Un vecchio adagio del mondo del poker recita che sul tavolo verde “non puoi perdere quello che non hai”. Adattando questa massima all’ambiente della finanza, si potrebbe dire che “non puoi investire quello che non hai”, a meno che non si stia deliberatamente tentando un bluff.
A un anno e mezzo dal varo del Piano Mattei, lanciato dal governo Meloni nel novembre del 2023 con il ‘patrocinio’ dell’Unione Europea, che questo sia un bluff appare sempre più evidente.
Lo scorso 30 giugno il Parlamento ha approvato la seconda Relazione sullo stato di attuazione del Piano Mattei per l’Africa. Il documento, consultabile qui, descrive l’avanzamento dei progetti fino al giugno 2025 e gli stanziamenti disponibili al raggiungimento degli scopi prefissati.
Andando oltre la lista della spesa degli interventi presente in ogni comunicazione pubblica sulla magnificenza del ‘rientro italiano in Africa’ – rientro peraltro intriso dell’odioso spirito coloniale ed eurocentrico – andiamo ad analizzare il peso specifico che è in grado di mettere in piedi il governo italiano, senza quindi per ora preoccuparci della natura imperialista o cooperativa della spesa stessa.
Nell’ordine, il rapporto afferma che:
- l’Italia ha aumentato il proprio contributo al rifinanziamento triennale dell’International Development Association, gruppo Banca Mondiale (BM), con 733 milioni di euro al fine di permettere alla BM stessa di rafforzare il proprio sostegno ai progetti realizzati nel quadro del Piano Mattei;
- il canale finanziario multilaterale (“Mattei Plan-Rome Process Financial Facility”) negoziato con la Banca Africana di Sviluppo (BAS) è quindi oggi pienamente operativo con una dotazione di circa 140 milioni di euro provenienti dai contributi del Fondo Italiano per il Clima, dal Mase e dal Maeci;
- è operativo anche il “Plafond Africa” di Cassa Depositi e Prestiti (CDP) con risorse fino a 500 milioni di euro per il 2025, per progetti che coinvolgano aziende operative in Africa;
- sempre CDP, nel dicembre 2024, ha firmato con BAS l’accordo istitutivo di una piattaforma con dotazione iniziale di 400 milioni di euro;
- altra dotazione è il “Misura Africa” di SIMEST (gruppo SACE), con circa 50 milioni di euro, dei 200 in dotazione, già impegnati in favore di 90 progetti delle PMI italiane in Africa;
- restando in famiglia, in un anno e mezzo SACE ha emesso garanzie per 2 miliardi di euro di investimenti che hanno coinvolto circa 200 imprese italiane in una gamma diversificata di settori.
I calcoli sono presto fatti: aumento del capitale a disposizione della Banca Mondiale, di cui 566 milioni da dedicare all’Africa, e da spalmare in tre anni; 1.240 milioni di euro, neanche un miliardo ‘e un quarto’, gestiti in modo più o meno diretto dalle emanazioni finanziare dello Stato coinvolte nel Piano; 2 miliardi di garanzie concesse alle imprese italiane che stanno investendo nel continente.
Tutto questo ‘ben di dio’ per un continente da 1,5 miliardi di persone, 54 Stati e gli occhi di tutto il mondo puntati addosso.
Per capire la pochezza offerta dal nostro Paese allo ‘sviluppo’ africano, basti pensare che il 30 maggio il mauritano Sidi Ould Tah è stato eletto presidente della già citata Banca Africana di Sviluppo. La BAS, nel 2024, ha erogato 10,6 miliardi di euro in nuovi progetti e ha un capitale stimato in poco più di 300 miliardi di dollari.
Dopo aver guidato per un decennio la Banca Araba per lo Sviluppo Economico in Africa, Tah baserà il suo mandato sul superamento della dipendenza africana dai finanziamenti occidentali tradizionali, provando a mettere a frutto l’esperienza maturata da uomo-ponte tra l’Africa e le petromonarchie del Golfo.
Se si considera che i fondi sovrani del Golfo sono accreditati di circa 4 mila miliardi di dollari, si capisce bene – al di là delle foto di rito e della cortesia di rispondere quando chiamati in causa – quale interesse reale il Piano Mattei possa suscitare nei paesi africani.
