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16/05/2024

...altrimenti ci arrabbiamo! (1974) di M. Fondato - Minirece

Agguato fascio-sionista a Chef Rubio

Lo hanno aspettato fuori casa in 5-6 e, una volta superato il cancello, hanno bloccato l’uscita e lo hanno massacrato di botte.

L’accusa arriva direttamente da un video su X pubblicato da Chef Rubio, che accusa i sionisti del duro pestaggio, come si vede nelle immagini del video che trovate in fondo a queste righe.

La squadraccia sionista fa probabilmente parte di quel gruppo di picchiatori radunati, il 25 aprile, sotto gli striscioni della Brigata ebraica, agli ordini di un tale che si esibiva, tra l’altro, in un’aggressione all’inviata di Rete4.

Quel giorno quel gruppo evidentemente organizzato militarmente – tutti in divisa, tutti chiaramente “iper-allenati” – non riuscendo a praticare l’aggressione per cui si erano evidentemente preparati, si esibirono in un vasto campionario di classiche minacce fascistoidi, fino ad augurare stupri alle donne presenti in piazza in sostegno della Palestina, oltre che gettando petardi e oggetti contundenti agli antifascisti presenti.

La scelta di Rubio come primo soggetto della vendetta sionista, uscita politicamente malissimo dalla figuraccia del 25 aprile, non è casuale, data l’alta visibilità del personaggio che non si è mai sottratto dal sostegno alla causa palestinese. Rubio che peraltro aveva già pagato in prima persona, in termini lavorativi, la sua presa di parola.

Poche settimane fa, dalle più alte cariche dello Stato d’Israele era stata lanciata l’idea di gruppi paramilitari di “autodifesa” (leggasi, repressione si ogni sentimento antisionista) in ogni Stato occidentale, di fatto rendendo pubblica una prassi che già da anni attraversa le città di mezza Europa.

A noi non resta che esprimere tutta la nostra solidarietà a Chef Rubio, vittima di un vile attacco sionista che ricorda in pieno le modalità tipiche del buio ventennio fascista.

Il 25 aprile, da Milano a Roma, ha sottolineato come oggi antisionismo significhi antifascismo.

Per chi avesse ancora dei dubbi, gli accadimenti di questa sera crediamo debbano sciogliere ogni perplessità residuale. Stabilita la realtà di questa aggressione, ci resta una domanda da fare: al ministro dell’interno.

Quando parla di “manifestazioni violente” intende per caso indicare questa organizzazione paramilitare agli ordini di uno stato straniero che ha come unico programma quello di attaccare una precisa parte della popolazione italiana?

Le dichiarazioni di Ben Gvir e altri ministri sionisti erano già inequivocabili. Ora siamo ai fatti. Ed è chiaro che la scelta di fare un agguato ad una persona nota, anche mediaticamente, per il suo lavoro e le sue posizioni è stata fatta con cinica freddezza. A questa ne seguiranno probabilmente altre.

Per le modalità e l’appartenenza ad una “organizzazione internazionale”, questa aggressione ha tutte le caratteristiche di un “terrorismo emergente”. Di chiara matrice sionista e di ultradestra. Contro cittadini italiani.

Lei ha intenzione di tollerare queste squadracce (e il governo straniero), signor ministro? Ha un modo molto semplice di dimostrare il contrario: arrestandoli.

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Rivolta indipendentista in Nuova Caledonia, Parigi impone il coprifuoco

Durante la notte tra lunedì e martedì, in Nuova Caledonia, gli aderenti ad alcune organizzazioni che chiedono l’indipendenza dalla Francia hanno dato vita ad una rivolta nel territorio d’oltremare di Parigi che sorge in Melanesia, a circa 1500 km ad est dell’Australia e a 17 mila km da Parigi.

«Armi di grosso calibro e fucili da caccia sono stati utilizzati per sparare contro i gendarmi» ha detto nel corso di una conferenza stampa l’Alto commissario Louis Le Franc, che rappresenta il governo di Parigi nell’arcipelago del Pacifico colonizzato a metà dell’Ottocento e che conta attualmente circa 270 mila abitanti.
I disordini maggiori si sono verificati a Noumea, il capoluogo della Nuova Caledonia, dopo che l’Assemblea nazionale di Parigi ha avviato la discussione sulla revisione costituzionale sullo status dell’arcipelago che porterebbe ad un ridimensionamento del relativo autogoverno concesso alla colonia, ovviamente contestata dal movimento indipendentista.

La revisione costituzionale, già approvata dal Senato francese, intende infatti estendere il diritto di voto ad alcune migliaia di coloni francesi giunti in Nuova Caledonia negli ultimi decenni, diminuendo così il peso elettorale della popolazione indigena Kanak, anche se dal 2018 al 2021 il fronte indipendentista ha perso due referendum convocati per decidere quale relazione avere con la Francia ed ha boicottato una terza consultazione convocata durante la pandemia.

La riforma costituzionale prevede la concessione del diritto di voto a coloro che risiedono in Nuova Caledonia da almeno dieci anni, mentre fino ad ora le liste elettorali per le elezioni “provinciali” sono rimaste bloccate a coloro che risiedono nell’arcipelago almeno dal 1988 e ai loro discendenti, sulla base di un accordo tra le organizzazioni Kanaki e il presidente francese Jacques Chirac. Gli indipendentisti ritengono che concedere il diritto di voto “locale” a coloro che si sono trasferiti nella colonia negli ultimi decenni equivalga ad aumentare il peso politico dell’opinione filofrancese.

«Siamo stati trasformati in una minoranza da una politica di insediamento che non aveva altro scopo che questo. Ampliare l’elettorato significa perpetuare questa ingiustizia» ha denunciato Jean-Pierre Djaïwé, portavoce del Partito di Liberazione Kanak nel corso di un intervento al Congresso caledoniano.

Durante la notte tra lunedì e martedì centinaia di automobili e una trentina tra aziende, negozi e fabbriche sono state date alle fiamme sia a Noumea che nelle vicine città di Dumbéa e Mont-Dore da gruppi di manifestanti, per lo più giovani, incappucciati o mascherati.

Per ripristinare l’ordine il governo francese ha schierato quattro squadroni dei gruppi d’intervento della Gendarmeria (Gign), un’unità d’élite specializzata in operazioni speciali, ed ha imposto il coprifuoco per la notte tra martedì e mercoledì. Finora nel territorio d’oltremare, ha informato il ministro dell’interno francese Gerald Darmanin, sarebbero state arrestate 130 persone solo nel capoluogo Noumea.

Secondo le autorità ci sarebbero centinaia di feriti e tre persone – tutte di etnia Kanak – sarebbero rimaste uccise negli scontri tra i manifestanti e le forze dell’ordine, affiancate da milizie volontarie costituite soprattutto dai commercianti e coloni. Anche un agente della Gendarmeria è deceduto in seguito ad un colpo di arma da fuoco alla testa.

Nell’area metropolitana del capoluogo sono stati vietati tutti gli assembramenti e in tutto l’arcipelago sono stati sospesi il porto di armi e la vendita di alcolici. Inoltre è stata decretata la chiusura delle scuole e dell’aeroporto.

Ma nuovi scontri si sono verificati anche durante l’ultima notte, insieme ai saccheggi e agli incendi. Nel penitenziario locale alcuni detenuti hanno inscenato una rivolta e gran parte della popolazione è rimasta chiusa in casa mentre il prefetto ha prorogato i divieti di assembramento e la chiusura di scuole ed aeroporto fino a domani.

Il presidente Emmanuel Macron, dopo aver convocato per stamattina una riunione ad hoc con i responsabili dell’ordine pubblico e del Consiglio di Difesa e Sicurezza nazionale, ha dichiarato lo “stato di emergenza” per contrastare una situazione definita di tipo “insurrezionale” dalle autorità locali.

Il Fronte di Liberazione Nazionale Kanak e Socialista, che gestisce l’amministrazione locale, pur condividendo le rivendicazioni dei manifestanti ha più volte invitato a protestare pacificamente e a cessare le violenze.

Una delle preoccupazioni del governo è che gli scontri vadano fuori controllo e mettano a rischio l’estrazione del nichel nelle miniere dell’arcipelago.

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Gaza - Morti altri cinque soldati israeliani. Gli USA inviano nuove armi a Israele

Altri cinque soldati israeliani sono stati uccisi e altri sette sono rimasti feriti, di cui tre in modo grave, in un incidente che l’esercito israeliano ha definito come “fuoco amico a Jabaliya”, nel nord di Gaza. Tutti i soldati erano in servizio nel 202º battaglione della brigata paracadutisti. Uno dei cinque era proveniente dall’Argentina.

Secondo una prima indagine dell’IDF, un carro armato che operava a fianco dei paracadutisti nel campo di Jabaliya ha sparato due proiettili contro un edificio dove questi ultimi erano riuniti intorno alle 19:00. I carri armati avevano identificato una canna di fucile da una delle finestre dell’edificio e credevano che si trattasse di combattenti palestinesi ed hanno sparato due proiettili colpendo i militari israeliani.

Quanto avvenuto è la conferma delle serissime difficoltà in cui si sono venute a trovare le forze armate israeliane nei combattimenti in luoghi urbani a Gaza, dove i guerriglieri palestinesi rivelano maggiore dimestichezza e conoscenza del territorio. Da settimane la resistenza palestinese è tornata a colpire anche nelle zona nord e centrale della Striscia di Gaza da mesi occupate dalle truppe israeliane e ritenute erroneamente già sotto controllo.

Le Nazioni Unite hanno recentemente rivisto il conteggio delle vittime a Gaza, rivelando che risultano uccisi meno donne e bambini rispetto a quanto precedentemente riportato.

Tuttavia, è importante sottolineare come anche questi “dati rivisti” sono stati prodotti dal ministero della salute di Gaza e non sono stati verificati indipendentemente dalle Nazioni Unite.

Secondo i nuovi dati, sono stati confermati 7.797 bambini e 4.959 donne uccisi, per un totale di 12.756 donne e bambini uccisi durante l’operazione militare israeliana a Gaza. Una cifra enorme comunque.

Tra l’altro il bilancio complessivo delle vittime a Gaza, compresi i militanti e i civili maschi, rimane in gran parte invariato a circa 35.000 palestinesi uccisi in questi mesi.

Mentre gli apparati ideologici di Stato israeliani hanno interpretato ciò come una prova di rivalutazione da parte delle Nazioni Unite, l’OCHA sottolinea che si basa sui dati del ministero della salute e li verificherà quando le condizioni lo permetteranno. “La situazione rimane profondamente preoccupante, con una serie di violenze contro donne e bambini a Gaza, tra cui decessi quotidiani e bambini orfani fin dall’inizio della guerra” dichiarano le Nazioni Unite.

L’amministrazione Biden sta preparando un nuovo pacchetto di aiuti militari per Israele, dal valore complessivo di circa 1,2 miliardi di dollari. Fonti anonime hanno riferito al Wall Street Journal che il governo federale ha inviato la relativa notifica al Congresso nella giornata di martedì 14 maggio.

La notizia arriva nemmeno una settimana dopo che l’amministrazione Biden ha bloccato il trasferimento di migliaia di bombe pesanti ad Israele, per evitare che vengano utilizzate nel quadro di una possibile operazione militare israeliana su larga scala nella città di Rafah, nella Striscia di Gaza.

Il nuovo pacchetto di armi, secondo le fonti, include il “possibile trasferimento” di munizioni per carri armati per 700 milioni di dollari; veicoli militari tattici per 500 milioni; e proiettili per mortai per 60 milioni.

Il Wall Street Journal scrive che “i funzionari statunitensi hanno sottolineato la loro opposizione a un attacco israeliano su vasta scala nella città di Rafah, affermando che potrebbe causare vittime civili diffuse e aggravare la crisi umanitaria di Gaza senza porre fine alla minaccia che Israele deve affrontare da Hamas. Ma finora hanno concretizzato la loro opposizione solo trattenendo un singolo carico di bombe da 2.000 libbre”.

Gli esperti delle Nazioni Unite hanno espresso oggi il loro profondo sgomento per le dichiarazioni rilasciate da funzionari statunitensi e israeliani che minacciano ritorsioni contro la Corte penale internazionale (CPI), i suoi funzionari e i membri delle loro famiglie.

