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14/08/2025

Iveco preoccupa

Trattativa lampo degli elkann con gli indiani

Si è cercato di far passare alla svelta la notizia della (s) vendita della Iveco, realtà industriale storica e strategica per il comparto automotive, nata negli anni Settanta.

La famigerata famiglia Elkann aveva colto di sorpresa un po’ tutti, del resto, chiudendo la trattativa con gli Indiani di Tata nel giro di un paio di settimane, tempi che possono andare bene forse per vendere un’auto usata, ma non di certo un’azienda così importante.

I “tavoli di settembre”

Era allora uscito dalle nebbie uno dei ministri invisibili del governo Meloni, Adolfo Urso, che dichiarava che l’esecutivo avrebbe “vigilato” sull’operazione. Annunciava inoltre “tavoli permanenti da settembre” con aziende, regioni e parti sociali, rassicurando sull’impegno per la tutela occupazionali, la salvaguardia delle competenze italiane e finanche vaneggiando sulla opportunità che la cessione apra scenari di rilancio industriale e produttivo. 

Eppure, se avesse voluto fare sul serio, al governo sarebbe bastato esercitare la facoltà del cosiddetto golden power, ovvero la possibilità per lo Stato di mettere il veto sulla vendita di una determinata azienda, entrandovi come azionista di maggioranza.

Una volta ci sarebbero state semplicemente le nazionalizzazioni, ma nell’epoca dell’Unione Europea tale termine è stato sottoposto ad una sorta di damnatio memoriae, è diventato una delle parole proibite dall’ordine nuovo capitalismo europeo.

La grande paura

Man mano che passano i giorni, tuttavia, a Brescia la consapevolezza della gravità di ciò che è accaduto comincia a diffondersi e cresce la paura.

Ultimamente si sono fatte sentire anche le Acli provinciali, con un lungo comunicato. Nel testo esprimono forti preoccupazioni “per le pesanti ricadute occupazionali su chi lavora sia direttamente in Iveco sia sull’intero indotto”. Perfino alle tranquille e collaborative Acli viene il dubbio di trovarsi, pensa un po’, “di fronte all’ennesimo episodio di eccellenze industriali italiane cedute a multinazionali o ad aziende estere le quali, nonostante i piani di sviluppo e le garanzie di tenuta occupazionale, hanno deciso alla fine di seguire tutt’altra direzione.
Così i settori della produzione dei grandi macchinari industriali, della componentistica, dell’elettronica, delle telecomunicazioni, sono stati venduti e poi sempre più ridimensionati, con multinazionali estere che avevano tutto l’interesse ad acquisire brevetti e tecnologia, conoscenze, marchi, mercati, per poi trasferire e chiudere le attività e lasciar morire produzioni concorrenti alle proprie. Il tutto con conseguenze di degrado e smantellamento di pezzi del sistema industriale”
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Le promesse dei mercanti indiani

Ma c’è poco da arrovellarsi e porsi domande. È sicuro che finirà così. Si è venuti in questi giorni infatti a conoscenza di un dettaglio non da poco.

Gli impegni assunti da Tata Motors per salvaguardare stabilimenti e dipendenti evitando sovrapposizioni produttive in Europa, sottoscrivendo clausole finalizzate a rispettare l’identità aziendale, a mantenere la sede principale di Iveco a Torino, a non chiudere alcun impianto e a non ridurre l’occupazione, nonché a rispettare i diritti dei dipendenti, saranno validi per due anni!

Quindi sul lungo termine non si scongiurano in alcun modo i rischi tipici delle operazioni di acquisizione. Abbiamo già avuto del resto in Italia un esempio eclatante e mostruoso di tutto ciò con la vicenda dell’ex-Ilva di Taranto, finita anch’essa, guarda caso, nelle mani di imprenditori indiani.

