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20/09/2024

Un condannato a morte è fuggito (1956) di Robert Bresson - Minirece

Le tensioni tra Usa e Cina e lo stato di salute del capitalismo mondiale

di Raffaele Sciortino

Benjamin Bürbaumer, Chine/ Ètats-Unis, le capitalisme contre la mondialisation, Paris, La Découverte, 2024

Nella letteratura sullo stato delle relazioni sino-americane non è affatto facile ritagliarsi uno spazio. A maggior ragione se il focus non è su aspetti particolari ma sul quadro complessivo, nello spazio e nel tempo, dello scontro che va delineandosi tra Stati Uniti e Cina Popolare. Ciò vale in particolare per gli studi europei non in lingua inglese, sui quali pesa la scarsa attenzione per un tema che il pubblico continentale percepisce sì come cruciale ma tende a vivere da spettatore passivo. Gioco forza, data la crescente irrilevanza della Unione Europea nel quadro economico e geopolitico mondiale. Rappresenta una parziale eccezione la Francia, per ragioni che rimandano vuoi alle mai scomparse velleità geopolitiche vuoi alla percezione del declino interno e internazionale del paese.

Dopo la pubblicazione tra il 2022 e il 2023 di alcuni lavori in lingua francese sulla competizione tra le due potenze[1], è da poco uscito su questo tema il lavoro di un giovane studioso di economia politica internazionale, Chine/ Ètats-Unis, le capitalisme contre la mondialisation di Benjamin Bürbaumer. Mentre fin qui il focus delle analisi si è per lo più incentrato sull’ambito della politica internazionale, ciò che caratterizza in positivo questo studio è il rifiuto esplicito di un approccio che fa della geopolitica una dinamica separata e in ultima istanza decisiva incentrata oltretutto sulla relazione tra attori nazionali. La tendenza allo scontro Usa/Cina parla innanzitutto dello stato di salute del sistema capitalistico mondiale e della parabola paradossale della globalizzazione (che gli autori francesi chiamano mondializzazione). Paradossale a misura che il “nodo mondializzazione-finanziarizzazione” – il cui asse, vedremo, si è costituito proprio intorno alla relazione Stati Uniti/Cina – ha sì permesso al capitalismo mondiale la fuoriuscita dalla crisi degli anni Settanta, ma alla condizione di innescare l’ascesa di un potente rivale del capitale occidentale che è oggi arrivato a contestare la “supervisione” statunitense della mondializzazione stessa.

Di qui lo scontro che si va delineando sotto i nostri occhi e che per l’autore configura una lotta per l’egemonia alla scala del sistema mondiale: la spinta di Pechino per un ordine internazionale alternativo di contro alla reazione di Washington per il mantenimento dell’ordine esistente. Uno scontro che mette a rischio la stessa mondializzazione non per fattori esogeni, bensì per la dinamica conflittuale stessa del capitalismo. Di qui il titolo a suo modo provocatorio del libro.

Traspare da questa ipotesi centrale il riferimento marxista dell’autore, che da un lato punta a un’attenta analisi degli elementi strutturali della mondializzazione (in particolare, i flussi degli investimenti esteri di capitale, diretti e finanziari, e non semplicemente gli scambi commerciali), dall’altro si serve del concetto gramsciano di egemonia trasposto sul piano delle relazioni internazionali per incastonare queste ultime nelle dinamiche di classe interne agli stati nazionali in gioco. Il connubio di questi due elementi permette di sfuggire all’uso invalso dello strumentario gramsciano, oramai neutralizzato nella disciplina delle relazioni internazionali sotto la vuota etichetta di soft power o ridotto a mera critica culturale.[2] Ma permette altresì di evitare un’attitudine analitica e politica tipica di buona parte della critica francese (e non solo) della mondializzazione, letta come frutto della sola intenzionalità politica e/o come produzione del “discorso neoliberale”.[3] Ciò non toglie che questo ancoraggio marxista risulta a volte come ingabbiato in un apparato concettuale che sembra rimandare alla scuola francese della regolazione e, più in generale, a un approccio di International Political Economy fermo alla combinazione di politica ed economia e dei livelli di analisi internazionale e interno più che teso a investigarne i nessi intrinseci nei termini della legge del valore dispiegata a scala mondiale.

Proviamo allora a ripercorrere il ragionamento di Bürbaumer e man mano porne in luce meriti e criticità.

Innanzitutto, si pone la questione di cosa deve intendersi per mondializzazione nel suo rapporto al capitalismo. E la risposta sta in una stimolante genealogia per fatti stilizzati della “fabbricazione americana della mondializzazione” (titolo del primo capitolo che rievoca The Making of Global Capitalism di Sam Gindin e Leo Panitch, un testo degli anni Dieci che ha avuto una certa importanza nel dibattito radical sul tema). Il punto di innesco della crisi dell’ordine fordista precedente viene individuato nell’insubordinazione operaia e popolare di quello che è stato chiamato il Lungo Sessantotto. Questo fattore unitamente all’acuita concorrenza inter-capitalistica, in particolare dovuta alla ripresa delle economie giapponese e tedesca, e alla caduta dell’efficienza del capitale porta alla “crisi strutturale del capitalismo statunitense” (pp. 25-6) manifestata dalla caduta della profittabilità delle grandi imprese e dal graduale esaurimento del paradigma tecno-economico incentrato sul binomio automobile-petrolio. La reazione della borghesia Usa al rischio declino si sostanzia negli anni Settanta nel prevalere della sua frazione “transnazionale” volta a rilanciare gli investimenti esteri e il commercio internazionale e dunque a smantellare, in patria e soprattutto all’estero, i limiti alla libera circolazione di capitali e merci. Non senza l’aiuto dello stato americano, ha così potuto superare le resistenze interne del capitale nazionale più orientato al protezionismo nonché integrare nei nuovi circuiti dell’internazionalizzazione e legare a sé le frazioni di borghesia europea e giapponese (in nota l’autore recupera a questo riguardo il concetto di “borghesia interna” di Poulantzas, che rimanda al dibattito marxista degli anni Settanta sulla caratterizzazione del nuovo “super-imperialismo” americano)[4]. Per questo risultato è stato cruciale secondo Bürbaumer – ecco la nota “gramsciana” aggiornata alle analisi sulla borghesia transnazionale di Stephen Gill sulla Commissione Trilaterale e quelle più recenti di Van Appeldoorn-de Graaf sulle reti dell’élite “corporate” statunitense – il ruolo degli emergenti think tank globalisti, veri e propri organi di pianificazione politica per l’elaborazione della nuova Grand Strategy americana.[5] Ciò si è combinato con l’offensiva anti-operaia in Occidente e l’estensione a palla di neve della deregulation ai paesi del Terzo Mondo, piegati dalla trappola del debito estero e dalle conseguenti terapie choc. Il tutto ha avuto inizio già con le amministrazioni americane degli anni Settanta, si è rafforzato sotto Reagan ed è culminato nel decennio clintoniano, non senza l’apporto della caduta del blocco cosiddetto socialista.

Questa ricostruzione incrocia la tesi “smithiana” di Robert Brenner dell’accresciuta competizione inter-capitalistica anni ’60-’70 con la tesi della diminuita redditività del capitale. Sicuramente avrebbe beneficiato altresì di un accenno agli “interventi umanitari” americani che hanno caratterizzato il cosiddetto momento unipolare. In ogni caso ha un duplice merito. Il primo è quello di sottolineare come la ripresa della profittabilità delle multinazionali statunitensi – via delocalizzazioni della produzione industriale: ecco dove si inserisce la Cina – sia consistita e consista tuttora nel “drenaggio” (p. 63) di valore dagli investimenti esteri in una misura superiore a qualunque altro concorrente: la mondializzazione dunque si basa su di una asimmetria strutturale a favore dell’imperialismo Usa (l’autore non usa questo termine, ma a più riprese sottolinea questo nesso). In questo quadro, ma anche nell’economia dell’insieme del lavoro in oggetto, è di particolare importanza l’analisi dedicata al ruolo del dollaro per le basi materiali della riconfigurazione dell’egemonia americana. Bürbaumer sceglie di parlarne diffusamente solo nel quarto capitolo (“La contestazione del privilegio esorbitante del dollaro”) in relazione al tentativo cinese di aggirare quella che si è rivelata essere un’arma fondamentale del capitalismo americano, ma il tema è già implicito nella genealogia della mondializzazione. L’analisi è di tipo funzionalista e istituzionalista – sulla scorta, ci sembra di capire, di Aglietta, Orléan, Cartelier, ma anche per ragioni metodologiche e per il livello di astrazione scelto – più che strettamente marxista (moneta come rapporto sociale, espressione necessaria del valore come forma della socializzazione della produzione basata sul capitale, contestuale al potere statale). Comunque sia, particolarmente efficace nella sua sinteticità risulta la spiegazione del peculiare signoraggio del dollaro che, in particolare dopo lo sganciamento dalla convertibilità con l’oro nel 1971, ha permesso a Washington di indebitarsi nella propria moneta a tassi di interesse bassi e di investire all’estero i capitali così ricavati grazie alla politica monetaria della Federal Reserve, unitamente all’attrattività dei Treasuries americani come bene rifugio e all’accumulo di riserve denominate nel biglietto verde da parte delle banche centrali del resto del mondo. Alla base di ciò, ovviamente, la circolazione del dollaro come mezzo di scambio a valenza mondiale, rafforzata dall’accordo del 1974 con l’Arabia Saudita sul prezzo e vendita del petrolio in valuta statunitense. I dati riportati dall’autore illustrano ampiamente il dominio monetario che ne è seguito – e che vige tutt’oggi nonostante la tempesta del 2008 – che ne fa la moneta “liquida” per eccellenza, supportata da una fin qui insuperata potenza diplomatica e militare. Il che spiega, altresì, la possibilità per Washington di reggere da cinquant’anni a questa parte un crescente doppio deficit, e quindi debito, statale e estero senza incorrere nella necessità di un doloroso risanamento della bilancia dei pagamenti. La tenuta del fronte interno negli States deve molto, se non quasi tutto, a questo.

Con ciò siamo direttamente al secondo punto di merito di questa ricostruzione. Come è stato possibile, nonostante la relativa de-industrializzazione negli Stati Uniti con conseguente perdita di potere contrattuale da parte della classe operaia, ricacciare indietro il lavoro organizzato e però conservare la pace sociale? È qui che si inserisce il ruolo essenziale della Cina in questo processo di “fabbricazione” della mondializzazione. Averne fatto grazie agli investimenti delle multinazionali la fabbrica del mondo dai bassi costi, i cui prodotti hanno libero accesso ai mercati occidentali, vi ha permesso una pressione deflazionistica sui salari delle classi lavoratrici contestualmente al riversarsi nel loro paniere di una massa di prodotti d’uso a basso costo. Questo il rapporto di classe su scala internazionale che è l’altra faccia dell’internazionalizzazione della produzione e della finanza.

A questo punto Bürbaumer può passare nel secondo capitolo del libro a illustrare i passaggi essenziali dell’“inserzione subordinata” (p. 88) della Cina nella rete della mondializzazione: l’aggettivo è altrettanto importante del sostantivo. Analiticamente, si possono distinguere dai fattori esogeni – quelli attinenti ai processi di internazionalizzazione delle imprese e della finanza americane attraverso le nuove catene globali del valore – quelli endogeni che hanno dato luogo alla più che trentennale “alleanza di circostanza” (p. 74) tra le due sponde del Pacifico. Su questo versante l’autore attribuisce particolare importanza al peculiare assemblaggio tra le spinte modernizzatrici e sviluppiste proprie del corso politico post-maoista del Partito Comunista Cinese e l’emergere di una classe capitalista come escrescenza degli apparati di partito, il che ha fatto prevalere la spinta all’apertura verso l’Occidente. (A questo riguardo, però, andrebbe ricordata l’importante mossa diplomatica di Mao sfociata nel rapprochement con l’amministrazione Nixon già nel ’72, ben prima del depositarsi definitivo delle polveri sollevate dalla Rivoluzione Culturale e dell’inizio del corso denghista).[6] Nel corso degli anni Novanta – dopo che la liberalizzazione contestata da piazza Tien An Men nell’89 è stata riformulata in termini più graduali ma sostanzialmente riconfermata e spinta in avanti – questo processo ha liberato forze potenti che hanno fatto nascere nuovi settori sociali pro apertura in una dinamica autoalimentantesi (p. 75).