“In un momento in cui il mondo dovrebbe unirsi per porre fine al terribile spargimento di sangue a Gaza e cercare giustizia per coloro che sono stati uccisi, feriti, traumatizzati o presi in ostaggio illegalmente, dal 7 ottobre, è angosciante vedere funzionari statali minacciare ritorsioni contro un tribunale per aver perseguito la giustizia internazionale”, hanno detto gli esperti.

Venerdì 3 maggio, l’Ufficio del Procuratore (OTP) ha denunciato dichiarazioni che “minacciano ritorsioni contro la Corte o contro il personale della Corte” per le azioni intraprese dal Procuratore. La dichiarazione dell’OTP ha ricordato a tutti gli individui che le minacce di ritorsione possono costituire un reato contro l’amministrazione della giustizia ai sensi dell’articolo 70 dello Statuto di Roma.

“È scioccante vedere paesi che si considerano campioni dello stato di diritto cercare di intimidire un tribunale internazionale indipendente e imparziale per ostacolare la responsabilità”, hanno detto gli esperti delle Nazioni Unite.

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Rapporto Istat 2024: un’Italia di salari bassi e giovani senza opportunità di Gigi Sartorelli

Ieri l’Istat ha pubblicato il suo rapporto annuale per il 2024, che fa un quadro complessivo della situazione italiana. Anche quest’anno la fotografia che ne deriva è davvero impietosa: il Bel Paese è precario, funestato dalle disuguaglianze, quasi punitivo per i giovani che studiano.

I dati raccolti parlano dell’Italia sotto vari aspetti, ma ce ne sono alcuni che saltano all’occhio e che fa bene riassumere per mostrare dove ci ha portato l’incapacità della classe dirigente. A partire da ciò che il governo si guarda bene dal dire sull’occupazione e sulle retribuzioni.

Neanche due settimane fa la Meloni si fregiava del tasso di occupazione in aumento e dei disoccupati in diminuzione. Per quanto riguarda il primo (numero di persone occupate sulla popolazione tra i 15 e i 64 anni), l’Istat certifica un aumento del 2,4% rispetto al 2019, raggiungendo il 61,5%.

Quello che Palazzo Chigi non dice è che l’Italia rimane di gran lunga dietro la Spagna, la Francia e la Germania. Se si considera la popolazione tra i 20 e i 64 anni, a marzo venivano diffusi dati che davano il nostro paese al 66,3%, lontano quasi dieci punti dalla media europea e fanalino di coda della UE.

Per quanto riguarda i disoccupati in diminuzione, è di nuovo l’Istat a dirci che allo stesso tempo il tasso di inattività di coloro tra i 15 e i 64 anni è il più alto della UE (33,3%). Come vari analisti ricordano da anni, in Italia il problema è che in pochi lavorano, e in tanti hanno persino rinunciato a cercarlo.

E non perché le paghe di chi lavora siano così ricche da permettere di rimanere a casa. Tra il 2013 e il 2023 le retribuzioni medie annue sono aumentate del 16% in termini monetari, ma allo stesso tempo il potere d’acquisto delle retribuzioni lorde è diminuito del 4,5%.

Tra gennaio 2021 e dicembre 2023 i prezzi al consumo sono aumentati del 17,3%, e le retribuzioni contrattuali solo del 4,7%. Solo nell’ultimo trimestre del 2023 e nel primo del 2024 si comincia a segnalare un’inversione di tendenza, ancora lontana da un recupero completo di quello che i lavoratori hanno perso.

Tra il 2014 e il 2023 la spesa equivalente delle famiglie, in termini reali, è diminuita del 5,8%, con picchi oltre l’8% per le famiglie dei ceti bassi e medio-bassi. Intanto, anche la propensione al risparmio è diminuita fino al 6,3% lo scorso anno: si guadagna meno e si dà fondo ai risparmi, senza tuttavia essere in grado di spendere come un tempo.

Difatti, sempre tra il 2014 e il 2023 l’incidenza della povertà assoluta tra gli occupati è passata dal 4,9% al 7,6%, e tra gli operai dal 9% al 14,6%. Se ci si aggiunge che nel 2023 oltre la metà degli impiegati a tempo parziale avrebbe voluto lavorare di più (era involontario, in sostanza), si chiude il quadro di un paese che non riesce a stare al passo con le aspettative dei suoi cittadini.

Questo vale ancor di più se si guarda un altro paio di dati. Innanzitutto, al fatto che il 34% degli occupati laureati (circa 2 milioni di persone) sono impiegate con un inquadramento professionale più basso rispetto al titolo conseguito: sono “sovra-istruiti”, in una definizione che mostra tutta la distorsione del nostro modello di sviluppo.

I part-time involontari e i sotto-inquadrati dimostrano ancora una volta che la retorica per cui c’è troppa gente che non ha voglia di lavorare è falsa. E anche la litania per cui, prima di qualsiasi aumento salariale, si dovrebbe aumentare la produttività, viene smontata in poche righe dall’Istat stesso.

In una delle schede di presentazione del rapporto si può leggere infatti: “La riduzione della capacità produttiva nella manifattura e la persistente debolezza della domanda interna hanno contribuito a deprimere gli investimenti fissi lordi e, di riflesso, la produttività del lavoro”.

Gli imprenditori non investono, e non investono perché la domanda interna è stata compressa da decenni di austerità, precarizzazione e compressione salariale. Il paradigma mercantilistico che hanno ripetuto in continuazione, a Bruxelles e a Roma, dovrebbe essere ribaltato.

Infine, negli ultimi venti anni la partecipazione politica è diminuita di 15 punti percentuali (37,6% tra i 25 e i 64 anni). Un numero che mostra la disaffezione alla politica da parte della cittadinanza, in un paese in cui i vincoli esterni, di bilancio o di guerra, hanno fatto sentire la popolazione sempre meno in grado di incidere su una classe dirigente lobbistica.

Il primo giugno la manifestazione nazionale è sì contro il governo, ma sarà anche la piazza che rappresenterà una reale alternativa a questa Italia che hanno costruito sullo sfruttamento e, troppo spesso, anche sul sangue dei lavoratori.

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La variabile del Libano nel conflitto in corso in Palestina

Il 12 maggio, il Segretario Generale di Hezbollah Hassan Nasrallah ha tenuto un importante discorso in occasione dell’anniversario della morte del capo dell’ala militare dell’organizzazione Mustafa Badreddine, ucciso in Siria nel 2016.

Nasrallah è intervenuto sull’andamento della guerra a Gaza, sull’andamento del fronte che proprio Hezbollah ha aperto con Israele sul confine all’indomani del 7 ottobre 2023 e sulla questione dei rifugiati siriani in Libano.

Per quanto riguarda il secondo punto, sono costanti le pressioni portate, sia all’interno che all’esterno del paese, affinché l’organizzazione sciita cessi unilateralmente gli scontri che, al momento, hanno provocato più di 300 morti in Libano fra civili e miliziani e un gran numero di sfollati, dei quali si sta in parte facendo carico lo stesso partito sciita.

A tali sfollati sul lato libanese, fanno da contraltare anche gli sfollati dall’altra parte del confine, stimati fra 70mila e 200mila; questi ultimi costituiscono, per lo stato sionista, un problema di entità quasi pari a quello degli ostaggi in mano ad Hamas e alle altre organizzazioni palestinesi a Gaza, tanto da portare il ministro della difesa Gallant a minacciare di “fare a Beirut ciò che è stato fatto a Gaza”.

Nel corso di questi mesi, più volte sono state fatte pervenire al governo libanese (formalmente in carica solo per l’ordinaria amministrazione in quanto dalle ultime elezioni parlamentari del 2022 non si riesce a formare un nuovo esecutivo, né ad eleggere un nuovo Presidente della Repubblica) presunte “proposte di mediazione” da parte di USA e Francia affinché le milizie di Hezbollah cessino unilateralmente le azioni militari e accettino di arretrare a 10, 20 o 30 km dal confine (a seconda della proposta), facendo schierare al loro posto l’esercito libanese ed implementando, così, pienamente la risoluzione ONU che mise fine alla guerra del 2006.

In cambio, tali mediatori assicurano che Israele non distruggerà il Libano.

Sul fronte interno, è stato il solito Samir Geagea, capo del partito post-falangista “Forze Libanesi” a cogliere la palla al balzo: “Nessuno ha il diritto di controllare da solo il destino di un paese e di un popolo”, ha affermato. “Hezbollah non è il governo in Libano. C’è un governo in Libano in cui è rappresentato Hezbollah... Tutti i danni che avrebbero potuto verificarsi a Gaza, si sono verificati. Qual è stato il vantaggio delle operazioni militari lanciate dal sud del Libano? Nessuno”.

Nasrallah ha inteso rispondere a tutte queste pressioni riaffermando che la continuazione delle operazioni in sostegno a Gaza è una questione fuori discussione, argomentando che anche gli USA hanno assunto questo dato di fatto, tanto da aver comunicato a Netanyahu che non può esservi soluzione per il fronte settentrionale senza cessate il fuoco a Gaza.

Rispetto alla questione degli sfollati israeliani, la richiesta è esplicita: “Diciamo ai coloni del nord: se volete una soluzione, andate dal vostro governo e dite loro di fermare la guerra a Gaza”.

Sull’andamento generale della guerra a Gaza, il leader sciita ha rimarcato che Israele sta definitivamente compromettendo la propria immagine di deterrenza militare, tant’è che anche gli alleati di Netanyahu lo prendono in giro quando quest’ultimo parla di vittoria imminente, in quanto è ben lontano dal raggiungere i 3 obiettivi dichiarati, ovvero liberare gli ostaggi, distruggere la resistenza e porre fine al lancio di razzi sul proprio territorio.

Pertanto, l’occupante si trova in un vicolo cieco, poiché, da un lato, accettare le proposte di tregua dei mediatori significherebbe ammettere la sconfitta su tutta la linea, dall’altro non ha alcuna visione su come andare avanti e sul giorno dopo del conflitto.

Arrivano poi le stoccate ai paesi arabi: “I governanti arabi stavano per firmare le carte della morte della causa palestinese percorrendo la strada della normalizzazione con il nemico sionista, che sarebbe arrivata entro pochi mesi. Alcuni regimi arabi e canali satellitari stanno ora promuovendo l’entità nemica come l’unico stato democratico nella nostra regione.

La fermezza dei palestinesi ha costretto il mondo a parlare di uno Stato palestinese e ha costretto gli ipocriti Stati Uniti a parlare di uno Stato palestinese. L’immagine di Israele nel mondo è quella di un assassino di bambini e donne, arrogante nei confronti delle leggi internazionali e dei valori umani e morali”
.

Infine, riguardo i presunti contrasti fra USA e Israele, li ha bollati come meramente tattici in quanto, seppure dovesse verificarsi l’interruzione dell’invio di armi, sicuramente riprenderebbe in un secondo momento.

L’altro argomento del momento in Libano è costituito dai rifugiati siriani, verso i quali sono in corso attacchi isterici di ogni tipo, fomentati – manco a dirlo – dalle Forze Libanesi, specialmente a seguito dell’uccisione del loro dirigente Pascal Sleiman, di cui sono stati accusati alcuni siriani.

Secondo alcune stime, sono circa 1,5 milioni i rifugiati siriani presenti nel paese, su una popolazione stimata in poco più di 5 milioni di abitanti, fra libanesi e rifugiati palestinesi dal ’48 in poi. Essi vivono per lo più in campi profughi non ufficiali o semi-ufficiali, ai margini delle città o ai margini dei campi profughi palestinesi storici.

Sono la componente sociale più marginalizzata, misera e senza speranza nell’ambito della grande crisi economica che attanaglia il Libano dal 2019. Come liberarsi di loro è divenuto, da qualche tempo, uno dei principali temi del dibattito politico, accompagnato da veri e propri pogrom di cui sono fatte oggetto le tendopoli precarie in cui vivono.

