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22/06/2025

Conflitto israelo-iraniano - Trump bombarda i siti atomici iraniani. Raid punitivo o “ammuina”?

(Aggiornato ore 15:45)

Una dozzina di bombe anti-bunker da 14 tonnellate GBU-57A/B Massive Ordnance Penetrator (MOP) è stata sganciata da 6 bombardieri B-2 Spirit decollati ieri dal Missouri e segnalati poi in atterraggio nella base di Guam (dove probabilmente hanno fatto una sosta tecnica e il pieno di carburante) contro il sito iraniano di arricchimento dell’uranio di Fordow.

Non si esclude però che i B-2 impiegati nell’attacco non siano stati quelli segnalati ieri a Guam ma altri tre velivoli dello stesso tipo già schierati nella base di Diego Garcia, l’isola britannica nell’Oceano Indiano da sempre punto di schieramento per i bombardieri statunitensi impiegati nel Golfo Persico e Medio Oriente.

Uno o due sottomarini statunitensi di stanza nella regione hanno invece lanciato circa 30 missili da crociera Tomahawk contro i siti di Isfahan e Natanz mentre secondo altre versioni quest’ultimo sarebbe stato colpito anche da due bombe GBU-57 sganciate da un B-2.

Il portavoce delle Israeli Defence Forces (IDF), generale Effie Defrin, ha confermato in conferenza stampa che l’attacco statunitense contro le infrastrutture nucleari iraniane è stato coordinato con le forze armate israeliane “La nostra cooperazione con gli Stati Uniti si è intensificata nelle ultime settimane. Abbiamo ancora diversi obiettivi da raggiungere e continueremo ad agire per conseguirli”, ha dichiarato Defrin. Del resto il sorvolo dello spazio aereo iraniano da parte di aerei e missili statunitensi doveva venire coordinato con le IDF che mantengono in volo sull’Iran decine di velivoli e droni che nelle ultime 24 ore hanno colpito diversi obiettivi abbattendo anche almeno due aerei iraniani F-5.

Il presidente americano Donald Trump ha confermato che le forze armate statunitensi hanno colpito tre siti nucleari in Iran – Fordow, Isfahan e Natanz – unendosi formalmente all’offensiva aerea israeliana. La decisione statunitense giunge dopo dieci giorni di bombardamenti israeliani sull’Iran che ha risposto con attacchi di missili balistici e droni. 

Con un post su Truth, il presidente ha annunciato che “tutti gli aerei sono ora fuori dallo spazio aereo iraniano e stanno rientrando sani e salvi. Congratulazioni ai nostri grandi guerrieri americani” che hanno fatto quello “che nessun altro al mondo avrebbe potuto fare”. Poi il monito: “È l’ora della pace. Questo è un momento storico per gli Stati Uniti d’America, Israele e il Mondo”.

Parlando alla nazione dalla Casa Bianca Trump ha assicurando che “i siti nucleari chiave iraniani sono stati completamente e totalmente distrutti” con “massicci attacchi di precisione” in quello che ha definito “uno spettacolare successo militare” che “mette fine alla minaccia nucleare rappresentata da un Paese che è il principale sponsor globale del terrorismo”.

Quindi ha lanciato un nuovo ultimatum a Teheran, affermando che il futuro dell’Iran è “pace o tragedia” e che ci sono molti altri obiettivi che possono essere colpiti dalle forze statunitensi. “Se la pace non arriva rapidamente, attaccheremo quegli altri obiettivi con precisione, velocità e abilità”, ha minacciato.

Poi ancora su Truth ha avvisato la Repubblica islamica che “qualsiasi ritorsione dell’Iran contro gli Stati Uniti sarà contrastata con una forza molto superiore a quella di questa sera”. Il presidente ha detto anche di aver fatto un “lavoro di squadra” con il premier israeliano Benjamin Netanyahu, che in un videomessaggio si è congratulato per una “decisione coraggiosa che cambierà la storia”.

Le Forze di difesa israeliane sono soddisfatte dell’attacco statunitense contro i siti nucleari in Iran, e stimano che l’impianto di Natanz sia stato completamente distrutto, ha riportato nel pomeriggio l’emittente israeliana Canale 12. Non ci sarebbero invece conferme per quanto riguarda gli impianti nucleari sotterranei di Fordow e Isfahan.

Il vicepresidente statunitense James David Vance in un’intervista a NBC News ha affermato che “non entrerò in dettagli sensibili di intelligence su ciò che abbiamo visto sul campo in Iran, ma abbiamo visto molto e sono molto fiducioso che abbiamo ritardato sostanzialmente lo sviluppo di un’arma nucleare, e questo era l’obiettivo di questo attacco”.

Il segretario alla Difesa Usa, Pete Hegseth, ha ribadito che l’intervento in Iran non si trasformerà in una guerra prolungata con Teheran e ha definito gli attacchi notturni contro i siti nucleari iraniani come “intenzionalmente limitati. Vorrei solo dire, come ha indicato e chiarito il presidente che questa non è certamente una decisione illimitata”, ha affermato Hegseth nel corso di una conferenza stampa, aggiungendo tuttavia che ciò non limita la capacità di risposta degli Stati Uniti nel caso in cui fosse necessario.

“Per quanto riguarda questo attacco, è stato gestito e guidato dagli Stati Uniti”, ha detto Hegseth. “Comprendiamo certamente le sfide degli alleati nella regione e siamo stati rispettosi e abbiamo collaborato con loro per quanto riguarda le basi e le questioni delicate in quella regione. In definitiva, hanno molti mezzi e personale in quelle località, dove sono presenti anche truppe americane. Quindi questa è una nostra considerazione. Siamo stati in stretta consultazione con loro e apprezziamo il supporto che abbiamo ricevuto”.

Obiettivi raggiunti o grande “ammuina”?

La GBU-57, come spiega l’US Air Force, è progettata per “raggiungere e distruggere le armi di distruzione di massa dei nemici collocate in strutture ben protette” e detona le 2 tonnellate di esplosivo della sua testata una volta in profondità, al massimo 60 metri. Forse non sufficienti per raggiungere il bunker di Fodrow, posto forse a 80 o 90 metri di profondità. Per questa ragione sarebbero stati impiegati più ordigni.

Ma i dubbi non mancano. Una fonte iraniana di alto livello ha riferito all’agenzia Reuters che la maggior parte dell’uranio altamente arricchito presente nel sito iraniano di Fordow era stata trasferita in una località segreta prima dell’attacco statunitense della scorsa notte. “La maggior parte del materiale è stata rimossa in anticipo e trasferita in un sito non rivelato” ha detto la fonte, senza fornire ulteriori dettagli sul luogo o sulla quantità di materiale coinvolto.

Immagini satellitari rivelano che gli accessi in superficie al sito di Fordow erano stati riempiti di terra per attutire l’impatto e l’effetto degli ordigni. Le immagini, scattate dalla società specializzata statunitense Planet Labs, sembrano mostrare anche danni alla montagna stessa, con i tunnel d’accesso che appaiono bloccati, il che significherebbe che sarebbe necessario scavare per entrarvi. In precedenza l’agenzia di stampa ufficiale iraniana Tasnim, citando le autorità locali, aveva riferito che l’impianto di Fordow ha subito solo danni parziali a seguito dell’attacco e la situazione nell’area è tornata alla normalità.

Hassan Abedini, vicedirettore politico della TV iraniana di stato (Islamic Republic of Iran Broadcasting – IRIB),ha dichiarato che “l’Iran ha evacuato da tempo i suoi tre siti nucleari di Fordow, Natanz e Isfahan, in previsione di un eventuale attacco esterno che potrebbe causare una fuga di radiazioni o minacciare la sicurezza dei civili”.

Secondo CBS News, il giorno prima dell’attacco gli Stati Uniti avrebbero contattato diplomaticamente l’Iran per assicurare che gli attacchi non avrebbero mirato ad un cambio di regime ma solo a colpire i siti atomici.

In tarda mattinata il ministro degli Esteri iraniano Abbas Araghchi ha confermato che Teheran continua a ricevere messaggi dagli Stati Uniti attraverso canali indiretti. “Stiamo ancora ricevendo messaggi dagli americani tramite vari canali – tramite l’Oman, ma ci sono anche altri che trasmettono i messaggi degli Stati Uniti”, ha dichiarato Araghchi durante una conferenza stampa. Il capo della diplomazia iraniana ha aggiunto che, “se sarà necessario, trasmetteremo la nostra risposta attraverso quei mediatori”.

L’Iran ha minimizzato le conseguenze degli attacchi americani ai propri impianti nucleari. Mohammad Manan Raisi, un parlamentare di Qom, vicino a Fordow, ha dichiarato all’agenzia di stampa semiufficiale Fars che l’impianto non ha subito gravi danni. L’Organizzazione per l’energia atomica dell’Iran ha affermato che non c’erano segni di contaminazione dopo gli attacchi e che non c’era alcun pericolo per i residenti nelle vicinanze.

La tv statale di Teheran ha affermato che l’Iran aveva evacuato i tre siti nucleari qualche tempo fa, le riserve di uranio arricchito sono state trasferite e non sono rimasti materiali che, se presi di mira, potrebbero causare fughe di radiazioni.

“Contrariamente a quanto affermato dal presidente Donald Trump” il sito nucleare di Fordow “non ha subito gravi danni” ha detto Raisi. Anche il vicegovernatore di Qom, Morteza Heidari, ha affermato che solo una parte del sito di Fordow è stata attaccata, poiché il sistema di difesa aerea è stato attivato nell’area circostante.

Anche l’AIEA, l’Agenzia internazionale per l’energia atomica, in una prima valutazione ha fatto sapere che “nessun aumento dei livelli di radiazioni è stato segnalato” dopo l’attacco come conferma anche la Commissione di regolamentazione nucleare e radiologica dell’Arabia Saudita per la quale “non sono stati rilevati effetti radioattivi sull’ambiente del Regno e degli Stati arabi del Golfo a seguito dell’attacco militare americano alle strutture nucleari iraniane”.

L’Agenzia dell’Energia Atomica dell’Iran ha reso noto che continuerà le sue attività nel settore nonostante gli attacchi statunitensi ai siti strategici. “L’Organizzazione iraniana per l’energia atomica assicura alla grande nazione iraniana che, nonostante le malvagie trame dei suoi nemici” – si legge in una nota rilanciata dai media statali – “non lascerà che lo sviluppo di questa industria nazionale, che è il risultato del sangue dei martiri nucleari, venga fermato”.

Curioso non vi via alcun segnale di aumento delle radiazioni dopo attacchi che secondo Trump hanno distrutto tre centri nucleari di cui due dedicati all’arricchimento dell’uranio.

Possibile quindi che l’uranio arricchito sia stato trasferito precedentemente all’attacco e che l’Iran fosse informato dei raid imminenti. Probabile che in questa operazione siano stati coinvolti i russi che hanno propri tecnici nella centrale iraniana di Busher e hanno avuto sempre piena consapevolezza del programma nucleare iraniano.

Mosca ha condannato fermamente gli attacchi statunitensi denunciando il bombardamento come “irresponsabile”. “La decisione irresponsabile di effettuare attacchi missilistici e con bombe sul territorio di uno Stato sovrano, indipendentemente dalle argomentazioni addotte, viola palesemente il diritto internazionale”, ha dichiarato il ministero degli Esteri russo. “Preoccupa in modo particolare il danno causato al regime globale di non proliferazione, basato sul Trattato di non Proliferazione delle armi nucleari (TNP) , a seguito degli attacchi contro strutture nucleari iraniane. I bombardamenti contro l’Iran hanno inflitto un grave colpo all’autorità del TNP e al sistema di verifica e monitoraggio dell’AIEA che su di esso si basa”.

Dopo Trump, anche il premier israeliano ha celebrato i raid statunitensi come risolutivi. Benjamin Netanyahu ha parlato di un attacco “coraggioso” e senza sconti che imprime una “svolta storica”.

In un video postato sui social e trasmesso sulle Tv Netanyahu ha ringraziato il presidente statunitense. “Il 13 giugno il capo del governo israeliano ha lanciato il suo Paese in una guerra contro la Repubblica islamica per eliminare la doppia minaccia esistenziale che il programma nucleare iraniano e i suoi missili balistici rappresentano per Israele”. In questa offensiva, prosegue il premier, “Israele ha fatto cose davvero straordinarie”, ma “questa notte, con l’azione contro le strutture nucleari iraniane, l’America ha dimostrato davvero di essere ineguagliabile, ha fatto ciò che nessun altro Paese al mondo avrebbe potuto fare. La storia ricorderà che il presidente Trump ha agito per annientare il più pericoloso regime del mondo, con le armi più pericolose del mondo” imprimendo una “svolta storica che può aiutare a condurre il Medio Oriente e oltre verso un futuro di prosperità e pace. Il presidente Trump e io lo diciamo spesso: la pace si raggiunge attraverso la forza” ha concluso Netanyahu.