Non seguiremo nel dettaglio la descrizione del corso cinese di “riforma e apertura” sintetizzato in questo capitolo. Ma possiamo fermarci brevemente su alcune domande che il libro, nell’affrontare questo grumo di questioni obiettivamente intricatissimo, inevitabilmente solleva. Si tratta, in sintesi, della caratterizzazione della formazione economico-sociale cinese. L’autore dà per scontata, comprensibilmente, la natura capitalistica della Cina attuale. Ma non ritiene di doversi soffermare sul problema della sua transizione al capitalismo: quando si è data? Come? Quali le cause profonde? Ha avuto luogo una “restaurazione” capitalista di una formazione già socialista o transitante verso il socialismo, come molta letteratura marxista di ascendenza anche opposta (trozkista, marxista-leninista, radical) ritiene? Oppure sotto le bandiere del socialismo maoista ha avuto luogo una peculiare accumulazione primitiva capitalista – peculiare in quanto scaturita da una rivoluzione democratica contadina in un paese periferico di antica civiltà, non passato attraverso una fase feudale e sottoposto alla rapina semicoloniale – che a un certo punto ha prodotto anche dall’interno le spinte all’apertura al mercato mondiale concomitante con la pressione imperialista esterna senza però subordinarvisi del tutto proprio in forza di quel retaggio?[7] Questioni che hanno tutta una complessa stratificazione storica e politica. Per restare nei limiti di una “critica immanente” al libro possiamo far notare due implicazioni della loro rilevanza. Primo, la permanenza di una “questione agraria” in Cina, che rappresenta sì un ostacolo al pieno dispiegamento di un moderno capitalismo all’altezza dell’imperialismo occidentale ma anche un ammortizzatore rispetto a una proletarizzazione selvaggia e incontrollata.[8] Secondo, e collegato a ciò, la collocazione delle classi lavoratrici delle campagne e delle città, che sono sì forza-lavoro a basso costo disciplinata dall’educazione “socialista” (p. 90) ma anche forza attiva nel condizionare lo sviluppo capitalistico cinese spingendolo verso una modernizzazione accompagnata da un compromesso sociale di tipo più socialdemocratico. Sono dunque i rapporti di classe interni alla Cina, intrecciati alla dinamica del capitalismo mondiale, a spiegare sia perché il partito-stato abbia potuto e dovuto evitare un passaggio da terapia choc, sia perché all’indomani della crisi del 2008 abbia tentato di svoltare rispetto a un modello di sviluppo eccessivamente dipendente ed esposto alle crisi cicliche e alle strategie di controllo provenienti da Occidente.

Per intanto registriamo con l’autore che dagli anni Novanta dello scorso secolo la Cina diventa la destinazione numero uno del flusso degli investimenti diretti americani, una “vacca da latte delle multinazionali americane” (p. 89), snodo cruciale delle catene del valore controllate dagli oligopoli occidentali, paese esportatore di peso mondiale ma pur sempre di beni manufatti a medio-basso valore aggiunto per conto, appunto, di quelle multinazionali. A questo riguardo Bürbaumer – forse memore del vecchio dibattito marxista di inizio Settanta tra Mandel e Nicolaus – fa giustamente notare che, data questa configurazione dei circuiti internazionali del capitale, non è certo la bilancia commerciale l’indice più significativo del peso specifico di un’economia nazionale se non se ne disaggrega il valore aggiunto domestico contenuto nelle esportazioni. Per non parlare dei profitti occidentali rimpatriati nonché dell’obbligo tacito, anche per la Cina, di reinvestire parte del surplus commerciale nei titoli del Tesoro statunitensi come contropartita dell’apertura dei mercati occidentali e dell’acquisizione di tecnologie (comunque non del livello più alto). E il cerchio si chiude.[9]

Si riapre, però, con la svolta successiva alla crisi finanziaria globale, che il libro affronta nell’ultima parte del secondo capitolo. La crisi si incarica di portare a maturazione le fragilità della “simbiosi transpacifica” (p. 95). Fragilità presenti già prima della tempesta per quanto con modalità differenti sui due versanti. Su quello cinese (pp. 95-101), si tratta di uno sviluppo improntato a forti investimenti in capitale fisso senza però, almeno dagli anni ’00, decisi incrementi di produttività e di innovazione tecnologica, la cui assenza viene compensata da una crescita meramente quantitativa della produzione.[10] Di conseguenza, l’unica via di uscita resta l’extraversione dell’economia, che fissa però la Cina al ruolo di macchina da esportazione dipendente, nei modi visti, dai mercati occidentali, con bassi livelli di consumo interno e, nonostante i successi della lotta alla povertà, processi di massiccia proletarizzazione senza la possibilità di formazione di una vera classe media. A questo proposito l’autore sembra dare una torsione “keynesiana” al ragionamento insistendo sul divario sovracapacità produttiva / scarsi consumi come causa dell’extraversione commerciale, fonte di tensioni con gli Stati Uniti.[11] Il punto, a mio avviso, è però distinguere l’extraversione dipendente da multinazionali e mercati occidentali, fonte di un surplus commerciale a basso valore aggiunto cinese, da una proiezione esterna basata invece su investimenti interni a più alto contenuto tecnologico al fine di risalire le catene globali del valore ed erodere il prelievo imperialista occidentale. Solo questa seconda strategia – intrapresa sotto la presidenza Xi Jinping – permette di innalzare sul medio-lungo termine anche salari e consumi interni e di accedere a un compromesso sociale di tipo socialdemocratico.

Sul versante americano (pp. 101-3), nonostante il periodo di vacche grasse per il grande capitale, incubano le contraddizioni dovute al crescente indebitamento delle classi lavoratrici, alla disgregazione sociale risultato della deindustrializzazione, e alla formazione di bolle speculative nella finanza come quella subprime, poi puntualmente esplosa. Bürbaumer ne conclude che quella simbiosi era in realtà solo apparente, senza un’effettiva convergenza tra le due economie (p. 112) a causa, da un lato, dello scarso radicamento, qualitativo e quantitativo, delle multinazionali statunitensi nel tessuto produttivo cinese – nulla di paragonabile con l’entità degli investimenti diretti in Europa – e, dall’altro, per il forte controllo da parte dello Stato cinese sulle aperture economiche attraverso la limitazione delle acquisizioni straniere, la formazione di forti conglomerati monopolistici pubblici e la subordinazione del capitale privato.

A questo proposito possiamo rincarare la dose. Senza bisogno di aderire alla lettura arrighiana di una Cina qualitativamente differente e relativamente separata dal capitalismo occidentale[12], è vero che il corso economico cinese non è mai stato né puramente “neoliberale” né – storia e rivoluzione contano – completamente subordinato all’imperialismo occidentale. Il prelievo di valore da parte delle multinazionali occidentali e l’inserimento nella rete di dominio mondiale del dollaro e della finanza statunitense hanno rappresentato, nelle condizioni storiche date, la via di accesso quasi obbligata della Cina al mercato mondiale come condizione di un suo salto nella modernizzazione interna (e così, crediamo, sono sempre state viste dalla frazione determinante del Partito Comunista Cinese, al di là di transitorie giravolte “liberiste”).

Le traiettorie, innanzitutto economiche, di Stati Uniti e Cina iniziano decisamente a divergere con lo scoppio della crisi globale perché la parabola discendente dell’accumulazione mondiale, col suo epicentro di crisi in Occidente, rovescia la loro relativa interdipendenza già strutturalmente asimmetrica in contrasto di interessi sempre meno conciliabili, economici e geopolitici. È qui che la struttura si fa azione: per la Cina proseguire sulla linea degli ultimi decenni avrebbe significato non solo confermare la subordinazione fin qui gioco forza accettata, ma rischiare il blocco se non il rinculo del proprio sviluppo economico e, con esso, la messa a rischio dell’ordine sociale garantito dalla crescita verso una “prosperità moderata”. Un regime change di marca filo-occidentale ne sarebbe stato l’esito probabile.

Torniamo al libro. L’asimmetria di collocazione nel sistema capitalistico mondiale – che Bürbaumer discute nei suoi diversi aspetti, non solo economici – si manifesta anche nell’opposta reazione di Washington e Pechino alla crisi. Per gli Usa si tratta di continuare, dopo e grazie ai salvataggi della finanza, col business as usual: vanno in questa direzione le mosse della Fed per confermare la centralità mondiale del dollaro.[13] Tutta la parte centrale, cioè i capitoli terzo (“Sfuggire al controllo americano delle catene globali del valore”) e quarto (“La contestazione del privilegio esorbitante del dollaro”), sono un’efficace illustrazione dello sforzo cinese di aggirare questa che oramai è divenuta una vera e propria trappola per le proprie prospettive di sviluppo. Può non essere superfluo ricordare che, secondo l’autore, non è stato il cambio al vertice con l’arrivo di Xi Jinping ad aver prodotto il superamento del connubio denghista di liberalizzazione economica e minimalismo in politica estera, bensì qualunque altro dirigente si sarebbe dovuto confrontare con le sfide poste dal nuovo contesto (p.117).

In estrema sintesi, si è trattato a questo punto per Pechino di cercare una collocazione diversa alle proprie imprese nella divisione internazionale del lavoro risalendo la catena globale del valore anche dal punto di vista tecnologico e, al contempo, di portare avanti una “lotta per le infrastrutture” al fine di incanalare verso di sé i flussi di valore precedentemente appropriati dall’Occidente. Il punto di convergenza di questo doppio asse strategico l’autore lo rinviene nel progetto delle Nuove Vie della Seta (BRI, secondo l’acronimo inglese), la vera sfida cinese al dominio statunitense sui flussi mondiali di valore. Lanciato, come è noto, nel 2013 questo progetto è la cornice generale della proiezione esterna autonoma delle imprese cinesi sul mercato mondiale, finalizzata sia ad accrescere il valore aggiunto domestico delle merci esportate sia a dare inizio a una esportazione di capitali in proprio, salita effettivamente al 2022 al 9% dello stock mondiale (di contro al 22% statunitense, di tutt’altro spessore qualitativo).

Ma il cambio di strategia non si limita a ciò. Come accennavamo, altrettanto se non più importante delle mere cifre economiche è secondo Bürbaumer il tentativo cinese di mettere in campo nella sua proiezione esterna un’intelaiatura di infrastrutture fisiche, tecniche, di comunicazioni e di reti digitali – emblematico il successo e la diffusione delle reti 5G di Huawei – fino all’intelligenza artificiale come tecnologia e metodo di innovazione di applicazione generale. Un’intelaiatura che permetta di oltrepassare gli standard tecnologici occidentali legando a sé i paesi aderenti (pp. 132-50). Resa possibile dalla veloce e per certi versi straordinaria rincorsa tecnologica cinese, tale espansione a sua volta la rilancia. In gioco è allora il “potere strutturale” (concetto mutuato da Susan Strange), ovvero la capacità di incanalare i flussi di valore delle transazioni globali nel mentre si determinano, con l’attiva partecipazione dello stato, le condizioni di rango e di partecipazione al mercato e alla geopolitica mondiali, le regole del gioco dell’ordine internazionale, il controllo dei colli di bottiglia fisici e intangibili.

Una lotta, dunque, che investe contemporaneamente il piano economico-finanziario e quello geopolitico. Non a caso, essa è strettamente intrecciata con la “contestazione monetaria cinese” (pp. 188-201) del dominio mondiale del dollaro, cui abbiamo accennato sopra. Dall’incremento dell’interscambio commerciale direttamente in valuta cinese agli scambi tra banche centrali, dal graduale allentamento dei controlli su cambio e capitali per permettere una più ampia circolazione internazionale del renminbi yuan all’approntamento di un sistema di pagamenti interbancari proprio (il Chips, non ancora però del tutto slegato dal sistema Swift controllato da Washington), il libro fa una sintesi aggiornata di quella che definisce una “finanziarizzazione in forma statale” (p. 199) volta a creare mercati finanziari distinti e concorrenti con quelli occidentali. La posta in gioco, con una formula efficace: “rinforzare l’extraversione diminuendo le vulnerabilità a ciò associate” (p. 120) di contro a un modello export-led del tutto esposto al bello e cattivo tempo dei capitali e delle politiche statunitensi (rimando a quanto scritto sopra al riguardo).