Pochi soldi, intenti neocoloniali e nessuna credibilità politica da spendere nel continente, dopo secoli di sfruttamento e depredazione.
Nella crisi di egemonia che investe il mondo occidentale, neanche la storica sede del Ministero degli esteri ubicata negli uffici dell’Eni potrà sopperire alla voglia di rivalsa di quel Sud Globale che guarda con sempre maggior interesse verso Est.
Ps: la sola messa in piedi della macchina tecnico-operativa nei Ministeri italiani coinvolti pesa sulle casse dello Stato per 2,8 milioni di euro. Non sarebbe stato meglio indirizzarli sui capitoli di bilancio della sanità o dell’istruzione?
Fonte
12/07/2025
Dual use: porti per la guerra?
Il sub commissario De Simone, ha finalmente ammesso che la nuova diga foranea di Genova, quando sarà pronta (con questi ritmi sembra ci vorranno almeno 10 anni) sarà dual use.
Cioè avrà un doppio scopo, da un lato quello dei traffici mercantili, dall’altro servirà per favorire gli attracchi militari, i traffici di armi, gli spostamenti di truppe in collegamento con la NATO. Per De Simone, per il governo e per i politici locali, immaginiamo che sarà una buona idea: si possono usare i fondi per il riarmo europeo, progetto che l’Italia e il Governo Meloni hanno accolto con giubilo.
A Genova i portuali di USB e del CALP, le navi che trasportano mezzi e armi militari, normalmente le bloccano. In più, nei mesi scorsi hanno anche lavorato per una rete di lavoratori dei porti in Europa e in altre parti del mondo che si coordinano tra loro per bloccarle. Si tratta di una lotta contro la guerra che parte dal basso e che ha grande sostegno popolare ma qualche problemino ai trafficanti di morte, ai governi che compiono genocidi come quello sionista, alla NATO, all’Unione Europea e al nostro governo, effettivamente lo crea.
Oggi ci ritroviamo una infrastruttura che servirà anche per quello.
Farà il paio con la prevista iniziativa governativa che vuole inserire il commercio di armi tra i beni essenziali, esattamente come il pane, il latte, le medicine, i servizi ospedalieri. Il tutto è ovviamente ridicolo e serve solo per proibire gli scioperi, per spingere verso la guerra.
Ovviamente come Potere al Popolo siamo sempre stati al fianco dei lavoratori portuali che bloccano l’invio delle armi. Lo siamo stati dall’inizio e lo saremo sempre. Aspettiamo ovviamente anche l’intervento di chi, apparentemente e a parole, si schiera contro il riarmo europeo, vedremo se alle parole seguiranno i fatti. Il porto di Genova come hub militare della NATO per la guerra non può passare senza nemmeno una presa di posizione, se non altro per le ricadute sulla sicurezza in città.
Ovviamente, una presa di posizione concreta contro la guerra da parte della nuova giunta comunale è auspicabile.
Da parte nostra, in ogni caso, non ci faremo certo intimidire e continueremo a lottare contro i traffici di morte, contro le guerre di un occidente sempre più aggressivo e complice di massacri in giro per il mondo.
Per la pace, contro il riarmo europeo.
Non un passo indietro!
Fonte
Cioè avrà un doppio scopo, da un lato quello dei traffici mercantili, dall’altro servirà per favorire gli attracchi militari, i traffici di armi, gli spostamenti di truppe in collegamento con la NATO. Per De Simone, per il governo e per i politici locali, immaginiamo che sarà una buona idea: si possono usare i fondi per il riarmo europeo, progetto che l’Italia e il Governo Meloni hanno accolto con giubilo.
A Genova i portuali di USB e del CALP, le navi che trasportano mezzi e armi militari, normalmente le bloccano. In più, nei mesi scorsi hanno anche lavorato per una rete di lavoratori dei porti in Europa e in altre parti del mondo che si coordinano tra loro per bloccarle. Si tratta di una lotta contro la guerra che parte dal basso e che ha grande sostegno popolare ma qualche problemino ai trafficanti di morte, ai governi che compiono genocidi come quello sionista, alla NATO, all’Unione Europea e al nostro governo, effettivamente lo crea.
Oggi ci ritroviamo una infrastruttura che servirà anche per quello.