Toni enfatici e celebrativi di una sconfitta dell’Iran e di un annientamento del suo programma atomico ancora tutti da confermare.

Più cauto il presidente israeliano Isaac Herzog, che ha dichiarato alla BBC di non sapere se le capacità nucleari dell’Iran siano state completamente distrutte. Tuttavia, ha affermato: “Per me è abbastanza chiaro che il programma nucleare iraniano è stato colpito sostanzialmente”.

Il presidente iraniano Masoud Pezeshkian ha dichiarato nel pomeriggio che l’intervento militare degli Stati Uniti nel conflitto è la prova che Washington è il vero motore dell’offensiva israeliana contro l’Iran e le forze americane si sono unite allo scontro solo dopo “aver constatato l’impotenza di Israele”. Lo riporta Haaretz, citando i media iraniani. Il presidente ha aggiunto che “la nazione iraniana ha più volte dimostrato di non risparmiare sforzi per difendere le acque e il suolo di questa terra”, riaffermando così la determinazione di Teheran a proteggere la propria sovranità di fronte alle aggressioni esterne

Il “precedente siriano” del 2017

L’esultanza di Trump e poi anche di Netanyahu subito dopo i raid aerei e missilistici e prima che potesse essere eseguita una valutazione precisa dei danni inflitti ai bunker del programma atomico iraniano, lascia supporre che si sia trattato di una “ammuina”, non dissimile da quella attuata in Siria da Trump durante il suo primo mandato e che è rimasto l’unico atto bellico della sua prima presidenza.

Sotto pressione per rispondere a un attacco chimico che aveva ucciso alcuni civili a Khan Sheykoun, attribuito dall'Occidente senza rilevazioni attendibili alle forze governative di Bashar Assad, Trump ordinò il lancio di 59 missili da crociera Tomahawk da due cacciatorpediniere della US Navy contro la base aerea siriana di Shayarat, da quanto si apprese evacuata dal personale siriano e sulla quale erano stati lasciati solo vecchi aerei Sukhoi non più operativi.

Anche all’epoca alcune fonti riferirono anonimamente che Trump aveva anticipato il raid punitivo a Vladimir Putin (la Russia aveva diverse basi militari in Siria) che a sua volta aveva informato Assad. La “punizione” del regime siriano venne attuata e celebrata con ampia risonanza mediatica ma senza reali conseguenze. Secondo fonti militari russe, dei 59 missili lanciati dalle due navi americane solo 23 hanno colpito il bersaglio (cioè la base aerea abbandonata) a causa delle contromisure e delle difese antimissile russe.

Il precedente siriano del 2017 resta un caso da manuale di “ammuina” politico-strategica. L’impressione che la notte scorsa sia andata in scena una replica su scala più vasta della stessa commedia potrebbe trovare conferme anche considerando altri aspetti.

Ad esempio che gli attacchi statunitensi con bombe e missili non hanno coinvolto le basi USA nel Golfo Persico e in Medio Oriente (né quelle in Italia) che ospitano 40 mila militari americani e sono situate in nazioni arabe che hanno tutte giudicato negativamente l’attacco di Washington.

I pasdaran hanno minacciato di colpire tali basi ma finora l’unica reazione militare iraniana ha riguardato nuovi lanci di missili balistici che hanno colpito con successo Israele.

Se non vi saranno attacchi iraniani a navi e basi statunitensi nella regione del Golfo Persico sarà ancora più evidente che i raid statunitensi della notte scorsa hanno costituito una via d’uscita dal conflitto non una escalation. Se sarà così lo si vedrà nei prossimi giorni.

Le reazioni nella regione del Golfo

“Il governo dell’Iraq condanna l’attacco. Questo rappresenta una grave minaccia alla sicurezza e alla pace nella regione del Medio Oriente, e mette a rischio la stabilità regionale in modo significativo”, si legge nel comunicato ufficiale di Baghdad che ammonisce: “la prosecuzione degli attacchi potrebbe portare a un’escalation pericolosa, le cui conseguenze andrebbero ben oltre i confini di un solo Stato, colpendo la stabilità dell’intera regione e del Mondo” .

Il segretario generale dell’Onu, Antonio Guterres, si è detto “gravemente preoccupato dall’uso della forza da parte degli Stati Uniti contro l’Iran oggi. Questa è una pericolosa escalation in una regione già sul baratro e una minaccia diretta alla pace e sicurezza internazionali”.

Il Qatar, che ospita la grande base aerea USA di al-Udeid, afferma che le “pericolose tensioni” create dagli attacchi statunitensi contro l’Iran porterebbero a “ripercussioni catastrofiche” sia a livello regionale che internazionale.

L’Oman, che ha ospitato gli ultimi negoziati sul nucleare tra Iran e USA, ha condannato fermamente oggi gli attacchi statunitensi contro i siti nucleari in Iran. Il sultanato del Golfo “esprime profonda preoccupazione, denuncia e condanna dell’escalation derivante dagli attacchi aerei diretti lanciati dagli Stati Uniti contro siti nella Repubblica Islamica dell’Iran”, ha dichiarato l’agenzia di stampa ufficiale omanita.

L’Egitto ha condannato l’escalation in Iran, avvertendo di “pericolose ripercussioni” per la regione, a seguito degli attacchi statunitensi contro i siti nucleari della Repubblica Islamica. In una dichiarazione, il ministero degli Esteri egiziano ha avvertito del “rischio di vedere la regione scivolare in un caos e in una tensione maggiori”, condannando “un’escalation accelerata che minaccia di avere pericolose ripercussioni sulla sicurezza e la pace regionale e internazionale. Soluzioni politiche e negoziati diplomatici, e non soluzioni militari, sono l’unica via d’uscita dalla crisi”.

“Il Pakistan condanna gli attacchi statunitensi contro gli impianti nucleari iraniani, che seguono la serie di raid israeliani. Siamo profondamente preoccupati per la possibile ulteriore escalation delle tensioni nella regione” si legge in una nota del ministero degli Esteri di Islamabad. “Ribadiamo che questi attacchi violano tutte le norme del diritto internazionale e che l’Iran ha il legittimo diritto di difendersi ai sensi della Carta delle Nazioni Unite. L’escalation senza precedenti di tensione e violenza, dovuta alla continua aggressione contro l’Iran, è profondamente inquietante. Qualsiasi ulteriore escalation delle tensioni avrà implicazioni gravemente dannose per la regione e oltre”, prosegue la nota.

Il presidente della commissione Difesa del Senato del Pakistan, Mushahid Hussain Syed, ha definito su X gli attacchi statunitensi contro gli impianti nucleari iraniani un “crimine di guerra basato su falsità come la guerra in Iraq del 2003! La lobby israeliana ha prevalso, mentre il presidente Donald Trump si è lasciato ingannare e ha tradito la sua promessa di non iniziare nuove guerre!”

Il ministero degli Affari esteri del Regno dell’Arabia Saudita ha dichiarato di seguire “con grande preoccupazione” gli sviluppi legati all’attacco condotto dagli Stati Uniti contro gli impianti nucleari della Repubblica islamica dell’Iran.

A Washington l’opposizione Dem protesta per un’azione ritenuta rischiosa e incostituzionale, senza l’autorizzazione del Congresso, con Alexandria Ocasio-Cortez che chiede l’impeachment del presidente. Dai repubblicani arriva invece un vasto consenso a Trump, mentre anche la base Maga sembra allinearsi, pur con molte critiche per l’azione bellicosa di un presidente che nel discorso di insediamento disse di voler passare alla Storia come “il pacificatore”.

La risposta dell’Iran

Gli Stati Uniti hanno iniziato una “guerra pericolosa contro l’Iran” colpendo i suoi impianti nucleari. A dichiararlo è il ministero degli Esteri di Teheran, secondo una dichiarazione diffusa dall’agenzia di stampa semiufficiale iraniana Tasnim. “Il mondo non deve dimenticare che sono stati gli Stati Uniti, nel bel mezzo di un processo diplomatico, a tradire la diplomazia”, ​​si legge nella dichiarazione. “Gli attacchi costituiscono una violazione della Carta delle Nazioni Unite e del diritto internazionale e il governo degli Stati Uniti si assume la piena responsabilità delle gravi conseguenze e delle terribili ripercussioni di questo crimine efferato”.

È “legittimo diritto dell’Iran resistere pienamente e risolutamente all’aggressione militare statunitense e ai crimini commessi da questo regime canaglia e difendere la sicurezza e gli interessi nazionali dell’Iran con tutti i mezzi necessari”, continua, esortando poi l’ONU e i suoi vari organismi, tra cui l’Agenzia Internazionale per l’Energia Atomica (AIEA), l’organismo di controllo nucleare, ad “affrontare urgentemente questo flagrante e criminale atto di illegalità”.

Il ministro Araghchi, ha definito i bombardamenti di oggi “oltraggiosi” e ha affermato che il suo Paese ha il diritto di difendere la sua sovranità. “Quanto accaduto questa mattina è oltraggioso e avrà conseguenze eterne”, ha scritto su X aggiungendo che gli attacchi sono stati “illegali e criminali. In conformità con la Carta delle Nazioni Unite e le sue disposizioni che consentono una legittima risposta di autodifesa l’Iran si riserva tutte le opzioni per difendere la propria sovranità, i propri interessi e il proprio popolo”.

Sul piano militare l’Iran ha reagito lanciando una nuova ondata di circa 40 missili balistici (inclusi i recenti Kheibar) e un numero maggiore di droni contro Israele colpendo soprattutto le aree di Tel Aviv, incluso l’aeroporto Bern Gurion, e di Haifa.

“La ventesima ondata dell’Operazione Vera Promessa 3 è iniziata utilizzando una combinazione di missili a lungo raggio a combustibile liquido e solido con una potenza di testata devastante”, hanno dichiarato le Forze armate iraniane in un comunicato citato dall’agenzia di stampa Fars. Tra gli obiettivi figurano l’aeroporto, un “centro di ricerca biologica”, basi logistiche e vari livelli di centri di comando e controllo.

Un canale affiliato alle Guardie Rivoluzionarie iraniane ha annunciato che “gli Stati Uniti dovranno sopportare le conseguenze dell’attacco all’Iran. Le loro basi in Medio Oriente saranno ridotte in cenere” mentre dallo Yemen le milizie Houthi hanno reso noto che “Intensificheremo ed espanderemo la portata del conflitto finché questa aggressione (contro l’Iran) non cesserà”, ha dichiarato Mohammed al-Buheiti, dirigente del movimento Ansar Allah citato dalla TASS.

Al-Buheiti ha rimarcato che l’accordo di cessate il fuoco tra Stati Uniti e i ribelli yemeniti è scaduto. All’inizio di maggio, l’amministrazione statunitense e gli Houthi avevano concordato un cessate il fuoco con la mediazione dell’Oman. I ribelli si erano impegnati a non attaccare le navi da guerra americane dopo che gli Stati Uniti avevano cessato di colpire il territorio yemenita.

Il concretizzarsi o meno di queste due minacce, l’attacco alle basi USA nel Golfo e alle navi americane nel Mar Rosso e Golfo di Aden, daranno la misura delle conseguenze dell’attacco statunitense ai siti nucleari.

Tenuto conto che anche gli iraniani dovranno “salvare la faccia” e mostrare una qualche risposta ai bombardamenti americani, sarà l’intensità degli scontri nei prossimi giorni a indicare se davvero Stati Uniti, Russia, Israele e Iran hanno trovato una soluzione al conflitto con ampia sceneggiatura bellica.

Inoltre, le IDF hanno annunciato di essere entrate in stato di massima allerta per la possibilità che Hezbollah si unisca al conflitto tra Israele e Iran, in seguito ai raid statunitensi. Secondo quanto riferito da fonti militari a Tel Aviv citate dal quotidiano Haaretz, le milizie libanesi Hezbollah sono in stato di allerta sin dall’inizio dell’offensiva israeliana contro l’Iran, ma finora non sono stati registrati attacchi diretti da parte dell’organizzazione libanese. L’IDF ha precisato che l’esercito sta rafforzando il fronte nord e monitorando attentamente i movimenti delle milizie filo-iraniane, preparandosi a scenari di escalation multipla su più fronti. I sei fronti di guerra aperti da Israele (Gaza, Iran, Cisgiordania, Libano, Siria e Yemen) restano tutti caldi.