Bürbaumer non nasconde comunque le persistenti fragilità cinesi. Sottrarsi alla supervisione statunitense della mondializzazione non è impresa facile. Il libro si ferma in particolare su due mosse che Washington, da leader mondiale, può giocare d’anticipo. Da un lato la cosiddetta guerra dei chip (pp. 151-61, dal titolo dell’oramai famoso libro di Chris Miller), iniziata con l’offensiva anti-Huawei, e tesa a disconnettere l’industria cinese dai segmenti alti di questa produzione strategica per bloccarne in anticipo la potenziale risalita tecnologica. Con risultati ambivalenti: Pechino è stata incentivata a sviluppare capacità di ideazione e produzione autonome, pur restando dipendente per i chip più sofisticati dalla strumentazione occidentale, che le è sempre più negata. Dall’altro Washington, per contrastare in prospettiva la graduale internazionalizzazione della valuta cinese, sta trasformando a più non posso il dollaro in “arma politica esplicita” (p. 201) attraverso un sistema oramai pervasivo di sanzioni finanziarie a paesi ed entità avversarie, di cui quelle comminate contro la Russia all’indomani dello scoppio del conflitto in Ucraina sono solo l’ultimo e più rilevante esempio. Anche su questo versante i risultati non sono così lineari: l’arma delle sanzioni si sta rivelando a doppio taglio per l’Occidente e paradossalmente un catalizzatore dell’uso internazionale dello yuan cinese da parte dei soggetti statali sanzionati (p. 211). Al tempo stesso, nonostante questo effetto boomerang, resta il fatto che il dollaro non ha al momento degli effettivi rivali come moneta mondiale.

In entrambi questi casi ciò che emerge è la contraddizione tra le spinte all’internazionalizzazione del capitale – sia sul fronte delle multinazionali americane, interessate al mercato cinese, sia su quello del capitalismo sviluppista della Cina che ancora abbisogna degli apporti del capitale straniero – da un lato, e le divergenze senza precedenti tra i due avversari dall’altro. Senza che, rilievo importante dell’autore, la questione possa ridursi alla meccanica separazione tra un’economia presuntamente portatrice di interdipendenza pacifica e una geopolitica causa di scontro: se è vero che il cliente cinese delle imprese statunitensi è sempre più anche concorrente. Allo stato, questa contraddizione si è attestata sul decoupling strategico rispetto all’economia cinese da parte di Washington, che sta diversificando i propri fornitori secondo ragioni geopolitiche (friendshoring) senza, per ora, attaccare l’integrità delle catene globali, dunque anche cinesi, del valore (pp. 165-6).

Siamo così all’ultimo capitolo, dedicato a “Gli Stati Uniti nella trappola dell’egemonia”. Come abbiamo anticipato all’inizio, per Bürbaumer la cifra di fondo delle tensioni in corso è quella di una lotta per l’egemonia a tutto tondo tra le due grandi potenze, ben oltre la mera dimensione economica: si tratta della capacità di fare della propria organizzazione sociale un modello universale garantendo un ordine internazionale di cui tutti in teoria possano beneficiare. Ed è qui che viene fuori la posizione critica attuale degli Stati Uniti. Netto è il loro predominio sul piano militare, in questo capitolo illustrato in particolare con riferimento all’esorbitante spesa militare, alla rete mondiale di basi militari e alla forward presence nell’area dell’Indo-Pacifico e a Taiwan, che di fatto prefigura l’espansione della Nato in Asia (pp. 267-82). Ma l’impegno crescente in questa direzione non fa che attestare che l’equilibrio “gramsciano” tra consenso e coercizione pende sempre più verso il secondo aspetto. Nonostante il perdurante richiamo del modo di vivere americano e una ineguagliabile rete di alleanze sparse nel globo, la crescente militarizzazione spinge dall’attrattività egemonica nella direzione dell’esercizio del puro dominio. Ma la perdita di prestigio internazionale di Washington – sotto gli occhi di tutti l’instabilità crescente della pax americana e il doppio standard applicato ai conflitti in Ucraina e a Gaza – non si spiega secondo Bürbaumer senza la contestuale strategia cinese. L’offensiva dello charme va qui dalle iniziative istituzionali in Asia e in sede di paesi Brics all’impegno per un ordine internazionale più giusto e favorevole ai paesi della periferia del mondo. Il tutto costellato di azioni concrete in questa direzione, dalla crisi asiatica del 1997 allorché Pechino evitò di svalutare la propria valuta venendo così in soccorso dei paesi asiatici fino alla diplomazia dei vaccini anti-covid, e alla mediazione tra Iran e Arabia Saudita nel 2023. Non certo un’azione disinteressata, bensì nel quadro della proiezione esterna di cui si diceva, e comunque in grado finora anche sul piano degli interventi economici di non imporre ai paesi interlocutori, per lo più del Sud del mondo, le famigerate condizionalità del Fmi e della finanza occidentale, bensì garantire in certa misura uno “sviluppo”.

Insomma, la supervisione americana della mondializzazione risulta sempre più contestata, con possibili ripercussioni anche sulla stabilità interna, in un circolo vizioso di interventismo militare e perdita di prestigio che sta alla base del peggioramento complessivo del clima internazionale. La rivalità inter-capitalistica delle due principali potenze mondiali arriva così a minare la stessa mondializzazione palesando la dinamica conflittuale tra nazioni intrinseca al capitalismo che l’autore, richiamandosi nella pagina finale del libro a Rosa Luxemburg, definisce “imperialismo”.

È evidente, da questa pur parziale presentazione, come il lavoro di Bürbaumer sia ricco in sé di contenuti tenuti insieme da un quadro complessivo forte, cosa che, lo si condivida o meno, pochi oggi si arrischiano a fare nello specialismo imperante. Proprio per questo, merito non ultimo del libro è quello di aprire tutta una serie di questioni cruciali non solo per il lavoro teorico e storico, ma ancor più per la politica mondiale a venire (se intesa come grande politica). Mi limito su questo a due considerazioni finali. La prima: la caratterizzazione complessiva dello scontro in corso come lotta per l’egemonia tra le due grandi potenze sembra implicare la possibilità di un avvicendamento egemonico tra Stati Uniti e Cina, rischiando così di oscurare la persistente asimmetria non solo tra i due attori in gioco, ma tra Occidente e resto del mondo – asimmetria (ben presente a Bürbaumer) che rende oltremodo improbabile una “successione egemonica” (per usare una terminologia arrighiana). In realtà, si potrebbe forse parlare di una contro-egemonia di “resistenza”, portatrice non di un discorso anti-imperialista e anti-capitalista, sia chiaro, ma di un’istanza “riformista” a scala mondiale, che non a caso sta raccogliendo l’attenzione e il cauto appoggio di parte del Sud del mondo (e della Russia, malgré soi portatrice di un’anomalia risalente al ’17 che l’Occidente non le ha mai perdonato). Purtroppo nell’indifferenza finora di gran parte delle classi lavoratrici occidentali (per non parlare dell’aperta ostilità delle loro rappresentanze politiche e sindacali). Seconda considerazione, strettamente legata alla prima: risulta da questo lavoro come la traiettoria statunitense dall’egemonia al dominio rimandi non semplicemente a un problema di direzione da parte di Washington – di cui è segno la difficoltà di elaborazione di una nuova, coerente Grand Strategy – bensì a un impasse oggettivo del capitalismo mondiale. Se ne potrebbe dedurre che il blocco posto dagli Stati Uniti a un rinnovamento profondo degli equilibri geopolitici, economici, sociali a scala mondiale – blocco di cui lo scontro con la Cina è espressione – segnala una crisi profonda non solo della mondializzazione come “stadio” fin qui più alto raggiunto dal capitalismo, ma del sistema capitalistico in quanto tale.

Alla luce di ciò, non si fa forse torto all’autore concludendo che il suo lavoro pone in definitiva l’esigenza di una rinnovata teoria dell’imperialismo, banco di prova di un marxismo all’altezza degli sconvolgimenti mondiali a venire.

Note

[1]
Ricordiamo di Barthélémy Courmont Chine-Usa: le grand écart, a cura dell’Iris; di Pierre Grosser L’autre guerre froide? La confrontation Ètats-Unis/Chine. Va considerato anche il lavoro di analisi che fa capo al sito Le Grand Continent. La tradizione gollista permette ancora qualche margine di analisi, se non di dibattito, non immediatamente schiacciato sull’opzione atlantista, che pure non viene in generale contestata.

[2]
Vivek Chibber, The Class Matrix. Social Theory After the Cultural Turn, Harvard University Press, Cambridge 2022.

[3]
Pensiamo ai lavori di Pierre Dardot e Christian Laval e di Frédéric Lordon, ma prima ancora di Pierre Bourdieu: v. il mio Il dibattito sulla globalizzazione, 2010, in rete.

[4]
Sul tema l’autore è tornato con il saggio Alliances et accumulation. Comprendre la conflictualité entre les États-Unis d’Amérique, la Chine et la Russie à travers les flux mondiaux de capitaux, Terrains Théories, 18, 2024 (https://journals.openedition.org/teth/5747).

[5]
Su questa linea da ultimo Alexander Ward, The Internationalists: The Fight to Restore American Foreign Policy after Trump, Penguin Random House, 2024 sull’influenza dei think tank globalisti sulla e nella amministrazione Biden.

[6]
Ampia la letteratura specialistica al riguardo: rimando al mio Un passaggio oltre il bipolarismo. Il rapprochement sino-americano 1969-1972, Bologna 2012 (in rete).

[7]
Ho trattato questi temi nella terza parte del mio The Us-China Rift and its Impact on Globalisation. Crisis, strategy, transitions, Brill 2024.

[8]
Pun Gai, Lu Huilin, Unfinished Proletarianization, Modern China 36, 5, 2010, 493-519.

[9]
Non a caso è la fase delle teorie apologetiche della globalizzazione come interdipendenza o, sul versante radical, dell’Impero (riedizione del kautskiano super-imperialismo al netto della tesi del declino degli stati nazionali).

[10]
Il testo di riferimento è qui Mylène Gaulard, Karl Marx à Pékin: Le racines de la crise en Chine capitaliste, Demopolis, Paris 2014.

[11]
Una lettura che rimanda ai lavori di economisti come Michael Pettis (in Italia possiamo pensare a Emiliano Brancaccio, Raffaele Giammetti, Stefano Lucarelli, La guerra capitalista, Mimesis, Milano 2022). Insistere sul surplus commerciale cinese in sé come causa delle tensioni internazionali – i cosiddetti squilibri globali – rischia però di portare acqua al mulino del crescente protezionismo occidentale.

[12]
Giovanni Arrighi, Adam Smith in Beijing, Verso, London, 2007.

[13]
Mosse finalizzate altresì allo scarico della crisi su alleati, come nel caso dell’eurocrisi dei primi anni Dieci, e avversari.

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La UE vota per la guerra, come uno zombie

Per fortuna l’Unione Europea non è (ancora) uno Stato e il Parlamento di Strasburgo non è un parlamento vero (ossia titolare del potere legislativo, come in qualsiasi “democrazia liberale”). Altrimenti da oggi sarebbe (e saremmo, ahinoi) in guerra con la Russia e a meno di un millimetro dalla guerra nucleare.

Solo 131 europarlamentari hanno ragionato freddamente, con motivazioni e valori anche molto diversi, e hanno votato contro una mozione in egual misura guerrafondaia e idiota. Altri 63 hanno scelto la via più timida dell’astensione, ma ben 425 hanno obbedito al richiamo della foresta e si sono resi servi di un avventurismo che sarebbe stato senza ritorno, se non fosse appunto un esercizio di retorica privo di effetti immediatamente pratici.

