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15/05/2024

La crisi dell’imperialismo Usa, dall’interno e dall’esterno

A più di sette mesi di distanza dal "Diluvio di Al-Aqsa" del 7 ottobre 2023, continua lo sforzo titanico dei media mainstream per una spiegazione mite, edulcorata degli immani crimini compiuti e ancora in corso a Gaza da parte israeliana. Non sembrano sufficienti le quarantamila vittime palestinesi e la totale devastazione urbana nella Striscia a scuotere la coscienza dei produttori di informazione al soldo dell’atlantismo.

Segnali più autentici di rifiuto e contrasto a quest’ordine di cose provengono dall’imponente movimento degli accampamenti universitari che si oppone a programmi collaborativi con Israele, esprimendo sostegno all’indomita resistenza palestinese.

Una delle sfide comunicative più rilevanti da quel sabato mattina di ottobre è stata una normale opera di contestualizzazione storica e politica di quegli atti resistenti. Contro di essa si è attivato infatti l’ampio uso di una narrativa che di colpo cancellava un secolo di occupazione, crimini, reati, apartheid operati da Israele. Ancor più sfocata è apparsa la collocazione delle crisi contemporanee all’interno del quadro geopolitico con il protagonismo degli interessi imperialisti degli Stati Uniti d’America per un mondo unipolare sottoposto al loro dominio.

Ritornano perciò utili, quasi profetiche, le parole che vent’anni fa pronunciava il politologo ed economista Samir Amin “Il progetto di dominio degli Stati Uniti – con l’estensione delle dottrine Monroe all’intero pianeta – è sproporzionato. Questo progetto che, sin dal crollo dell’Urss nel 1991, individuo come Impero del caos si scontrerà fatalmente con l’insorgere di una crescente resistenza delle nazioni del vecchio mondo indisponibili ad essere assoggettate. Gli Stati Uniti dovranno allora comportarsi come un “Stato canaglia” per eccellenza, sostituendo il diritto internazionale con il ricorso alla guerra permanente (a partire dal Medio Oriente, ma puntando oltre, alla Russia e all’Asia), scivolando sulla china fascista”.

Di tali aspetti, abbiamo inteso parlarne con Matteo Omar Capasso, ricercatore in Relazioni Internazionali presso l’Università Ca’ Foscari di Venezia e la Columbia University di New York. Capasso è editor della rivista specializzata di settore Middle East Critique.

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Dottor Capasso, gli eventi di Al-Aqsa Flood del 7 ottobre e la recente reazione dell’Iran contro Israele del 13 aprile scorso hanno evidenziato la natura vigorosa della resistenza contro l’imperialismo capitalista a guida Usa in Medio Oriente. Tale progetto di supremazia globale mostra segni di debolezza. Tuttavia, è lo stesso Marx a ricordarci quanto non sia vero che le crisi capitalistiche portino alla caduta del sistema stesso, rimarcando la capacità del capitale di riorganizzazione e quindi rafforzarsi. È però anche vero che l’impero si confronta con sistemi economici emergenti che mirano all’autonomia dal dollaro statunitense. Vuole commentare la manifesta crisi e debolezza dell’imperialismo Usa e come tale scenario sia legato alle guerre attuali?

Viviamo un periodo di cambiamento epocale da un punto di vista dell’analisi dialettica storico-materialista. Sicuramente, è un momento di trasformazione dell’impero, del progetto americano di dominio e controllo mondiale. È un periodo di crisi dovuto a molteplici fattori.

Questo, però, non deve autorizzarci a parlare di una situazione di chiaro declino delle mire degli Stati Uniti, ritenendoli prossimi a una sonora sconfitta. I momenti di trasformazione sono molto turbolenti e ritorna sempre utile il monito gramsciano per cui “la crisi consiste proprio nel fatto che il vecchio muore e il nuovo non può nascere: in questo interregno si verificano i fenomeni morbosi più svariati”.

Tuttavia, analizzando gli eventi, una delle cause principali del declino è insita nel capitalismo stesso, con un cambio di natura qualitativa interna all’imperialismo americano, dovuto alla finanziarizzazione del capitalismo. Vi è sempre più necessità di estrarre profitti in dimensioni temporali sempre più accorciate e questo conduce alla bulimia della finanza, del capitalismo con ovvie ricadute riguardanti i processi di militarizzazione che osserviamo. Esistono sempre le condizioni per estrarre profitto. Solo che tali operazioni necessitano di intervalli di tempo molto più brevi e quindi anche molto più violenti.