Il Parlamento iraniano ha approvato nel pomeriggio la chiusura dello Stretto di Hormuz, uno dei passaggi marittimi più strategici al mondo per il trasporto di petrolio, in risposta agli attacchi statunitensi contro i siti nucleari iraniani. Lo ha riferito oggi la televisione di Stato Press TV. Secondo l'emittente, il generale Kowsari, membro della Commissione Sicurezza Nazionale del Parlamento ha precisato che la decisione finale spetterà al Consiglio Supremo per la Sicurezza Nazionale, il massimo organo di sicurezza dell’Iran.

Lo Stretto di Hormuz è attraversato da circa un quinto del petrolio trasportato via mare a livello globale, e una sua eventuale chiusura avrebbe gravi ripercussioni economiche e geopolitiche internazionali. 

Salvare la faccia e corsa all’atomica

Al di là delle reazioni peraltro scontate, delle diverse parti in gioco, si fa strada l’ipotesi che il raid americano fosse necessario per salvare la faccia.

Innanzitutto quella di Netanyahu, poiché Israele non ha più molta autonomia né finanziaria né in termini di difese anti missile per contrastare i missili balistici iraniani. Il premier israeliano ha aperto un nuovo fronte contro l’Iran senza aver vinto in nessuno degli altri 5 fronti aperti, con l’obiettivo di coinvolgere gli USA nel conflitto. Trump potrebbe non aver gradito e sembra invece volerlo aiutare a uscire dignitosamente dal conflitto.

Lo si può cogliere dalle dichiarazioni del premier israeliano. “Ricorderete che, fin dall’inizio vi avevo promesso che gli impianti nucleari iraniani sarebbero stati distrutti in un modo o nell’altro. Quella promessa è stata mantenuta”.

Se circa la distruzione degli impianti iraniani non c’è in realtà nessuna certezza, in compenso è molto chiaro che Netanyahu aveva un disperato bisogno di annunciare una vittoria per conservare il posto alla guida del governo. In cambio, da oggi il premier dello Stato ebraico dovrà probabilmente essere molto più accondiscendente con Trump.

Poiché tutti hanno una faccia da salvare, è possibile che ci saranno presto risposte iraniane altrettanto simboliche contro interessi statunitensi.

In termini strategici però l’attacco americano ai siti atomici ha creato un precedente che lascerà il segno e dimostra pienamente all’Iran, come a tutte le nazioni del mondo e soprattutto a quelle nel mirino di Stati Uniti e Israele, che per garantirsi sovranità e indipendenza e scongiurare il rischio di subire attacchi dall’esterno occorre necessariamente dotarsi di un deterrente nucleare indipendente.

Lo ha ben evidenziato oggi, col linguaggio brutale ed efficace che spesso lo contraddistingue, il vicepresidente del Consiglio di sicurezza russo, Dmitry Medvedev, per il quale i raid statunitensi contro l’Iran non hanno avuto un impatto significativo sulla capacità nucleare del Paese e Teheran continuerà il proprio programma atomico.

“Cosa hanno ottenuto gli americani con il loro attacco notturno contro tre siti in Iran? A quanto pare, le infrastrutture critiche del ciclo nucleare non sono state danneggiate, o lo sono state solo in modo marginale”, ha scritto Medvedev su Telegram. Secondo l’ex presidente russo, “l’arricchimento di materiali nucleari – e ora si può dire apertamente, anche la futura produzione di armi nucleari – proseguirà”.

Fonte

I tagliagole europeisti vogliono la guerra. I popoli non la vogliono: sondaggio Gallup

Pare quasi inutile ripeterlo, che la regia sia unica – tanto si somigliano, al limite del “plagio” – le assicurazioni somministrate überall in der Welt alle masse, soprattutto quelle dei paesi europei, su una Russia “già pronta ad attaccare l’Europa”, per cui lavoratori, pensionati, intere categorie di salariati dovrebbero quasi ringraziare i preveggenti eurotagliagole per le decisioni sul veloce e quanto più ampio dirottamento verso le spese per la “difesa” di quanto dovrebbe essere destinato a sanità, assistenza, occupazione, pensioni, ecc.

Si troverebbe probabilmente in difficoltà, oggi, il Sommo poeta, a classificare la destinazione infernale di molti dei personaggi che occupano le aule di Strasburgo, Bruxelles e di diversi parlamenti del vecchio continente.

Forse nei primi due gironi del 7° cerchio, tra tiranni, predoni e scialacquatori; o forse anche nella quarta bolgia del cerchio ottavo, tra gli indovini che già predicono con esattezza mensile il momento in cui Mosca, inevitabilmente, attaccherà “un paese europeo, o forse più di uno”, a secondo che la sfera di cristallo sia interpretata dai baltici Fredegonda-Kallas o Voldemort-Kubilius.

Anche se, a dire il vero, non c’è bisogno di spingersi verso le fredde anse del Baltico, per vedersi serviti tali apocalittiche predizioni. Già sulle coste del Tirreno si incontrano elfi-oscuri che, imboniti con tavole imbandite da ministri della guerra per parlamentari NATO, raccontano di come sia urgente dedicarsi alla cybersecurity, alla difesa da attacchi contro i cavi di trasmissione sottomarini, da assalti da cielo mare e terra. Attacchi, per carità, russi.

E guai a dare ascolto alle sirene pentastellate – per quanto anche quelle rimangano, appunto, solo sirene oltremodo stonate – che invitano a «difendere il futuro dei nostri concittadini». Non sia mai, perché «il futuro dei nostri concittadini si difende garantendo loro la libertà. Forse gli ucraini potrebbero spiegarlo meglio» assicurano, per la gioia del Corriere della Sera, i pappataci del PD che, nell’attacco a diritti e condizioni di vita delle masse, si differenziano dai licaoni governativi, soltanto per il modo subdolo e silenzioso dei primi, contro quello predatorio e ringhioso dei secondi.

D’altronde, gli uni e gli altri servono, chi in maniera strisciante, chi con metodi guttural-arroganti, gli interessi del capitale che, se nella fase attuale sono principalmente quelli del capitale finanziario legato all’industria di guerra, non da oggi significano anche spinta al militarismo sfrenato. «Il militarismo moderno è un prodotto del capitalismo», scriveva nel 1908 Lenin nel suo “Il militarismo militante e la tattica antimilitaristica della socialdemocrazia”.

E questo vuol dire anche che, in «entrambe le sue forme, esso è una ‘manifestazione vitale» del capitalismo: come forza militare impiegata dagli Stati capitalistici nei loro conflitti esterni («Militarismus nach aussen», come dicono i tedeschi) e come arma che, nelle mani delle classi dominanti, serve a reprimere ogni specie di movimento (economico e politico) del proletariato («Militarismus nach innen»)».

Ne sono conferma, oggi, le norme e le aggressioni politico-poliziesche contro qualsiasi manifestazione di dissenso, gli attacchi liberticidi a diritti sociali, di lavoro e di vita, la preparazione psicologico-repressiva della coscienza sociale alla guerra e l’imposizione reazionaria del dovere di accettare qualsiasi misura tesa ad abbassare la soglia di scatenamento della guerra.

Il militarismo, insomma, diceva Lenin, «è l’arma principale del dominio di classe della borghesia e della sottomissione politica della classe operaia» e le guerre «hanno le loro radici nella sostanza stessa del capitalismo e cesseranno soltanto quando cesserà di esistere il regime capitalistico o quando l’entità dei sacrifici umani e finanziari, richiesti dallo sviluppo della tecnica bellica, e lo sdegno popolare, suscitato dagli armamenti, porteranno all’eliminazione di questo sistema...».

Dunque, si diceva, sembrano fatte con lo stampino le dichiarazioni belliciste dei circoli liberal-europeisti: sentita una, le altre non si differenziano che per sotterfugi linguistici. Fredegonda-Kallas, scrive opportunamente Il Fatto del 21 giugno, «è l’alta rappresentante del Bene, la principessa baltica che brandisce la spada europea contro il mostruoso impero russo». Per lei, Vladimir Putin «è più di un nemico, è un’ossessione» e ammonisce che si debba spendere sempre più in armi, dato che «Mosca è una minaccia diretta».

Nei giorni scorsi, a Strasburgo, Kaja Kallas si è esibita ancora nello stantio repertorio per cui la Russia ha messo nel mirino l’Europa e, giura “Fredegonda”, l’ipotesi è ampiamente provata dai fatti di una spesa russa per la difesa superiore a quella dei 27 paesi UE messi insieme. Un piccolissimo appunto, signora Kallas: secondo l’Osservatorio Conti pubblici italiano, nel 2024 la spesa militare europea eccedeva quella russa del 58%.

Non «si spende così tanto per l’esercito», dice l’estone che vuole disimparare la lingua russa, «se non si prevede di usarlo e quest’anno la Russia spenderà per la difesa più che per assistenza sanitaria, istruzione, politica sociale...».

Già: avete sentito, pensionati, studenti, lavoratori europei, che da qualche mese siete in attesa di una radiografia, perché i fondi della sanità sono andati alla guerra? La signora suddetta stava parlando proprio per voi. In realtà – Achtung Gefahr! – sul fronte militare, affonda l’estone furiosa, la Russia sta già attaccando l’Europa in vari modi: violando lo spazio aereo del blocco, attaccando i suoi oleodotti, cavi sottomarini e reti elettriche, reclutando criminali per effettuare sabotaggi... abbiamo forse 5 anni per preparaci a una possibile invasione russa e se le sanzioni verranno revocate il periodo sarà ancora più breve.

La predizione che arriva dalla quarta e dall’ottava bolgia del 7° cerchio: indovini e ladri.

Dunque, il «mondo libero deve dimostrare la volontà di sconfiggere l’aggressione russa». Chi meglio di lei, erede di fiancheggiatori estoni dei nazisti, può ululare che la «nostra esperienza dietro la cortina di ferro... ha significato atrocità, deportazioni di massa, soppressione della cultura» e dunque, chi meglio di lei può fare da megafono – oppure da suggeritore.

Invertendo l’ordine degli attori, le asseverazioni non cambiano – alle scempiaggini di quella portavoce di un rinato maccartismo anti-sovietico (seppur quando l’Unione Sovietica è scomparsa da un pezzo) che risponde al nome di Anne “Golodomor” Applebaum, colei che ha fatto fortuna sulle medaglie erogate a piene mani dai golpisti di Kiev a quanti si prodighino a diffondere nel mondo l’omelia di un potere sovietico tutto dedito alla soppressione dell’Ucraina, in particolare con la “morte per fame” dei contadini ucraini nel 1932-1933.

La “morte per fame” di contadini russi, kazakhi, romeni, moldavi e anche delle regioni ucraine e bielorusse sotto dominio polacco, per la siccità e la susseguente carestia di quel periodo: quella non conta nel “medagliere” degli eredi dei banderisti filonazisti, così grati alla “storica” Applebaum.

Una Applebaum che, a ruota libera su La Stampa del 20 giugno, si diffonde in titoli di “democratismo” e “autoritarismo in base alla vicinanza o meno a quella che lei considera una «una rete transnazionale», una cordata guidata da «Russia, Cina, Iran, Venezuela, Corea del Nord, Bielorussia e altri», che «rifiutano la democrazia, i diritti umani, la cooperazione internazionale... Aspirano a una sorta di mondo multipolare in cui potranno fare ciò che vogliono».

Quale sarebbe, di grazia, il suo concetto di democrazia, signora “storica-saggista”, a Taormina per ritirare il premio Strega Saggistica Internazionale? Chiaro che non si tratti, nella Sua interpretazione, di un concetto di classe, ma di una “categoria” liberal-feudale, anche perché «Intendiamoci, gli Stati Uniti non sono una dittatura», mentre, ca va sans dire, «Il regime iraniano è uno dei più orribili del pianeta».

Ovviamente in scala molto ridotta rispetto ai “cannibali” bolscevichi che popolavano l’Ucraina sovietica, ma sufficientemente crudeli, dato che «Quando Putin ha invaso l’Ucraina aveva il sostegno del mondo autocratico». Pur se «l’invasione dell’Ucraina rappresenta anche un successo dell’alleanza democratica... Perché, diciamolo chiaramente: la Russia è nemica dell’Europa. Attacca obiettivi informatici quotidianamente, compie sabotaggi, ha squadre della morte in Europa. Minaccia basi aeree, gestisce una flotta ombra nel Baltico. Finanzia gruppi estremisti e movimenti separatisti. L’obiettivo è disgregare la UE e la NATO...».