La risoluzione proposta dalla “maggioranza Ursula” (Popolari, Socialisti, Liberali, ma anche molti dei diversi “Verdi” nazionali) non si limita infatti a ribadire il “sostegno economico, politico e militare all’Ucraina”, ma (art. 8) si spinge ad invitare «gli Stati membri a revocare immediatamente le restrizioni all’uso dei sistemi d’arma occidentali forniti all’Ucraina contro legittimi obiettivi militari sul territorio russo, in quanto ciò ostacola la capacità dell’Ucraina di esercitare pienamente il suo diritto all’autodifesa ai sensi del diritto internazionale pubblico e lascia l’Ucraina esposta ad attacchi contro la sua popolazione e le sue infrastrutture».

Una formula irresponsabile ed anche vigliacca, perché omette di nominare la vera sostanza della risoluzione.

Il problema, infatti, non è “autorizzare l’Ucraina” a sparare sul territorio russo con le armi fornite dall’Occidente. Questo già avviene dall’inizio della guerra, e dunque non avrebbe senso ripeterlo e addirittura chiedere un voto parlamentare.

Il punto vero è autorizzare i propri militari, quelli della Nato, a guidare in prima persona i missili a lungo raggio – già forniti o da fornire a Kiev – utilizzando tutti i sistemi (dall’elettronica ai satelliti) di cui l’Ucraina notoriamente non dispone.

Come abbiamo provato a spiegare con qualche dettaglio in più, “per far sì che un missile JASSM-ER possa essere pienamente operativo – ovvero stare in volo in attesa di ricevere le informazioni decisive per raggiungere un bersaglio scelto magari all’ultimo momento ‘da terra’ (dai ‘guidatori’ assistiti dai data link), ci vuole personale Nato con accesso ai sistemi dell’Alleanza”.

Ed è lapalissiano che se militari Nato si mettono a sparare missili contro la Russia, o chiunque altro, la risposta non potrà che riguardare tutta la Nato e quindi in primo luogo l’Europa guidata da questa masnada di imbecilli irresponsabili, che giocano col fuoco illudendosi che a scottarsi sarà qualcun altro.

Possono sembrare “parole forti” (imbecilli irresponsabili), ma trovate voi quelle più adatte, se ce ne sono. È già imbarazzante che “giornalisti professionisti” non si prendano la briga di informarsi almeno un poco – come abbiamo fatto noi – sul tipo di armi di cui si chiede “l’autorizzazione all’utilizzo”. Ma che dei “deputati” benissimo pagati (da noi, peraltro) schiaccino un bottone senza neanche studiare un attimo a cosa servano e come funzionino le “autorizzazioni” che stanno votando è qualcosa che nessuna parola, per quanto offensiva, può descrivere adeguatamente.

Il resto è paccottiglia di qualità ancora più infima. Parliamo degli arzigogolati distinguo con cui diversi gruppi parlamentari, o singoli deputati, hanno votato o si sono astenuti su singoli punti di questa risoluzione.

Per restare solo ai rappresentanti italiani, il PD ha votato a favore insieme ai fascisti di Fratelli d’Italia e ai berlusconiani di Tajani (che nelle interviste dice invece che l’Italia non è in guerra con la Russia e quindi non autorizza l’uso delle proprie armi in territorio di Mosca). I Cinquestelle hanno votato contro, e anche la Lega (per motivi che risalgono al Metropole...). Ma soltanto sull’articolo 8 (quello relativo all’“autorizzazione”, citato prima).

Pasticci con le parole, insomma, per provare a nascondere una responsabilità che sarebbe enorme se non fosse al momento priva di effetti.

Ma è chiaro che degli effetti ci saranno comunque, perché questo voto crea un clima politico sempre più sbilanciato a favore della guerra, anche se sono ancora i singoli stati a poter prendere oppure no iniziative militari.

Per ora sono gli Stati Uniti – i veri padroni della e nella Nato – ad esitare. I missili più pericolosi sono di fabbricazione USA, e così anche il complesso dei sistemi per guidarli. Dunque gli altri membri della NATO possono pronunciare tutte le parole che vogliono, votare qualsiasi risoluzione, ma il dito sul grilletto è della Casa Bianca.

Cui pare sia arrivato un messaggio molto chiaro da parte della Russia, per i normali e silenziosi canali di “emergenza nucleare”: stavolta non si scherza, se ci venite a bombardare voi direttamente allora vi tiriamo il meglio che abbiamo, a partire dai missili ipersonici Avangard, non intercettabili per via della velocità a cui viaggiano (tra i 21 e i 32mila chilometri l’ora). Ovviamente con testate altamente “dissuasive”.

È l’argomento che pare abbia convinto anche il fomentatissimo pseudo-laburista britannico Starmer – che era già partito per dare “l’autorizzazione finale” – nel breve ma intenso colloquio avuto con Joe Biden: il primo missile sarebbe stato su Londra.

Insomma, la guerra definitiva, in cui nessuno può vincere e stabilire la propria egemonia sul mondo. Per la buona ragione che non esisterebbe un mondo da egemonizzare.

Di questo avvertimento ha parlato diffusamente Scott Ritter, ex ufficiale dell’intelligence dei marines statunitensi, nel corso dell’intervista condotta da George Galloway, ex parlamentare laburista inglese (di sinistra, eletto per ben sette legislature consecutive). Ma chi li sta a sentire, se c’è solo da obbedire?

Buon ascolto...


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Nessuno ne parla, nessuno li conta, ma anche ieri sono morti 7 lavoratori

Tre sono morti in Lombardia nelle Province di Milano, Brescia e Bergamo, tra questi Angiolina Bassi una custode di 60 anni schiacciata da un cancello nel bresciano, la provincia di Brescia con già 25 morti sui luoghi di lavoro, è anche quest’anno la “capitale” dei morti sul lavoro in Italia. In provincia di Milano un uomo di 58 anni carbonizzato in un infortunio domestico, il terzo un 56enne schiacciato da un escavatore in provincia di Bergamo.

In Provincia di Udine è morto un imprenditore di 74 anni, si chiama Felice Zanni ed è stato travolto da un camion in manovra.

Un anziano agricoltore è morto schiacciato dal trattore nell’alessandrino, è il 111esimo dall’inizio dell’anno. Il povero giovane romeno Simon Vasile Florin è morto schiacciato da un tronco in Provincia di Trento, sono 3 i giovani stranieri 20enni morti in questi giorni. Il Trentino Alto Adige si conferma la regione con il più alto numero di morti in età lavorativa, se si contano tutti e non solo gli assicurati a INAIL. Entro due giorni arriveremo all’incredibile numero di 1000 morti (salvo miracoli) sul lavoro, siamo a questa mattina a 993 morti complessivi, di questi 753 sui luoghi di lavoro.
Carlo Soricelli curatore dell’Osservatorio Nazionale di Bologna morti sul lavoro.

Colgo l’occasione per invitarvi a visitare la mia mostra di pittura e scultura a Bologna con inaugurazione il 15 ottobre alle ore 17, molte opere sono su queste tragedie, tema che tratto con le opere dai primi anni Ottanta.

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Il solito “oppositore” venezuelano che recita la parte della vittima...

Solo una delle milioni di fake news sparate contro la rivoluzione bolivariana e il governo del Venezuela, confermato anche alle ultime elezioni. Il “candidato dell’opposizione”, dopo essersi proclamato vincitore ancor prima che la Commissione elettorale (un potere indipendente, in quel paese, non come in Italia dove è il Ministero dell'Interno a certificare i risultati), è poi fuggito in Spagna chiedendo “asilo politico” e raccontando di “essere stato costretto a lasciare il paese”.

Una semplice menzogna, per di più arrivata dopo che lo stesso Gonzales Urrutia, nell’ambasciata spagnola, aveva liberamente firmato una lettera alla presenza di Jorge e Delcy Rodriguez – rispettivamente presidente del Parlamento e vicepresidente del Venezuela – in cui riconosce la legittimità del voto popolare e quindi anche della presidenza di Maduro. Ieri il governo venezuelano ha reso pubblici sia la lettera che il video girato al momento dell’incontro.

In pratica, e per farla breve, l’ex diplomatico Gonzales Urrutia – che si era “distinto” in El Salvador come “consigliere” degli squadroni della morte, messi su dagli oligarchi locali assistiti dalla Cia – se n’è andato dal Venezuela con il consenso del governo Maduro e dopo aver spontaneamente riconosciuto i risultati elettorali. Giunto in Spagna, però, ha ripreso ad atteggiarsi a vittima, perseguitato, ecc. Un po’ come – qualche anno fa – il suo predecessore, Juan Guaidò, di cui si sono da tempo perse le tracce (le ultime segnalazioni lo davano dedito al narcotraffico).

Inutile dire che, anche in questo caso, la “libera informazione” occidentale si guarda bene dal verificare la propaganda imperiale... Qui di seguito il comunicato dell’ambasciata di Caracas in Italia, con la lettera, il video, ecc..

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Venezuela riafferma il suo impegno a rispettare gli accordi internazionali

In base alle dichiarazioni del Presidente della Asamblea Nacional, Jorge Rodríguez di ieri 18 settembre, il Venezuela desidera chiarire la sua ferma posizione riguardo alle recenti azioni e false dichiarazioni del cittadino Edmundo González Urrutia, manifestate attraverso una lettera contenente informazioni che non riflettono la posizione ufficiale dello Stato venezuelano né, tanto meno la veridicità dei fatti.

González Urrutia ha realizzato dichiarazioni contrarie ai principi e agli accordi internazionali difesi dal Venezuela, il che costituisce una grave distorsione della realtà. Durante una conferenza stampa ieri, mercoledì 18 settembre, il presidente della Asamblea Nacional de la República Bolivariana de Venezuela, Jorge Rodríguez ha mostrato una lettera firmata dall’ex candidato Edmundo González Urrutia il giorno 7 settembre 2024 insieme a delle foto che testimoniano il clima dell’incontro presso l’Ambasciata spagnola a Caracas (si allegano documento, foto e video).

Il deputato venezuelano ha inoltre ribadito che il contatto iniziale per la richiesta dell’asilo politico fu avviato proprio da González Urrutia e che, la suddetta lettera fu letta e firmata alla presenza dell’ambasciatore spagnolo in Venezuela, che però non appose la sua firma per mancanza di autorizzazione.

Le foto e i video, fino a questo momento di carattere riservato, mostrano il momento in cui l’ex candidato firma la lettera, confermando che l’incontro si è svolto in modo cordiale e senza coercizione, con la partecipazione del presidente della Asamblea Nacional Jorge Rodríguez e della vicepresidenta Delcy Rodríguez in rappresentanza del capo di Stato Nicolás Maduro.

Ieri 18 settembre, González Urrutia, ha pubblicato un video sui suoi canali social sostenendo “di essere stato costretto a lasciare il paese”. Jorge Rodríguez ha prontamente smentito queste affermazioni, dando a González Urrutia 24 ore per ritrattare e definendo la sua versione una “menzogna codarda.

Rodríguez ha ribadito che la lettera di González Urrutia riconosce la legittimità delle istituzioni venezuelane, compresi i cinque poteri dello Stato, e che lo stesso González ha cercato attivamente un dialogo con le autorità venezuelane prima della sua partenza. Nel documento, indirizzato al presidente della Asamblea Nacional, Jorge Rodríguez, González Urrutia riconosce l’autorità del Tribunale Supremo di Giustizia e la sentenza che convalida la vittoria del presidente Nicolás Maduro Moros.

Il Parlamentario venezuelano ha espresso perplessità sul comportamento di González Urrutia anche per la sua “condizione di asilo politico in Spagna, Urrutia potrebbe violare gli obblighi derivanti dal suo status”. Gonzales ribadendo che “il Venezuela ha sempre rispettato gli accordi internazionali in materia di asilo” ricorda che “la partenza di González Urrutia verso la Spagna è stata approvata dal governo venezuelano”.

Il Presidente della Asamblea Nacional ha invitato la comunità internazionale a non lasciarsi ingannare da dichiarazioni prive di fondamento che, lungi dal contribuire alla diplomazia e alla pace, cercano di generare confusione. Il Venezuela continuerà ad agire in conformità con i suoi principi di sovranità, autodeterminazione del popolo e rispetto dei diritti umani.

Inoltre, il deputato venezuelano ha reiterato che la Repubblica Bolivariana del Venezuela ribadisce la sua volontà di continuare a lavorare con gli Stati e le organizzazioni internazionali per garantire il rispetto dei trattati e degli accordi che promuovono la giustizia e i diritti fondamentali.