Farà il paio con la prevista iniziativa governativa che vuole inserire il commercio di armi tra i beni essenziali, esattamente come il pane, il latte, le medicine, i servizi ospedalieri. Il tutto è ovviamente ridicolo e serve solo per proibire gli scioperi, per spingere verso la guerra.
Ovviamente come Potere al Popolo siamo sempre stati al fianco dei lavoratori portuali che bloccano l’invio delle armi. Lo siamo stati dall’inizio e lo saremo sempre. Aspettiamo ovviamente anche l’intervento di chi, apparentemente e a parole, si schiera contro il riarmo europeo, vedremo se alle parole seguiranno i fatti. Il porto di Genova come hub militare della NATO per la guerra non può passare senza nemmeno una presa di posizione, se non altro per le ricadute sulla sicurezza in città.
Ovviamente, una presa di posizione concreta contro la guerra da parte della nuova giunta comunale è auspicabile.
Da parte nostra, in ogni caso, non ci faremo certo intimidire e continueremo a lottare contro i traffici di morte, contro le guerre di un occidente sempre più aggressivo e complice di massacri in giro per il mondo.
Per la pace, contro il riarmo europeo.
Non un passo indietro!
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11/07/2025
Verso la notte nucleare, “volenterosamente”
Un deciso passo avanti verso la guerra mondiale, ma blaterando di “pace”. Il vertice tra Emmanuel Macron e Keir Starmer ha partorito il mostro che era in incubazione da molti mesi, ma che non usciva allo scoperto perché senza la collaborazione dominante degli Stati Uniti non sembrava avere nessuna chance vitale.
L’idea di fondo è sempre la stessa, nella sua nuda follia: inviare “truppe europee” in Ucraina. E siccome finché si combatte e bombarda si fa fatica persino a pensarlo possibile, ecco che si dice apertamente: non appena ci sarà un cessate il fuoco.
Non ci vuole un novello Rommel per intuire che se pretendi un cessate il fuoco per “iniettare” truppe occidentali in sostegno/sostituzione di quelle ucraine, ormai con serissimi e dichiarati problemi di arruolamento, puoi star sicuro che quel cessate il fuoco verrà sempre rinviato alle calende greche.
Perché, infatti, la Russia dovrebbe facilitare una “soluzione” così negativa per i propri interessi? In fondo è dichiarato fin dall’inizio che l’invasione dell’Ucraina aveva come obiettivo proprio quello di evitare una sua integrazione di fatto nello schema militare della NATO...
Il diavolo sta comunque nei dettagli. Finché gli Usa tacciono, o addirittura puntano a una “pace” con Mosca, non c’è alcuna possibilità che questo invio di truppe coinvolga l’Alleanza atlantica impegnandola tutta (in base al famoso art. 5) nella guerra contro la Russia nel caso di scontro diretto con le truppe di uno o più paesi NATO.
Ma Londra e Parigi hanno deciso di portarsi avanti con il lavoro, puntando su qualche evento per ora imprevedibile che possa creare il “casus” adatto a smuovere Trump e il suo clan.
Il piano esposto è abbastanza dettagliato da apparire “serio”, anche se non credibile. Dimostra insomma la “determinazione” acefala degli anglo-francesi, pur nella manifesta impossibilità di raggiungere autonomamente un qualsiasi risultato positivo.
Prevede infatti che il quartier generale della Coalizione sarà stabilito a Parigi, ma ruoterà ogni 12 mesi con Londra. Una seconda base sarà attivata direttamente a Kiev, sotto guida britannica.
Tre i pilastri su cui regge. La “rigenerazione” dell’esercito di Kiev, con l’invio di addestratori, consulenti militari, armamenti e supporto logistico. Manca notoriamente la “materia prima”, ovvero fasce di popolazione arruolabile ex novo, ma il particolare non sembra preoccupare granché i “pianisti” anglofrancesi...
Il secondo riguarda il controllo dello spazio aereo, che si vorrebbe assicurare mandando i caccia dei “paesi volenterosi” negli stati confinanti (Polonia e Romania, non certo in Ungheria e Slovacchia, decisamente contrarie).
Infine il controllo navale del Mar Nero, dove Turchia, Romania e Bulgaria dovrebbero attivarsi per sminare le acque e assicurare il transito delle navi commerciali.