Siccome secondo i dati governativi, la maggior parte di essi sperano di raggiungere l’Europa, Nasrallah ha esortato a prendere in considerazione l’idea di consentire “a tutti gli sfollati siriani che lo desiderano di raggiungere l’Europa in sicurezza”.

“Non proponiamo di costringere gli sfollati siriani a salire su imbarcazioni e partire per Cipro e l’Europa”, ha puntualizzato, ma solo di abolire la regola per la quale è vietato loro partire, che li costringe spesso a rivolgersi a degli scafisti per poi annegare in mare.

In secondo luogo, Nasrallah ha invitato il governo libanese a chiedere ai paesi occidentali di revocare il Caesar Act e tutte le sanzioni nei confronti del governo siriano, stretto alleato di Hezbollah, che attualmente rendono molto difficile il ritorno in patria dei rifugiati: “Il Libano deve dire all’Occidente che dobbiamo tutti coordinarci con il governo siriano per riportare gli sfollati in Siria e fornire su quel territorio gli aiuti”.

Come si vede, sono sempre molteplici le sfide cui deve far fronte Hezbollah, dentro e fuori dal Libano, tuttavia la barra del sostegno alla causa palestinese appare sempre dritta, così come la proposta di soluzioni ragionevoli su altre questioni.

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Governo Meloni in crisi sul “bonus”, regge solo grazie a Renzi

È sempre sul debito pubblico e l’austerità europea – inscritta nel Patto di stabilità, da oltre 20 anni – che i governi “politici” si sfasciano, a prescindere dalla composizione o dal “colore”. Era accaduto a Berlusconi, è successo con tutti i successori (meno ovviamente i governi “tecnici”, che da quel Trattato venivano imposti per mantenere la rotta stabilita a Bruxelles).

E sul debito il sempre meno leghista Giorgetti ha tirato fuori l’arma “fine di mondo” che prelude sempre a una crisi verticale: “o sul bonus edilizia si fa come dico io, o vi trovate un altro ministro”.

Nell’attuale architettura dei poteri nazionali, visto che la politica estera e militare è stata ormai sussunta dalla Nato, quello dell’economia è l’unico ministero che conti. Non come capacità decisionale autonoma, ma come cartina tornasole dell’obbedienza di un paese al Patto di Stabilità e quindi alla Commissione Europea.

Cambiare ministro ha senso solo se si cambia politica di bilancio. Ma in quel caso parte immediatamente il segnale ai “mercati”, lo spread si impenna, il costo del debito pubblico anche, e alla fine il nuovo esecutivo si deve arrendere. Chiedete a Tsipras per conferma...

Il punto di frizione sembrava in fondo minimo: spalmare su 10 anni anziché su soli quattro i crediti fiscali vantati dalle imprese che avevano effettuato i lavori “scontati al 110%”, oppure che li stanno completando. La mossa però aveva parecchie controindicazioni. Dal unto di vista legislativo, implica una retroatttività che va a toccare “diritti acquisiti” (delle imprese, per l’incasso, e dei proprietari di immobili per lo sconto).

Va anche a toccare gli interessi delle banche, che vedrebbero rientrare molto più lentamente la liquidità anticipata per i lavori.

Il tutto a parziale beneficio dei conti pubblici, meno zavorrati nei prossimi quattro anni (ma più appesantiti per quelli successivi).

Forza Italia ha provato ad alzare le barricate, ma il resto del governo ha trovato ancora una volta in Matteo Renzi il “soccorso nero” per far passare la riscrittura della norma in Commissione Bilancio. Prima il governo ha spostato un fedelissimo della Meloni in questa Commissione, per aumentare il peso della maggioranza favorevole. Poi, non riuscendo comunque ad avere la certezza matematica del successo, ha chiesto e facilmente ottenuto l’aiutino del frillo di Rignano.

Partita chiusa, per ora. La spalmatura su dieci anni passa in Commissione e quindi ancora più facilmente in Aula.

Ma la ferita resta e dopo le europee si vedrà come le contraddizioni interne alla maggioranza di governo continueranno ad aggravarsi.

Del resto, tra le promesse elettorali, le chiacchiere in libertà (tipo “i salari sono diminuiti per colpa dell’euro”, invece che per le politiche di governi criminali con il lavoro), e il tentativo di scaricare sempre le responsabilità sui governi precedenti, è sempre più difficile presentare all’elettorato – anche il più credulone – un bilancio positivo.

E l’opposizione sociale va muovendo anche i sui primi passi con molta serietà. Ci vediamo in piazza il 1 giugno, contro il governo Meloni, “reazionario, padronale e guerrafondaio”.

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15/05/2024

Il principe d'Egitto (1998) di B. Chapman, S. Wells, S. Hickner - Mini

Slovacchia - Attentato contro il Primo Ministro inviso alla Nato e alla Ue. Tentativo di regime change?

Un uomo di 71 anni, con un passato in una compagnia di sicurezza e una copertura da “scrittore”, ha sparato diversi colpi d’arma da fuoco contro il primo ministro slovacco Robert Fico, colpendolo al petto e all’addome. Lo scorso autunno Fico aveva vinto le elezioni politiche tornando a essere premier di un paese di cui è stato tre volte primo ministro tra il 2006 e il 2018.

Fico era tornato in carica il 30 settembre 2023, dopo che il suo partito progressista e filorusso Smer aveva vinto le elezioni con il 23 per cento delle preferenze.

Durante la scorsa campagna elettorale, Fico si è dichiarato apertamente anti-europeista, contrario all’ingresso dell’Ucraina nella Nato e contrario anche le sanzioni dell’Ue contro la Russia.

Ma a consolidare le posizioni internazionali di Fico e della Slovacchia – decisamente indigeste per la Nato e l’Unione Europea – nelle settimane scorse era arrivato anche il risultato delle elezioni presidenziali.

Sabato 6 aprile, Peter Pellegrini, candidato socialista e fondatore del partito Hlas (Voce-Socialdemocrazia) ha vinto il ballottaggio contro il rivale di fede liberale ed europeista Ivan Korcock, ex ministro degli Esteri, con quasi sette punti di vantaggio.

Nel primo turno, il 23 marzo, aveva prevalso Korcock con il 42,51% contro il 37,02% di Pellegrini, ma quest’ultimo è riuscito a convincere la maggioranza dell’elettorato slovacco a votarlo con posizioni “sovraniste” e soprattutto anti-guerra in Ucraina proponendo di intavolare dei negoziati con la Russia, vedendosi ovviamente affibbiare l’etichetta di “filoputiniano”.

L’elezione di Pellegrini alla presidenza della Repubblica è stata indubbiamente una sponda importante per il governo del premier Robert Fico colpito dall’attentato di oggi.

A seguito delle elezioni dello scorso settembre, Fico è riuscito nell’impresa di mettere in piedi una maggioranza composta dal suo partito Smer, da Voce-Socialdemocrazia di Pellegrini, e dal Partito Nazionale Slovacco, di destra, che condivide le stesse posizioni di Fico in tema di rapporti con l’Unione Europea e sulla guerra in Ucraina.

L’elezione di Pellegrini, è significativa dal momento che la presidenza della Repubblica non rappresenterà più un ostacolo per l’attuazione delle politiche di Fico come era in precedenza, quando la presidenza della Repubblica era in mano all’europeista Susanna Zaputova.

Il tentativo di eliminare fisicamente Fico è indubbiamente un attentato che potrebbe cambiare il corso politico della Slovacchia. Un corso che non piace né alla Nato né all’Unione Europea, tantomeno a Kyev.

È scontato dire che “tutte le ipotesi sono sul tavolo“, ma sul piano razionale siamo tutti obbligati a pensare che le tattiche del “regime change”, anche all’interno dell’Unione Europea, stanno virando dalla “pacifica” costrizione dei gruppi politici “non obbedienti” tramite il lawfare (“mani pulite”, in italiano), oppure tramite l’andamento dello spread, verso la più sanguigna e sanguinosa “majdan” in stile ucraino.

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USA - Prime vittorie della mobilitazione studentesca

Negli USA almeno sette università hanno raggiunto un accordo con gli studenti sulla trasparenza degli investimenti e l’inizio del processo di disinvestimento da Israele.

Un delle più grandi istituti del sistema universitario statale della California seguirà una strategia che prevede il dis-investimento da “società e fondi che traggono profitto da genocidi, pulizie etniche e attività che violano i diritti umani fondamentali”. L’annuncio della Sacramento State è arrivato nella tarda serata di martedì, dopo nove giorni di accampamenti di protesta nel campus della scuola, in cui gli studenti hanno chiesto alla loro università di tagliare i legami finanziari con Israele.

“Penso che sia molto significativo quello che abbiamo fatto qui, perché stiamo essenzialmente alzando il livello per tutte le università“, ha detto Michael Lee-Chang, studente al secondo anno, alla testata The Intercept, leader nel giornalismo d’inchiesta.

“Abbiamo ricevuto ogni singola richiesta, ed è così che dovrebbe essere. Siamo qui per la Palestina e il potere degli studenti non dovrebbe essere sottovalutato. Non posso che essere entusiasta e non vedo l’ora di vedere come la nostra vittoria aiuti anche altri campus a raggiungere le loro vittorie“.

La Sacramento State è una delle sette università a livello nazionale che hanno accettato almeno alcune delle richieste degli studenti che manifestano a proposito alla complicità con la violenza di Israele in Palestina. Le dotazioni delle università, che possono raggiungere i miliardi di dollari, sono spesso gestite con molta opacità sugli investimenti diretti o indiretti.

Le richieste degli studenti variano nella loro specificità da un istituto all’altro, ma in generale chiedono alle loro istituzioni una piena trasparenza su questi investimenti e di disinvestire dai produttori di armi o da altre aziende che traggono profitto dall’occupazione israeliana della Palestina, così come dalle stesse istituzioni israeliane.

In linea di massima, le scuole che hanno raggiunto un accordo con gli studenti hanno evitato di riprodurre uno scenario in cui la violenza è diventata la risposta della governance e delle istituzioni, in cui gli amministratori delle università hanno dato “un giro di vite” alla libertà d’espressione invitando la polizia a brutalizzare i loro stessi studenti e docenti.

“Negli ultimi sette mesi abbiamo visto il movimento per una Palestina liberata rafforzarsi. C’è un cambiamento, il disinvestimento dal genocidio dei palestinesi da parte di Israele diventerà una richiesta mainstream, e qualunque grado che assumerà la violenza della polizia ed il militarismo negli accampamenti studenteschi può invertire la marea che è arrivata“, ha dichiarato a The Intercept Ahmad Abuznaid, direttore esecutivo del gruppo di advocacy U.S. Campaign for Palestinian Rights.

“Le persone moralmente consapevoli non si tirano indietro perché capiscono che noi, il popolo, abbiamo il potere di creare cambiamenti politici reali e vinceremo“.

Questo cambiamento è stato in parte stimolato dalla Columbia University. Mentre due settimane fa il presidente Minouche Shafik ha annunciato la fine dei negoziati con gli studenti che manifestavano e ha chiuso il campus a quasi tutti, tranne che al Dipartimento di Polizia di New York, gli studenti osservano con cauto ottimismo come altre scuole lavorano per trovare un terreno comune con i loro studenti.

Johannah King-Slutzky, studentessa della Columbia, ha notato che gli studenti della Vanderbilt sono stati i primi a lanciare una protesta nell’accampamento, con meno clamore mediatico, ma lì i manifestanti hanno imposto il disinvestimento da Israele come argomento di conversazione nelle sale del potere, un passo essenziale verso il disinvestimento vero e proprio. “È una vittoria enorme per il movimento“.

Lo scorso martedì sera la Sacramento State ha pubblicato tre aggiornamenti, in risposta agli studenti che avevano iniziato un accampamento di solidarietà a Gaza il 29 aprile. In una nota del preside, la scuola ha dichiarato di “opporsi e condannare tutti gli atti di genocidio, pulizia etnica, terrorismo e altre attività che violano i diritti umani fondamentali“. La nota descriveva anche le proteste e l’azione politica come “pietre miliari dell’istruzione superiore e della democrazia” e affermava i”l diritto degli studenti di impegnarsi in un attivismo pacifico.”

La scuola ha inoltre dichiarato di condannare inequivocabilmente l’odio e i pregiudizi in tutte le loro forme.

