di accordi trilaterali fra i paesi.
Da quando Nikol Pashinyan è diventato Primo Ministro dell’Armenia, nel 2018, come risultato della vittoria elettorale dopo una rivoluzione colorata denominata immancabilmente “rivoluzione di velluto”, l’obiettivo principale del governo di Yerevan è stato disfarsi della Russia come garante della propria sicurezza per integrarsi economicamente e militarmente nel campo euroatlantico, quale che fosse il prezzo da pagare.
E ed è stato un prezzo elevatissimo: fra il 2020 ed il 2023 l’Azerbaijan ha riconquistato militarmente tutti i territori della Repubblica dell’Artsakh, piccola enclave armena in territorio azero che costituiva uno stato di fatto, anche se non riconosciuto da nessuno. In conseguenza di ciò, le autorità dell’Artsakh sono state poste in arresto e la totalità della popolazione armena, anziani e disabili a parte, è stata sfollata.
In tali frangenti, la Russia non ha mosso un dito a causa dello stato dei rapporti con le nuove autorità armene. La scelta è stata di completa non ingerenza: Mosca non ha cercato di porsi come “garante della minoranza armeno – cristiana in Azerbaijan”, oppure di sfruttare la rabbia seguita allo sfollamento di massa dell’Artasakh per sostenere un movimento anti-Pashinyan, in modo da ristabilire i rapporti con Yerevan allo status precedente al 2018.
Ha semplicemente ridotto di molto la propria presenza militare, lasciando fare all’Azerbaijan. L’Armenia, infatti, dalla Federazione Russa non è percepita come una questione esistenziale al pari di quella dell’Ucraina e del Donbass.
Il problema di Pashinyan e della sua cricca di dilettanti allo sbaraglio è che anche i nuovi “garanti della sicurezza” occidentali (in particolare la Francia, con cui aveva stretto rapporti militari) hanno lasciato fare all’Azerbaijan, dal quale dipendono in larga parte per quanto riguarda le forniture energetiche; queste ultime, fra parentesi, non sono tutte originarie dal sottosuolo azero, ma sono spesso rivendute dalla Russia in una delle tante triangolazioni nate dopo le sanzioni occidentali per la guerra in Ucraina.
Le successive mire annessionistiche palesate da Baku nei confronti di un’Armenia abbandonata a se stessa sono state, appunto, rivolte verso il corridoio di Zangezur, con il pretesto della riunificazione del Naxçıvan con il resto del paese.
Qui sono intervenuti gli USA che, sfruttando anche l’assoluta incapacità francese ed europea di determinare alcunché nelle dinamiche dell’area, si sono posti come mediatori, giungendo ad un compromesso apparentemente, tortuoso, ampolloso e poco chiaro: il corridoio di Zangezur rimane formalmente sotto la sovranità armena, ma il suo utilizzo, a garanzia dei collegamenti fra Naxçıvan ed il resto dell’Azerbaijan, è appaltato ad un oscuro consorzio armeno-statunitense, che dovrebbe guidare la costruzione di infrastrutture energetiche e di trasporto, nonché garantire la sicurezza dei traffici.
La riunione fra i due primi ministri con Trump per firmare quest’accordo si è svolta alla Casa Bianca l’8 agosto, ed ha avuto tutto un corollario comico con la “dedica” al Presidente Usa nella ridenominazione dell’area e con il sostegno, promesso da Pashinyan e dall’omologo azero Alyev, alla sua nomination per il Premio Nobel della Pace.
Immediatamente è scattato l’allarme rispetto al possibile coinvolgimento sul terreno di personale militare statunitense, anche mercenario, dato che, come detto, parliamo del confine fra Armenia ed Iran.
Ali Akbar Velayati, consigliere di Khamenei per la politica estera, ha tuonato: “Il Caucaso è una delle regioni più sensibili al mondo e questa rotta non diventerà un corridoio in nome di Trump, ma un cimitero per i suoi mercenari... Riteniamo che anche la Russia sia strategicamente contraria alla creazione di questo corridoio”. Tuttavia L’Iran deciderà di proteggere la regione “con o senza la Russia”, ha aggiunto.
Più moderata è stata la reazione dei funzionari dell’esecutivo di Teheran, i quali hanno parlato semplicemente di “preoccupazioni per gli interventi stranieri”, in quella che è una dicotomia di voci che si ripete continuamente in Iran.
Le preoccupazioni dell’Ayatollah e del suo staff sembrano più che fondate in quanto la Repubblica Islamica sta già palesando, sugli oltre 600 km di confine con l’Azerbaijan, problemi di attività di spionaggio e sabotaggio per conto sionista, oltre che problemi minori di attività separatiste, riguardanti gli azeri etnici cittadini dell’Iran. Inoltre, nei giorni scorsi, è stato ufficialmente chiesto conto alle autorità di Baku circa l’utilizzo dello spazio aereo del paese durante l’aggressione sionista nella guerra dei 12 giorni. L’aggiunta di un altro hub spionistico, con personale USA, anche sulla porzione armena del confine costituirebbe un grave problema.
Mosca, da parte sua, continuando la sua politica di disimpegno da quel conflitto, ha ufficialmente benedetto l’intesa fra Armenia e Azerbaijan, con l’avvertenza che “l’intervento straniero potrebbe complicare la situazione del Caucaso”.
Per quanto riguarda Yerevan, in questi giorni, per rassicurare tutti, Iran compreso, sta cercando di minimizzare la portata dell’intesa in termini d’intervento diretto USA, smentendo di aver dato in affitto per 99 anni il corridoio in questione, come molti interpretano i termini reali dell’accordo: tutto avverrà nel rispetto della sovranità dell’Armenia e dei suoi confini, secondo Yerevan.
Tuttavia, quanto può essere credibile il governo armeno, che in precedenza ha sempre capitolato su tutta la linea, agli occhi di Russia, Iran e non solo?
Pashinyan, con quest’accordo, si sta giocando l’intera credibilità del suo progetto politico di integrazione nel blocco euro-atlantico, in quanto esso dovrebbe costituire la fine definitiva dei fattori che lo ostacolano, ovvero i contenziosi territoriali con l’Azerbaijan, e, più in generale, la diatriba storica con il “mondo turco”. Poco importa se ciò abbia comportato il sacrificio degli Armeni dell’Artsakh e la svendita di un’altra porzione del proprio territorio.
Peccato che, contestualmente all’intesa, Trump abbia sospeso una legge che proibiva l’invio di armi all’Azerbaijan.
Pashinyan, in definitiva, come tutti i capi delle rivoluzioni colorate, sembra pronto ai sacrifici più estremi pur di coltivare il “sogno europeo ed occidentale”, compresa la fine stessa della Repubblica di Armenia.
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