Come si vede, basta un piccolo “incidente” in uno qualsiasi dei tre ambiti per creare lo scontro diretto tra forze di paesi NATO e Russia.
Peggio ancora. Parigi e Londra hanno deciso di integrare i propri arsenali nucleari riclassificandoli come “deterrenza comune” nei confronti di Mosca. Per quanto ridicolmente inferiori – per quantità e qualità – agitare comunque la minaccia di testate atomiche nei confronti della Russia non sembra il modo migliore di avvicinare la “pace”. Semmai l’opposto…
Non è la prima volta che una guerra viene preparata a colpi di forzature, gesti unilaterali, sottovalutazione del nemico, sopravvalutazione delle proprie forze, ecc. Mai, però, i soggetti promotori dell'“escalation” sono apparsi così irrazionali e oltre i limiti del ridicolo.
Se è da questo che bisogna misurare la gravità della crisi del capitalismo occidentale, stanno/stiamo messi veramente male...
“E nel caso in cui non ci vediamo, buon pomeriggio, buona sera e buona notte!”
Fonte
L’idea di fondo è sempre la stessa, nella sua nuda follia: inviare “truppe europee” in Ucraina. E siccome finché si combatte e bombarda si fa fatica persino a pensarlo possibile, ecco che si dice apertamente: non appena ci sarà un cessate il fuoco.
Non ci vuole un novello Rommel per intuire che se pretendi un cessate il fuoco per “iniettare” truppe occidentali in sostegno/sostituzione di quelle ucraine, ormai con serissimi e dichiarati problemi di arruolamento, puoi star sicuro che quel cessate il fuoco verrà sempre rinviato alle calende greche.
Perché, infatti, la Russia dovrebbe facilitare una “soluzione” così negativa per i propri interessi? In fondo è dichiarato fin dall’inizio che l’invasione dell’Ucraina aveva come obiettivo proprio quello di evitare una sua integrazione di fatto nello schema militare della NATO...
Il diavolo sta comunque nei dettagli. Finché gli Usa tacciono, o addirittura puntano a una “pace” con Mosca, non c’è alcuna possibilità che questo invio di truppe coinvolga l’Alleanza atlantica impegnandola tutta (in base al famoso art. 5) nella guerra contro la Russia nel caso di scontro diretto con le truppe di uno o più paesi NATO.
Ma Londra e Parigi hanno deciso di portarsi avanti con il lavoro, puntando su qualche evento per ora imprevedibile che possa creare il “casus” adatto a smuovere Trump e il suo clan.
Il piano esposto è abbastanza dettagliato da apparire “serio”, anche se non credibile. Dimostra insomma la “determinazione” acefala degli anglo-francesi, pur nella manifesta impossibilità di raggiungere autonomamente un qualsiasi risultato positivo.
Prevede infatti che il quartier generale della Coalizione sarà stabilito a Parigi, ma ruoterà ogni 12 mesi con Londra. Una seconda base sarà attivata direttamente a Kiev, sotto guida britannica.
Tre i pilastri su cui regge. La “rigenerazione” dell’esercito di Kiev, con l’invio di addestratori, consulenti militari, armamenti e supporto logistico. Manca notoriamente la “materia prima”, ovvero fasce di popolazione arruolabile ex novo, ma il particolare non sembra preoccupare granché i “pianisti” anglofrancesi...
Il secondo riguarda il controllo dello spazio aereo, che si vorrebbe assicurare mandando i caccia dei “paesi volenterosi” negli stati confinanti (Polonia e Romania, non certo in Ungheria e Slovacchia, decisamente contrarie).
Infine il controllo navale del Mar Nero, dove Turchia, Romania e Bulgaria dovrebbero attivarsi per sminare le acque e assicurare il transito delle navi commerciali.
Come si vede, basta un piccolo “incidente” in uno qualsiasi dei tre ambiti per creare lo scontro diretto tra forze di paesi NATO e Russia.