Appare chiara una nefasta sinergia tra urgenza performativa ed estrazione del profitto. In questa fase storica, con un progetto americano imperialista influenzato dall’esigenza finanziaria, qual è il ruolo della politica?

È chiaro che ciò a cui facevo cenno ha conseguenze di carattere politico. Non è più possibile pianificare e conseguire una visione politica di lunga durata. In tali condizioni, gli Stati Uniti fronteggiano un progetto di natura diversa, quello cinese, che è emerso dopo tanti anni creandosi uno spazio di autonomia, ma anche di riferimento per il Sud del mondo e altri Paesi ancora che intendono agire e confrontarsi operando in un nuovo sistema.

La Cina ha dunque definito uno spazio di autonomia all’interno del quale governa il proprio sviluppo mantenendo pieno controllo sulla sovranità nazionale e sui propri capitali. Ha di fatto creato la possibilità, simbolica ma fondamentale perché storicamente sconfitta dall’imperialismo americano come in Sudamerica o proprio nel caso del progetto di socialismo arabo, di un nuovo modello di sviluppo perseguibile, qualitativamente diverso da quello degli Stati Uniti.

A tal proposito, mi vengono in mente le pagine di Adam Smith a Pechino di Giovanni Arrighi. La Cina utilizza lo strumento del mercato all’interno di un sistema politico non capitalista dove però la politica mantiene tutta la sua centralità. Ciò ha determinato condizioni differenziali che mettono in crisi il sistema americano che invece ha prodotto risultati disastrosi a partire, come lo stesso Arrighi sottolinea, dall’aggressione all’Iraq del 2003, aggravati poi dalla successiva invasione di quei territori.

In sostanza, siamo in un momento storico di trasformazione dell’imperialismo americano dovuto non solo a una sua crisi interna ma anche all’ascesa e alla costruzione di nuove formazioni sociopolitiche come Cina, quindi Brics, e altri ancora.

La crisi dell’imperialismo sembra innescare la corsa agli armamenti e la produzione di guerre per rivitalizzare flussi e processi economici. I leader occidentali, ormai più familiari con slogan populisti ed elettorali che non con strategia e teoria politica, sono assolutamente proni alle esigenze della finanza e dell’industria bellica. Il motore della spesa militare gira dunque a pieno regime e le politiche internazionali sono concentrate su ricerca e allocazione di immense risorse per alimentare i famelici bisogni dell’operatività NATO. Quali considerazioni sono possibili a riguardo?

Sarebbe ovviamente sbagliato credere che, per il progetto imperialista americano, l’aspetto militare sia stato meno importante in passato. È vero però che è in atto una trasformazione con l’intensificazione della struttura di accumulazione di capitale mediante guerra e distruzione in quanto tale. Adesso non si distrugge per causare cambi di regime ma si procede alla devastazione proprio con quello scopo: radere al suolo, uccidere.

Parliamo di una violenza che rappresenta il fine stesso delle operazioni che vengono progettate e attuate. Questo dovrebbe generare grande preoccupazione anche qui in Occidente, perché la violenza così costantemente prodotta e che diventa elemento fondamentale per la continua estrazione del capitale colpisce, al momento, le classi lavoratrici del Sud del mondo ma, persistendo, arriverà a espandersi molto oltre i teatri di guerra attuali.

La guerra conferma più che mai la sua centralità nelle scelte politiche imperialiste...

Sì, perché si vuole creare quello stato di emergenza caratterizzato da un correlato ideologico e politico favorevoli all’adozione di tipiche misure che, soprattutto nel Nord del mondo, sono strettamente legate a una consistente riaffermazione del fascismo. D’altra parte, però, circa la valutazione del momento attuale, vale la pena ricordare le evidenti divisioni che si manifestano negli stessi ambienti marxisti.

Ad esempio, per quel che concerne le opposte interpretazioni sulla risposta militare che impegna il progetto imperialista verso la Russia intervenuta in Siria per proteggerne la sovranità nazionale o in Ucraina per contrastare l’espansione della NATO. Lo stesso dicasi per gli eventi in corso in Niger, anche questi dipendenti dall’intervento NATO del 2011, collegato a quello che venne attuato in Libia.