Che dire: con quanta lungimiranza, già sessant’anni fa, Jan Fleming illustrava le atrocità di cui siano capaci i tentacoli della “Spectre”, incarnati dagli autocrati del Cremlino, ieri sovietici, oggi russi!

Ma politici e militari occidentali non si preoccupano nemmeno più di nascondere che si stanno preparando a una guerra diretta con la Russia, afferma l’osservatore Vasilij Fatigarov: «L’Occidente, in particolare l’Europa, afferma apertamente di aver oggi bisogno di resistere in Ucraina ancora un anno e mezzo o due, per rafforzare le proprie capacità militari e continuare a combattere autonomamente» contro la Russia.

No, dice Fatigarov, la Russia non dovrebbe «voler combattere con l’Europa. Ma date le loro dichiarazioni e, soprattutto, le loro azioni nel dispiegamento di forze, nelle esercitazioni aggressive con scenari corrispondenti, vi dobbiamo essere pronti».

E se le parole di un Fatigarov possono lasciare il tempo che trovano, ecco che Putin in persona, al Forum economico di Piter, ha ammesso di essere preoccupato per il fatto che il mondo stia scivolando verso una terza guerra mondiale: siamo in presenza di «un grande potenziale di conflitto, che sta crescendo. È proprio sotto i nostri occhi, ci riguarda direttamente. Il conflitto che stiamo vivendo in Ucraina, quello che sta succedendo in Medio Oriente e quello che sta accadendo intorno agli impianti nucleari iraniani. Ciò che preoccupa è a cosa questo possa portare», insieme alla «ricerca di soluzioni, meglio con mezzi pacifici in tutte le direzioni», senza dimenticare che «Russia e Iran stanno combattendo contro le stesse forze».

E, come a fargli eco, l’economista Paul Craig Roberts, ex vicesegretario al Tesoro USA con Ronald Reagan, spiattella chiaro e tondo che Washington sostiene l’aggressione israeliana all’Iran, sperando così nel rovesciamento degli ayatollah, così come, nel 2022, aveva spinto la Russia all’operazione militare in Ucraina: «Questo è stato uno dei motivi per cui abbiamo imposto sanzioni a Putin, per cui abbiamo costretto Putin a lanciare l’operazione speciale in Donbass».

Pensavano che la guerra non sarebbe andata bene e ciò avrebbe screditato Putin agli occhi dei russi, provocando un cambio di regime, dato che «parte della classe imprenditoriale e intellettuale russa sembra essere più orientata verso l’Occidente».

Scatenare il conflitto, insomma, «per destabilizzare Putin», ricordando che gli USA avevano già «interferito nelle elezioni presidenziali in Iran, provocando disordini giovanili e che ora le recriminazioni yankee contro l’Iran sono falsificate, al pari delle armi di distruzione di massa di Saddam Hussein, l’uso di armi chimiche da parte di Assad, le loro bugie su Gheddafi».

Roberts ritiene che Russia e Iran si aspettino invano che i negoziati con l’Occidente li salvino dalla guerra, perché là, in Occidente, hanno bisogno della guerra. La guerra come continuazione delle politica con altri mezzi, mandando a gambe all’aria ogni esternazione liberale secondo cui, ecco, vivevano in pace e poi, all’improvviso, senza un perché, uno “aggredisce” e l’altro “si difende”. Anzi, difende l’Europa intera: è il suo avamposto contro una Russia che, parola di Applebaum «è nemica dell’Europa».

Anche se, a questo punto, sorge la domanda su che tipo di guerra e da chi debba essere combattuta. Perché, pare ci sia una ragione, ad esempio, per il fatto che anche in Italia si accenni con sempre maggior insistenza alla possibile reintroduzione della leva obbligatoria o si escogitino pretesti per attirare cittadini nei ranghi militari. Nessuno, o quasi, tra le popolazioni d’Europa, mostra particolare voglia di indossare l’uniforme e andare in guerra.

Secondo la britannica The Economist, il «progetto di pace alla base della UE» – ci scordiamo di Jugoslavia, Afghanistan, Libia, signori giornalisti britannici? – «si è dimostrato fin troppo efficace, al punto che gli europei non vogliono combattere con nessuno. «Nonostante la crescita record della spesa militare», osserva The Economist, «il continente si trova ad affrontare un problema più profondo e allarmante: la stragrande maggioranza dei suoi cittadini semplicemente non vuole combattere, anche se il nemico è alle porte». Eh, già: è proprio lì lì per attaccare: lo assicurano gli indiavolati folletti Kallas-Kubilius.

Il balzo «sproporzionato dal 2% del PIL al 3,5% sarà destinato all’acquisto di equipaggiamenti, ma gli eserciti sono anche una questione di persone: “I vostri carri armati in Europa sono bellissimi, ma avete qualcuno che li guidi?”. E nemmeno costringere adolescenti a vestire l’uniforme risolverà il problema: gli europei sono orgogliosi del loro comportamento pacifista. «Se scoppia una guerra, ci sarà qualcuno pronto a combattere?» si chiede The Economist.

Secondo un sondaggio Gallup condotto lo scorso anno su 45 paesi, quattro dei cinque paesi meno disposti a combattere sono europei. In «Spagna, Germania e soprattutto Italia (dove solo il 14% degli intervistati è pronto a difendere il paese), il fervore patriottico è quasi scomparso».

Persino in Polonia, che si appresta a raddoppiare i propri contingenti e ambisce alla leadership militare europea, meno della metà dei cittadini è disposta fare la guerra. Un sondaggio condotto prima del 2022, aveva mostrato che il 23% dei lituani preferirebbe emigrare piuttosto che imbracciare le armi.

Insomma, i governi liberal-reazionari cercano di correre ai ripari: dopotutto, “tra cinque anni, o forse anche prima, la Russia invaderà un paese europeo, o forse più di uno”, assicura Voldemort-Kubilius dalla quarta bolgia dell’ottavo cerchio... 

Così, vari paesi, come «la Polonia, pensano al ritorno della coscrizione obbligatoria». Danimarca e Grecia non l’hanno mai fermata. Dopotutto, gli stessi sondaggi europeisti mostrano che, quando si chiede quali siano le questioni che preoccupano gli europei, la Russia scompare dalla lista, mentre vanno al primo posto i prezzi, le tasse, le pensioni.

Anche perché – vedano, signori di The Economist, ma anche de La Stampa, Corriere della Sera e fogliacci vari – quando il discorso verte sulla guerra, su chi “aggredisca” e chi “si difenda”, o chi addirittura invochi la “difesa preventiva”, non sono in molti a credere alla vostra favola infantil-ingenua secondo cui «di notte, uno ha agguantato un altro alla gola e i vicini sono costretti a salvare la vittima dell’attacco... non permettiamo di farci ingannare e consentire ai consiglieri borghesi di spiegare la guerra così, semplicisticamente, per cui, dicono, vivevano in pace, poi uno ha aggredito e l’altro si è difeso» (Lenin).

Bolgia di consiglieri di frode che non siete altro.

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A tutti i compagni e le compagne dell’USB, ai delegati e alle delegate, alla nostra ampia comunità

Mentre ancora abbiamo negli occhi e nella mente la splendida manifestazione di ieri a Roma ci raggiungono le notizie dell’attacco degli USA all’Iran e della scelta ormai inequivocabile intrapresa dall’amministrazione statunitense, di concerto con il governo israeliano, di imporre con la forza un cambiamento degli equilibri mondiali. È un passaggio a suo modo storico, un punto di non ritorno che ci avvia verso esiti imprevedibili e drammatici.

Per questo il ringraziamento che vi inviamo per il lavoro svolto sia nella costruzione di uno sciopero non certo semplice da realizzare, sia per l’organizzazione delle iniziative che lo hanno accompagnato e sia per la partecipazione alla manifestazione di ieri a Roma, non può non essere accompagnato anche da una riflessione a caldo su come la situazione sia in rapida evoluzione.

Purtroppo, viene da dire, ancora una volta avevamo visto giusto. La chiarezza degli obiettivi della manifestazione di piazza Vittorio, che abbiamo voluto tenere ben salda, assieme al Coordinamento Disarmiamoli, si manifesta in tutta la sua rilevanza proprio alla luce degli avvenimenti del giorno dopo. Nel mondo si prepara la guerra e il comportamento e le scelte del nostro governo avranno una ricaduta fondamentale per il nostro futuro. I rapporti con la Nato e con la UE, i piani di riarmo, il ruolo dello stato terrorista di Israele, la conversione della nostra economia ad una economia di guerra non sono i temi dei prossimi mesi o anni, ma riguardano l’oggi e su questi non sono più accettabili balbettii. Se vogliamo provare a fermare questa maledetta spirale o quantomeno a mettere in protezione il nostro popolo, questi devono essere i nostri obiettivi.

L’impegno sindacale, cari compagni e compagne, è uno sforzo quotidiano incessante che pesa sulla vita di tutti noi. Per noi che viviamo il sindacato come una scelta per provare a combattere le ingiustizie del mondo questo sforzo è anche passione e ragione di vita, ma come non riconoscere che la fatica si fa sentire? La manifestazione di ieri, soprattutto per chi è venuto da più lontano, è stato un passaggio non facile anche se ripagato dalla piena riuscita della mobilitazione e dall’entusiasmo che si è respirato per le strade di Roma. Una manifestazione che ci dice, una volta di più, che l’azione sui posti di lavoro e la tutela quotidiana dei nostri non si può fare se non allarghiamo lo sguardo al contesto nel quale operiamo, se non teniamo ben saldo il nesso tra i salari che non crescono e il riarmo che stanno decidendo.

C’è un dato che crediamo in tanti abbiano colto della giornata di ieri: l’emergere di un potenziale blocco sociale fatto di tanti giovani e giovanissimi, di lavoratori immigrati, di operai della logistica e di fabbrica, di settori popolari delle periferie delle città e di lavoratori dei servizi. Un blocco che fatica ancora a riconoscersi in modo compiuto ma che ieri ha fatto un passo in avanti, togliendosi di dosso il timore ad andare da soli, a contare sulle proprie forze, ad essere accusati di minoritarismo e settarismo. È una comunità che è stanca delle parole vuote e delle ambiguità, che non vuole più vedere le solite facce di gente pronta a tradire, che vuole parlar chiaro e che alle parole preferisce le azioni.

Di fronte ai terribili avvenimenti di stamane questa comunità, che ha davanti enormi potenzialità di crescita e di allargamento, costituisce la migliore speranza che abbiamo, forse l’unica, che sia ancora possibile cambiare il corso degli eventi.

Senza un attimo di respiro, compagni e compagne, avanti tutta!

Unione Sindacale di Base

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Iran e nucleare: una lunga storia /1 parte

di Massimo Zucchetti

La conoscete la lunga storia del nucleare iraniano? Beh, adesso eccovela qui, molto riassunta, ma non breve ahimè.

1. Tecnologia nucleare e Iran

L’accordo di salvaguardia globale dell’AIEA (CSA) per l’Iran è entrato in vigore nel 1974, quando il paese era guidato dallo Scià. Tuttavia, l’Iran ha attirato l’attenzione internazionale dall’agosto 2002, quando l’esistenza di un sospetto programma nucleare clandestino è stata rivelata attraverso la denuncia di un gruppo di opposizione iraniano, affermando che “la costruzione clandestina in Iran di un grande impianto di arricchimento dell’uranio a Natanz e di un reattore ad acqua pesante ad Arak” era una realtà.

In realtà, l’Iran è stato trattato come un “paese profondamente enigmatico” e un “caso speciale” molto prima del 2002, in realtà dal cambio di regime nel paese che ha avuto luogo nel 1979.

In effetti, le attività nucleari iraniane risalgono agli anni ’50: fino al 1979, però, il paese aveva relazioni amichevoli con gli Stati occidentali, e alcuni paesi in quel periodo hanno sostenuto l’Iran nella costruzione del suo programma di energia nucleare, ad esempio, la costruzione della centrale nucleare di Bushehr è stata avviata nel 1975 da società tedesche, tuttavia il lavoro è stato interrotto nel 1979 dopo il cambio di regime in Iran.

Il reattore è stato poi completato moltissimi anni dopo grazie alla collaborazione della Russia: è un potentissimo, pacifico e mansueto reattore nucleare che non ha nulla a che vedere con il nucleare bellico.