In una nota la Sacramento State ha dichiarato che “non si impegnerà in alcuna attività o stipulerà alcun accordo che sia in conflitto” con la sua opposizione al genocidio, alla pulizia etnica e altre violazioni dei diritti umani.

La scuola ha anche adottato una politica di investimenti che indica alle organizzazioni ausiliarie – tra cui la fondazione filantropica e di raccolta fondi – di “studiare strategie di investimento socialmente responsabili che includano l’assenza di investimenti diretti in società e fondi che traggono profitto dal genocidio, dalla pulizia etnica e da attività che violano i diritti umani fondamentali“.

La scuola ha fatto notare che attualmente non ha investimenti diretti di questo tipo e si è impegnata a mantenerli, oltre a studiare una strategia simile per gli investimenti indiretti. “Perseguiremo un approccio agli investimenti basato sui diritti umani“.

Alla domanda se Israele rientri nei criteri descritti, un portavoce dell’università ha dichiarato a The Intercept che la “politica è intenzionalmente intesa a coprire le molte atrocità e sfide che hanno luogo in tutto il mondo“.

Lee-Chang, uno studente della Sacramento State, ha detto che gli studenti non hanno perso di vista il fatto che “il preside dell’università Luke Wood sta rischiando molto facendo questo“, notando che i presidi delle università sono personale a tempo indeterminato del cancelliere e del consiglio di amministrazione della CSU. “Non ha mai chiamato la polizia e si è dimostrato relativamente amichevole durante l’intero processo”.

A circa 450 miglia a sud di Sacramento, l’Università della California Riverside ha inizialmente risposto a un accampamento di protesta riconoscendo che “la sofferenza a Gaza dall’inizio di questa guerra è stata inimmaginabile” – una nota che, secondo gli organizzatori, ha dato un tono positivo ai negoziati. Venerdì, la scuola ha accettato di adottare diverse misure per infondere trasparenza nel suo processo di investimenti.

Tra queste, la pubblicazione sul sito web della scuola di tutte le informazioni pubbliche sugli investimenti universitari, con l’intento finale di una completa divulgazione di tutti gli investimenti; l’istituzione di una task force di cui fanno parte studenti e docenti per esplorare la rimozione della dotazione della scuola dalla gestione dell’Ufficio Investimenti dell’Università della California, “e l’investimento di tale dotazione in un modo che sarà finanziariamente ed eticamente sano per l’università, tenendo conto delle aziende coinvolte nella produzione e nella consegna di armi“.

Mercoledì, il cancelliere Kim Wilcox ha inviato un’e-mail in cui affermava che la scuola non avrebbe disinvestito da Israele o da qualsiasi altro Paese, aggiungendo che le richieste degli studenti si erano “concentrate sul disinvestimento dalle aziende impegnate nella produzione e nella consegna di armi“.

L’accordo comprendeva anche la “revisione in corso della Sabra Hummus“, un’azienda che è bersaglio di boicottaggi perché il suo proprietario, il Gruppo Strauss, ha sostenuto in passato le Forze di Difesa Israeliane.

La scuola ha anche accettato di modificare i processi dei suoi programmi di studio all’estero “per garantire la conformità con le politiche antidiscriminatorie della UC” e ha dichiarato che la sua scuola di economia ha interrotto diversi “programmi globali“, tra cui uno che portava gli studenti in Egitto, Giordania e Israele.

Nella sua inchiesta The Intercept specifica che questo programma non compare più sul sito web della business school, mentre gli altri programmi che si diceva fossero stati interrotti sono elencati con “date imminenti“.

Nella sua mail Wilcox ha scritto che i programmi di studio all’estero della business school sono stati gestiti senza la supervisione dell’Ufficio affari internazionali dell’università, “mettendo a rischio gli studenti e la scuola“. Ha aggiunto che la facoltà di economia potrebbe richiedere nuovamente di gestire i loro programmi attraverso il processo formale di studio all’estero e che la scuola ha già sospeso i viaggi in Israele perché quel paese è stato designato come “a rischio di guerra“.

Gli organizzatori hanno dichiarato in un post che “Questa non è la fine dell’advocacy palestinese all’UCR, non è la fine della complicità dell’UCR“. “Continueremo a ritenere la nostra amministrazione responsabile“.

Sulla costa opposta anche gli studenti e gli amministratori dell’Evergreen State College, un college pubblico di Washington, hanno raggiunto un accordo importante sulla scia della protesta dell’accampamento. L’Evergreen è l’alma mater dell’attivista americana della nonviolenza Rachel Corrie, che nel marzo 2003 fu schiacciata da un bulldozer israeliano mentre protestava contro la demolizione delle case palestinesi a Gaza.

La scorsa settimana, la scuola ha emesso un memorandum d’intesa che istituisce una serie di comitati – composti da docenti, studenti e personale universitario – incentrati sulla definizione di investimenti socialmente responsabili e sul disinvestimento dalle aziende che traggono profitto dalle violazioni dei diritti umani e dall’occupazione dei territori palestinesi.

La Evergreen ha anche rilasciato una dichiarazione che difende il diritto d’espressione, chiede un cessate il fuoco a Gaza, il rilascio immediato e incondizionato di tutti gli ostaggi. La scuola si è impegnata a non approvare programmi di studio all’estero in Israele, a Gaza o in Cisgiordania a causa della guerra in corso, né in regioni in cui agli studenti viene negato l’ingresso in base alla loro identità di palestinesi o ebrei.

Andreas Malunat, senior di Evergreen, ha dichiarato che gli studenti e i docenti si impegnano a lavorare attraverso le task force e a riferire sui progressi compiuti verso il disinvestimento. L’impegno della comunità nel manifestare solidarietà con la Palestina è incarnato non solo dall’attivismo di Corrie, ha detto Malunat, ma anche dall’Olympia Food Co-op che nel 2010 è diventato il primo negozio di alimentari del Paese a boicottare i prodotti israeliani.

“Questo è stato un luogo cruciale di organizzazione nei campus perché tutte le università sono state distrutte a Gaza. Abbiamo visto gli amministratori dei college chiamare la polizia, come alla Columbia University, dove la polizia di New York ha arrestato centinaia di studenti e docenti piuttosto che impegnarsi con il proprio corpo studentesco e disinvestire da Israele“, ha scritto Malunat a The Intercept.

“Venendo incontro alle richieste degli studenti, le università statunitensi possono formare un fronte unito per porre fine alla nostra complicità nel genocidio e nel complesso militare industriale“.

Sulla costa orientale, sia la Brown University che la Rutgers University hanno accettato di discutere i loro processi di investimento con gli studenti. Gli impegni assunti dalla Brown, dove gli studenti avevano precedentemente inscenato uno sciopero della fame e un sit-in di protesta, sono stati più concreti e includono un voto del consiglio di amministrazione in autunno sulla proposta di disinvestimento degli studenti, nonché la garanzia che i partecipanti alla protesta non rischieranno l’espulsione o la sospensione.

La Rutgers, nel frattempo, ha riconosciuto che una proposta di disinvestimento avanzata in precedenza era sottoposta a un processo di revisione degli investimenti universitari e ha dichiarato che gli amministratori si incontreranno con i rappresentanti degli studenti per discuterne.

Sebbene molti accordi siano stati raggiunti senza che fosse “alzato il livello dello scontro”, almeno due scuole che hanno fatto intervenire la polizia per sgomberare gli accampamenti di protesta hanno poi raggiunto un accordo con i loro studenti.

Quattro giorni dopo che la polizia aveva tentato di disperdere la manifestazione nella Northwestern University, i manifestanti e la scuola hanno raggiunto un accordo che afferma i diritti di libertà di parola degli studenti e ristabilisce il Comitato consultivo sulla responsabilità degli investimenti della scuola; un organismo composto da studenti, docenti e personale che servirà come “tramite per l’impegno con il Comitato per gli investimenti del Consiglio di amministrazione“.

La scuola ha inoltre dichiarato che finanzierà docenti e studenti palestinesi in visita o “a rischio“, e fornirà ulteriore supporto agli studenti ebrei e musulmani all’interno degli uffici del campus dedicati alla fede.

Gli studenti dell’Università del Minnesota, una delle più popolose università pubbliche del Paese, hanno ottenuto parte delle loro richieste dopo oltre una settimana di proteste, durante la quale la polizia della scuola ha sgomberato l’accampamento. La scuola ha accettato di divulgare informazioni sui suoi investimenti e di permettere agli studenti di presentare il tema del disinvestimento davanti al Consiglio dei Reggenti.

Mercoledì scorso, l’università ha iniziato a rendere noti i propri investimenti, rivelando 2,4 milioni di dollari investiti in società quotate in borsa con sede in Israele e altri 2,6 milioni di dollari in altre società di interesse, come Caterpillar, Lockheed Martin e Boeing. Le percentuali sono una goccia nel mare dei 2,27 miliardi di dollari di dotazione della scuola.

Adam Abu, studente al terzo anno di biologia, ha dichiarato alla Minnesota Public Radio che “i pochi spiccioli” degli investimenti dovrebbero rendere più facile il disinvestimento.

L’ondata più importante e di successo delle campagne universitarie di disinvestimento si è storicamente concentrata sul Sudafrica dell’apartheid (negli anni ’70 e ’80) e, in anni più recenti, anche le scuole hanno accettato di disinvestire dalle società che producono combustibili fossili.

Tuttavia l’idea di fare lo stesso con Israele – con sforzi iniziati negli anni Duemila e ampliati seriamente nel 2010 – è stata per molto tempo fuori portata per tanti attivisti. Mentre un numero crescente di college in tutto il Paese inizia a prendere più seriamente la richiesta, gli studenti organizzatori affermano che questo è solo l’inizio.

King-Slutzky, studente della Columbia, ha detto che gli studenti devono rimanere lucidi sui loro obiettivi e non farsi distrarre da promesse senza impegni materiali di disinvestimento, idealmente quelli che fanno il nome di specifiche aziende.

“Sappiamo che le amministrazioni universitarie mentono per proteggere i loro investimenti di morte. Il nostro compito è quello di superare le pastoie burocratiche per ottenere impegni finanziari concreti come il genocidio reale e l’invasione del terreno di Rafah che si stanno preparando in questo momento“.

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L’emittente indipendente Democracy Now! ha fatto alcune interviste agli studenti protagonisti di queste proteste vittoriose di cui proponiamo alcuni stralci: alla Brown University, Rhode Island, Middlebury College e all’Evergreen State College di Washington

Rafi Ash (Brown University):

“E, sapete, credo che questi negoziati non sembrassero una possibilità prima dell’inizio di questi accampamenti, ma attraverso di essi siamo stati in grado di spingere per forzare un voto sul disinvestimento, un voto che non era mai avvenuto prima alla Brown e per il quale stiamo spingendo da molto tempo, ovvero che il nostro Consiglio di Amministrazione tenga prima una sessione informativa sul disinvestimento senza un voto, ma che sia poi seguita, nella riunione successiva, da un voto garantito.

E, sapete, questa non è la fine della storia. Abbiamo ancora molto lavoro da fare e dobbiamo assicurarci che quel voto sia un sì per il disinvestimento. Ma questo è stato un passo enorme che è scaturito da un accampamento in escandescenza”.

Duncan Kreps (Rhode Island):

“Abbiamo allestito il nostro accampamento, credo, la mattina presto di due domeniche fa e poi abbiamo iniziato a confrontarci con l’amministrazione il martedì della settimana successiva e da lì abbiamo avviato le trattative. Credo che una parte notevole della nostra esperienza sia l’atmosfera di relativa calma in cui ci siamo trovati.

Non abbiamo assistito alle controproteste di molti altri campus universitari, e anche la nostra amministrazione ha deciso di non mandare la polizia contro gli studenti, cosa che, vogliamo precisare, riteniamo sia il minimo indispensabile per qualsiasi risposta amministrativa all’attivismo studentesco e alla libertà di parola.”