È ovvio che con riferimento all’interpretazione dell’intervento russo in Siria o in Ucraina si scoperchia un vaso di Pandora con posizioni tra loro parecchio distanti: c’è chi, come Emiliano Brancaccio, parla di “guerra capitalista” con tutte le parti coinvolte che sono infine interessate alla guerra. Altri, invece, scorgono negli eventi in atto l’intervento necessario per contrastare e fermare gli aggressivi appetiti della struttura imperialista americana.

A riguardo è bene evidenziare che ci troviamo al cospetto di una struttura gerarchica con l’imperialismo americano all’apice che genera una risposta non solo economica ma anche militare da parte dei paesi del Sud del mondo: ci si sta giocando il futuro in questo momento e se la risposta di Europa e Stati Uniti è la delega all’azione NATO non c’è da essere ottimisti.

Numerosi dossier attestano i punti di convergenza tra Russia, Cina e Iran. Vale la pena ricordare l’intenso tessuto relazionale e di cooperazione economica e militare che si è sviluppato tra questi Paesi, suggellato dalla cornice dell’iniziativa eurasiatica della Shanghai Cooperation Organization con un modello multilaterale e articolato, dove comuni interessi non collidono però con le peculiarità di ogni singola entità statale. Nonostante la complessa articolazione di interessi e culture, è immaginabile la costituzione di un fronte comune contro l’avanzata imperialista?

Assolutamente. Allo spazio di autonomia creato dalla Cina, si associa quello operato dalla Russia. Quest’ultima sta subappaltando la produzione di armi a Stati come l’Iran condividendo brevetti e know-how permettendo così all’Iran di dotarsi di mezzi militari evoluti. La Cina ha poi mantenuto una posizione senza compromessi sull’economic warfare fornendo appoggio economico all’Iran per far sì che riuscisse ad affrontare gli ostacoli posti dalle sanzioni internazionali.

Lo spazio di autonomia generatosi fa sì che gli interessi di questi Paesi si incrocino produttivamente nel confronto con l’impero pur non essendoci di fatto un’agenda specifica con punti predeterminati d’azione.

È molto rilevante l’ascesa di tali formazioni sociopolitiche con spazi di autonomia che esse stesse creano e presidiano. Può la convivenza di eterogeneità, differenze di valori, culture e tradizioni nel suo multipolarismo avere efficacia antimperialista?

C’è una componente filosofica della questione nella tensione tra universale e particolare. È possibile portare avanti un progetto universale di prosperità, di uguaglianza e di giustizia riconoscendo però all’interno di questo l’eterogeneità delle varie formazioni storiche e sociopolitiche che vi concorrono.

Di fatto, se si vuole, è lo spirito stesso delle grandi organizzazioni internazionali. Sotto l’imperialismo ciò non avviene perché formazioni particolari non vengono riconosciute a meno di una loro integrazione subordinata a seguito di “democrazia” imposta con le bombe. Ma anche l’arroganza, il senso di superiorità di certo marxismo occidentale non aiuta.

Sarebbe necessario unirsi attorno a certi valori nel rispetto dell’eterogeneità e delle varie traiettorie storiche e regionali. In questo senso, la Palestina sta offrendo esempio con grande chiarezza a tutte le forze progressiste del mondo: siamo in un momento storico dove bisogna effettivamente riconoscere che le forze che portano avanti una resistenza che mobilizzi l’Islam sono concretamente progressiste e in lotta per la Liberazione Nazionale.

Lo stesso Fidel Castro, in una delle sue interviste, sottolineò come i socialisti avessero sottostimato i poteri della nazione e della religione che non possono a priori essere trascurati per precetti teorici: la necessità, la riconfigurazione materiale di un socialismo in questi territori non può prescindere dall’ombrello dell’Islam. E le due cose devono avvenire insieme, anche perché il rischio sarebbe quello dell’instaurazione di Stati islamici di carattere borghese.

Nello scenario contemporaneo, cosa rappresenta Israele per le mire imperialiste Usa?