I paesi occidentali nel 2002 hanno iniziato a condannare l’Iran per aver violato le norme internazionali di non proliferazione firmate nel NPT. Questo fatto fa parte della spiegazione del perché è stato così difficile raggiungere un accordo sul programma nucleare iraniano tra la comunità occidentale e internazionale, da un lato, e l’Iran, dall’altro. Una “storia mutua di errate percezioni culturali e politiche e alti livelli di tensione e sfiducia” ha accompagnato le relazioni internazionali tra questi paesi.

L’applicazione delle garanzie dell’AIEA in Iran, garantendo l’uso pacifico di tutto il materiale nucleare, ha attraversato un processo di 13 anni, da quando l’AIEA, nel 2003, ha riferito sulla mancata dichiarazione del materiale nucleare e delle attività dell’Iran in conformità con il CSA.

L’Iran ha allora firmato volontariamente il protocollo aggiuntivo dell’AIEA (AP). L’AP è un documento legale che integra gli accordi di salvaguardia dell’AIEA degli Stati: concede all’AIEA l’autorità giuridica complementare per verificare gli obblighi di salvaguardia di uno Stato ed è progettato per tutti gli Stati che hanno uno dei tre tipi di accordi di salvaguardia con l’AIEA.

Poiché l’Iran non ha poi ratificato l’AP, questo percorso, per quanto importante nell’azione dell’AIEA per l’attuazione delle salvaguardie in Iran, ha avuto un’interruzione temporanea quando l’Iran ha smesso di attuare l’AP nel 2006.

Dopo anni di negoziati condotti dall’AIEA, un nuovo importante passo è stato fatto nel 2013, quando un quadro per la cooperazione è stato firmato dall’AIEA e dall’Iran.

Nello stesso anno 2013, un piano d’azione congiunto (JPOA) è stato concordato il 24 novembre a Ginevra dai cosiddetti paesi E3+3 (Francia, Regno Unito, Germania, Cina, Stati Uniti e Russia) e Iran, dopo lunghi negoziati. L’obiettivo era quello di raggiungere una soluzione globale a lungo termine reciproca che garantisse che il programma nucleare iraniano fosse esclusivamente pacifico.

A seguito di ciò, nel quadro di una tabella di marcia per il chiarimento di tutte le questioni in sospeso firmate nel 2015 dall’AIEA e dall’Iran, la soluzione della crisi era a portata di mano.

L’AIEA ha finalmente riferito nel 2015 sulla valutazione finale di tutte le questioni di primo piano, e nello stesso anno il piano d’azione congiunto globale (JCPOA) è stato concordato dall’E3+3/UE (gli ex sei Stati, tra cui l’Alto rappresentante dell’Unione europea per gli affari esteri e la politica di sicurezza) e dall’Iran.

Quindi, dopo molti anni di negoziati e dialoghi difficili, il 14 luglio 2015 a Vienna è stato finalmente concluso un accordo definitivo, che coinvolge l’E3+3/UE e l’Iran.

Il JCPOA rappresenta un passo importante per la soluzione della crisi iraniana e, più in generale, nella lotta contro la proliferazione delle armi di distruzione di massa. Inoltre, il 20 luglio 2015, il Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite ha adottato all’unanimità la risoluzione 2231 che lo approvava.

La tabella di marcia istituita nel JPCOA per il periodo fino al 15 ottobre 2015 è stata completata nei tempi previsti, come riportato nella relazione dell’AIEA del direttore generale del 18 novembre 2015.

2. Gli infiniti guasti della politica, e la nostra vittoria del 2015

Mentre negli anni ’90 l’Europa era in dialogo con la Repubblica islamica dell’Iran ed entrambi erano interessati a uno scambio fruttuoso di materie prime energetiche, dopo l’attacco terroristico dell’11 settembre la politica è cambiata: gli Stati Uniti, che miravano a un “doppio contenimento” dell’Iran e dell’Iraq, hanno invaso l’Iraq mentre le relazioni con l’Iran continuavano a peggiorare; l’UE ha “ghiacciato” i suoi contatti con l’Iran come conseguenza, con la preoccupazione che l’Iran possedesse la capacità di armi nucleari in primo luogo nelle ragioni addotte per il peggioramento delle relazioni.

Le dichiarazioni sull'“Asse del Male” di Bush, in cui è stato incluso l’Iran, hanno contribuito a condizionare il rapporto con l’Iran, creando un atteggiamento anti-occidentale che, in realtà, è andato ben oltre la questione nucleare.

Anche se a livello dell’UE, i negoziati su un possibile TCA (accordo di cooperazione commerciale) con l’Iran sono continuati e l’UE ha cercato di assumere una posizione più morbida rispetto agli Stati Uniti, ma comunque ferma: ad esempio, l’UE ha dichiarato fermamente in diverse occasioni che era necessario che l’Iran firmasse il suddetto protocollo aggiuntivo dell’AIEA.

Sebbene l’Iran avesse formalmente accettato, in dichiarazioni pubbliche, quello che hanno chiamato “il controllo dell’AIEA” (in realtà, nient’altro che la corretta attuazione delle disposizioni del CSA e dell’AP) e avesse accettato di sospendere i programmi di arricchimento dell’uranio, le elezioni presidenziali del 2005 di Ahmadinejad hanno cambiato lo scenario e l’Iran ha interrotto i suoi legami diplomatici con l’UE e il suo impegno nei confronti del protocollo aggiuntivo dell’AIEA.

L’AIEA non ha potuto fare altro che riferire il caso iraniano al Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite (SC), che ha deciso di imporre sanzioni, a causa del mancato rispetto da parte dell’Iran delle pertinenti risoluzioni SC. Più precisamente, il SC ha chiesto che l’Iran sospenda tutte le attività relative all’arricchimento e al ritrattamento, compresa la ricerca e lo sviluppo, e ha chiesto che la verifica dell’accertamento dei fatti fosse attuata dall’AIEA.

Sono state decise anche le sanzioni sulle importazioni iraniane di materiali e tecnologie nucleari e il congelamento dei beni di individui coinvolti in attività nucleari, nonché divieti di viaggio.

Nel 2007, l’UE ha anche pubblicato un elenco ampliato di individui iraniani considerati persona non grata nell’Unione, e gli Stati Uniti hanno emanato nuove sanzioni unilaterali che hanno colpito più di 20 organizzazioni associate al Corpo delle guardie della rivoluzione islamica iraniana (cioè le guardie pretoriane del leader supremo Khomeini, che erano considerate i principali operatori dell’industria petrolifera e i leader del programma nucleare) dal sistema finanziario degli Stati Uniti.

Con l’avvento dell’amministrazione Obama nel 2009 e l’adozione del Trattato di Lisbona, seguita dalla nomina di Catherine Ashton come nuovo Alto rappresentante dell’UE per la politica estera e di sicurezza comune, il clima ha iniziato a cambiare, poiché è stata adottata una politica di riavvicinamento all’Iran.

Gli Stati Uniti e l’UE hanno offerto all’Iran un accordo “freeze-for-freeze”, che stabiliva che nessuna sanzione aggiuntiva sarebbe stata imposta all’Iran se quest’ultimo avesse accettato di congelare l’arricchimento dell’uranio. Tuttavia, le sanzioni dell’UE e degli Stati Uniti sono continuate, anche se la loro efficacia è rimasta incerta.

Nel 2012, sotto lo sforzo costante e la consulenza tecnologica dell’AIEA, i negoziati stavano migliorando, al fine di raggiungere un accordo con l’Iran che potesse consentirgli di sviluppare l’energia nucleare per scopi pacifici, rispettando il suo diritto in conformità con l’articolo IV del TNP, ma impedendogli di sviluppare un carico utile nucleare. Tuttavia, in pratica, i miglioramenti erano piccoli e il ritmo dei negoziati era piuttosto lento.

Nel 2013, il cambiamento politico con l’elezione del presidente Rouhani e il suo approccio basato su “prudenza e speranza” hanno aperto nuovi flussi di collaborazione e un desiderio di apertura verso la comunità internazionale. Gli incontri tra i ministri degli Esteri John Kerry (USA) e Javad Zarif (Iran), lo scambio di lettere e telefonate tra Obama e Rouhani hanno presentato una nuova era per i contatti bilaterali.

Tutto ciò ha portato a un accordo provvisorio (redatto il 24 novembre 2013 a Ginevra), in cui l’Iran ha accettato di limitare il suo programma e ha consentito i controlli dell’AIEA, mentre l’E3+3 ha accettato di ridurre le sanzioni.

Si può notare che, come accennato in precedenza, poco prima del JCPOA, l’Iran e l’AIEA firmassero un quadro per la cooperazione. Il suo obiettivo fondamentale era quello di risolvere tutte le questioni in sospeso, passate e presenti, attraverso una cooperazione rafforzata e un approccio graduale.

Il 18 febbraio 2014 sono iniziate le discussioni per l’accordo definitivo, e la scadenza è stata fissata al 24 novembre 2014. Il 2 aprile 2015, un piano quadro è stato adottato a Losanna e la data finale dell’accordo è stata posticipata al 30 giugno 2015, e infine al 14 luglio 2015, quando l’accordo iraniano JCPOA è stato raggiunto.

I passi avanti hanno incluso l’adozione della risoluzione 2231 (2015) del Consiglio di sicurezza, che ha approvato il JCPOA: è stato adottato il 20 luglio 2015 all’unanimità e ha rinviato la sua attuazione ufficiale per 90 giorni, per consentire agli Stati Uniti la considerazione da parte del Congresso.

Lo stesso 20 luglio 2015, l’UE ha discusso e approvato il JCPOA tramite un voto del Consiglio per gli affari esteri dell’UE (cioè il gruppo dei ministri degli esteri dell’UE), mentre negli Stati Uniti, dopo la revisione di sessanta giorni nel Congresso, il JCPOA è stato approvato il 10 e l’11 settembre. Il 13 ottobre 2015, anche il Majlis iraniano (Parlamento) ha approvato l’accordo.

3. La rivincita della politica di guerra

Donald Trump diventa Presidente degli USA, primo mandato. Gli USA, senza nessuna motivazione plausibile, nel 2018 denunciano il JCPOA – ottenuto con 13 anni di sforzi congiunti e grazie all’Amministrazione Obama – distruggendo il negoziato. L’Iran reagisce utilizzando l’arricchimento dell’Uranio come leva politica per riprendere i negoziati e sospendere le sanzioni.

In pratica, c’è questo limite all’arricchimento dell’Uranio che la IAEA ha imposto all’Iran, intorno al 3,5%. Siamo lontanissimi dall’arricchimento necessario per un uso bellico, ma l’Iran ha più volte superato “dimostrativamente” questo limite.

Uno dei primi atti della amministrazione Biden fu poi, nel 2020, la ri-adesione degli USA al JPCOA.

Chiaramente, dopo due anni di sospensione e di “buco nero”, era necessario riprendere in mano il trattato, verificare cosa era successo nel frattempo e stabilire una nuova time-table.

Ritorna presidente Trump. Il JPCOA ridiventa carta straccia, l’Iran riprende a giocare col fuoco valicando il limite di arricchimento. Fra proclami pubblici molto duri ed un atteggiamento pratico più improntato al pragmatismo, gli USA tuttavia intraprendono una serie di negoziati bilaterali con l’Iran, un processo che era in atto fino a un paio di settimane fa e che prometteva, pur fra reciproche incomprensioni e roboanti strepiti, di arrivare di nuovo a un accordo.

Si noti che le altre potenze del E3+3 del JPCOA e l’Unione Europea sono fuori dalle trattative. Difficile partecipare a trattative sedendo dalla stessa parte del tavolo quando si è impegnati in una guerra (Russia vs. USA, Francia, Germania, UK in Ucraina). Tacciamo poi sul possibile ruolo di “mediazione” della UE, che dovrebbe essere affidato alla signora Kallas, un vero esempio di “moderazione e attitudine al negoziato”.

Fatto sta che si fa avanti Israele, che fino a poco tempo fa aveva abbaiato invano, restando sempre fuori da ogni negoziato. Oltretutto Israele non aderisce al Trattato di Non Proliferazione, rifiuta da sempre ogni ispezione della AIEA, e possiede illegalmente 80-100-150-200 (nessuno sa di preciso) ordigni nucleari.

La “trattativa” viene portata avanti da Israele con l’incursione e i bombardamenti che sappiamo.

Ed eccoci qua. Qualche giorno fa era prevista una ulteriore seduta dei negoziati USA-Iran. Secondo voi, ci sarà?

Fine della prima puntata. Le fonti le trovate nel mio capitolo di libro, del 2016, qui.