Peggio ancora. Parigi e Londra hanno deciso di integrare i propri arsenali nucleari riclassificandoli come “deterrenza comune” nei confronti di Mosca. Per quanto ridicolmente inferiori – per quantità e qualità – agitare comunque la minaccia di testate atomiche nei confronti della Russia non sembra il modo migliore di avvicinare la “pace”. Semmai l’opposto…
Non è la prima volta che una guerra viene preparata a colpi di forzature, gesti unilaterali, sottovalutazione del nemico, sopravvalutazione delle proprie forze, ecc. Mai, però, i soggetti promotori dell'“escalation” sono apparsi così irrazionali e oltre i limiti del ridicolo.
Se è da questo che bisogna misurare la gravità della crisi del capitalismo occidentale, stanno/stiamo messi veramente male...
“E nel caso in cui non ci vediamo, buon pomeriggio, buona sera e buona notte!”
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L’aeroporto di Comiso riconvertito a scalo militare?
di Antonio Mazzeo
Mercoledì 9 luglio sono stati monitorati alcuni atterraggi di velivoli militari nell’aeroporto “civile” di Comiso (Ragusa), intitolato a Pio La Torre, il segretario del PCI siciliano assassinato per il suo impegno contro la mafia, la militarizzazione dell’Isola e l’installazione dei missili nucleari Cruise proprio a Comiso.
Mentre ormai lo scalo civile sembra essere destinato alla chiusura si fanno sempre più forti le pressioni per una sua conversione a fini bellici.
La scorsa settimana il ministro della difesa Guido Crosetto ha annunciato che la Sicilia sarà trasformata in piattaforma addestrativa per i top gun USA e NATO che utilizzano i cacciabombardieri di quinta generazione F-35 (a capacità nucleare).
In tanti hanno pensato che sarà la stazione aeronavale di Sigonella a fare da hub addestrativo per l’US Air Force; personalmente ritengo invece che le autorità militari per tutta una serie di ragioni (anche logistico-operative) opteranno per un’altra destinazione.
L’aeroporto di Comiso è un'“ottima opzione”, ma non scarterei anche la possibilità che vengano utilizzati pure gli aeroporti militari di Trapani-Birgi (già base NATO per le operazioni degli aerei radar AWACS) e Pantelleria (in questo scalo in più esercitazioni sono atterrati i velivoli F-35 in dotazione all’Aeronautica Militare italiana).
La lotta contro la militarizzazione della Sicilia – a partire dall’opposizione alla riconversione a fini militari di Comiso – deve diventare l’obiettivo prioritario di ogni soggetto sociale e politico che intenda richiamarsi all’Utopia di Pio La Torre di una Sicilia Ponte di Pace e Cooperazione tra i popoli del Mediterraneo.
Fonte
Mercoledì 9 luglio sono stati monitorati alcuni atterraggi di velivoli militari nell’aeroporto “civile” di Comiso (Ragusa), intitolato a Pio La Torre, il segretario del PCI siciliano assassinato per il suo impegno contro la mafia, la militarizzazione dell’Isola e l’installazione dei missili nucleari Cruise proprio a Comiso.
Mentre ormai lo scalo civile sembra essere destinato alla chiusura si fanno sempre più forti le pressioni per una sua conversione a fini bellici.
La scorsa settimana il ministro della difesa Guido Crosetto ha annunciato che la Sicilia sarà trasformata in piattaforma addestrativa per i top gun USA e NATO che utilizzano i cacciabombardieri di quinta generazione F-35 (a capacità nucleare).
In tanti hanno pensato che sarà la stazione aeronavale di Sigonella a fare da hub addestrativo per l’US Air Force; personalmente ritengo invece che le autorità militari per tutta una serie di ragioni (anche logistico-operative) opteranno per un’altra destinazione.
L’aeroporto di Comiso è un'“ottima opzione”, ma non scarterei anche la possibilità che vengano utilizzati pure gli aeroporti militari di Trapani-Birgi (già base NATO per le operazioni degli aerei radar AWACS) e Pantelleria (in questo scalo in più esercitazioni sono atterrati i velivoli F-35 in dotazione all’Aeronautica Militare italiana).
La lotta contro la militarizzazione della Sicilia – a partire dall’opposizione alla riconversione a fini militari di Comiso – deve diventare l’obiettivo prioritario di ogni soggetto sociale e politico che intenda richiamarsi all’Utopia di Pio La Torre di una Sicilia Ponte di Pace e Cooperazione tra i popoli del Mediterraneo.