Dopo gli avanzamenti nelle trattative gli studenti hanno votato per smantellare l’accampamento: “Riteniamo di poter destinare le risorse in altri modi per continuare a fare pressione, soprattutto sul disinvestimento, e per far sì che l’amministrazione risponda dei suoi commenti. E ora guardiamo alla prossima riunione del Consiglio di amministrazione in cui si discuterà del disinvestimento”

Alex Marshall (Evergreen)

“Il nostro accampamento è stato allestito martedì 23. Le trattative con l’amministrazione sono iniziate il giorno successivo, mercoledì 24.

Le nostre richieste sono state formulate attraverso un processo di consenso all’interno dell’accampamento. Ci siamo concentrati sul disinvestimento dalle aziende che traggono profitto dall’occupazione israeliana della Palestina, sulla modifica della politica di accettazione delle sovvenzioni di Evergreen per non accettare più finanziamenti da organizzazioni sioniste che sostengono il soffocamento della libertà di parola degli studenti, sulla creazione di una struttura di Community Review Board dei servizi di polizia e sulla creazione di un modello alternativo di risposta alle crisi.

L’Evergreen ha anche accettato di proibire i programmi di studio all’estero in Israele, Gaza o Cisgiordania, fino a quando non arriverà il giorno in cui agli studenti palestinesi sarà consentito l’ingresso. Hanno anche accettato di rilasciare una dichiarazione che chiede un cessate il fuoco e riconosce l’indagine sul genocidio della Corte Internazionale di Giustizia.”

Aseel, uno studente palestinese della Rutgers

“Giovedì scorso abbiamo concluso il nostro accampamento. È stato un accampamento di quattro giorni. E come risultato dei nostri sforzi collettivi, siamo riusciti a far sì che la Rutgers, l’amministrazione della Rutgers, accettasse di impegnarsi per otto delle 10 richieste, cosa di cui siamo molto, molto felici. Vorrei anche sottolineare che questo accampamento è avvenuto nell’arco di tre settimane, quando abbiamo fatto un secondo accampamento, perché abbiamo rianimato la Tent State University. Questo è uno.”

L’Università si è impegnata ad accogliere 10 studenti di Gaza, un’estensione dello studio della Palestina con professori palestinesi e l’apertura di un centro culturale arabo, oltre all’impegno per “un’amnistia e nessuna sospensione per il nostro accampamento”.

Fonte

La crisi dell’imperialismo Usa, dall’interno e dall’esterno

A più di sette mesi di distanza dal "Diluvio di Al-Aqsa" del 7 ottobre 2023, continua lo sforzo titanico dei media mainstream per una spiegazione mite, edulcorata degli immani crimini compiuti e ancora in corso a Gaza da parte israeliana. Non sembrano sufficienti le quarantamila vittime palestinesi e la totale devastazione urbana nella Striscia a scuotere la coscienza dei produttori di informazione al soldo dell’atlantismo.

Segnali più autentici di rifiuto e contrasto a quest’ordine di cose provengono dall’imponente movimento degli accampamenti universitari che si oppone a programmi collaborativi con Israele, esprimendo sostegno all’indomita resistenza palestinese.

Una delle sfide comunicative più rilevanti da quel sabato mattina di ottobre è stata una normale opera di contestualizzazione storica e politica di quegli atti resistenti. Contro di essa si è attivato infatti l’ampio uso di una narrativa che di colpo cancellava un secolo di occupazione, crimini, reati, apartheid operati da Israele. Ancor più sfocata è apparsa la collocazione delle crisi contemporanee all’interno del quadro geopolitico con il protagonismo degli interessi imperialisti degli Stati Uniti d’America per un mondo unipolare sottoposto al loro dominio.

Ritornano perciò utili, quasi profetiche, le parole che vent’anni fa pronunciava il politologo ed economista Samir Amin “Il progetto di dominio degli Stati Uniti – con l’estensione delle dottrine Monroe all’intero pianeta – è sproporzionato. Questo progetto che, sin dal crollo dell’Urss nel 1991, individuo come Impero del caos si scontrerà fatalmente con l’insorgere di una crescente resistenza delle nazioni del vecchio mondo indisponibili ad essere assoggettate. Gli Stati Uniti dovranno allora comportarsi come un “Stato canaglia” per eccellenza, sostituendo il diritto internazionale con il ricorso alla guerra permanente (a partire dal Medio Oriente, ma puntando oltre, alla Russia e all’Asia), scivolando sulla china fascista”.

Di tali aspetti, abbiamo inteso parlarne con Matteo Omar Capasso, ricercatore in Relazioni Internazionali presso l’Università Ca’ Foscari di Venezia e la Columbia University di New York. Capasso è editor della rivista specializzata di settore Middle East Critique.

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Dottor Capasso, gli eventi di Al-Aqsa Flood del 7 ottobre e la recente reazione dell’Iran contro Israele del 13 aprile scorso hanno evidenziato la natura vigorosa della resistenza contro l’imperialismo capitalista a guida Usa in Medio Oriente. Tale progetto di supremazia globale mostra segni di debolezza. Tuttavia, è lo stesso Marx a ricordarci quanto non sia vero che le crisi capitalistiche portino alla caduta del sistema stesso, rimarcando la capacità del capitale di riorganizzazione e quindi rafforzarsi. È però anche vero che l’impero si confronta con sistemi economici emergenti che mirano all’autonomia dal dollaro statunitense. Vuole commentare la manifesta crisi e debolezza dell’imperialismo Usa e come tale scenario sia legato alle guerre attuali?

Viviamo un periodo di cambiamento epocale da un punto di vista dell’analisi dialettica storico-materialista. Sicuramente, è un momento di trasformazione dell’impero, del progetto americano di dominio e controllo mondiale. È un periodo di crisi dovuto a molteplici fattori.

Questo, però, non deve autorizzarci a parlare di una situazione di chiaro declino delle mire degli Stati Uniti, ritenendoli prossimi a una sonora sconfitta. I momenti di trasformazione sono molto turbolenti e ritorna sempre utile il monito gramsciano per cui “la crisi consiste proprio nel fatto che il vecchio muore e il nuovo non può nascere: in questo interregno si verificano i fenomeni morbosi più svariati”.

Tuttavia, analizzando gli eventi, una delle cause principali del declino è insita nel capitalismo stesso, con un cambio di natura qualitativa interna all’imperialismo americano, dovuto alla finanziarizzazione del capitalismo. Vi è sempre più necessità di estrarre profitti in dimensioni temporali sempre più accorciate e questo conduce alla bulimia della finanza, del capitalismo con ovvie ricadute riguardanti i processi di militarizzazione che osserviamo. Esistono sempre le condizioni per estrarre profitto. Solo che tali operazioni necessitano di intervalli di tempo molto più brevi e quindi anche molto più violenti.

Appare chiara una nefasta sinergia tra urgenza performativa ed estrazione del profitto. In questa fase storica, con un progetto americano imperialista influenzato dall’esigenza finanziaria, qual è il ruolo della politica?

È chiaro che ciò a cui facevo cenno ha conseguenze di carattere politico. Non è più possibile pianificare e conseguire una visione politica di lunga durata. In tali condizioni, gli Stati Uniti fronteggiano un progetto di natura diversa, quello cinese, che è emerso dopo tanti anni creandosi uno spazio di autonomia, ma anche di riferimento per il Sud del mondo e altri Paesi ancora che intendono agire e confrontarsi operando in un nuovo sistema.

La Cina ha dunque definito uno spazio di autonomia all’interno del quale governa il proprio sviluppo mantenendo pieno controllo sulla sovranità nazionale e sui propri capitali. Ha di fatto creato la possibilità, simbolica ma fondamentale perché storicamente sconfitta dall’imperialismo americano come in Sudamerica o proprio nel caso del progetto di socialismo arabo, di un nuovo modello di sviluppo perseguibile, qualitativamente diverso da quello degli Stati Uniti.

A tal proposito, mi vengono in mente le pagine di Adam Smith a Pechino di Giovanni Arrighi. La Cina utilizza lo strumento del mercato all’interno di un sistema politico non capitalista dove però la politica mantiene tutta la sua centralità. Ciò ha determinato condizioni differenziali che mettono in crisi il sistema americano che invece ha prodotto risultati disastrosi a partire, come lo stesso Arrighi sottolinea, dall’aggressione all’Iraq del 2003, aggravati poi dalla successiva invasione di quei territori.

In sostanza, siamo in un momento storico di trasformazione dell’imperialismo americano dovuto non solo a una sua crisi interna ma anche all’ascesa e alla costruzione di nuove formazioni sociopolitiche come Cina, quindi Brics, e altri ancora.

La crisi dell’imperialismo sembra innescare la corsa agli armamenti e la produzione di guerre per rivitalizzare flussi e processi economici. I leader occidentali, ormai più familiari con slogan populisti ed elettorali che non con strategia e teoria politica, sono assolutamente proni alle esigenze della finanza e dell’industria bellica. Il motore della spesa militare gira dunque a pieno regime e le politiche internazionali sono concentrate su ricerca e allocazione di immense risorse per alimentare i famelici bisogni dell’operatività NATO. Quali considerazioni sono possibili a riguardo?

Sarebbe ovviamente sbagliato credere che, per il progetto imperialista americano, l’aspetto militare sia stato meno importante in passato. È vero però che è in atto una trasformazione con l’intensificazione della struttura di accumulazione di capitale mediante guerra e distruzione in quanto tale. Adesso non si distrugge per causare cambi di regime ma si procede alla devastazione proprio con quello scopo: radere al suolo, uccidere.

Parliamo di una violenza che rappresenta il fine stesso delle operazioni che vengono progettate e attuate. Questo dovrebbe generare grande preoccupazione anche qui in Occidente, perché la violenza così costantemente prodotta e che diventa elemento fondamentale per la continua estrazione del capitale colpisce, al momento, le classi lavoratrici del Sud del mondo ma, persistendo, arriverà a espandersi molto oltre i teatri di guerra attuali.

La guerra conferma più che mai la sua centralità nelle scelte politiche imperialiste...

Sì, perché si vuole creare quello stato di emergenza caratterizzato da un correlato ideologico e politico favorevoli all’adozione di tipiche misure che, soprattutto nel Nord del mondo, sono strettamente legate a una consistente riaffermazione del fascismo. D’altra parte, però, circa la valutazione del momento attuale, vale la pena ricordare le evidenti divisioni che si manifestano negli stessi ambienti marxisti.

Ad esempio, per quel che concerne le opposte interpretazioni sulla risposta militare che impegna il progetto imperialista verso la Russia intervenuta in Siria per proteggerne la sovranità nazionale o in Ucraina per contrastare l’espansione della NATO. Lo stesso dicasi per gli eventi in corso in Niger, anche questi dipendenti dall’intervento NATO del 2011, collegato a quello che venne attuato in Libia.

È ovvio che con riferimento all’interpretazione dell’intervento russo in Siria o in Ucraina si scoperchia un vaso di Pandora con posizioni tra loro parecchio distanti: c’è chi, come Emiliano Brancaccio, parla di “guerra capitalista” con tutte le parti coinvolte che sono infine interessate alla guerra. Altri, invece, scorgono negli eventi in atto l’intervento necessario per contrastare e fermare gli aggressivi appetiti della struttura imperialista americana.

A riguardo è bene evidenziare che ci troviamo al cospetto di una struttura gerarchica con l’imperialismo americano all’apice che genera una risposta non solo economica ma anche militare da parte dei paesi del Sud del mondo: ci si sta giocando il futuro in questo momento e se la risposta di Europa e Stati Uniti è la delega all’azione NATO non c’è da essere ottimisti.

Numerosi dossier attestano i punti di convergenza tra Russia, Cina e Iran. Vale la pena ricordare l’intenso tessuto relazionale e di cooperazione economica e militare che si è sviluppato tra questi Paesi, suggellato dalla cornice dell’iniziativa eurasiatica della Shanghai Cooperation Organization con un modello multilaterale e articolato, dove comuni interessi non collidono però con le peculiarità di ogni singola entità statale. Nonostante la complessa articolazione di interessi e culture, è immaginabile la costituzione di un fronte comune contro l’avanzata imperialista?