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Libano - Parla Nasrallah: “colpiti ma non piegati”. Scambio di colpi tra Israele e Hezbollah al confine

Le forze armate israeliane hanno effettuato decine di attacchi nel Libano meridionale, nella zona di Mahmoudiyeh. Lo  riferiscono fonti della sicurezza libanese, secondo le quali si tratta dei bombardamenti più intensi dal 7 ottobre scorso. I caccia israeliani hanno colpito nel sud del Libano a partire dal pomeriggio di ieri e i bombardamenti sono stati effettuati in diverse ondate, mentre alcuni jet di Israele hanno sorvolato anche la capitale Beirut. Il tutto mentre il leader di Hezbollah, Nasrallah, teneva il suo atteso discorso pubblico.

Ma la reazione di Hezbollah agli attentati israeliani di martedì e mercoledì non si è fatta attendere. Una serie di razzi e droni (circa 55) nella giornata di ieri hanno colpito le postazioni israeliane uccidendo due soldati e ferendone una decina.

Secondo quanto scrive Axios, citando un alto funzionario americano a condizione di anonimato, Washington ha inviato messaggi a Israele e Hezbollah, pubblicamente e privatamente, sulla necessità di fermare l’escalation. Secondo l’emittente israeliana Kan, la Casa Bianca mira a ritardare una guerra in piena regola in Medio Oriente almeno fino a dopo le elezioni del 5 novembre ma, secondo quanto scrive oggi il Wall Street Journal, l’obiettivo di una intesa su Gaza tra Israele e Hamas viene ritenuto irraggiungibile da alcuni funzionari statunitensi che hanno lavorato sui negoziati.

Hezbollah ha intanto riconosciuto internamente l’esistenza di una crepa nella sua rete interna e sta ora indagando sull’entità di questa violazione della sicurezza. “Ciò significa la presenza di agenti di alto livello che il Mossad è stato in grado di reclutare per violare la rete interna del gruppo”, ha detto una fonte. “Hezbollah sospetta che il livello di infiltrazione all’interno dei suoi ranghi, anche nella sua cerchia ristretta di leadership, sia probabilmente significativo, altrimenti questo attacco non avrebbe avuto luogo”, riferisce il Middle East Eye.

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Nasrallah: “Abbiamo subito un duro colpo ma non fermeremo le azioni della Resistenza fino al cessate il fuoco a Gaza”

Il leader di Hezbollah, Hassan Nasrallah, ha parlato ieri pomeriggio con un discorso molto atteso dopo la doppia ondata di attentati israeliani in Libano. Ammettendo che la sua organizzazione ha ricevuto “un duro colpo” dopo gli attacchi che hanno preso di mira migliaia di dispositivi di comunicazione utilizzati dall’organizzazione, ha affermato che Hezbollah sarà in grado di sopravvivere all’attacco.

Nasrallah ha detto nel suo primo discorso televisivo che Israele intendeva uccidere almeno 5000 persone martedì e mercoledì. “In un minuto di martedì, il nemico intendeva uccidere più di quattromila persone, supponendo che fossero giovani di Hezbollah”. “Volevano uccidere almeno cinquemila esseri umani in due minuti”, ha detto poi riferendosi alle due ondate di attacchi di martedì e mercoledì.

“Ma la cosa più importante è che l’attacco non ti uccida, non importa quanto sia grave”, ha detto il leader di Hezbollah, affermando che il suo partito non porrà fine alle sue operazioni militari a sostegno dei palestinesi fino a quando non sarà raggiunto un cessate il fuoco a Gaza.

“La resistenza libanese non si fermerà prima di un cessate il fuoco. Lo dico chiaramente, non importano i sacrifici e le conseguenze”, ha detto nel suo primo discorso televisivo dopo le esplosioni che hanno preso di mira i dispositivi di comunicazione utilizzati dai membri di Hezbollah questa settimana. “La resistenza in Libano non fermerà il suo sostegno al popolo di Gaza, della Cisgiordania e a coloro che sono soggetti a ingiustizie in Terra Santa”, ha aggiunto Nasrallah.

Per quanto riguarda la natura della risposta di Hezbollah, Nasrallah ha affermato che, data la natura dello scontro, dovrà essere forte e senza precedenti nella storia della resistenza, non avrebbe parlato del luogo, del tempo o del modo della risposta attesa dal partito, sottolineando che “le notizie saranno ciò che vedrete, non ciò che sentirete”.

Ha ammesso che il partito ha subito un grave colpo sul piano della sicurezza che non ha precedenti nella storia della resistenza in Libano, ma ha sottolineato che “questo grande e forte colpo non ci ha fatto cadere e non ci farà cadere” e che “la guerra è come un dibattito”, un giorno tocca a noi e un giorno tocca a voi.

Il leader di Hezbollah, ha detto che gli israeliani non saranno in grado di tornare alle loro case nel nord di Israele senza un cessate il fuoco a Gaza.

“Non sarete in grado di riportare i coloni e gli usurpatori di terra al nord. Vi sfido”, ha detto, rivolgendosi al primo ministro israeliano Benjamin Netanyahu e al ministro della Difesa Yoav Gallant. “L’unico modo per farli tornare indietro è porre fine all’assalto e all’aggressione a Gaza e alla Cisgiordania, al contrario, quello che state facendo aumenterà lo spostamento di persone dal nord, e lo sapete bene”, ha aggiunto Nasrallah.

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Dopo il discorso di Nasrallah, il ministro della Difesa israeliano Yoav Gallant ha detto che Israele continuerà la sua azione militare contro Hezbollah anche se la nuova fase della guerra include “rischi significativi”. La prossima settimana, Netanyahu dovrebbe parlare all’Assemblea generale delle Nazioni Unite venerdì 27 settembre e trascorrerà il fine settimana negli Stati Uniti riferisce il sito di notizie Ynet, senza citare fonti. Il Times of Israel riferisce di una tesa discussione all’interno del gabinetto di sicurezza israeliano, la riunione prevista per domani è stata rinviata a lunedì.

Secondo indiscrezioni Netanyahu crede che una guerra totale in Libano non diminuirà la pressione militare di Israele su Hamas a Gaza, mentre il ministro della Difesa Yoav Gallant sostiene che, sebbene le forze armate siano pronte per una guerra del genere, richiederà che alcune forze vengano ritirate da Gaza e danneggerà le possibilità di ritorno degli ostaggi.

Einav Zangauker, il cui figlio Matan è tenuto in ostaggio a Gaza, in una conferenza stampa del gruppo di familiari degli ostaggi, ha denunciato che il primo ministro Benjamin Netanyahu ha “deciso di spostare il centro di gravità della guerra a nord e di abbandonare gli ostaggi a morire nei tunnel”.

Da Gaza intanto sono stati lanciati due razzi verso la città israeliana di Ashkelon, non risultano vittime.

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Alitalia: i lavoratori non sono fantasmi! Mobilitazione al Mef, oggi presidio al Ministero del Lavoro

Continua la battaglia contro i licenziamenti dei lavoratori del Gruppo Alitalia Sai Cityliner in Amministrazione Straordinaria: se la situazione non si sbloccherà le lettere per 2300 persone potrebbero partire già da lunedì 23 settembre.

Il Ministero del Lavoro ha convocato una riunione il 20 settembre alle ore 11.00 a via Flavia; capiremo in questa riunione decisiva se ci sono le condizioni di responsabilità del governo per scongiurare questa ipotesi drammatica.

Mercoledì 18 si è svolto un sit in davanti al Mef, dove è stato chiesto un incontro all’Ufficio di Gabinetto del Ministro Giorgetti che speriamo possa avvenire nei prossimi giorni. I lavoratori rifiutano di diventare i fantasmi del trasporto aereo: per questo hanno manifestato coperti da lenzuola bianche. Non si può accettare che i dipendenti Alitalia e Cityliner siano trattati in modo differente rispetto a tutti gli altri nel settore, con limitazioni pesanti dell’ammortizzatore sociale e senza che il governo si sia ancora impegnato per la ricollocazione.

Ita Airways è di proprietà del Mef, che detiene la maggioranza del pacchetto azionario: per le assunzioni dal bacino il Ministero ha escogitato un iter di ben 5 livelli di selezione, dal test d’inglese, ai quiz psico-attitudinali, ai colloqui gestionali e quant’altro... questo l’iter a cui si devono sottoporre i candidati Alitalia. Un percorso ad ostacoli, mentre l’intero Paese è chiamato a pagare loro il sostegno al reddito. Evidentemente non è stato sufficiente averli lasciati in vana attesa per tre anni: i manager hanno inventato una procedura assurda per continuare ad escluderli.

Le altre aziende, Swissport ed Atitech, si comportano analogamente, lasciando fuori dalle chiamate un numero impressionante di persone. Tutto questo non può passare nel silenzio: i lavoratori non sono fantasmi!

Appuntamento venerdì 20 settembre, ore 11:00, alla sede di Via Flavia: non molleremo.

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Emilia-Romagna di nuovo sott’acqua: in 18 mesi Regione e governo non hanno fatto niente!

Questa notte (ieri - ndR) migliaia di famiglie dall’Appennino alla Romagna hanno dormito fuori casa o sono “ai piani alti”. A un anno e mezzo dal disastro del Maggio 2023 sembra che niente sia cambiato, non sono bastati i 14 morti della Romagna e i paesi isolati per più di un anno per insegnare a chi gestisce questo territorio che alluvioni e inondazioni non sono più e saranno sempre meno eventi “eccezionali”.

La prima pioggia stagionale ci mostra un territorio ancora fragile, in cui in 18 mesi di promesse e proclami non è stato fatto assolutamente nulla per metterlo in sicurezza. Di fronte a una crisi climatica sempre più palese, il governo Meloni continua con il negazionismo climatico, mentre abbiamo visto un vergognoso gioco delle tre carte per cui i soldi per gli alluvionati della Romagna venivano trasferiti agli alluvionati della Toscana, per cui i “ristori” arrivano poco e in ritardo, per cui si fa fatica a ricordare cosa abbia fatto Figliuolo se non grandi passerelle.

Dall’altra parte Bonaccini ha sprecato mesi nella lotta per cercare di diventare commissario alla ristrutturazione salvo poi accettare supinamente la nomina del generale Figliuolo e poi staccare un biglietto gratis per il Parlamento Europeo. E mentre la Regione proclamava “consumo di suolo zero”, si procedeva a continuare a consumare suolo, con un modello di sviluppo basato su logistica ed edilizia, mentre la vera grande opera necessaria è la desigillazione di vaste porzioni di terreno che nei decenni sono state divorate dal cemento.

Oltre all’Appennino, il territorio maggiormente colpito è il ravennate: Ravenna, da questo punto di vista, non si tira indietro, rimanendo ogni anno stabile sul podio delle province che consumano più ettari di suolo, seconda solo a Roma.

Eppure, subito dopo l’alluvione, il sindaco De Pascale, oggi candidato PD alla presidenza della regioni in piena continuità con Bonaccini, rispose agli ambientalisti che criticavano la cementificazione selvaggia dicendo che “prima i comunisti come mio nonno abbracciavano l’innovazione per bonificare, spaccandosi la schiena, adesso gli ambientalisti vorrebbero bloccare tutto” chiedendo quindi “è più importante salvare vite umane o preoccuparsi di questioni come la nidificazione nei fiumi o la difesa di alberi e nutrie?”

De Pascale riesce a fare un contrattacco incredibile: l’alluvione non è colpa della cementificazione, ma degli ambientalisti e delle nutrie.

Non si possono ripetere le scene del 2023, quando migliaia e migliaia di volontari hanno ripulito la Romagna mentre i mezzi del genio militare sono rimasti fermi nelle caserme – o peggio, impegnati nelle esercitazioni della NATO – e le autorità locali col sindaco di Ravenna De Pascale in testa hanno anche espresso fastidio per le persone che accorrevano da tutta Italia.