Fonte
A Bruxelles prove di “humanitarian washing” mentre a Gaza si consuma il genocidio
Ieri a Gaza, decine di bambini sono stati uccisi dai bombardamenti israeliani mentre erano in fila per il latte, a Deir al Balah, mentre l’ennesimo carico di bombe è stato sganciato su una tendopoli di sfollati causando tra i 25 e i 30 morti.
Sono le cifre del bollettino quotidiano delle vittime del genocidio in atto a Gaza che Israele sta perseguendo sistematicamente senza mai concedere un giorno di pausa ad una popolazione stremata da bombe, fame, mancanza di cure mediche e pure dell’acqua potabile.
Nelle stesse ore, l’“alta rappresentante per gli affari esteri e la politica di sicurezza e vicepresidente della Commissione europea”, Kaja Kallas, annunciava di aver raggiunto un “accordo con Israele per nuovi aiuti a Gaza” aggiungendo “contiamo sul fatto che Israele attui tutte le misure”.
Dunque, a fronte di un genocidio che va avanti da 20 mesi, l’Unione Europea non prende nessuna posizione di condanna né, tanto meno, decide di adottare alcuna sanzione nei confronti di Israele. Si “accontenta” (si fa per dire) piuttosto di inscenare una mera operazione di marketing umanitario per cercare di mascherare, in qualche modo, la sostanziale complicità nell’attività di sterminio e pulizia etnica che Israele sta praticando sistematicamente dall’indomani del 7 ottobre 2023.
E, in tal senso, restano ben saldi i vari accordi di associazione tra UE e Israele che coprono vari settori, inclusa la cooperazione in ambito militare. E, men che meno, mentre si consumano inauditi massacri di civili inermi a ritmo di uno ogni due ore, vengono minimamente messi in discussione tutti gli accordi bilaterali di cooperazione militare con Israele degli Stati membri della UE, Italia inclusa.
E non è bastata alla vecchia Europa la recentissima pubblicazione di un rapporto di Harvard Dataverse [1] che ha rivelato come l’entità delle vittime del genocidio in corso a Gaza potrebbe essere di più di 377.000 dispersi, per metà bambini.
Il rapporto ha individuato circa 1 milione di persone ancora presenti a Gaza City, 500.000 nella cosiddetta “zona sicura” di al-Mawasi e 350.000 nella zona centrale della Striscia. Prima dell’invasione israeliana la popolazione di Gaza contava 2,2 milioni di abitanti. Dunque, ora mancherebbero all’appello più di 370.000 persone che non sono state localizzate e che, quasi sicuramente, sono ancora sepolte sotto le macerie causate dalla spaventosa, inaudita, quantità di bombe che Israele ha riversato sulla popolazione della Striscia a partire dal 7 ottobre 2023.
Peraltro, nello stesso rapporto, il professore israeliano Yaakov Garb ha smascherato la reale missione della famigerata Gaza Humanitarian Foundation. Secondo Garb, i cosiddetti centri di distribuzione della Gaza Humanitarian Foundation (GHF) sono meri strumenti di controllo militare e nulla hanno a che vedere con il soccorso umanitario.
Inoltre, Garb ha analizzato la posizione e la struttura dei centri GHF rilevando che si tratta di vere e proprie fortificazioni militari contigue ad installazioni militari israeliane ed accessibili soltanto per mezzo di corridoi militarizzati e zone cuscinetto soggette a fuoco diretto che Garb definisce “imbuti fatali”, ovvero, vere e proprie trappole mortali ove vengono fatti affluire le decine di migliaia di disperati in cerca di cibo e sui quali i militari israeliani praticano il tiro al bersaglio avendo già provocato, in tal modo, fino ad oggi, almeno 800 morti. Secondo il rapporto Harward il GFH è un progetto che ha trasformato l’aiuto umanitario in un vero e proprio strumento di guerra.
Note
[1] Harvard Dataverse è un repository online, open source, per la condivisione, la conservazione, la citazione, l’esplorazione e l’analisi di dati di ricerca. È gestito dal Dataverse Team dell’Institute for Quantitative Social Science (IQSS) dell’Università di Harvard.
Fonte
Sono le cifre del bollettino quotidiano delle vittime del genocidio in atto a Gaza che Israele sta perseguendo sistematicamente senza mai concedere un giorno di pausa ad una popolazione stremata da bombe, fame, mancanza di cure mediche e pure dell’acqua potabile.