Assolutamente. Allo spazio di autonomia creato dalla Cina, si associa quello operato dalla Russia. Quest’ultima sta subappaltando la produzione di armi a Stati come l’Iran condividendo brevetti e know-how permettendo così all’Iran di dotarsi di mezzi militari evoluti. La Cina ha poi mantenuto una posizione senza compromessi sull’economic warfare fornendo appoggio economico all’Iran per far sì che riuscisse ad affrontare gli ostacoli posti dalle sanzioni internazionali.

Lo spazio di autonomia generatosi fa sì che gli interessi di questi Paesi si incrocino produttivamente nel confronto con l’impero pur non essendoci di fatto un’agenda specifica con punti predeterminati d’azione.

È molto rilevante l’ascesa di tali formazioni sociopolitiche con spazi di autonomia che esse stesse creano e presidiano. Può la convivenza di eterogeneità, differenze di valori, culture e tradizioni nel suo multipolarismo avere efficacia antimperialista?

C’è una componente filosofica della questione nella tensione tra universale e particolare. È possibile portare avanti un progetto universale di prosperità, di uguaglianza e di giustizia riconoscendo però all’interno di questo l’eterogeneità delle varie formazioni storiche e sociopolitiche che vi concorrono.

Di fatto, se si vuole, è lo spirito stesso delle grandi organizzazioni internazionali. Sotto l’imperialismo ciò non avviene perché formazioni particolari non vengono riconosciute a meno di una loro integrazione subordinata a seguito di “democrazia” imposta con le bombe. Ma anche l’arroganza, il senso di superiorità di certo marxismo occidentale non aiuta.

Sarebbe necessario unirsi attorno a certi valori nel rispetto dell’eterogeneità e delle varie traiettorie storiche e regionali. In questo senso, la Palestina sta offrendo esempio con grande chiarezza a tutte le forze progressiste del mondo: siamo in un momento storico dove bisogna effettivamente riconoscere che le forze che portano avanti una resistenza che mobilizzi l’Islam sono concretamente progressiste e in lotta per la Liberazione Nazionale.

Lo stesso Fidel Castro, in una delle sue interviste, sottolineò come i socialisti avessero sottostimato i poteri della nazione e della religione che non possono a priori essere trascurati per precetti teorici: la necessità, la riconfigurazione materiale di un socialismo in questi territori non può prescindere dall’ombrello dell’Islam. E le due cose devono avvenire insieme, anche perché il rischio sarebbe quello dell’instaurazione di Stati islamici di carattere borghese.

Nello scenario contemporaneo, cosa rappresenta Israele per le mire imperialiste Usa?

In Medio Oriente, l’entità sionista-Israele è l’avamposto militare degli Usa nella regione. Economia e apparato militare israeliani sono stati supportati dalla finanza americana con circa 260 miliardi di dollari versati tra il 1943 e il 2023 come testimoniato da un’analisi effettuata dallo stesso Congresso Usa. E ciò non considerando i vari prestiti costanti nel tempo e le garanzie su essi maturate ed estese a Israele che valgono ulteriori milioni e aggiuntivi pacchetti militari.

È sufficiente pensare che il solo Obama, ex presidente ritenuto tra i più liberal nel ruolo, ha fornito a Israele uno dei pacchetti di finanziamento più ingenti pari a circa 38 miliardi.

Israele è dunque, senza dubbio, un avamposto militare. Qual è la sua funzione? Ovviamente, non quella di raggiungere terre dove riportare la parola del Messia. Fondamentale è invece la materialità del suo progetto: controllare flusso e accesso al petrolio non tanto per il petrolio in sé al pari di una commodity, ma per far sì che i fatturati derivanti dal petrolio non contribuiscano a tracciare percorsi politici e territoriali sganciati dall’imperialismo americano.

Israele è stato ed è fondamentale per la distruzione dei progetti progressisti interni alla regione, come avvenuto al tempo delle istanze promosse dal socialismo arabo e, ora, con le azioni dell’Asse della Resistenza.

A tal proposito, il 7 ottobre ha evidenziato una salda coesione tra le varie fazioni palestinesi sia nell’approccio teorico che nella prassi resistente. Come si realizza tale intesa tra forze come Hamas e Jihad islamico che si rifanno ai valori esplicitamente religiosi dell’Islam con quelle, ad esempio, come il Fronte Popolare per la Liberazione della Palestina di tradizione marxista?

Sul piano dell’approccio teorico e dell’analisi storico-materialista, va subito detto che, quando si valuta il cosiddetto Sud del mondo va smantellata la tipica arroganza del marxismo occidentale dell’“adesso vi spieghiamo noi cosa sia il socialismo”. Sulla coesione della resistenza palestinese, è fondamentale la sua natura eterogenea e la storia su cui si fonda che vale la pena di ricordare seppur sommariamente.

Il comunismo aveva giocato un ruolo decisivo nella lotta contro il nazismo. Dopo la Seconda Guerra Mondiale, con l’ondata di decolonizzazione in Africa e in Asia, numerosissime colonie raggiungono la loro indipendenza almeno a livello formale. Nella regione araba, l’Egitto sotto la guida di Gamal Abdel Nasser porta avanti la rivoluzione del ‘53 che insisteva sull’indispensabile unità e autonomia della regione stessa dalla dominazione americana. Tale progetto richiedeva la liberazione senza compromessi della Palestina.

Nel progetto ideologico del panarabismo che conciliava componenti laiche, religiose, socialiste e identitarie arabe, la liberazione della Palestina era cruciale. Israele veniva quindi individuato come avamposto militare del colonialismo britannico prima e dell’imperialismo americano poi. Nel corso degli anni, con sanzioni, conflitti armati, finanziamento di gruppi islamici reazionari di opposizione, l’imperialismo americano ha adottato tutte quelle misure atte a sconfiggere il progetto panarabo, riuscendovi.

E così le classi dirigenti di Iraq, Siria, Libia, Egitto sono state schiacciate dalla forza o hanno gradualmente rinunciato al percorso rivoluzionario divenendo classi compradore, agganciandosi al progetto americano. Basti pensare alla figura di Sadat con la sottoscrizione degli accordi di Camp David che gettano le basi per la graduale normalizzazione di Israele nella regione.

Ovviamente la sconfitta del panarabismo viene accelerata dal collasso dell’URSS tant’è che si diffonde la famosa teoria di Fukuyama della “fine della storia” con l’affermazione dell’ordine liberale.

Questo lascerebbe intendere che lo spirito unitario che alimentava il panarabismo nasseriano possa riprodursi nell’azione di un Asse della Resistenza coeso?

L’Asse nasce anche dalla violenza stessa che il colonialismo determina all’interno della regione. Intanto, va ricordata la rivoluzione iraniana del 1979 con un Iran che resta saldo nonostante le sanzioni, grazie anche al supporto economico della Cina. L’invasione israeliana del Libano nel 1982 è determinante per la nascita di Hezbollah, mentre Hamas nasce dal fallimento del progetto dell’OLP trasformatosi in una classe borghese, braccio destro dell’occupazione israeliana.

Hamas lancia così un progetto nuovo che parla alle masse, a un tessuto sociale abbandonato. Vince le elezioni palestinesi del 2005 venendo però poi relegato a operare nella Striscia di Gaza. Lo Yemen dal canto suo è oggetto di distruzione costante a partire dalla cosiddetta guerra internazionale al terrorismo, quindi dal 2003 fino alla guerra del 2014 portata avanti dall’Arabia Saudita col supporto politico ed economico degli Stati Uniti.

Sempre dal 2003 si ha la devastazione dell’Iraq dove poi si verifica un’importante dinamica interna con la componente sciita progressivamente più importante delle comunità sunnite. E dal 2013 c’è la distruzione della Siria. In questa costellazione di eventi, l’Asse della Resistenza si configura mobilizzando l’Islam politico della regione attorno alla tradizione sciita con l’intesa tra Iran ed Hezbollah.

Pur partendo da istanze religiose, progredisce poi una strategia politica con un vero e proprio progetto di liberazione nazionale libanese e a tale impostazione afferiscono nel tempo altri attori che aderiscono a un piano complessivo di liberazione nazionale con una strategia specifica basata sulla solidarietà regionale.

Hamas stesso è un progetto parecchio evolutosi nel tempo: è sufficiente ricordare che nel 2011 condannava il “regime” di Assad in Siria appoggiando i moti di protesta. Oggi si assiste a un profondo cambiamento politico in cui sia Hamas che Jihad Islamico e Fronte Popolare convergono riconfigurando la direzione non solo militare ma anche politica e ideologica portandoli ad allearsi con le varie formazioni sociopolitiche che compongono l’asse della Resistenza.

È fondamentale la comprensione di tali dinamiche. Qual è il grado di consapevolezza di ciò in Occidente?

In tutta sincerità, si fa fatica a parlare apertamente di questi argomenti. Aggiungo ancora qualche considerazione in merito. La prima è quella di un posizionamento dell’Islam nell’ottica liberista occidentale osservato come alterità, con un’islamofobia diffusa per cui è impensabile associare l’Islam a visioni progressiste, di giustizia all’interno della regione.

E questo ben si lega anche alle famose guerre culturali introdotte dapprima negli Stati Uniti e in Francia che vanno diffondendosi nel nome di quell’Islamoleftism strumentalizzato dalle destre per stigmatizzare orientamenti politici di sinistra coniugandoli a un uso strumentale e sciagurato dell’Islam nel progetto di Liberazione Nazionale.

C’è però anche da dire che gran parte della sinistra occidentale si è intensamente interessata e spesa per le istanze dei Curdi o del contrasto al regime in Siria. Ora, non sminuendo la rilevanza di un certo tipo di lotte, bisogna però rimarcare quanto decisamente più centrale rimanga quella contro l’imperialismo.

Con l’azione dell’Iran in risposta al bombardamento della sua sede diplomatica a Damasco da parte di Israele, molteplici sono state le sfumature nei commenti di esponenti “neoliberal” e progressisti. Spesso, più che condannare l’indebita aggressione sionista, sono apparsi spiazzati sulla legittimità della risposta di quella Tehran “canaglia” da essi stessi ritenuta carnefice dei diritti umani. Una girandola di ricostruzioni strumentali e parziali che certo non sembrano simpatizzare per l’Asse della Resistenza nella sua azione antimperialista. Non trova?

Sono assolutamente d’accordo. Lo accennavo parlando della trasformazione in atto: ciò che accade in Palestina è una versione intensificata del cambiamento a livello strutturale nel mondo. In Palestina, ovviamente, permane uno stato di occupazione e dunque si parte da una situazione di base molto più violenta con un cambiamento che sarà ancor più cruento e lo stiamo vedendo bene.

L’utilizzo piuttosto strumentale, propagandistico, addirittura militare, dei diritti umani è promosso per delegittimare intellettualmente, moralmente e politicamente gli unici attori protagonisti di una postura umanitaria rispetto alla situazione in Palestina. Se c’è qualcosa di effettivamente umanitario nel contesto di quanto accade lo si deve non a Stati Uniti e Paesi occidentali ma a Yemen, Iran e Libano.

Di recente, un noto parlamentare di Hezbollah mi faceva osservare l’importanza dell’integrazione tra le varie componenti della resistenza. Contestava fortemente il ruolo di “proxy dell’Iran” attribuito a Hezbollah, precisando le caratteristiche specifiche e locali del partito libanese. Al tempo stesso, esprimeva la necessità di internazionalizzazione della resistenza in rete con soggettività politiche presenti nei Paesi esterni alla regione ma convergenti sulle istanze antimperialiste. Un segnale potente proviene dalla gioventù studentesca anche coadiuvata dall’uso di internet. Dal momento che si parla spesso criticamente delle piattaforme social più note perché funzionali al capitale, si può sostenere che il General Intellect, tra distanze ed eterogeneità, abbia trovato nuove forme di espressione produttive nell’azione antimperialista?

Secondo me sì. Io sono del parere che tutti gli strumenti emergono in un dato periodo storico e hanno una natura propria che si collega al processo storico attraversato. Sarebbe stato risibile attribuire un ruolo positivo ai social media nel 2011 nel corso delle cosiddette primavere arabe quando il loro uso venne strumentalizzato per sostenere determinati interessi.