Chi ha avuto la città sommersa dal fango e i “burdel del paciugo” lo sanno bene: da parte dello Stato sono stati messi a disposizioni pochi mezzi e pochi uomini della Protezione Civile, e dei famosi “mezzi pesanti” militari non s’è vista neanche l’ombra. Quando lo abbiamo denunciato con un presidio in Piazza del Popolo a Ravenna, ci siamo presi anche dei decreti penali di condanna.

Esprimiamo ancora la nostra vicinanza a tutte le persone che in questi giorni sono colpite da alluvioni e inondazioni. Nei prossimi giorni teniamoci pronti perché le retoriche incrociate di regione e governo nazionale non possono più nascondere il disastro continuo!

Il comunicato di Federico Serra, candidato presidente con la lista “Emilia-Romagna per la Pace, l’Ambiente e il Lavoro”.
Dopo 16 mesi siamo di nuovo sott’acqua: è il fallimento di tutta la classe politica

Abbiamo passato la notte con una grande apprensione per questa nuova alluvione, che sembra non essere ancora finita. Leggiamo sui giornali già più di 1000 sfollati, ma stiamo anche sentendo la fatica e la frustrazione dei cittadini che hanno vissuto per più di un anno con la paura di una nuova alluvione, che si trovano a rivivere lo stesso incubo. È importantissimo in questo momento di emergenza che si faccia tutto per la sicurezza dei cittadini. Da domani dovremo rimboccarci le maniche per tornare a spalare il fango.

Ma, oltre la solidarietà, dobbiamo dire subito una cosa: tutti i cittadini che sono stati colpiti a maggio 2023 per più di un anno hanno dovuto sistemare da soli le proprie case, quelle dei loro vicini e del quartiere, fino a pulire le strade e le frane, ma si sono anche fatti sentire organizzando comitati e manifestazioni, per lanciare un grido di allarme che il rischio di una nuova alluvione era un pericolo più che probabile. Tutti questi cittadini sono stati abbandonati da tutta la classe politica, e ancora peggio sono stati presi in giro.

Abbiamo assistito a un anno di balletti, propaganda e bugie sia da parte del Governo Meloni sia da parte della Regione. Il governo Meloni nega il cambiamento climatico, e i fondi che dovevano arrivare per gli alluvionati con il commissario Figliuolo sono stati una minima parte dei danni reali, mentre una parte dei soldi sono stati spostati per l’emergenza in Toscana.

Da parte della Regione possiamo vedere anche come la staffetta del PD Bonaccini-De Pascale abbia fatto poco o niente per la messa in sicurezza del territorio, e lo vediamo tristemente oggi, mentre si è fatto finta di nulla sulla tremenda legge cosiddetta “consumo di suolo zero” che in realtà ha dato il permesso a una cementificazione selvaggia che continua a divorare terreno, e in questo De Pascale ha già le sue responsabilità: Ravenna è la seconda città per consumo di suolo, seconda solo Roma.

Serve costruire un futuro diverso che l’attuale classe politica ci vuole negare. Serve una legge vera per fermare il consumo di suolo, serve un piano di intervento per la messa in sicurezza di fiumi e canali, serve il reindirizzamento delle politiche e dei fondi dalle grandi opere inutili inquinanti alla manutenzione dei territori.
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19/09/2024

Following (1998) di Christopher Nolan - Minirece

Palestina - L’ONU ha votato per porre fine all’occupazione israeliana dei territori palestinesi

L’Assemblea Generale delle Nazioni Unite ha votato a stragrande maggioranza a favore della proposta della rappresentanza palestinese che chiede la fine della “presenza illegale” israeliana nei territori occupati.

L’Assemblea Generale dell’ONU ha deciso, con una maggioranza di 124 voti a favore, solo 14 contrari e 43 astenuti, l’adozione di una risoluzione sollevata dallo Stato di Palestina, che chiede la fine dell’occupazione dei territori palestinesi da parte di Israele entro un periodo di 12 mesi.

Anche se, come tutte le misure dell’assemblea, la risoluzione non è vincolante, i voti ottenuti superano di gran lunga i due terzi del totale di 193 Stati membri necessari per adottare una mozione. Ciò è significativo poiché si tratta della prima proposta avanzata dalla rappresentanza della Palestina che, pur non avendo lo status di Stato a pieno titolo, è riuscita negli ultimi mesi a guadagnare terreno in termini di competenze.

Questa risoluzione, in discussione da martedì, è in linea con la sentenza della Corte internazionale di giustizia che, lo scorso luglio, ha stabilito che “la continua presenza di Israele nei territori palestinesi occupati è illegale”. Esaminando l’occupazione del territorio dal 1967 la sentenza imponeva che lo Stato ebraico avesse “l’obbligo di porre fine a tutto ciò il prima possibile”.

“L’Assemblea Generale chiede che Israele ponga immediatamente fine alla sua presenza illegale nei Territori Palestinesi Occupati, che costituisce un atto illegale continuo che fa sorgere la sua responsabilità internazionale, e che lo faccia entro dodici mesi dall’adozione della presente risoluzione”, recita il documento.

L’Assemblea delle Nazioni Unite ha inoltre chiesto di “cessare immediatamente tutte le nuove attività di insediamento” e ha raccomandato agli altri stati di non riconoscere la presenza illegale di Israele nelle aree palestinesi.

“Le organizzazioni internazionali, comprese le Nazioni Unite, hanno l’obbligo di non riconoscere come legale la situazione derivante dalla presenza dello Stato di Israele nei territori palestinesi occupati”, ha inoltre affermato la Corte in un parere consultivo.

La dichiarazione chiede inoltre che lo Stato israeliano restituisca le terre confiscate ai palestinesi, consenta il ritorno degli sfollati negli insediamenti e proceda al risarcimento delle vittime. Chiede inoltre alla comunità internazionale di non riconoscere le conseguenze territoriali, legali o demografiche dell’occupazione del territorio palestinese.

Allo stesso modo, propone l’adozione di sanzioni contro coloro che partecipano al “mantenimento della presenza illegale di Israele” nei territori palestinesi.

L’ICJ ha esortato gli altri organi delle Nazioni Unite, come l’Assemblea Generale e il Consiglio di Sicurezza, a considerare le modalità precise e le misure aggiuntive necessarie per porre fine a questa presenza illegale il prima possibile.

Il sostegno alla risoluzione ha un peso politico importante, poiché mostra la posizione della comunità internazionale nel suo insieme rispetto al problema. Per la diplomazia palestinese questa risoluzione è considerata un momento storico nel conflitto. I leader israeliani, da parte loro, la considerano una misura unilaterale e fittizia che omette i crimini di terrorismo nel tentativo di diffamare e isolare Israele.

Consenso

I paesi musulmani e africani hanno votato a favore in modo inequivocabile, mentre l’Unione Europea ha registrato le sue solite divisioni interne, con la maggioranza dei paesi che hanno votato a favore – tra cui spiccano, in ultima analisi, Spagna e Francia – come l’Ungheria e la Repubblica Ceca, ma con un numero significativo di astenuti dal voto, con paesi come Germania, Italia, Olanda, Svezia e Polonia che evitano di esprimersi apertamente.

Israele e gli Stati Uniti hanno dimostrato ancora una volta la forza della loro alleanza in queste votazioni, cruciali per il futuro dello Stato ebraico, e Argentina, Paraguay e altri paesi insulari del Pacifico, che seguono sempre il voto americano, si sono schierati dalla loro parte.

Nonostante l’approvazione, questa risoluzione non è riuscita a convincere paesi di grande peso all’interno dell’ONU, come Canada, Australia, India, Svizzera e altri paesi europei, che hanno scelto di astenersi dal voto.

In questo modo, la risoluzione approvata oggi ha ottenuto meno consensi di quella votata lo scorso maggio, nella stessa assemblea, dove lo Stato palestinese ottenne la piena adesione all’ONU. In quel caso, 143 paesi hanno sostenuto la misura e solo nove hanno votato contro, con 25 astensioni.

“Il lato giusto della storia”

Presentando la risoluzione, l’ambasciatore palestinese presso l’ONU, Riad Mansour, ha affermato: “Nessuna potenza occupante dovrebbe violare i nostri diritti inalienabili. La giustizia è l’unica via per la pace. Rispetta il diritto internazionale e non sacrificarlo per perseguire freddi calcoli politici”. Ha esortato i paesi membri a scegliere “il lato giusto della storia”, sostenendo questa risoluzione prima che lo spargimento di sangue continui.

Da parte sua, il Ministero degli Esteri palestinese ha definito questa risoluzione “cruciale e storica” sia per la causa palestinese che per il diritto internazionale e ha ringraziato i paesi per il loro voto favorevole.

“Questa risoluzione, vista come un faro di speranza dal popolo e dai leader palestinesi nel mezzo del genocidio in corso, è un passo fondamentale per ritenere Israele responsabile del suo sistema coloniale e di apartheid”, afferma la risoluzione.

Il Dipartimento Palestinese ha valutato in una successiva dichiarazione che “più di due terzi degli Stati membri hanno votato a favore”, il che “riflette un consenso globale” secondo cui “l’occupazione deve finire”. “Il Ministero esorta i paesi che non hanno sostenuto la risoluzione a riconsiderare le loro posizioni e ad unirsi alla parte giusta della storia”, si legge nella dichiarazione.

Un “teatro politico”

A loro volta, i rappresentanti dello Stato israeliano si sono affrettati a criticare la risoluzione, che hanno descritto come una “decisione vergognosa”. Qualche istante dopo la presentazione del provvedimento da parte del palestinese Mansour, è intervenuto l’ambasciatore israeliano all’ONU, Danny Danon, riferendosi all’accoglienza della proposta palestinese nella sede della riunione come “un circo in cui il terrore viene applaudito”.

“Chiunque voterà a favore collaborerà con la violenza e incorrerà in un insulto al funzionamento stesso di questa istituzione (...) Stanno cercando di isolare e distruggere Israele, questa risoluzione ritarda la speranza di pace nella regione”, ha detto Danon.

Il portavoce del ministero degli Interni israeliano, Oren Marmorstein, si è lamentato in un post su X, definendo il voto una “decisione distorta e sconnessa dalla realtà”.

La rappresentante statunitense, Linda Thomas-Greenfield, ha affermato a sua volta che il rifiuto di quella che ha definito una “risoluzione unilaterale” del conflitto è dovuto al fatto che non si trattava di una soluzione realistica. “La pace si ottiene solo attraverso i negoziati tra entrambe le parti”, ha detto l’ambasciatore all’ONU.

Questa strada, che gli Stati Uniti cercano di attuare da mesi, senza successo, attraverso un cessate il fuoco, non è riuscita a fermare il numero crescente di morti a Gaza, che ha già superato quota 41.000 secondo il Ministero della Sanità del territorio. L’offensiva israeliana, costata la morte di quasi 350 soldati, è avvenuta dopo un attacco del gruppo palestinese Hamas il 7 ottobre 2023 che ha provocato circa 1.200 morti e oltre 240 rapiti.

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USA - La Fed accelera sul taglio dei tassi di interesse

La danza dei tassi è entrata ufficialmente nella fase ribassista, mettendo un argine al guadagno spropositato dei “prestatori di denaro” (banche e strozzini di ogni lignaggio).

La Federal Reserve Usa ha tagliato ieri il tasso di interesse base dello 0,50%, portandolo nella forchetta 4,75-5%. Una sforbiciata sicuramente più audace di quella analoga della Bce, una settimana fa (0,25%), spiegabile facilmente con il doppio obiettivo di cui deve statutariamente tener conto la Fed: il controllo dell’inflazione e del tasso di disoccupazione. Mentre gli “europeisti austeri” hanno affidato a Francoforte soltanto il contenimento dell’inflazione.

Nonostante l’entità del taglio, comunque, non sono mancate le voci critiche verso la Fed: “troppo tardi”, quella principale. Diciamo pure che Jerom Powell, il presidente, non aveva molte altre scelte possibili. I dati macroeconomici Usa segnavano una crescita del Pil inferiore alle stime precedenti (il 2%), mentre il tasso di disoccupazione era più alto (4,4% invece del 4 secco).

Segno chiaro che l’economia si era “raffreddata” oltre il desiderabile e cominciavano ad emergere rischi di recessione. È vero infatti che l’economia Usa è particolarmente squilibrata nella composizione interna (la finanza creativa e Wall Street contano nel Pil quasi più di quella “fisica”), e che i tassi ufficiali (specie quello di disoccupazione) sono ben lontani dalla realtà.