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Sotto attacco il diritto di sciopero e quello a manifestare: in ballo ci sono le libertà di tutti

Per bocca del sottosegretario Durigon, il governo torna ad attaccare il diritto di sciopero, mettendolo in contrapposizione con quello di tutti ad andare in vacanza. Nonostante l’Italia abbia la legge sugli scioperi più restrittiva d’Europa, ora il sottosegretario leghista sta proponendo di vietare gli scioperi nei fine settimana: è la vecchia fobia di Salvini che si ripropone sotto una nuova versione. L’attacco però è a tutto campo e chiama in causa anche lo sciopero dei metalmeccanici e la manifestazione di Bologna della Fiom dove gli operai hanno invaso la tangenziale. Immediata è stata la reazione della Questura che ha preannunciato denunce in base al nuovo decreto sicurezza.

Le proteste sono indigeste a questo governo, preoccupato di non avere risposte serie in materia di salari (altro che vacanze con questi contratti!), e la repressione è l’unica vera risposta che intendono mettere in campo.

È un segnale però che la protesta di ieri ha colpito nel segno. Mettere assieme il tema dei salari e dei contratti ancora aperti con quello dei clamorosi spostamenti di risorse verso la guerra sta lasciando il segno.

Esprimiamo tutta la nostra solidarietà ai lavoratori che ieri a Bologna hanno manifestato esattamente nel modo in cui da più di cento anni gli operai hanno sempre fatto (anche se da Cgil Cisl e Uil non ne riceviamo mai quando fioccano denunce e arresti per comportamenti analoghi messi in atto nella logistica da lavoratori organizzati con USB).

Vanno però segnalate le dichiarazioni fuori luogo dei dirigenti della Filt Cgil che mostrano di non aver capito la portata dell’attacco e provano ad indirizzare l’azione repressiva del governo nei confronti degli scioperi che definiscono “minoritari”. Il diritto di sciopero appartiene a tutti i lavoratori e non a qualche sigla sindacale e va difeso sempre e comunque. Se i lavoratori vi aderiscono in pochi gli effetti saranno minori e pertanto non dovrebbero essere fonte di preoccupazione. Accogliere invece le tesi della controparte dimostra una grande miopia politica e conferma, una volta di più, la subalternità anche culturale alle posizioni della destra. Del resto, per anni sono state assecondate le spinte alla restrizione delle libertà sindacali da parte di Cgil, Cisl e Uil, sperando che esse fossero funzionali a fermare il sindacalismo indipendente e conflittuale. E oggi che quella scelta rischia di trasformarsi in un boomerang anche per loro, c’è il rischio che ancora non abbiamo imparato la lezione.

In ballo ci sono le libertà di tutti e il diritto a ribellarsi ad una condizione sempre più pesante, sul piano economico e normativo e sul futuro da incubo che ci stanno propinando.

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Iran - Gli Usa bombardano e parlano di “pace”

Il dado è stato tratto, la guerra mondiale è ormai innescata e nessuno sembra avere la forza o l’intelligenza necessaria a fermarla.

Stanotte gli Stati Uniti sono entrati direttamente nella guerra tra Israele e Iran, colpendo i tre siti nucleari strategici di Fordow, Natanz e Isfahan.

Donald “Tentenna” Trump ha subito definito l’operazione come “completamente riuscita”, ma anche aggiunto che “ora è il momento della pace”. Come al tavolo da gioco, “butto lì un carta e vediamo che succede”. Ma nel gioco della guerra ogni mossa diventa un precedente da cui non si torna indietro. Tanto più che il fatto stesso di dover intervenire direttamente come “massima potenza militare” certifica la debolezza di Israele, che non è in grado da sola di piegare l’Iran.

L’attacco è avvenuto con sei bombardieri B-2 – due per sito, probabilmente – che hanno sganciato per la prima volta le bombe GBU-57, da 13.600 kg, definita “bunker buster”, progettata per penetrare nei siti sotterranei.

L’Iran ha confermato gli attacchi, ma ha assicurato che il proprio programma nucleare non si fermerà.

Capire l’entità dei danni è praticamente impossibile, dall’esterno, e il dubbio resterà nella testa anche degli irresponsabili che hanno voluto questa azione. Le bombe usate hanno infatti una capacità di penetrazione nel terreno di alcune decine di metri, ma molto dipende dalla struttura e composizione del terreno. In questo caso stiamo parlando di rocce di origine lavica, tra le più resistenti.

Inoltre, come descritto anche da uno dei pochi occidentali autorizzato ad entrarci – il complice Rafael Grossi, argentino posto a capo dell’AIEA, che ha prima “lanciato l’allarme” sul fatto che Tehran non aveva rispettato alcuni impegni e poi (ad attacchi israeliani iniziati) si è “corretto” affermando di non aver mai detto che “l’Iran stava costruendo un ordigno nucleare”, probabilmente sotto la pressione delle centinaia di scienziati che lavorano per l’agenzia Onu – i laboratori si trovano spesso a centinaia di metri di profondità.

Chiaro che anche se fossero rimasti intatti sarebbe comunque stata distrutta buona parte della “strada” per arrivarci, ma è altrettanto chiaro che trattandosi di obiettivi conosciuti da sempre, buon parte degli elementi più importanti dovrebbero essere stati spostati.

Vale soprattutto per il sito più “strategico”, quello di Fordow, scavato all’interno di una montagna nella provincia di Qom.

Ma questa incertezza sembra permettere a Trump di continuare a giocare sul doppio registro minaccia/offerta. “L’attacco è stato un successo completo. Se l’Iran non vuole la pace, le prossime azioni saranno ancora più forti e rapide”.

Trump ha anche aggiunto che l’operazione non prevede truppe di terra né un cambio di regime a Teheran.

Inutile far notare che “la pace” è stata rotta prima da Israele e ora dagli Stati Uniti, e che tutto il mondo lo sa benissimo. Più interessante è invece sottolineare il tentativo trumpiano di confinare il bombardamento di stanotte nell’ambito degli “avvertimenti” tesi a costringere l’Iran ad “arrendersi” e rinunciare al nucleare civile. Insomma: come se il gigantesco passo in avanti verso il conflitto generalizzato fosse in qualche modo parte di una “strategia diplomatica” in fondo “pacificatrice”.

Si sente, qui, il peso delle divisioni all’interno dell’amministrazione Usa, da tempo spaccata tra i neocon che premono per seguire Netanyahu e la sua coorte di invasati e quanti – più legati al mondo “Maga” – preferivano evitare un confronto che nessuno sa come controllare.

“Non sappiamo quanto questo ci porterà in qualcosa di prolungato“, ha detto a POLITICO un funzionario dell’amministrazione Trump, che come altri ha ottenuto l’anonimato per discutere delibere interne. “In questo momento il messaggio è che vogliamo eliminare la capacità nucleare e concentrarci sui negoziati”.

Non è indifferente ricordare che proprio nelle ore precedenti sia la Russia che la Cina avevano indirettamente dichiarato il proprio sostegno all’Iran. La prima, confermando che Teheran ha diritto a sviluppare un programma nucleare civile. La seconda avanzando un piano in quattro punti che ora sembra carta straccia, ma che probabilmente dovrà essere preso a base di future – improbabili, se qualcuno non disarma Israele – trattative regionali.

È fin troppo evidente che l’attacco all’Iran è anche un attacco all’esistenza stessa dei Brics+, ossia all’insieme di paesi che vanno costruendo un’alternativa economica “paritaria” al vecchio e vampiresco colonialismo occidentale di matrice neoliberista. L’Iran stesso è da oltre un anno membro autorevole di questo consesso che comprende Russia, Cina, India, Brasile, Sudafrica, Etiopia, Egitto, Arabia Saudita ed Emirati Arabi.

Tra Pechino e Teheran, in particolare, è stata da poco completata e inaugurata una ciclopica linea ferroviaria destinata al traffico merci, chiaramente finalizzata a eliminare i tempi lunghi di trasporto via nave del petrolio e le pericolose “strettoie” tra la Malesia e l’Indonesia, potenzialmente nel mirino Usa.

Anche senza alcuna alleanza militare con Tehran, insomma, Cina e Russia – oltre ad una marea di altri paesi – hanno tutto l’interesse materiale a impedire che il duo sciagurato (Israele/Usa) “ridisegni” il Medio Oriente secondo schemi e interessi diametralmente opposti e potenzialmente devastanti. Non va infatti ignorato – come fanno i media italici, capofila degli imbecilli internazionali – che il Pakistan, paese musulmano confinante con l’Iran e già in possesso di testate nucleari, oltre che di lanciatori di buona affidabilità, si era già dichiarato disponibile ad aiutare la Repubblica Islamica.

È assodato che la credibilità di Trump e degli Usa è ridotta ormai a zero. Il tycoon-presidente aveva sciorinato per ore il ritornello secondo cui avrebbe deciso “entro due settimane” se unirsi a Israele nei suoi sforzi per distruggere i siti nucleari di Teheran. E intanto aveva dato il via all’operazione, facendo avvicinare il più possibile i bombardieri strategici agli obbiettivi.

Nelle relazioni internazionali ci si scruta tra vecchie canaglie rotte ad ogni trucco e inganno, certo, ma l’affidabilità almeno temporanea della parola e/o la chiara identificazione degli obiettivi strategici è un per-requisito. Bombardare a tradimento e allo stesso tempo parlare di “pace” è squalificante, “poco professionale”, in definitiva irresponsabile.

Uscire dal tunnel in cui gli Usa si sono infilati seguendo – o teleguidando – l’aggressività sionista sembra perciò al momento una mission impossible. In fondo anche all’interno, secondo questo sondaggio recentissimo, il consenso per l’allargamento del conflitto è decisamente “scarsino”...

Anche perché tutto il mondo ha imparato a misurare gli Stati Uniti in base ad un criterio quasi infallibile: da cinquanta anni a questa parte non hanno mai vinto una guerra né, tanto meno, raggiunto un nuovo equilibro minimamente stabile.

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21 giugno 2025 - Un corteo di massa dice basta con la Nato, il riarmo, il terrorismo di stato israeliano


Scommessa vinta quella del corteo convocato dal Coordinamento “Disarmiamoli”. Migliaia e migliaia di persone, moltissimi i giovani e gli studenti oltre ai lavoratori dell’Usb e agli attivisti politici di Potere al Popolo, hanno sfilato da Piazza Vittorio a via dei Fori Imperiali su una piattaforma che non ha rinunciato ad essere chiara nei contenuti.

Una bandiera della Nato, una dell’Unione Europea, una di Israele, e poi un carro armato di legno hanno “combustionato” durante il corteo. Bruciata anche una foto di Trump.

Nella manifestazione si sono riversate tutte le istanze che hanno attraversato le piazze per più di un anno e mezzo a sostegno della resistenza del popolo palestinese ma anche i settori più avanzati del sindacalismo nel nostro paese che proprio ieri hanno trovato il coraggio di convocare uno sciopero generale non solo sui salari ma anche contro la guerra e il riarmo. Che questa sensibilità venga dall’USB e da alcuni sindacati di base ma stenti ancora a trovare riscontro dentro Cgil Cisl Uil è materia su cui molti dovrebbero ragionare.

Sul piano dei contenuti, come noto, il principale motivo di divaricazione con l’altro corteo partito da Porta San Paolo (molto incensato dai mass media in questi giorni) è stata l’uscita dalla Nato. Martedì questo apparato politico-militare aggressivo terrà all’Aja il suo vertice in un clima di crescente escalation bellicista verso la Russia ma anche verso la Cina.

Ed era proprio contro questo vertice che era stata convocata la manifestazione. Viene da sé che omettere la questione della Nato in una manifestazione contro il vertice Nato, con tutta la buona volontà, sarebbe stato indigeribile in qualsiasi piattaforma dignitosa.

Ma le dichiarazioni rilasciate da Conte in previsione del controvertice convocato all’Aja, hanno ulteriormente chiarito che la rimessa in discussione della Nato non è affatto nel periscopio politico dell’attuale leader del M5S. Una ambiguità – ma anche una conferma – che si va ad aggiungere a quella declamata dal palco della manifestazione del M5S del 5 aprile in materia di Difesa comune europea. Sulla lotta contro gli apparati materiali della guerra, c’è un serio problema a sinistra, e non è solo quello rappresentato dai contrasti dentro il PD.

La riuscita della manifestazione del Coordinamento “Disarmiamoli” da un lato segna un punto politico importante sul piano della capacità di mobilitazione di massa, dall’altro indica uno spazio politico indipendente e possibile che non rinchiuda di nuovo tutte le istanze del conflitto dentro la gabbia del bipolarismo e del campo largo del centro-sinistra. Su questo dovrà riflettere bene chi ha deciso di non essere nel corteo partito da Piazza Vittorio. È vero che nella lotta contro la guerra occorre lavorare a convergenze ampie ma occorre anche evitare di lavorare per il “re di Prussia”, consapevolmente o inconsapevolmente.