Oggi assistiamo a uno sviluppo policentrico dei social media, utili per “respirare” il processo di cambiamento storico che si dipana molto violento e molto veloce. Ma questi momenti di protesta e condanna devono stimolare una riflessione, se possibile, più potente in chi in Occidente guarda alla Palestina: il problema non è solo Israele, il problema è quello che abbiamo a casa, nei nostri Paesi che supportano Israele direttamente. Governi seriamente progressisti in Italia ed Europa sarebbero salutati con favore dai palestinesi.

Nel quadro degli eventi in corso a Gaza, qual è la sua valutazione sull’operato delle Nazioni Unite, degli organismi di diritto internazionale? È sconfortante osservare la loro impotenza e inefficacia. Gli Stati Uniti col loro potere di veto svolgono il ruolo di azionista di maggioranza all’Onu, l’azione della Corte Internazionale di Giustizia è stata platealmente snobbata da Israele e quella della Corte Penale sembra al servizio degli interessi imperiali. Non le pare che sia compromessa gravemente la credibilità di questi organismi e che la loro stessa ragion d’esistere sia messa in discussione o da rivedere completamente?

Condivido molto quello che dice non senza un senso di amarezza e di cinismo. L’iniziativa promossa coraggiosamente dal Sud Africa presso la Corte dell’Aja ha molto sorpreso anche colleghi e compagni con cui si condividono quotidianamente analisi dello scenario. Eppure, tante risoluzioni Onu sono state approvate ed emesse in passato e con evidenza.

Converrà, però, che quelle risoluzioni siano poi storicamente associate all’evidenza di non essere rispettate.

Esatto! Mi sovviene la battaglia di Dien Bien Phu per l’indipendenza in Indocina, dove gli accordi di pace vennero siglati soltanto dopo che la resistenza vietnamita riuscì a sconfiggere militarmente i francesi. Costa dirlo ma sembra che la violenza sia in auge tra le forme principali delle contraddizioni del mondo politico. Mao sosteneva apertamente che le contraddizioni esistono e sempre esisteranno nella società.

L’idea che i conflitti, gli Stati spariscano è naive. Esisteranno sempre le contraddizioni, il problema è gestirle e decidere quali forme possano assumere. È un problema molto serio quando la violenza diviene forma dominante. Bisognerebbe occuparsene in maniera diversa col diritto e altri strumenti realmente efficaci ma all’epoca attuale queste istituzioni non possono fare la differenza. Nessuno aspira a soluzioni caratterizzate dalla violenza ma, come nel caso della resistenza palestinese, il ricorso a essa diviene una necessità storica.

Ricordo i commenti di coloro che in un primo momento restarono affascinati dai deltaplani del 7 ottobre di Al-Aqsa flood salvo poi, a poche ore di distanza, condannarne la feroce violenza “senza se e senza ma”. Come si può, date quelle condizioni di occupazione, oppressione e ingiustizia, pensare che una resistenza possa esprimersi secondo vellutate opportunità operative?

Il fatto è che in Occidente certe posizioni maturano all’interno di una condizione materiale di comfort dove la violenza è una questione soltanto teorica, immaginata e non materiale. Purtroppo, il vero problema è che essa potrebbe presto manifestarsi concretamente grazie anche al contributo non trascurabile di simili ambiguità.

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Ilaria Salis ai domiciliari, per ora

Accolto il ricorso, Ilaria Salis va ai domiciliari a Budapest. Il ricorso era stato presentato dai legali di Ilaria Salis contro la decisione del giudice Jozsef Sós che nell’ultima udienza del 28 marzo le aveva negato i domiciliari sia in Italia che in Ungheria. In appello, la richiesta è stata invece accolta e quindi la 39enne attivista milanese potrà lasciare il carcere a Budapest dove si trova da oltre 15 mesi con l’accusa di aver aggredito dei militanti di estrema destra.

Il provvedimento, che prevede il braccialetto elettronico, diventerà esecutivo non appena verrà pagata la cauzione prevista dal tribunale.

“Ilaria Salis avrà il braccialetto elettronico e prima della liberazione dovrà pagare una cauzione di 40mila euro al tribunale“. Lo dice all’AGI l’avvocato Mauro Straini che assieme al collega Eugenio Losco si occupa del caso della donna italiana detenuta a Budapest.

“Ilaria Salis andrà ai domiciliari in casa di una privata cittadina“, riferiscono fonti legali. Il prossimo appuntamento è per l’udienza del 24 maggio, dove il Cred (Centro di ricerca ed elaborazione per la democrazia) sarà presente con sei giuristi.

Tirano su l’orgoglio di lista quelli dell’Alleanza Verdi e Sinistra, il cui rappresentante nel gruppo Misto di Palazzo Madama, Peppe De Cristofaro, consegna a Facebook il messaggio: “Candidare Ilaria Salis nelle liste di Avs per le Europee è stata la scelta giusta. La dimostrazione che era necessario accendere i riflettori sulla vicenda perché si arrivasse a un esito conforme allo stato di diritto. Quello che si è rifiutato di fare il governo Meloni per mesi per non disturbare l’amico Orban, o più semplicemente perché la destra la sentenza sulla Salis l’aveva già emessa. Felice per la sua prossima scarcerazione, ennesima vergogna per il nostro esecutivo“.

“Questo risultato si deve innanzitutto alla tenacia e alla determinazione della famiglia – affermano Angelo Bonelli e Nicola Fratoianni – e di tutti coloro che invece di stare in silenzio si sono battuti e continueranno a farlo per i diritti di Ilaria e di tutti noi. Siamo felici e ancora più convinti della nostra scelta di candidare Ilaria nelle nostre liste“.

“Ora dopo questa prima vittoria, così importante per lei e tutti noi, vogliamo riportarla in Italia e poi a Bruxelles come Parlamentare europea perché la questione del rispetto dei diritti in Europa diventi una questione pienamente politica“, concludono.

Ricordiamo che Potere al Popolo, assente alle elezioni europee per l’impossibilità di trovare un accordo politico serio con altre liste, ha deciso di riservare ad Ilaria i suoi voti, proprio per rendere possibile la sua liberazione totale, grazie all’immunità parlamentare.

C’è da dire che la “politicizzazione” della sua vicenda, al contrario di quanto blaterava Antonio Tajani, ha in definitiva favorito la sua scarcerazione, mostrando un paese intero al suo fianco, mentre il governo Meloni bofonchiava.

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Georgia - Approvata la legge sulle interferenze straniere. La stessa che vorrebbero fare nella Ue

Il Parlamento della Georgia ha approvato, in terza e ultima lettura, con 84 voti favorevoli e 30 contrari, la legge che limita fortemente le interferenze straniere sui mass media e la vita politica nazionali.

La legge prevede infatti che i media, le organizzazioni non governative e altre organizzazioni non profit debbano registrarsi come «perseguenti gli interessi di una potenza straniera» se ricevono più del 20 per cento dei loro finanziamenti dall’estero.

La legge è stata fortemente voluta dal partito di maggioranza – il “Partito del sogno georgiano” – ma la presidente della Repubblica Salome Zurabishvili, che si è espressa in sostegno dei manifestanti, aveva anticipato che avrebbe posto il veto sulla legge. Ma Sogno georgiano ha la maggioranza necessaria per superare il veto.

Il via libera alla legge ha scatenato nuovamente le proteste di alcuni settori della società georgiana filo-occidentali ed europeisti. Le forze dell’ordine sono intervenute contro le manifestazioni, con gas lacrimogeni e idranti. In Parlamento, prima del voto, una decina di deputati dei due blocchi sono venuti alle mani.

La Georgia nel dicembre 2023 ha ottenuto lo status di paese candidato all’adesione all’Unione Europea.

“Oggi è il giorno più importante per il rafforzamento dell’indipendenza e della sovranità del nostro Paese. L’adozione della legge sulla “Trasparenza dell’influenza straniera” crea forti garanzie di pace e tranquillità a lungo termine in Georgia e di superare la cosiddetta polarizzazione, condizione necessaria per l’integrazione della Georgia nell’Unione Europea”, ha commentato il primo ministro georgiano Irak’li K’obakhidze.

Curiosamente, nell’Unione Europea si critica la legge che limita le interferenze straniere sui mass media in Georgia proprio mentre si sta lavorando ad una misura simile nella Ue.

Nel corso di un intervento al summit per la democrazia di Copenaghen Ursula von der Leyen si è detta “preoccupata” per l’aumento della disinformazione e delle interferenze straniere in Europa, avvertendo che i “principi fondamentali della nostra democrazia” sono sotto attacco, quindi propone uno “scudo europeo per la democrazia come una delle priorità principali della prossima Commissione”.

Il progetto europeo dovrebbe concentrarsi sulle maggiori minacce dovute alle interferenze e alle manipolazioni straniere: per von der Leyen il primo passo riguarda l’individuazione, per poi disporre di mezzi di comunicazione liberi.

Le cancellerie occidentali non mostrano di gradire uno scenario che tiene la Georgia lontano dall’integrazione con la Ue e non rinunciano ad esercitare quelle ingerenze esterne sulla vita politica interna di quel paese che la legge approvata intende invece limitare.

Dalla Casa Bianca sono arrivate dure critiche alla legge approvata dal Parlamento, con la portavoce Karine Jean-Pierre che ha dichiarato che la legge “va contro i valori democratici e allontana la Georgia dall’Unione Europea. Vediamo quello che farà il parlamento dopo il previsto veto del presidente. Nel caso in cui passasse saremmo costretti a rivedere profondamente i nostri rapporti”. Se la legge procede senza essere in linea con le norme dell’Ue e mina la democrazia e se proseguiranno le violenze contro chi manifesta pacificamente contro, allora c’è il rischio che Washington imponga misure restrittive sui responsabili, “siano esse finanziarie o di viaggio”, ha reso noto la O’Brien.

Il portavoce del Cremlino ha così commentato: “Abbiamo ripetutamente affermato che si tratta assolutamente di un affare interno della Georgia e non vogliamo intrometterci in alcun modo. Vediamo un’ingerenza palese negli affari interni della Georgia da parte dell’esterno”.

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Gaza - La resistenza palestinese più forte di quanto ritenuto dai comandi israeliani

Le truppe israeliane si stanno trovando in seria difficoltà nel nord della Striscia di Gaza nonostante l’avessero dichiarata “ripulita” già da mesi.

Il Times of Israel, citando l’esercito israeliano riferisce che tre soldati del 202° battaglione della brigata paracadutisti sono stati gravemente feriti durante uno scontro a fuoco con i combattenti palestinesi nel nord della Striscia di Gaza nella giornata di martedì. Altri cinque soldati sono rimasti feriti nella stessa battaglia.

L’esercito israeliano sta invitando i palestinesi in altri quartieri del nord della Striscia di Gaza a evacuare l’area, mentre continua la sua operazione militare a Jabaliya. Ai civili palestinesi viene detto di trasferirsi nei rifugi a ovest di Gaza City.

Secondo il Palestine Chronicle le notizie provenienti da Gaza indicano che i combattimenti sono in corso a Jabaliya e Zaytoun, nel nord, e a Rafah nel sud, con occasionali incursioni nell’area di Muhraqa al centro. I due punti più attivi nei combattimenti nel nord di Gaza sono il campo profughi di Jabaliya, o più precisamente la sua periferia e il quartiere di Zaytoun, a sud-est di Gaza City. Altre aree di scontri includono Juhr Al-Deek, a est di Gaza, e solo a breve distanza dalla recinzione che separa Gaza da Israele.

Anche nel sud della Striscia, a Rafah, un soldato del battaglione Tzabar della Brigata Givati è stato gravemente ferito, a causa di un ordigno esplosivo, mentre altri cinque soldati sono stati feriti nella stessa esplosione.

L’operazione militare israeliana contro Rafah si è estesa martedì fino a George Street, dove si è verificata la maggior parte degli scontri.

Israele ha lanciato la sua operazione su Rafah il 6 maggio, muovendosi da est a ovest. Così facendo, ha attraversato il valico di Rafah, l’area di Al-Salam e altre aree, che si trovano ancora alla periferia della città principale di Rafah. Le Brigate Al-Qassam stanno attualmente conducendo la resistenza in quell’area.