Ad esempio le statistiche sull’occupazione non prevedono distinzioni tra “tempo pieno” o part time, al punto che basta aver lavorato una sola ora la settimana precedente le rilevazioni per essere considerato “occupato” (e morire di fame). Il Dipartimento del lavoro certifica da anni che circa 100 milioni di statunitensi (sui 268 in età lavorativa) “non sono in forza lavoro”.

Con questi numeri alle spalle, insomma, si comprende come la Fed sia considerata, anche in ambito capitalistico, troppo timida e troppo lenta nell’abbassare i tassi (anche se non quanto gli “austeri” al comando della Bce). E magari per rispondere anticipatamente a queste critiche Powell ha spalancato le porte promettendo un altro 0,50% da qui alla fine dell’anno (non si sa ancora se in due tranche oppure una sola), l’1% nel 2025 e un altro 0,5 nel 2026. Portando il tasso di interesse a un più tranquillo 2,9%.

Gli effetti sull’economia sono chiari pensando a quel che avviene negli acquisti a rate o con i mutui: se si abbassano gli interessi e cala la rata ci saranno degli acquisti in più, dando fiato alle imprese produttrici di beni e restringendo un tantino (senza esagerare, certo) i profitti dei “prestatori”.

Altra conseguenza, sul medio periodo, è la riduzione dei rendimenti (degli interessi da pagare) sui titoli di stato, abbassando quindi un poco il “servizio del debito” e il deficit annuale dello Stato.

Ultima ragione a consigliare il taglio sono poi le elezioni presidenziali Usa, e non c’è dubbio che questa mossa (e l’eventuale ripetizione ad ottobre, pochi giorni prima del voto) sia anche un “aiutino” per l’amministrazione in carica e dunque per la vicepresidente Kamala Harris.

La questione più importante è comunque relativa alla fase, decisamente “ribassista” per quanto riguarda i tassi. Con ben due guerre in corso (più altri conflitti regionali e qualche minaccia di golpe promossi dagli Usa), una crescita di fatto scomparsa in Occidente, la necessità di un riarmo intensificato anche nei settori considerati prematuramente “obsoleti” ma che la guerra in Ucraina e in Medio Oriente hanno dimostrato tuttora “centrali” (mezzi corazzati, artiglieria, proiettili di ogni tipo, ecc., oltre ovviamente a droni, missili, sistemi antimissile e antiaerei), non era pensabile tenere botta nutrendo soprattutto gli appetiti finanziari degli “strozzini”.

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Ok al DdL 1660 sulla sicurezza. È vietato protestare...

«Restituire certezza del diritto ai proprietari di casa e sbattere il galera chi occupa le case e sgomberarle al di là delle chiacchiere di altri e dei processi politici, è un servizio agli italiani»: con queste parole ieri Matteo Salvini in Transatlantico alla camera ha salutato l’approvazione in prima lettura del Ddl sicurezza con 162 sì e 91 no. Il pacchetto di norme che istituiscono nuovi reati e inaspriscono pene contiene praticamente tutto il campionario delle questioni sociali trasformate in emergenze da reprimere.

L’esempio salviniano è emblematico: parla di casa (e dell’emergenza tutta mediatica delle occupazioni) proprio il ministro delle infrastrutture, che dovrebbe occuparsi di politiche abitative, e che ha cancellato ogni misura di sostegno ai morosi in difficoltà ed evita di dialogare con i sindacati e le associazioni che tutelano gli inquilini. A chi gli ha chiesto se il suo partito solleciterà tempi rapidi per l’approvazione definitiva del provvedimento, il leader leghista ha risposto: «Assolutamente sì, prima si approva e meglio è, questo incide in meglio nella vita dei cittadini. La Lega chiederà un canale di urgenza assoluta, i dati sulla sicurezza lo dicono».

Dunque, il rischio è che la palla passerà presto al senato. Ieri, in sede di approvazione definitiva, la maggioranza non si è fatta mancare un ordine del giorno che impegna il governo a istituire un tavolo tecnico per l’introduzione della castrazione chimica in Italia in caso di reati di violenza sessuale o di altri gravi reati determinati da motivazioni sessuali. È la ciliegina sulla torta panpenalista, che contiene altre forzature allo stato di diritto. Si è parlato, nei giorni scorsi, delle detenute madri che tornano in galera, dell’insensato giro di vite sulla cannabis light (pare molto caro al sottosegretario alla presidenza del consiglio Alfredo Mantovano), delle norme vessatorie contro la resistenza passiva per strada (evidentemente pensata per colpire quei pericolosi gandhiani degli ecoattivisti) o nelle carceri (particolarmente odiosa in tempi di suicidi e disperazione dietro le sbarre) o dell’aggravante pensata per punire le proteste se volte a impedire la realizzazione di un’opera pubblica o di un’infrastruttura strategica.

C’è anche l’articolo 28, che autorizza gli agenti di pubblica sicurezza a portare senza licenza alcune tipologie di armi quando non sono in servizio. Carabinieri, agenti della Polizia di Stato, della Guardia di Finanza e della Polizia Penitenziaria potranno detenere senza licenza le armi elencate all’articolo 42 del Testo unico delle leggi di pubblica sicurezza (che risale al Regio decreto n. 773 del 1931): arma lunga da fuoco, rivoltella e pistola di qualunque misura, bastoni animati con lama di lunghezza inferiore ai 65 centimetri. O l’articolo 11, che, con il recepimento in Commissione di un emendamento della Lega, insegue le bolle mediatiche dei giustizieri youtuber (si pensi al fenomeno Cicalone) e introduce come aggravante quella di «avere commesso il fatto all’interno o nelle immediate adiacenze delle stazioni ferroviarie e delle metropolitane o all’interno dei convogli adibiti al trasporto di passeggeri».

Non mancano i pericolosi strascichi delle sciagurate scelte dei governi di centrosinistra che introdussero (il governo era quello di Paolo Gentiloni, ministro dell’interno era Marco Minniti) il Daspo urbano. Adesso il questore, in caso di reiterazione delle condotte considerate pericolose, può «disporre il divieto di accesso» alle aree delle infrastrutture di trasporto e alle loro pertinenze, come le stazioni, nei confronti di coloro che risultino anche solo denunciati o condannati anche con sentenza non definitiva nel corso dei precedenti cinque anni. Viene ampliata anche l’applicazione dell’arresto in flagranza differita prevista per chi viene accusato di lesioni personali a un pubblico ufficiale in servizio: adesso, guarda un po’, varrà anche nei casi in cui il fatto è commesso in occasione di manifestazioni in luogo pubblico o aperto al pubblico.

Le destre non puntano solo a inseguire i facili consensi delle emergenze virtuali, quelle che sembrano costruite per nascondere i problemi reali, o a inventare nuovi nemici. Sembra vogliano davvero regolare i conti con la società e chi la anima, coi conflitti che la fanno vivere e sopravvivere. E vogliano farlo svuotando a colpi di leggi repressive gli spazi pubblici e ogni forma di solidarietà reciproca e mutuo soccorso che si possa costruire, come accade in un picchetto antisfratto, davanti a una fabbrica a rischio chiusura, in un luogo di detenzione in cui si chiedono condizioni più umane. Un programma politico, più che un semplice giro di vite.

Tutto ciò col silenzio complice delle “opposizioni parlamentari”, le quali al di là di un voto contrario puramente di bandiera non hanno mosso un dito per contrastare realmente le nuove leggi “fascistissime”, peggiorative rispetto allo stesso codice Rocco. Anzi: su circa 160 parlamentari, al momento del voto a Montecitorio l’“opposizione” ne aveva in aula soltanto 91!!! Non solo: prima della votazione finale del Ddl, PD e 5 Stelle hanno presentato alcuni ordini del giorno (recepiti dal governo) che impegnavano quest’ultimo ad incrementare la spesa per assumere nuovi agenti di polizia e di guardie penitenziarie: l’ennesima riprova di come, al di la di qualche sfumatura, nella sostanza siano tutti uniti nella direzione di un inasprimento dei dispositivi repressivi, funzionale alla guerra e all’economia di guerra, cioè di fatto all’introduzione di una vera e propria legge marziale!

Questi gli articoli salienti del disegno di legge:

Art. 1 – Introduce i nuovi reati, puniti con pene fino a 6 anni, di detenzione e/o diffusione di materiale inerente la preparazione o l’uso di armi e sostanze pericolose utilizzabili per non meglio precisate finalità di terrorismo, anche internazionale.

Art. 7 – Prevede la revoca della cittadinanza italiana, entro 10 anni dalla sentenza definitiva, contro il cittadino condannato per terrorismo o eversione.

Art. 8 – Introduce nel codice penale il nuovo art. 634 bis, che punisce il reato di occupazione arbitraria di immobile destinato a domicilio altrui con la pena da 2 a 7 anni di reclusione sia per l’occupante sia per chi coopera con esso. La norma si aggiunge a quella prevista dall’art. 633 c.p., che punisce la occupazione abusiva di immobile, con la reclusione da 2 a 4 anni. Inoltre, viene introdotto nel codice di procedura penale il nuovo art. 321 bis, che dà alla polizia il potere di sgomberare immediatamente l’immobile occupato.

Art. 10 – Introduce il potere del questore di disporre contro il cittadino l’allontanamento da una determinata area urbana fino a 48 ore. Si può quindi immaginare l’uso che ne verrà fatto prima di manifestazioni e cortei sindacali e politici. Allarga i casi di emanazione del DASPO urbano fino a prevedere il DASPO giudiziario, disposto dal giudice quale condizione per la concessione della sospensione condizionale della pena.

Art. 11 – Ripristina la sanzione penale e non più amministrativa per il reato di blocco stradale. Introduce l’aggravamento della pena da 6 mesi a 2 anni a carico di coloro che effettuano un blocco stradale o ferroviario con il proprio corpo e con più persone riunite. E’ il manganello giudiziario per farla finita con scioperi operai e manifestazioni non autorizzate.

Art. 12 e 13 – Sono norme mirate contro i Rom. Il primo abolisce l’obbligo per il giudice di rinviare la pena se la condannata è incinta o madre di un bimbo di età inferiore ad un anno, sicchè madre e figlio potranno finire in carcere a discrezione del magistrato. Il secondo punisce, con pene aggravate, non solo chi organizza l’accattonaggio, ma anche chi induca terzi a farlo.

Art. 14 – Introduce l’aumento di un terzo della pena prevista per i reati di violenza, minaccia, resistenza a pubblico ufficiale (già prevista da 6 mesi a 5 anni), se il fatto è commesso contro un ufficiale o agente di polizia, vietando al giudice di considerare prevalenti le circostanze attenuanti rispetto a tale nuova aggravante.

Art. 15 – Prevede che si proceda d’ufficio – e non più su querela di parte – nel caso di lesioni personali lievi o lievissime a danno di ufficiali o agenti di polizia in servizio, punite con pena da 2 a 5 anni.

Art. 20 – Autorizza ufficiali e agenti di polizia a portare armi senza licenza, anche quando non sono in servizio.

Queste tre norme corazzano e scudano l’azione violenta in servizio e l’eventuale uso di armi fuori servizio da parte di 300.000 ufficiali e agenti di polizia (provenienti da Polizia, Carabinieri, Finanza, Polizia Locale) contro i cittadini.

Art. 18 e Art. 25 – L’art. 18 introduce: a) la nuova aggravante del reato di istigazione a disobbedire alle leggi (art. 415 c.p., che prevede una pena fino 5 anni), se viene commesso all’interno di un carcere dai detenuti o anche mediante comunicazioni dirette a persone detenute; b) il nuovo art. 415 bis c.p., che punisce con la reclusione fino ad 8 anni “chiunque, all’interno di un istituto penitenziario, promuova, organizzi o diriga una sommossa con atti di violenza o minaccia, di resistenza anche passiva all’esecuzione degli ordini o con tentativi di evasione, commessi congiuntamente da tre o più persone”. Le pene possono essere aumentate, in determinati casi (lesioni personali, uso di armi, ecc.) fino a 20 anni. L’art. 25 completa le suddette norme con la previsione dell’esclusione dei detenuti istigatori o ribelli (anche passivi!) dai benefici penitenziari, equiparandoli a mafiosi e terroristi.