Allarme sindaci

Tanto è vero che l’ allarme alla fine è scattato pure nelle amministrazioni dei Comuni sede degli stabilimenti Iveco – da Torino a Foggia, passando per Brescia e Suzzara. I sindaci di queste città hanno deciso di unire le forze, chiedendo – al termine di una riunione tenutasi il 5 agosto – di avere un ruolo attivo e concreto nei “tavoli di confronto nazionali” preannunciati dal Governo

Le richieste sono precise: garanzie sulle prospettive produttive e occupazionali di Iveco, e definizione delle condizioni che il Paese intende porre “a tutela dell’industria italiana”.

Gli occhi, ora, sono puntati sul Governo, al quale si chiede di prendere in mano la situazione.

Rispetto all’attivazione del golden power, è opportuno peraltro ricordare che il centrosinistra oggi all’opposizione non se ne avvalse quando nacque Stellantis. La coerenza dovrebbe valere sempre, soprattutto se in gioco c’è il futuro dell’industria italiana. Ma sappiamo che dalle nostre parti non è così.

Il governo dei camerieri

Ci sono comunque alcune considerazioni di carattere più generale, ma fondamentali se si vuole considerare realisticamente la situazione e cercare di formulare ipotesi su come si potrebbe reagire allo sfascio cui stiamo assistendo.

Esiste una gerarchia nell’apparato comunitario, e l’Italia fa parte suo malgrado dei figli del dio minore di Maastricht.

Se l’Italia fosse stata la Germania o la Francia, allora una eventuale azione di governo per nazionalizzare l’Iveco o una delle altre aziende perse in 24 anni di moneta unica, non ci sarebbe stata nessuna reprimenda da parte della Commissione Europea. Ma il problema qui non si pone nemmeno, perché non esistono proprio un governo e una classe politica che soltanto pensino di fare una cosa simile.

A Roma, ci sono dei camerieri di sala.

Dall’estero, gli viene detto come disporre le posate sul tavolo, e poi una volta eseguiti i vari ordini, lo straniero di turno si porta via l’argenteria. Nella situazione attuale “il Presidente del Consiglio” Giorgia Meloni rimonta sul suo aereo e inizia di nuovo i suoi inutili viaggi in giro per il mondo.

Oggi come oggi, Giorgia Meloni è “il Presidente del Consiglio” che non c’è. “Fate voi” – dice – “ma non chiamatemi in causa, perché io non mi prendo nessuna responsabilità”.

Si sta vedendo di conseguenza tutto il disastro del modello nato a Maastricht nel 1992, che ha trasformato lo Stato in un simulacro giuridico occupato da una classe politica completamente eterodiretta dall’estero.

Le origini della bugie neoliberali

Il motto del “meno Stato, più mercato”, iniziato a diventare più insistente dagli anni ’80 in poi, non serviva altro che a questo.

Uomini come Milton Friedman, fondatore della Scuola di Chicago, membro di un esclusivissimo club economico quale la Mont Pelerin Society, consigliere di Ronald Reagan, servivano ad inculcare nella mente delle masse l’idea, falsa, che lo Stato era il loro nemico e che ci si dovesse schierare con il privato ad ogni costo.

A favorire l’avvento della stagione delle privatizzazioni in Italia sono stati certamente i vari think tank neoliberali che hanno a poco a poco occupato le varie università della Penisola.

Quello che si sente oggi è perciò solo un coro di servi che scrivono sulle pagine degli organi di stampa, che non provano nessuna vergogna a tessere le lodi dell’Unione e a dire che l’euro avrebbe salvato l’Italia.

Fare affermazioni simili adesso significa soltanto dimostrare tutta la propria sottomissione ai predoni della finanza che hanno saccheggiato l’Italia. Anche il comune uomo della strada che ricorda gli anni '80 e gli inizi degli anni '90 sa come intorno a lui all’epoca ci fosse un po’ di benessere, mentre oggi c’è soltanto un deserto economico e morale.

Eppure un’ alternativa esisterebbe. Non si può non riprendere in considerazione un modello che un certo sviluppo ha garantito all’Italia tra gli anni '60 e gli anni '90 del secolo scorso.

Si tratta di un modello tutt’altro che eversivo, cui non interessa costruire un’economia che annienti la proprietà privata.