Nelle stesse ore, l’“alta rappresentante per gli affari esteri e la politica di sicurezza e vicepresidente della Commissione europea”, Kaja Kallas, annunciava di aver raggiunto un “accordo con Israele per nuovi aiuti a Gaza” aggiungendo “contiamo sul fatto che Israele attui tutte le misure”.
Dunque, a fronte di un genocidio che va avanti da 20 mesi, l’Unione Europea non prende nessuna posizione di condanna né, tanto meno, decide di adottare alcuna sanzione nei confronti di Israele. Si “accontenta” (si fa per dire) piuttosto di inscenare una mera operazione di marketing umanitario per cercare di mascherare, in qualche modo, la sostanziale complicità nell’attività di sterminio e pulizia etnica che Israele sta praticando sistematicamente dall’indomani del 7 ottobre 2023.
E, in tal senso, restano ben saldi i vari accordi di associazione tra UE e Israele che coprono vari settori, inclusa la cooperazione in ambito militare. E, men che meno, mentre si consumano inauditi massacri di civili inermi a ritmo di uno ogni due ore, vengono minimamente messi in discussione tutti gli accordi bilaterali di cooperazione militare con Israele degli Stati membri della UE, Italia inclusa.
E non è bastata alla vecchia Europa la recentissima pubblicazione di un rapporto di Harvard Dataverse [1] che ha rivelato come l’entità delle vittime del genocidio in corso a Gaza potrebbe essere di più di 377.000 dispersi, per metà bambini.
Il rapporto ha individuato circa 1 milione di persone ancora presenti a Gaza City, 500.000 nella cosiddetta “zona sicura” di al-Mawasi e 350.000 nella zona centrale della Striscia. Prima dell’invasione israeliana la popolazione di Gaza contava 2,2 milioni di abitanti. Dunque, ora mancherebbero all’appello più di 370.000 persone che non sono state localizzate e che, quasi sicuramente, sono ancora sepolte sotto le macerie causate dalla spaventosa, inaudita, quantità di bombe che Israele ha riversato sulla popolazione della Striscia a partire dal 7 ottobre 2023.
Peraltro, nello stesso rapporto, il professore israeliano Yaakov Garb ha smascherato la reale missione della famigerata Gaza Humanitarian Foundation. Secondo Garb, i cosiddetti centri di distribuzione della Gaza Humanitarian Foundation (GHF) sono meri strumenti di controllo militare e nulla hanno a che vedere con il soccorso umanitario.
Inoltre, Garb ha analizzato la posizione e la struttura dei centri GHF rilevando che si tratta di vere e proprie fortificazioni militari contigue ad installazioni militari israeliane ed accessibili soltanto per mezzo di corridoi militarizzati e zone cuscinetto soggette a fuoco diretto che Garb definisce “imbuti fatali”, ovvero, vere e proprie trappole mortali ove vengono fatti affluire le decine di migliaia di disperati in cerca di cibo e sui quali i militari israeliani praticano il tiro al bersaglio avendo già provocato, in tal modo, fino ad oggi, almeno 800 morti. Secondo il rapporto Harward il GFH è un progetto che ha trasformato l’aiuto umanitario in un vero e proprio strumento di guerra.
Note
[1] Harvard Dataverse è un repository online, open source, per la condivisione, la conservazione, la citazione, l’esplorazione e l’analisi di dati di ricerca. È gestito dal Dataverse Team dell’Institute for Quantitative Social Science (IQSS) dell’Università di Harvard.
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Eccesso d’incapacità nelle relazioni tra UE e Cina
di Michelangelo Cocco
Ursula von der Leyen ce l’ha messa davvero tutta per far fallire il vertice annuale UE-Cina, che si svolgerà a fine mese a Pechino. E, alla fine, i continui attacchi della presidente della Commissione Europea hanno contribuito a far sì che quello del 24 luglio sarà un summit nato morto. Che, con ogni probabilità, non produrrà alcun risultato.