In Medio Oriente, l’entità sionista-Israele è l’avamposto militare degli Usa nella regione. Economia e apparato militare israeliani sono stati supportati dalla finanza americana con circa 260 miliardi di dollari versati tra il 1943 e il 2023 come testimoniato da un’analisi effettuata dallo stesso Congresso Usa. E ciò non considerando i vari prestiti costanti nel tempo e le garanzie su essi maturate ed estese a Israele che valgono ulteriori milioni e aggiuntivi pacchetti militari.

È sufficiente pensare che il solo Obama, ex presidente ritenuto tra i più liberal nel ruolo, ha fornito a Israele uno dei pacchetti di finanziamento più ingenti pari a circa 38 miliardi.

Israele è dunque, senza dubbio, un avamposto militare. Qual è la sua funzione? Ovviamente, non quella di raggiungere terre dove riportare la parola del Messia. Fondamentale è invece la materialità del suo progetto: controllare flusso e accesso al petrolio non tanto per il petrolio in sé al pari di una commodity, ma per far sì che i fatturati derivanti dal petrolio non contribuiscano a tracciare percorsi politici e territoriali sganciati dall’imperialismo americano.

Israele è stato ed è fondamentale per la distruzione dei progetti progressisti interni alla regione, come avvenuto al tempo delle istanze promosse dal socialismo arabo e, ora, con le azioni dell’Asse della Resistenza.

A tal proposito, il 7 ottobre ha evidenziato una salda coesione tra le varie fazioni palestinesi sia nell’approccio teorico che nella prassi resistente. Come si realizza tale intesa tra forze come Hamas e Jihad islamico che si rifanno ai valori esplicitamente religiosi dell’Islam con quelle, ad esempio, come il Fronte Popolare per la Liberazione della Palestina di tradizione marxista?

Sul piano dell’approccio teorico e dell’analisi storico-materialista, va subito detto che, quando si valuta il cosiddetto Sud del mondo va smantellata la tipica arroganza del marxismo occidentale dell’“adesso vi spieghiamo noi cosa sia il socialismo”. Sulla coesione della resistenza palestinese, è fondamentale la sua natura eterogenea e la storia su cui si fonda che vale la pena di ricordare seppur sommariamente.

Il comunismo aveva giocato un ruolo decisivo nella lotta contro il nazismo. Dopo la Seconda Guerra Mondiale, con l’ondata di decolonizzazione in Africa e in Asia, numerosissime colonie raggiungono la loro indipendenza almeno a livello formale. Nella regione araba, l’Egitto sotto la guida di Gamal Abdel Nasser porta avanti la rivoluzione del ‘53 che insisteva sull’indispensabile unità e autonomia della regione stessa dalla dominazione americana. Tale progetto richiedeva la liberazione senza compromessi della Palestina.

Nel progetto ideologico del panarabismo che conciliava componenti laiche, religiose, socialiste e identitarie arabe, la liberazione della Palestina era cruciale. Israele veniva quindi individuato come avamposto militare del colonialismo britannico prima e dell’imperialismo americano poi. Nel corso degli anni, con sanzioni, conflitti armati, finanziamento di gruppi islamici reazionari di opposizione, l’imperialismo americano ha adottato tutte quelle misure atte a sconfiggere il progetto panarabo, riuscendovi.

E così le classi dirigenti di Iraq, Siria, Libia, Egitto sono state schiacciate dalla forza o hanno gradualmente rinunciato al percorso rivoluzionario divenendo classi compradore, agganciandosi al progetto americano. Basti pensare alla figura di Sadat con la sottoscrizione degli accordi di Camp David che gettano le basi per la graduale normalizzazione di Israele nella regione.

Ovviamente la sconfitta del panarabismo viene accelerata dal collasso dell’URSS tant’è che si diffonde la famosa teoria di Fukuyama della “fine della storia” con l’affermazione dell’ordine liberale.

Questo lascerebbe intendere che lo spirito unitario che alimentava il panarabismo nasseriano possa riprodursi nell’azione di un Asse della Resistenza coeso?

L’Asse nasce anche dalla violenza stessa che il colonialismo determina all’interno della regione. Intanto, va ricordata la rivoluzione iraniana del 1979 con un Iran che resta saldo nonostante le sanzioni, grazie anche al supporto economico della Cina. L’invasione israeliana del Libano nel 1982 è determinante per la nascita di Hezbollah, mentre Hamas nasce dal fallimento del progetto dell’OLP trasformatosi in una classe borghese, braccio destro dell’occupazione israeliana.