Occorre piuttosto ricostruire un equilibrio tra pubblico e privato con l’intervento diretto dello Stato in economia, attraverso la creazione di società pubbliche in grado di dare ossigeno ad una economia messa in ginocchio dai vari speculatori della finanza.

Il miracolo economico italiano figlio dell’IRI

Non si può negare una pacifica evidenza. Gli anni della rinascita del Secondo Dopoguerra sono stati possibili soltanto grazie al modello economico dello Stato imprenditore, dentro il quale c’era una quantità di eccellenze da far paura.

In esso si trovavano l’Alfa Romeo, la STET, Finmeccanica, Fincantieri, le Autostrade e le banche di interesse nazionale quali il Banco di Roma, il Credito Italiano e la Banca Commerciale Italiana.

All’inizio degli anni ’60, l’IRI era divenuto uno dei gruppi industriali più importanti al mondo perché l’idea partorita dallo statistico Alberto Beneduce negli Anni Trenta era quella di consentire allo Stato di diventare un imprenditore e investire nei settori strategici nazionali che non potevano crescere senza investimenti pubblici.

L’intero cuore pulsante economico ed industriale dell’Italia era lì. Soltanto lì c’era il segreto del miracolo economico italiano e della quarta potenza industriale al mondo.

Se si fossero seguiti a quell’epoca i “parametri di Maastricht” o piuttosto il “patto di stabilità interno”, l’Italia ancora oggi sarebbe in mezzo alle macerie, come capita di vedere, ad esempio, in alcuni siti colpiti dai vari terremoti degli Anni Duemila, nei quali non si sono nemmeno tolte di mezzo le rovine.

Dagli anni ’90 in avanti infatti si è manifestato un processo di trasferimento di ricchezza, passata dalle mani pubbliche alle mani private.

Le bugie neoliberali

Affermavano i neoliberali che lo Stato si sarebbe arricchito con le privatizzazioni, ma a vedere cresciuto il proprio portafoglio sono stati fondi quali BlackRock e Vanguard, nei quali ci sono i capitali dei Rothschild, del Rockefeller, e dei DuPont, dove oggi sono parcheggiate molte ex partecipazioni dell’IRI.

È improprio quindi definire il neoliberismo come una scuola economica.

Esso è soltanto un costrutto di pensiero partorito da economisti vicini alla finanza internazionale, quale il citato Friedman, per fornire le false premesse ideologiche “necessarie” a far credere che le privatizzazioni sarebbero state la panacea ad ogni male.

Alla vigilia di un disastro

Oggi ci si ritrova sotto certi aspetti ad un punto della storia non molto dissimile da quello dell’Italia uscita dalla Prima Guerra Mondiale, in mano alle consorterie liberali.

La corruzione, allora come oggi, impera. Non c’è una vera classe dirigente nel senso autentico del termine, poiché al potere ci sono soltanto dei rappresentanti dell’alta finanza.

La principale differenza tra allora ed oggi è che Londra non è più la capitale dell’anglosfera e che il suo successore, Washington, non è più interessato a garantire nulla.

L’attuale sistema si sta inevitabilmente disgregando, dal momento che sono venute meno le condizioni politiche internazionali che consentivano la sua esistenza. Ci troviamo nella fase terminale della democrazia liberale, quella nella quale gli speculatori cercano di aumentare il proprio bottino prima del crollo generale.

La svolta possibile

L’Italia può ancora farcela se rientra in possesso degli strumenti economici e monetari indispensabili. Sarà impossibile ripartire, un domani, senza tenere a mente un principio essenziale. Non ci sarà rinascita senza Stato imprenditore. E non ci sarà tale passaggio se prima non si metterà al bando l’intera classe politica nei suoi due schieramenti contrapposti per le questioni secondarie, ma concordi in quelle essenziali.

Fino a quando sarà ad essa consentito di occupare i vertici della cosa pubblica, la cosa pubblica non sarà pubblica.

In questo contesto, la morte dell’Iveco italiana non può finire commemorata in un necrologio. Non può passare sotto silenzio. Deve diventare consapevolezza. Deve insegnarci ad agire davvero.

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