L’agenzia israeliana Ynet news riferisce che secondo i rapporti ufficiali dell’IDF – su base giornaliera e sulla base delle testimonianze dei soldati che svolgono la loro missione di fortificazione nel corridoio di Netzarim – Hamas attacca quasi ogni giorno, principalmente con mortai, le forze che impediscono il ritorno di circa un milione di abitanti di Gaza nel nord della Striscia, come ultima carta che Israele ha nei negoziati per il ritorno dei prigionieri.

Ma ripercussioni dei combattimenti a Gaza si hanno anche nelle retrovie delle forze armate israeliane. I vigili del fuoco stanno combattendo un grande incendio in un complesso di magazzini presso la base militare di Tel Hashomer a Ramat Gan, alla periferia est di Tel Aviv. I magazzini andati a fuoco sono stati utilizzati per immagazzinare varie attrezzature militari.

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Report e la Repubblica fondata sul complotto

di Paolo Persichetti

Dopo la fine del secondo conflitto mondiale l’Italia subì delle modificazioni rapide e profonde, da paese rurale si trasformò nel giro di pochi anni in una moderna società industriale. Crebbero i comparti della meccanica, del tessile e della chimica oltre all’edilizia, nacquero i primi assi autostradali e il panorama dei centri urbani mutò drasticamente.

Si svilupparono le periferie sotto la spinta di flussi migratori continui provenienti del meridione. Diminuirono le partenze oltreoceano per dirigersi verso il Nord, prima la Svizzera, la Francia, il Belgio, la Germania, in cambio del carbone l’Italia cedeva minatori. Poi solo verso il settentrione.

Sorsero così le baraccopoli e il problema abitativo divenne uno dei primi temi di conflitto, che rimarrà cronico, oltre quelli legati al nuovo mondo del lavoro, la fabbrica dove i giovani meridionali sradicati dal loro mondo contadino incontravano la disciplina taylorista delle linee di produzione, i ritmi incalzanti, il frastuono, la nocività, un comando di fabbrica oppressivo e asfissiante.

Sviluppo e conflitto

Il boom demografico, la prospettiva di una società non più in guerra, l’avvento dei media di massa, radio e televisione, favoriscono nuovi fenomeni sociali e culturali: nasce il “mondo giovanile” anche sotto l’influenza della società americana.

Lo stesso sistema produttivo se ne accorge creando la moda per i giovani, la musica, le Vespe e le Lambrette. L’istruzione deve aprirsi a questa massificazione rompendo vecchi tabù elitari e così anche «l’operaio può avere il figlio dottore», come recitavano i versi di una nota canzone degli anni della contestazione.

Una crescita solo in apparenza lineare: da una parte è la stessa produzione capitalistica che richiede un maggiore livello di istruzione, dall’altra l’assorbimento scolastico e universitario è quasi una esigenza di sistema perché viene incontro al boom demografico creando delle aree di parcheggio giovanile, anche se motore di tutto restano le rivendicazioni e dunque il conflitto generato dalle classi lavoratrici che aspirano ad una società più equa, evoluta, animata dalla giustizia sociale, dando vita a cicli di lotta sempre più intensi.

Dai moti di Valdagno si arriva all’autunno caldo del 1969 fino all’occupazione della Fiat del 1973.

La fine dei «trenta gloriosi» e l’esplosione del '77

Siamo all’apice dei cosiddetti «trenta gloriosi» quando iniziano a manifestarsi le prime crepe e gli scricchiolii che stanno minando la società fordista: un mondo strutturato all’interno di un compromesso sociale che vedeva il “Noi” operaio organizzato in grandi partiti di massa con potenti cinghie di trasmissione.

Quella realtà irrigimentata tra “tute blu” e “colletti bianchi”, con mondi e morali avverse, dove lavoratori e padroni coabitavano a distanza, combattendosi senza confondersi, cominciava a dissolversi, trascinando via le vecchie gerarchie e autorità.

A metà degli anni '70 assistiamo così a una crisi di modello sociale e delle sue forme di rappresentanza politiche da cui scaturiscono nuovi movimenti, spesso sconcertanti perché portatori di inedite forme di protagonismo, di partecipazione e richieste, percepite come incompatibili e esorbitanti dall’ordine economico e politico e di fronte ai quali un paese imbalsamato dai vincoli geopolitici e dai patti consociativi oppose il massimo di chiusura.

Le lotte pagano

Nonostante ciò, quella grande spinta aveva consentito un avanzamento sociale senza precedenti, un rinnovamento culturale, delle mentalità e dei costumi, favorendo persino un adeguamento dei modelli di sviluppo ai nuovi standard del capitalismo consumistico.

Sono anni in cui i pori della società si aprono, dando voce ai dimenticati e ai dannati. Spira un vento di libertà che s’insinua nelle crepe aperte dai cunei delle lotte operaie, proiettando sulla scena nuove figure e nuovi «soggetti» – come allora venivano chiamati, usciti dalla loro condizione di minorità civile e politica. Donne, matti, carcerati, omosessuali, giovani, soldati di leva, studenti, disoccupati, tutti vogliono essere protagonisti della propria emancipazione.

Mai come in quel momento, gli umili e gli offesi, gli oppressi e i degradati, trovano occasioni e forza, dignità e rispetto, che solo una vita tornata finalmente nelle loro mani poteva dare. Il divorzio, il nuovo diritto di famiglia, l’aborto – per fare degli esempi – mutano la qualità della vita degli italiani.

Conquiste a decenni di distanza largamente assimilate anche da chi ne fu ferocemente ostile. E ancora la legge sugli gli asili nido pubblici, il riconoscimento della tutela delle donne nei posti di lavoro con i permessi di maternità e il divieto di licenziamento, l’inclusione di una quota di disabili nei posti di lavoro, l’obiezione di coscienza per il servizio militare, la legge Basaglia con la chiusura degli ospedali psichiatrici, le prime normative sulla nocività del lavoro, le discriminazioni e il super sfruttamento, lo statuto dei lavoratori, i consultori, la riforma penitenziaria (il 1975 è l’anno col minor numero di detenuti nella storia repubblicana), i contratti unici nazionali, l’elevazione della scuola dell’obbligo e l’università accessibile a tutti (con i corsi serali per studenti-lavoratori e il salario studentesco).

Conquiste e garanzie andate oggi in buona parte perdute, soprattutto nel mondo del lavoro (con l’avvento della società del precariato e la deregolazione contrattuale) ma anche nelle università e nel carcere.

Il potere consociativo

Sul piano istituzionale, invece, il sistema politico rimase prigioniero delle sue alchimie. La distanza che si aprì tra le istituzioni e una parte della società divenne una sorta di terra di nessuno, attraversata e occupata da movimenti sociali che moltiplicano con una irruenza senza precedenti. Alla separatezza del politico si contrappose l’autonomia del sociale. Ogni ricerca di mediazione e volontà di recepire e integrare venne esclusa.

Da una parte, il protagonismo dei movimenti fu avvertito come una minaccia intollerabile; dall’altra, qualsiasi attenzione era risentita come una intrusione che poteva insidiare l’autonomia. Le strategie di rottura guadagnarono terreno sulle semplici posizioni contestatrici e la lotta armata divenne una delle opzioni che conquistò settori di movimento andando a riempire le fila dei gruppi combattenti.

La repubblica del complotto

Questo ventennio agitato che si dilunga dalla metà degli anni '60 alla metà degli anni '80 del Novecento italiano, ricco di veloci rivolgimenti, colpi di scena, conflitti durissimi, rapide mutazioni, grandi avanzamenti, repressioni feroci, non ha più una sua narrazione.

Per questo può esser facilmente raccontato, meglio sarebbe dire reinventato, come continuum criminale traversato da trame e segreti, tentativi eversivi e assalti rivoluzionari eterodiretti, P2 e mafia, servizi traviati, tutti perfettamente intrecciati e sorretti da un’unica regia e un medesimo disegno: «impedire il compimento della democrazia», ovvero quell’alternativa o alternanza di governo (qui il lessico muta con le svolte politiche).

È quanto ha fatto Report nella puntata andata in onda domenica 12 maggio nel servizio preparato da Paolo Mondani. Quanto avvenuto da piazza Fontana, dicembre 1969, alla morte di Falcone-Borsellino nell’estate 1992, avrebbe fatto parte di un unico disegno dove tutto si tiene: tentativi di golpe, stragi fasciste, lotta armata, rapimento Moro, attentati mafiosi, avvento del Berlusconismo. Una insalata mista.

Un discorso ormai rodato da alcuni decenni e nel quale i fatti sociali vengono sistematicamente ridotti a eventi delittuosi, l’analisi e la spiegazione che ne segue trasformata in un calco deforme della trama giudiziaria.

La favola del doppio Stato o Deep state

La costituzione di Weimar, come lo Statuto Albertino, non furono mai aboliti dal nazismo e dal fascismo. Vennero disattivati grazie al potere di sospensione proprio dello “stato d’eccezione” e affiancati da una seconda struttura, che nel caso dell’esperienza nazista il costituzionalista Ernst Fraenkel definì, in un libro del 1942, «Stato duale». Nasce da qui, in modo azzardato, la formula del «doppio Stato», ripresa in un saggio del 1989 da Franco De Felice.

Questa categoria, che ha fornito una parvenza concettuale alla retorica del complotto, insieme ai continui riferimenti all’azione di «poteri invisibili» e «occulti» (Bobbio) o di uno «Stato parallelo» (Giannuli), e poco importa se la data d’origine debba risalire allo sbarco degli americani in Sicilia, al Gobbo del Quarticciolo, a Portella delle Ginestre, al “tintinnar di sciabole” e alle Intentone degli anni '60 (la letteratura dietrologica propone infinite varianti), aiuta davvero a comprendere la storia del dopoguerra e del decennio '70 in particolare?

Come spiegare allora che un giovane sostituto procuratore di nome Luciano Violante, destinato ad una carriera di esponente storico del primo Stato (quello che la vulgata dietrologica ritiene “buono”), interviene su informativa del ministro degli interni democristiano Paolo Emilio Taviani – medaglia d’oro della Resistenza bianca, fondatore di Gladio, dunque esponente del secondo Stato (quello deviato) – per indagare contro Edgardo Sogno, membro a questo punto di un “terzo Stato” (stavolta traviato), che tramava un golpe gollista di ristrutturazione autoritaria della Repubblica, nel mentre operava attraverso i carabinieri della divisione Pastrengo un “quarto Stato” (deviatissimo e traviatissimo) in combutta col Mar del neofascista Carlo Fumagalli, le bombe stragiste, le cellule nere del Triveneto.

Il tutto in presenza del «super Sid», scoperto dal giudice Guido Salvini, che forse era dunque un “quinto Stato” (ancora più che deviato o traviato, uno Stato invertito)?

Poi c’erano gli Stati negli Stati come la mafia, cioè lo Stato doppione e, infine, gli antistati, come le Br, che però certuni vorrebbero una diramazione di uno dei precedenti cinque Stati.

Che vuol dire tutto questo? Forse che l’Italia era un paese eccessivamente statalista?

La dietrologia contro le trame di Stato che si fa dietrologia dello Stato contro la società

L’ idea che il mondo sia più comprensibile se visto dal buco della serratura di un ufficio dei servizi segreti piuttosto che in luoghi dove si tessono e scontrano le relazioni sociali, economiche e politiche, prima che una squallida strumentalizzazione politica è il segno tragico di una malattia della conoscenza.

Che la comprensione della società si risolva con una risalita verso l’alto, ricostruendo l’ordito della cospirazione, quell’apice dove dei burattinai dovrebbero tirare per forza dei fili, regolando i giochi, è divenuta semplificazione consolatoria.

In passato era servita ad alcune forze politiche per trovare un alibi che giustificasse i propri fallimenti, ma oggi che queste forze sono scomparse è diventato un nuovo instrumentum regni che favorisce una visione delle cose perfettamente congeniale alla perpetuazione dei poteri mai messi in discussione del capitalismo attuale.

In questo modo attraverso le dietrologie si vuole sostenere che dietro ogni ribellione non c’è genuinità, sincerità, ma solo un inganno, una forma di captazione, uno stratagemma del potere.

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