Fonte e foto del corteo

21/06/2025

La maschera di Frankenstein (1957) di Terence Fisher - Minirece

Il battito incessante dell'heartland rock

 
"Un accordo è ok. Due accordi sono al limite. Con tre stai già facendo jazz", recita una celebre citazione attribuita a Lou Reed. Ma c'è un'altra opzione: se hai tre accordi, sempre gli stessi tre, IV-I-V (quello centrale può al massimo essere sostituito ogni tanto dal relativo minore), probabilmente è heartland rock.

È plausibile che l'espressione non vi dica nulla. Non fa parte, in effetti, del lessico musicale canonico dell'appassionato italiano. Eppure il suono che identifica è oggi più vitale che mai. Rimbomba nella big music di Sam Fender e nelle hit pseudo-synthwave di Taylor Swift; nelle uscite recenti di Killers e Ryan Adams; nell'indie-rock raffinato dei War On Drugs e negli slanci corali degli Arcade Fire. In maniera assai più trasversale e pervasiva delle osannatissime reincarnazioni post-post-punk, è a tutti gli effetti uno dei simboli del rock dei nostri anni. Se gli accostamenti ancora vi disorientano, basterà forse un nome per chiarire il campo: Bruce Springsteen. Il suono passionale e incalzante dei suoi album a cavallo fra anni Settanta e anni Ottanta ha le sue radici nel New Jersey, ma evoca immagini degli Stati Uniti profondi – strade infinite, deindustrializzazione, speranze e delusioni del sogno americano – e rappresenta per molti ascoltatori europei l'anima più quintessenzialmente Usa del rock'n'roll di quell'epoca.

Eppure, c'è vita oltre Bruce Springsteen, e questa playlist è un'occasione per scoprirla. La voce del Boss è iconica (anche se qualcuno può trovarla sgraziata), le sue canzoni hanno fatto la storia e non solo quella del rock. Ma confondere la sua personalità con un'unicità sarebbe un errore madornale. Analoghe immagini di America profonda, suscitate da un sound altrettanto trascinante e grandioso, da strutture compositive simili ma più variopinte, e spesso dagli stessi identici accordi, fanno parte del repertorio di decine di artisti, precedenti e successivi. Con alcuni nomi che già dalla fine degli anni Settanta avevano assunto nel contesto un rilievo almeno paragonabile: Tom Petty, Bob Seger, John Mellencamp, Nils Lofgren.

Attorno agli anni Ottanta, il sound aveva guadagnato un proprio nome, heartland rock, che riprendeva uno dei nomignoli dell'area centro-settentrionale degli Stati Uniti – il tanto declamato Midwest. Forse per contrasto, nel tempo ha preso piede, (in misura assai minore) anche un'ulteriore etichetta: "Jersey Shore Sound", impiegata per artisti della costa nordorientale come Springsteen, Southside Johnny & The Asbury Jukes, John Cafferty & The Beaver Brown Band. Non è chiaro quando sia nata quest'ultima espressione, ma le prime attestazioni online risalgono alla fine degli anni Duemila.

Dal Midwest all’Estremo Oriente

Ovviamente, il suono e i suoi elementi costitutivi non nascevano dal nulla. Fra le molteplici influenze evidenziate dai commentatori (da Bob Dylan a Neil Young, passando per Joe Walsh), un accostamento in particolare risulta illuminante: quello con i Creedence Clearwater Revival di John Fogerty. In effetti, quell'ossessione per la reiterazione di accordi basilari, con un piglio ruspante che va dritto al rock'n'roll quasi saltando le ispirazioni della British invasion e della Summer of love, mostra una forte sintonia con quel che, già dagli anni Sessanta e parecchie miglia più a Sud, Fogerty aveva iniziato a fare con la sua band. E alla formazione californiana si deve anche uno dei tratti più efficaci dello stile heartland: il suo beat martellante e propulsivo, una sorta di motorik ante litteram che trae le sue origini dalle Highway statunitensi e dal Delta blues anziché dalle Autobahn tedesche e dagli echi della Bohème newyorkese dei Velvet Underground.

Volendo cercare una "età dell'oro" per il filone, questa cadrebbe senz'altro fra anni Settanta e Ottanta – grosso modo in parallelo con quella dell'arena rock. In quegli anni il suono contagia anche artisti e territori musicali non troppo confinanti: Billy Joel lo abbraccia con "Storm Front" (1989), ma nel decennio si registrano incursioni anche da parte di Cher, Bonnie Raitt, Kim Carnes, Melissa Etheridge. "Because The Night" di Patti Smith (scritta da Springsteen) è pienamente nel solco, e c'è chi include nel discorso pure il songwriting di Tracy Chapman, più acustico e intimo, ma spesso affine per temi. Un altro habitué è Jim Steinman, autore di brani che uniscono l'enfasi teatrale del pomp-rock al tipico passo incalzante heartland: la title track di "Bat Out Of Hell" è sostanzialmente quello, ma nella stessa vena si incontrano anche pezzi per Bonnie Tyler e la sua produzione solista.

Le corrispondenze abbondano anche fuori dagli Stati Uniti: è evidente l'assonanza con il roots-rock virtuosistico e scheletrico dei Dire Straits, ma in fin dei conti pure la big music degli U2 mostra una chiara sintonia, almeno in alcune sue fasi. In Canada il testimone passa prima ai Red Rider, poi a Bryan Adams, che riprende molto del filone del suo iconico pop-rock virato Aor. Ma il contagio supera anche i confini dell'anglosfera, con lo svedese Ulf Lundell, i finlandesi Eppu Normaali e perfino i Tempi Duri di Cristiano De André (espliciti fin dal nome nel loro richiamo alla band di Mark Knopfler). Con la seconda metà degli anni Ottanta, ecco anche lo sbarco in Giappone, con le riletture aggiornate di Shogo Hamada, Sion e Motoharu Sano. In una veste diversa, anche in Francia si ritrovano suggestioni, con le produzioni cantautorali di Alain Souchon e il suono avvolgente del suo storico collaboratore Laurent Voulzy.

Oltre il mainstream

Nel corso degli anni Novanta, l'eco del filone inizia ad affievolirsi - almeno a livello mainstream. Anche nell'ambito folk-rock statunitense, gli stilemi heartland sono via via resi demodé dall'affermarsi della sintesi di roots rock, alt-country, bluegrass che prenderà il nome di Americana.

Sul fronte alternativo, invece, il piglio energico e accorato del genere – unito alla semplicità armonica – trova nuova linfa tra le band provenienti dal circuito hardcore punk, in particolare tra quelle influenzate dal power pop e dal college punk dei Replacements. Ne nasce un ramo lasco ed eterogeneo, oggi noto agli appassionati come "heartland punk". Ruvido e diretto, si sviluppa soprattutto dagli anni Duemila con artisti come Menzingers, Hot Water Music, Against Me!, The Gaslight Anthem, Titus Andronicus e, più recentemente, Spanish Love Songs. Nello stile di queste formazioni, la ripetitività armonica di Springsteen e accoliti si intreccia al drumming martellante e alle melodie irruente tipiche dell'hardcore. L'efficacia del connubio si misura anche nel fatto che, spesso, le influenze di questi due mondi risultano quasi indistinguibili all'ascolto.

In parallelo – e con un'accelerazione a partire dal 2010 – il lessico sonoro del filone comincia a filtrare anche nell'indie rock. Una serie di artisti che avevano esordito in contesti differenti adotta gradualmente quel passo incalzante e malinconicamente trionfale, divenuto ormai un marchio di fabbrica immediatamente riconoscibile. KillersArcade Fire, Twin Shadow e lo svedese Håkan Hellström sono esempi di nomi di successo che hanno compiuto questo percorso, talvolta con tangenze allo stomp-rock più anthemico. Altri nomi, come l'iperprolifico Ryan Adams o la cult band Car Seat Headrest, si sono avvicinati a queste influenze più di recente nel loro continuo zigzagare tra i generi.

Esistono poi progetti che fin dalle origini incorporano questi elementi nel loro Dna indie rock: i festanti The Hold Steady, attivi già dai primi Duemila; i Bleachers del superproduttore Jack Antonoff, che riprendono molti tratti del Boss senza ricalcarne lo stile vocale più ruvido; i War On Drugs, che fondono l'ossatura ritmica del filone a suggestioni dream-pop e psichedeliche. E soprattutto Sam Fender, astro emergente di Newcastle, che si è imposto come volto più riconoscibile della nuova generazione grazie all'energia e alla personalità della sua rilettura.

Incroci, retromanie e futuri possibili

Proprio gli ultimi anni, con la loro centrifuga ibrida-generi, hanno fatto emergere anche commistioni più inattese. Complice il solito Jack Antonoff, le produzioni recenti di Taylor Swift e di Bartees Strange (uno dei nomi hype sulla frontiera fra indie e hip-hop) hanno condotto più di un'incursione in territori heartland. I pezzi della Swift, in particolare, hanno fatto leva su un connubio tanto sorprendente quanto azzeccato, quello con la synthwave di matrice ottantiana. Il sound nato per raccontare le periferie della Rust Belt si innesta perfettamente sui groove sintetici e sull'immaginario retrofuturista dell'estetica outrun. Ne risulta un synth-rock evocativo e ipernostalgico, subito ribattezzato "heartland synth" dai fan più smaniosi di classificazioni. Una fusione che, in terreni più lontani dal mainstream, sta venendo esplorata con passione anche da artisti come The Midnight e The Motion Epic.

C’è qualcosa, in quel battito regolare su tre accordi, che continua a generare visioni. Che si tratti di chitarre ruggenti, ballate da autostrada o synth malinconici filtrati al neon, il cuore dell’heartland rock non ha mai smesso davvero di battere e mantenersi in moto. Questa playlist lo segue fin dove si è spostato – e magari anche un po’ più in là – grazie alla sua struttura semplice, l’energia tenace e un immaginario mai inattuale fatto di strade dritte e sogni complicati.

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Colloqui tra UE+UK e Iran al palo, Teheran rimane aperta al dialogo

L’incontro svoltosi ieri a Ginevra tra i ministri degli Esteri di Germania, Francia e Regno Unito, accompagnati da Kaja Kallas in quanto Alta rappresentante per gli affari esteri della UE, con l’omologo iraniano Abbas Araghchi si è concluso con un nulla di fatto. Nonostante la rigidità europea, Teheran ha affermato di essere aperta alla continuazione del dialogo.

Sul fatto che il vertice svizzero non potesse portare molti risultati non c’erano dubbi, dato che i paesi europei hanno deciso di fare propria la posizione che è stata prima di Israele, e poi dell’amministrazione Trump, che ha cambiato idea nel mezzo dei negoziati con gli iraniani: la Repubblica islamica non deve avere alcun programma nucleare, neanche civile.

Una linea rossa su cui i suoi vertici non sono ovviamente disponibili a mediare. C’erano già state avvisaglie del fatto che gli europei non avessero nulla da offrire al tavolo di Ginevra. Basti pensare alla decisione contemporanea del Regno Unito di ritirare il proprio personale dall’ambasciata di Teheran, come a dire che la situazione è vicina a un’escalation ulteriore.

Del resto, poco prima dell’inizio dei colloqui, Araghchi lo aveva messo bene in chiaro: “se cercano il dialogo, non i negoziati, che al momento non hanno senso, non abbiamo alcun problema”. Un tale livello diplomatico si può raggiungere solo con la fine degli attacchi sionisti, e con la condanna alle azioni di Tel Aviv.

Inoltre, il ministro iraniano ci ha tenuto a puntualizzare che il dialogo si mantiene solo sul nucleare e sui conflitti regionali, non sulla dotazione di missili del paese. Infatti, poco prima dell’incontro Macron aveva parlato di una proposta complessiva da parte europea, con la quale si sarebbe richiesto anche di limitare l’attività missilistica. Oltre al danno anche alla beffa.

Viene da chiedersi dunque quale volesse essere il senso del vertice. Se Trump ha detto che è “difficile chiedere a Israele di fermarsi mentre vince”, da questa parte dell’Atlantico i politici europei hanno detto che non è nelle loro possibilità né di imporre a Tel Aviv la fine delle operazioni belliche, né di impedire l’intervento stelle-e-strisce.