Hamas lancia così un progetto nuovo che parla alle masse, a un tessuto sociale abbandonato. Vince le elezioni palestinesi del 2005 venendo però poi relegato a operare nella Striscia di Gaza. Lo Yemen dal canto suo è oggetto di distruzione costante a partire dalla cosiddetta guerra internazionale al terrorismo, quindi dal 2003 fino alla guerra del 2014 portata avanti dall’Arabia Saudita col supporto politico ed economico degli Stati Uniti.

Sempre dal 2003 si ha la devastazione dell’Iraq dove poi si verifica un’importante dinamica interna con la componente sciita progressivamente più importante delle comunità sunnite. E dal 2013 c’è la distruzione della Siria. In questa costellazione di eventi, l’Asse della Resistenza si configura mobilizzando l’Islam politico della regione attorno alla tradizione sciita con l’intesa tra Iran ed Hezbollah.

Pur partendo da istanze religiose, progredisce poi una strategia politica con un vero e proprio progetto di liberazione nazionale libanese e a tale impostazione afferiscono nel tempo altri attori che aderiscono a un piano complessivo di liberazione nazionale con una strategia specifica basata sulla solidarietà regionale.

Hamas stesso è un progetto parecchio evolutosi nel tempo: è sufficiente ricordare che nel 2011 condannava il “regime” di Assad in Siria appoggiando i moti di protesta. Oggi si assiste a un profondo cambiamento politico in cui sia Hamas che Jihad Islamico e Fronte Popolare convergono riconfigurando la direzione non solo militare ma anche politica e ideologica portandoli ad allearsi con le varie formazioni sociopolitiche che compongono l’asse della Resistenza.

È fondamentale la comprensione di tali dinamiche. Qual è il grado di consapevolezza di ciò in Occidente?

In tutta sincerità, si fa fatica a parlare apertamente di questi argomenti. Aggiungo ancora qualche considerazione in merito. La prima è quella di un posizionamento dell’Islam nell’ottica liberista occidentale osservato come alterità, con un’islamofobia diffusa per cui è impensabile associare l’Islam a visioni progressiste, di giustizia all’interno della regione.

E questo ben si lega anche alle famose guerre culturali introdotte dapprima negli Stati Uniti e in Francia che vanno diffondendosi nel nome di quell’Islamoleftism strumentalizzato dalle destre per stigmatizzare orientamenti politici di sinistra coniugandoli a un uso strumentale e sciagurato dell’Islam nel progetto di Liberazione Nazionale.

C’è però anche da dire che gran parte della sinistra occidentale si è intensamente interessata e spesa per le istanze dei Curdi o del contrasto al regime in Siria. Ora, non sminuendo la rilevanza di un certo tipo di lotte, bisogna però rimarcare quanto decisamente più centrale rimanga quella contro l’imperialismo.

Con l’azione dell’Iran in risposta al bombardamento della sua sede diplomatica a Damasco da parte di Israele, molteplici sono state le sfumature nei commenti di esponenti “neoliberal” e progressisti. Spesso, più che condannare l’indebita aggressione sionista, sono apparsi spiazzati sulla legittimità della risposta di quella Tehran “canaglia” da essi stessi ritenuta carnefice dei diritti umani. Una girandola di ricostruzioni strumentali e parziali che certo non sembrano simpatizzare per l’Asse della Resistenza nella sua azione antimperialista. Non trova?

Sono assolutamente d’accordo. Lo accennavo parlando della trasformazione in atto: ciò che accade in Palestina è una versione intensificata del cambiamento a livello strutturale nel mondo. In Palestina, ovviamente, permane uno stato di occupazione e dunque si parte da una situazione di base molto più violenta con un cambiamento che sarà ancor più cruento e lo stiamo vedendo bene.

L’utilizzo piuttosto strumentale, propagandistico, addirittura militare, dei diritti umani è promosso per delegittimare intellettualmente, moralmente e politicamente gli unici attori protagonisti di una postura umanitaria rispetto alla situazione in Palestina. Se c’è qualcosa di effettivamente umanitario nel contesto di quanto accade lo si deve non a Stati Uniti e Paesi occidentali ma a Yemen, Iran e Libano.