Art. 19 – Applica quanto previsto dall’art. 18 per i detenuti in carcere contro i migranti ristretti nei CPR, confermandone la natura carceraria.

Questa normativa annulla qualsiasi diritto dei detenuti e li annichilisce ad esseri senza dignità, sottoposti all’imperio e arbitrio assoluti e al ricatto permanente del personale penitenziario.

Art. 23 – Il governo Renzi aveva già concesso, con il decreto-legge n.7/2015, ai funzionari e agenti dei servizi segreti, infiltrati in associazioni terroristiche o eversive, l’immunità penale nel caso di compimento di reati associativi per finalità di terrorismo. La norma, che era transitoria e più volte prorogata, diventa ora permanente e prevede l’estensione dell’immunità penale per la direzione ed organizzazione di associazioni terroristiche, anche internazionali, ed eversive dell’ordine democratico, nonché nel caso di fabbricazione o detenzione di ordigni o di materiale con finalità di terrorismo. Si passa così dalla figura dell’agente infiltrato a quella dell’agente provocatore, o – peggio ancora – dell’organizzatore di attentati e stragi.

Inoltre parifica la cannabis light a quella non light, vietando quindi la coltivazione e il commercio di infiorescenze anche di cannabis con thc inferiore allo 0.2 per cento. Una possibilità che avrebbe gravissime ricadute su tutte le imprese del settore.

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[Contributo al dibattito] - La disintegrazione

It Is Not Hamas That Is Collapsing, but Israel è il titolo di un articolo pubblicato dal quotidiano Haaretz il 9 settembre. L’autore Yitzhak Brik, generale dell’esercito israeliano, spiega per quali ragioni la guerra scatenata contro la popolazione di Gaza, pur avendo provocato la distruzione di tutto quel che esisteva in quel territorio, pur avendo ucciso decine di migliaia di persone, si sta risolvendo in una sconfitta strategica per Israele.

Se l’IDF dovrà continuare questa guerra, o addirittura estendere il fronte, secondo Brik, si rischia un vero collasso. Le condizioni psico-fisiche dei militari impegnati da un anno nelle azioni di sterminio, e la scarsità di riserve disponibili, porterebbero secondo Brik al crollo e alla sconfitta.

L’esaurimento fisico e psichico degli aguzzini israeliani richiama alla mia mente quel che Jonathan Little racconta nel suo romanzo Le benevole: lo stato di marasma mentale, di nausea, l’orrore di sé in cui versano le SS che per mesi e anni hanno ucciso torturato massacrato... e infine non sono più in grado di riconoscere il proprio volto nello specchio.

L’orrore che gli sterminatori dell’IDF provocano in ogni persona dotata di sentimenti umani non può non agire come fattore di intima disgregazione in coloro che con ogni evidenza mirano a competere con gli assassini hitleriani.

Nel suo articolo il generale Brik si limita a esaminare la situazione militare, ma molti segnali indicano che l’intera società israeliana è giunta al limite della disintegrazione. La trappola atroce che Hamas ha teso è scattata alla perfezione: il dilemma degli ostaggi provoca una lacerazione che non si rimarginerà. L’odio nei confronti di Netanyahu è destinato a provocare effetti politici esplosivi quando prima o poi si tireranno le somme e si chiederà conto della cinica conduzione del massacro.

Inoltre l’economia israeliana è da tempo al collasso, e non si tratta di una congiuntura provvisoria, perché chi ha un livello professionale spendibile fuori da quel paese maledetto se ne va. I medici se ne vanno. Gli imprenditori se ne vanno. Nessun intellettuale degno di questo nome può rimanere in un paese che gareggia con la Germania di Hitler in ferocia e fanatismo.

Rimangono i fanatici, gli squilibrati assetati di sangue, i miserabili che sono arrivati in Israele solo per impadronirsi di terra altrui. E soprattutto quello che doveva essere il luogo più sicuro sulla terra per gli ebrei, è diventato il luogo più pericoloso: un luogo circondato dall’odio di un miliardo e ottocento milioni di islamici, un luogo in cui ogni automobile che passa per strada potrebbe svoltare improvvisamente per ammazzare quelli che stanno aspettando alla fermata dell’autobus.

Un tempo ci si poneva il problema della legittimità di Israele a esistere come Stato, considerata la violenza con cui quello stato si è imposto, e la violazione sistematica di tutte le risoluzioni Onu. Credo che la questione non si porrà più: Israele non sopravviverà. La sua disintegrazione è già in corso e nulla potrà fermarla.

Il problema che si porrà domani è un altro: come contenere la furia omicida di seicentomila coloni fanatici armati che si sono stanziati abusivamente in Cisgiordania? Come evitare che la tragedia israeliana provochi un colpo di mano nucleare, una risposta isterica al proliferare di violenze in quel territorio circondato dall’odio?

La disintegrazione degli Stati Uniti

Israele è il simbolo dell’arroganza dell’Occidente che voleva farsi perdonare le sue colpe: dopo aver isolato e respinto gli ebrei che fuggivano Hitler, dopo averne sterminati sei milioni nei campi di concentramento, gli europei hanno invitato gli ebrei sopravvissuti ad andarsene a morire o a uccidere da un’altra parte. In cambio hanno promesso a Israele un appoggio indefettibile contro gli arabi e i persiani che, umiliati dalla superiorità del mostro sionista super-armato, circondano minacciosamente Israele aspettando il momento della vendetta.

Ma la disintegrazione di Israele va letta nel quadro della disintegrazione dell’intero mondo che ama definirsi libero dimenticando che si fonda sullo schiavismo.

Guardiamo agli Stati Uniti. L’11 settembre 2024, commemorando le vittime del più grande attentato della storia, il genocida Joe Biden ha detto: «In questo giorno, 23 anni fa i terroristi credevano di poter spezzare la nostra volontà e metterci in ginocchio. Si sbagliavano. Avranno sempre torto. Nelle ore più buie, abbiamo trovato la luce. E di fronte alla paura, ci siamo uniti per difendere il nostro Paese e per aiutarci a vicenda». Ci siamo uniti, dice il presidente. Sta mentendo, come dimostra la foto che ritrae Harris e Biden, poi il sindaco Bloomberg, e accanto Trump e Vance.

Uniti nella lotta? Scappa da ridere a vedere le loro facce di ipocriti con la mano sul cuore. Biden è unito a Trump, e Vance è unito a Harris? In che senso sarebbero uniti questi gaglioffi che ogni giorno si insultano in attesa di sapere chi vincerà la contesa finale, destinata ad accelerare la disintegrazione? Certamente sono uniti nell’armare il genocidio sionista. Certamente sono uniti nel deportare esseri umani etichettati come illegal aliens.

Ma la loro unità si ferma qui. Per quanto riguarda il potere sono nemici mortali. Se in novembre vince Donald Trump il gioco è fatto: inizia la più grande deportazione della storia, ma anche la distruzione finale dell’alleanza atlantica.

Ma se le cose vanno diversamente? Se vince Kamala Harris? I seguaci di Trump non fanno mistero: se vincono i dem vuol dire che ci hanno rubato la vittoria, e non ci arrenderemo.

Una signora con l’elegante cappellino MAGA sulla testa, intervistata da CNN durante una manifestazione pro Trump lo ha detto senza mezzi termini. Nel caso in cui vincano loro “there will be civil war”. Cosa vuol dire guerra civile in quel paese in cui ogni cittadino possiede almeno un’arma da fuoco, molti ne posseggono quattro, dieci, venticinque?

Non credo che ci sarà una guerra civile come usava nei tempi della guerra di Spagna, con moltitudini armate che si scontrano lungo un fronte più o meno definito. No, non è così che si svolge la guerra civile dell’epoca post-politica e della demenza iper-mediatica. Avremo una moltiplicazione di sparatorie razziste, avremo un moltiplicarsi delle stragi, avremo semplicemente quello che c’è già, ma sempre più diffuso, aspro, violento.

Kamala Harris, per parte sua, ha detto il giorno 11 settembre: «Oggi è un giorno di solenne commemorazione. Mentre piangiamo le anime che abbiamo perso in un atroce attacco terroristico l’11 settembre 2001 – ha scritto Harris – mentre commemoriamo questo giorno dovremmo tutti riflettere su ciò che ci unisce: l’orgoglio e il privilegio di essere americani».

La signora ha detto le cose come stanno. Quel che unisce gli statunitensi (che sono divisi e pronti a venire alle mani per impadronirsi del potere e del malloppo) è il privilegio. Il popolo statunitense consuma quattro volte più elettricità del consumo medio mondiale. E vuole continuare a consumare smodatamente perché solo l’ingozzamento di plastica e merda dà un senso alle loro vite miserabili.

L’attacco dell’11 settembre fu un capolavoro strategico. Il gigante militare più potente di tutti i tempi non poteva essere sconfitto da nessuno. Occorreva metterlo contro se stesso, occorreva attaccarlo con tale forza da farlo impazzire, da spingerlo ad azioni suicide come l’aggressione contro l’Iraq e come la guerra nelle montagne dell’Afghanistan che si è conclusa con la fuga disordinata da Kabul, il ritorno dei talebani e l’umiliazione della super potenza.

Osama Bin Laden ha vinto la sua guerra avviando un processo di disintegrazione culturale, psichica e militare del colosso che continua a svolgersi sotto i nostri occhi.

Ma non possiamo aspettarci una pacifica disintegrazione della potenza Usa. Come Polifemo accecato da Ulisse mena fendenti a chi gli si avvicina, così il colosso è destinato a reagire, e il teatro dello scontro finale sarà l’Europa se vincono i democratici. Sarà il Pacifico se vincono i repubblicani. Ma in un caso come nell’altro il colosso barcolla lungo la linea di scivolamento in un baratro nucleare.

La disintegrazione dell’Unione Europea

Per finire c’è l’Unione Europea, che in fatto di disintegrazione è ormai molto avanti, certamente oltre il punto di non ritorno. Mario Draghi l’ha detto con la franchezza di chi non ha niente da perdere se non il suo posto di fronte alla storia: se non siamo capaci di avviare un piano di investimenti e di condivisione del debito, possiamo prepararci alla disintegrazione dell’Unione.

Il giorno dopo tutti si sono spellati le mani negli applausi, ma tutti hanno detto che quelli di Draghi sono sogni irrealizzabili. Prima di tutto l’ha detto la Germania che non intende parlare di condivisione del debito mentre comincia a pagare il prezzo di una guerra che era rivolta prima di tutto rivolta proprio contro di lei: quella che Biden e Hillary Clinton sono riusciti a provocare era una guerra contro la Germania, e la Germania l’ha persa subito.

Mentre la recessione si fa probabile, con la guerra alle porte, i fascisti prendono in mano il governo di un paese europeo dopo l’altro, e nullificano il risultato delle elezioni in cui la coalizione Ursula credeva di avere vinto e invece non ha vinto niente. Pur avendo la maggioranza nell’inutile parlamento europeo, deve infatti fare i conti con l’avanzata delle destre che pur non avendo la maggioranza a Strasburgo tendono ad averla in tutti i paesi del continente.

In Francia e in Germania ci sono due governi che non hanno la maggioranza. Il colpo di stato di Macron può portare a una ripresa del conflitto sociale con caratteri sempre più violenti. Oppure può evolvere con un colpo di mano finale da parte dei lepenisti.

In Germania si è aperto lo scontro tra due visioni geopolitiche inconciliabili: la visione atlantica, per obbedienza ai padroni statunitensi che hanno già spinto il governo Scholz alla rottura dei legami economici con la Russia e quindi al disastro economico. Oppure la visione continentale che implica un equilibrio con la Russia, ma la rottura politicamente impossibile con la NATO.

Il solo fattore di integrazione che rimane agli europei – come agli statunitensi, del resto – è la paura della marea umana che li assedia alle frontiere, e l’adozione di misure sempre più disumane contro i migranti.

La fortezza si chiude verso il mondo non bianco, ma l’incedere della guerra inter-bianca e la disintegrazione politica e culturale sta portando il mondo bianco verso la guerra nucleare.

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