Il presidente statunitense è stato molto duro, sia all’interno sia all’esterno: ha detto che le affermazioni della propria intelligence per cui non ci sono prove che la Repubblica islamica sia vicino alla creazione di un ordigno nucleare sono sbagliate, mentre per ciò che riguarda l’incontro di Ginevra ha detto che “è difficile che gli europei siano d’aiuto”.

Allo stesso tempo, però, ha parlato di due settimane per decidere se attaccare l’Iran, mentre Reuters, citando fonti diplomatiche, afferma che l’inviato speciale per il Medio Oriente della Casa Bianca, Steve Witkoff, e il ministro Araghchi si sono parlati più volte nell’ultima settimana. Anche il dialogo aperto da Bruxelles e da Londra era stato indicato come coordinato con Washington.

Trump sta cercando di non doversi impegnare in un complesso conflitto regionale con importanti echi globali, che potrebbe essere di non facile e veloce risoluzione. Da parte loro, i vertici europei vogliono cogliere l’occasione per assumere un ruolo determinante nello scenario diplomatico internazionale, ergendosi così ad attori credibili e autonomi nella competizione globale.

L’Iran, invece, non ha mai negato il confronto e l’accordo, come dimostrano i cinque round di trattative sul proprio nucleare col governo USA, prima dell’inizio dei raid israeliani. L’unico attore che conosce solo il linguaggio delle bombe è il regime sionista, che è anche la causa prima di questa crisi. Solo lo stop a Tel Aviv potrebbe portare a una soluzione diplomatica dell’escalation.

Per farlo, sarebbe necessario che, mentre il dialogo tra Teheran e l’Occidente collettivo continua, in tutte le sue forme, quest’ultimo si decida finalmente a condannare le azioni da ‘cane pazzo’ di Israele, e anche a tagliare accordi e imporre sanzioni. Il fatto che il G7 abbia appena ribadito il diritto di Israele a difendersi non lascia molti spiragli in questo senso.

Anche le velleità europee di ergersi a grande attore autonomo di pace fanno i conti con la potenza degli interessi materiali in ballo. Alcune fonti interne hanno già fatto sapere che, lunedì prossimo, la revisione richiesta per l’accordo di associazione UE-Israele probabilmente avrà esito negativo. E parliamo solo di una revisione. Se questi sono i ‘pacifisti’...

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Le guerre di Israele sono pagate dall'Occidente

Israele è una creazione coloniale e imperialista, e come tale non potrebbe sopravvivere senza i suoi padrini occidentali. Come spesso accade con i mostri del passato (quelli delle ‘missioni civilizzatrici’ che hanno prodotto il genocidio nelle Americhe, le mani mozzate nel Congo belga, e così via), spesso questi tornano nel presente con una ferocia tale da perderne il controllo.

Israele ha fatto precipitare l’intero Medio Oriente in guerra. Anzi, lo ha fatto ormai da un paio d’anni, e la sua ispirazione suprematista non ha ormai freni, nemmeno quelli di chi – l’imperialismo occidentale – ha sostenuto il sionismo per avere un presidio armato (e nucleare) nel mezzo di una regione dalla grande importanza strategica.

Eppure, basterebbe che USA e UE tagliassero i ponti e i finanziamenti per far finire tutto ciò. Se Israele continua a fare quel che fa è perché continua a ricevere sostegno diplomatico e, soprattutto, materiale da parte di Washington e delle capitali europee. Altrimenti, come potrebbe un paese come quello sostenere questa guerra continua?

Qualcuno ha provato a fare un paio di conti, e riteniamo utile riportarli. I primi due testi sono due post di Alessandro Volpi, Professore di Storia Contemporanea presso l’Università di Pisa, mentre il terzo è un articolo di Andrea Muratore apparso su InsideOver. In poche righe, risulta evidente che la responsabilità di un Medio Oriente in fiamme è tutta nelle tasche della borghesia occidentale.

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Dove prende i soldi Israele? Tra la fine del 2023 e l’inizio del 2025, lo Stato di Israele ha emesso obbligazioni destinate a finanziare la guerra – war bonds – per quasi 20 miliardi di dollari che sono state comprate da 7 banche: Goldman Sachs ne ha acquistate per 7,2 miliardi, Bank of America per 3,5, Citigroup per 2,9, Deutsche Bank per 2,5, Bnp Paribas per 2 miliardi, Jp Morgan per 700 milioni e Barclays per 500 milioni.

In sintesi, le banche delle Big Three e una manciata di banche europee hanno “investito” sulla guerra di Israele. Ad alcune società produttrici di armi israeliane è arrivato persino 1 miliardo di euro di fondi del programma europeo Horizon e, soprattutto, attraverso la società greca Intracom Defense, interamente posseduta dalla compagnia pubblica di armamenti israeliana, la Israeli Aerospace Industries ha potuto partecipare ai finanziamenti di ben 15 progetti europei.

Se si leggono le carte, è facile capire chi consente a Netanyahu di portare la guerra ovunque.

Alessandro Volpi

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Vorrei provare a fare una riflessione razionale, basata sui numeri. Israele ha un Pil di circa 500 miliardi di dollari, appena più grande di quello della Lombardia, ha sostenuto spese per le sue operazioni militari nel solo 2024 per quasi 70 miliardi, ha una spesa militare annua che è vicina al 9% del Pil ed ha entrate fiscali per circa 200 miliardi di dollari. Il rapporto deficit/Pil ha superato l’8% e il debito pubblico è salito di oltre 15 punti in due anni.

Dunque siamo di fronte ad un’economia molto piccola, con risorse limitate, che peraltro ha bisogno delle entrate del turismo e delle esportazioni verso l’Europa. Se il governo Netanyahu può permettersi di fare continue guerre, compresa l’ultima con l’Iran, è chiaro che può farlo non certo per le risorse interne di Israele.

Infatti, il debito pubblico israeliano è, in larga parte, nelle mani delle grandi banche e dei grandi fondi americani ed europei (nel caso italiano figura la partecipazione di Bper banca, ora impegnata nella scalata della Banca popolare di Sondrio!), mentre per la tenuta del bilancio sono decisivi gli aiuti americani, che nel 2024, durante la presidenza Biden, sono stati pari a quasi 20 miliardi di dollari, e le sovvenzioni a vario titolo provenienti dall’Europa, compreso il programma Horizon.

Con questi soldi Israele non sta facendo solo guerre, ma nel “lavoro sporco” è compreso il genocidio di Gaza. Alla luce di tutto ciò, è abbastanza evidente che, date le esigue risorse “proprie” dello Stato di Israele, la responsabilità di tutto quanto sta accadendo in Medio Oriente ha molto a che fare con il “libero” Occidente. Con una aggiunta, appunto, razionale.

La guerra all’Iran può essere la fonte di una nuova, colossale ondata inflazionistica, generata dai prezzi dell’energia in grado di impoverire in modo drastico il potere d’acquisto degli europei e delle europee, mentre, rispetto agli Stati Uniti, non sembra in alcun modo in grado di risollevarne le sorti economiche, come avvenuto in passato.

Se le crisi del 1973 e del 1979, infatti, videro una vera e propria corsa dei capitali mondiali verso gli Stati Uniti, considerati paese rifugio, oggi l’attacco all’Iran da parte di Israele ha aggravato le sorti del dollaro e del debito Usa, segnando la scomparsa, di fatto, dei petrodollari. L’Occidente è complice di una strage che finirà per aggravare le condizioni di vita soprattutto delle fasce più povere dei suoi paesi.

Alessandro Volpi

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725 milioni di dollari al giorno: la guerra all’Iran è un salasso economico per Israele

di Andrea Muratore

La guerra all’Iran sta costando molto a Israele, Paese andato in all-in contro la Repubblica Islamica e che, nonostante dei risultati militari significativi contro le forze armate, gli impianti nucleari e la catena di comando di Teheran, vede la sua offensiva sottoposta a numerosi vincoli. E tra questi quello di costo è tra i meno discussi ma forse più significativi.

I maxi costi di Israele nella guerra con l’Iran

C’est l’argent qui fait la guerre, e questo vale anche per Israele. Il brigadiere generale Re’em Aminach, ex direttore finanziario della Difesa israeliana, ha stimato parlando con Ynet un costo medio direttamente imputabile alla guerra pari a 725 milioni di dollari al giorno, dichiarando che “i costi indiretti, incluso l’impatto sul prodotto interno lordo, non possono essere misurati in questa fase”.

La voce di spesa più importante, ammontante a circa un terzo del totale, è quella della difesa antiaerea a più livelli che starebbe costando 285 milioni di dollari al giorno, con ogni missile del sistema Arrow che secondo la testata finanziaria israeliana The Marker costa 3 milioni di dollari.

Non a caso il Wall Street Journal calcola in 10-12 giorni il tempo massimo entro cui Israele potrebbe durare senza il sostegno Usa ai ritmi attuali di consumo e ai costi odierni prima di esaurire il suo arsenale. E del resto, in particolar modo sul fronte degli Arrow, delle carenze sono già segnalate.

Aggiungiamo, sulla base di una nostra valutazione, i costi dell’operatività dell’aeronautica. A un costo medio orario di 42mila dollari per operare in volo per gli F-35, di 27mila per gli F-16 e di circa 24mila per gli F-15 i caccia di Tel Aviv, se anche solo ognuno dei velivoli (66 F-15, 174 F-16 e 44 F-35) operasse giornalmente per una missione andata e ritorno dall’Iran, supponendo un totale di tre ore di volo complessive al giorno, la spesa sarebbe significativa. Parleremmo di 14,2 milioni di dollari per gli F-16, 5,5 milioni per gli F-35 e 4,8 milioni per gli F-15.

Un totale di 24,5 milioni di dollari al giorno di spese legate semplicemente all’operatività in volo e alla sua abilitazione a cui, ovviamente, andrebbero aggiunti i costi legati all’armamento e a eventuali modifiche di sistema, come i serbatoi aggiuntivi. Aminach stima in 593 milioni di dollari al giorno la spesa operativa non legata a movimenti interni, pagamento di stipendi, organizzazione dei riservisti e manovre logistiche, comprensiva della spesa per l’intercettazione antiaerea.

Le finanze pubbliche di Israele sotto pressione

I costi stimati da Aminach includono tutto quanto ha a che fare con l’operatività militare ma non tutto il resto, la voce di spesa forse più incisiva sul lungo periodo: i costi per far fronte ai danni dei missili iraniani, gli impatti sul sistema sanitario del ricoverare e curare i feriti, la pressione esercitata sull’economia avanzata di Israele, ad alta intensità tecnologica e con una forza lavoro estremamente qualificata, dalla necessità di tenere mobilitata un’ampia fetta della popolazione danneggiando i ritmi ordinari della produzione e del lavoro.

L’Economic Times ha scritto che ci saranno problemi sulle finanze pubbliche perché l’indebitamento di Tel Aviv ne sarà sicuramente impattato: “il Ministero delle Finanze israeliano aveva già fissato un limite massimo di deficit del 4,9% del Pil per l’anno fiscale in corso, pari a circa 27,6 miliardi di dollari”, in un contesto in cui il rimbalzo economico di Israele era già stato ridimensionato portando la crescita prevista dal 4,6% al 3,5% del Pil. 

Dopo Gaza l’Iran, un’economia di guerra pressante

Tutti questi dati non contavano la guerra con l’Iran, ma si limitavano a segnalare gli importanti impatti del conflitto a Gaza, stimati in 55,6 miliardi di dollari nel periodo 2023-2025 dalla Banca d’Israele contando solo i costi diretti ed espandibili fino a 400 miliardi di dollari sommando il rallentamento dell’attività produttiva e i costi futuri che lascerà in eredità. Ebbene, solo in termini di costi diretti basterebbero due mesi e mezzo di guerra ad alta intensità con l’Iran per pareggiare il risultato.

Il biennio bellico ha spinto le spese per la Difesa di Israele a 46,5 miliardi di dollari l’anno nel 2024, pari all’8,8% di un Pil superiore ai 500 miliardi. Tale dato è secondo solo a quello dell’Ucraina in guerra con la Federazione Russa e superiore anche a quello di Mosca (7,1%).

E Tel Aviv non ha messo in atto adeguate misure per difendere la finanza pubblica, la moneta nazionale, lo shekel, e sul lungo periodo i suoi fondamentali da un’economia di guerra in pieno sdoganamento e che rischia di lasciare cicatrici profonde. Il Ministro delle Finanze, Bezalel Smotrich, preferisce occuparsi di colonie in Cisgiordania e altri argomenti legati al nazionalismo più spinto. Ma sul lungo periodo deve guardare a finanze pubbliche che rischiano di scricchiolare sotto il peso dell’ambizione del governo di Benjamin Netanyahu.

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