Di recente, un noto parlamentare di Hezbollah mi faceva osservare l’importanza dell’integrazione tra le varie componenti della resistenza. Contestava fortemente il ruolo di “proxy dell’Iran” attribuito a Hezbollah, precisando le caratteristiche specifiche e locali del partito libanese. Al tempo stesso, esprimeva la necessità di internazionalizzazione della resistenza in rete con soggettività politiche presenti nei Paesi esterni alla regione ma convergenti sulle istanze antimperialiste. Un segnale potente proviene dalla gioventù studentesca anche coadiuvata dall’uso di internet. Dal momento che si parla spesso criticamente delle piattaforme social più note perché funzionali al capitale, si può sostenere che il General Intellect, tra distanze ed eterogeneità, abbia trovato nuove forme di espressione produttive nell’azione antimperialista?

Secondo me sì. Io sono del parere che tutti gli strumenti emergono in un dato periodo storico e hanno una natura propria che si collega al processo storico attraversato. Sarebbe stato risibile attribuire un ruolo positivo ai social media nel 2011 nel corso delle cosiddette primavere arabe quando il loro uso venne strumentalizzato per sostenere determinati interessi.

Oggi assistiamo a uno sviluppo policentrico dei social media, utili per “respirare” il processo di cambiamento storico che si dipana molto violento e molto veloce. Ma questi momenti di protesta e condanna devono stimolare una riflessione, se possibile, più potente in chi in Occidente guarda alla Palestina: il problema non è solo Israele, il problema è quello che abbiamo a casa, nei nostri Paesi che supportano Israele direttamente. Governi seriamente progressisti in Italia ed Europa sarebbero salutati con favore dai palestinesi.

Nel quadro degli eventi in corso a Gaza, qual è la sua valutazione sull’operato delle Nazioni Unite, degli organismi di diritto internazionale? È sconfortante osservare la loro impotenza e inefficacia. Gli Stati Uniti col loro potere di veto svolgono il ruolo di azionista di maggioranza all’Onu, l’azione della Corte Internazionale di Giustizia è stata platealmente snobbata da Israele e quella della Corte Penale sembra al servizio degli interessi imperiali. Non le pare che sia compromessa gravemente la credibilità di questi organismi e che la loro stessa ragion d’esistere sia messa in discussione o da rivedere completamente?

Condivido molto quello che dice non senza un senso di amarezza e di cinismo. L’iniziativa promossa coraggiosamente dal Sud Africa presso la Corte dell’Aja ha molto sorpreso anche colleghi e compagni con cui si condividono quotidianamente analisi dello scenario. Eppure, tante risoluzioni Onu sono state approvate ed emesse in passato e con evidenza.

Converrà, però, che quelle risoluzioni siano poi storicamente associate all’evidenza di non essere rispettate.

Esatto! Mi sovviene la battaglia di Dien Bien Phu per l’indipendenza in Indocina, dove gli accordi di pace vennero siglati soltanto dopo che la resistenza vietnamita riuscì a sconfiggere militarmente i francesi. Costa dirlo ma sembra che la violenza sia in auge tra le forme principali delle contraddizioni del mondo politico. Mao sosteneva apertamente che le contraddizioni esistono e sempre esisteranno nella società.

L’idea che i conflitti, gli Stati spariscano è naive. Esisteranno sempre le contraddizioni, il problema è gestirle e decidere quali forme possano assumere. È un problema molto serio quando la violenza diviene forma dominante. Bisognerebbe occuparsene in maniera diversa col diritto e altri strumenti realmente efficaci ma all’epoca attuale queste istituzioni non possono fare la differenza. Nessuno aspira a soluzioni caratterizzate dalla violenza ma, come nel caso della resistenza palestinese, il ricorso a essa diviene una necessità storica.

Ricordo i commenti di coloro che in un primo momento restarono affascinati dai deltaplani del 7 ottobre di Al-Aqsa flood salvo poi, a poche ore di distanza, condannarne la feroce violenza “senza se e senza ma”. Come si può, date quelle condizioni di occupazione, oppressione e ingiustizia, pensare che una resistenza possa esprimersi secondo vellutate opportunità operative?

Il fatto è che in Occidente certe posizioni maturano all’interno di una condizione materiale di comfort dove la violenza è una questione soltanto teorica, immaginata e non materiale. Purtroppo, il vero problema è che essa potrebbe presto manifestarsi concretamente grazie anche al contributo non trascurabile di simili ambiguità.

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