Infatti la visita ufficiale di von der Leyen e del presidente del Consiglio europeo, António Costa, è stata accorciata a un solo giorno anziché due (come da tradizione), per l’occasione non è previsto alcun comunicato finale congiunto, il presidente cinese, Xi Jinping, non dovrebbe partecipare (lasciando tutto nelle mani del premier Li Qiang), né l’incontro del 24 sarà preceduto dall’abituale dialogo di alto livello sul commercio, per la mancanza di passi avanti in materia.
Quello che si annuncia è un confronto imbarazzante, nel cinquantesimo anniversario dell’instaurazione delle relazioni diplomatiche tra Pechino e Bruxelles. Ma come si è arrivati a questo punto?
Nel quadro di relazioni bilaterali complicate, dopo l’invasione dell’Ucraina, anche dalla quasi-alleanza tra Cina e Russia, Pechino e Bruxelles avevano lavorato negli ultimi mesi a una distensione.
Poi è intervenuta l’offensiva di Donald Trump sui dazi, alla quale la leadership dell’UE, come per un riflesso pavloviano, ha risposto accettando le tariffe e cercando con gli Stati Uniti un accordo per ridurre i danni, che nuocerebbe alla Cina (alla quale i mercati Usa risulterebbero più chiusi che alla UE), che nel 2024, con l’8,3 per cento, è stata la terza destinazione dell’export dell’UE, e per la quale l’anno scorso ha rappresentato, con il 21,3 per cento, la principale fonte di importazioni.
Eccesso di capacità produttiva, restrizioni alle esportazioni dall’Ue e appoggio alla guerra della Russia sono state le accuse principali che la presidente della Commissione – soprannominata nei circoli di Bruxelles “l’americana” – ha rivolto alla Cina in un discorso durissimo pronunciato ieri davanti al parlamento di Strasburgo, durante una sessione plenaria dedicata proprio ai rapporti UE-Cina. Un attacco che segue uno analogo sferrato dalla stessa von der Leyen durante il G7 del mese scorso in Canada.
Von der Leyen ha accusato Pechino di operare al di fuori delle regole internazionali e di inondare i mercati globali «con eccesso di capacità sovvenzionata, non solo per potenziare le proprie industrie, ma anche per soffocare la concorrenza internazionale». La Cina vanta «il più grande surplus commerciale nella storia dell’umanità», ha proseguito la presidente della Commissione, «mentre le aziende europee hanno sempre più difficoltà a fare affari sul mercato cinese, dove subiscono una discriminazione sistematica».
Mentre molti dei problemi sollevati da von der Leyen sono reali (304 miliardi di euro di deficit commerciale per l’UE nel 2024, la chiusura di una serie di mercati cinesi protetti da barriere non tariffarie, tra gli altri), è chiaro che anche nell’UE si fa ricorso a sussidi statali per favorire i nuovi settori industriali, ad esempio quello dei veicoli elettrici. E che con la Cina l’UE sta ricorrendo al protezionismo.
L’ultimo caso è quello della decisione di Bruxelles di limitare gli acquisti governativi di dispositivi medici made in China, alla quale Pechino ha risposto con una misura analoga, un occhio per occhio che si aggiunge all’irrisolta questione dei dazi varati lo scorso anno dalla Commissione sui veicoli elettrici di fabbricazione cinese e alla ritorsione di Pechino sugli alcolici europei.
Quella operata dall’attuale commissione appare come una scelta eminentemente politica: nel mezzo di una guerra commerciale globale scatenata dagli Stati Uniti, si è schierata con questi ultimi mentre rifiuta un dialogo paritario con Pechino. Una scelta che pone l’UE tra due fuochi: da un lato subisce i dazi di Trump, dall’altro le inevitabili rappresaglie della Cina.
Fonte
Ursula von der Leyen ce l’ha messa davvero tutta per far fallire il vertice annuale UE-Cina, che si svolgerà a fine mese a Pechino. E, alla fine, i continui attacchi della presidente della Commissione Europea hanno contribuito a far sì che quello del 24 luglio sarà un summit nato morto. Che, con ogni probabilità, non produrrà alcun risultato.
Infatti la visita ufficiale di von der Leyen e del presidente del Consiglio europeo, António Costa, è stata accorciata a un solo giorno anziché due (come da tradizione), per l’occasione non è previsto alcun comunicato finale congiunto, il presidente cinese, Xi Jinping, non dovrebbe partecipare (lasciando tutto nelle mani del premier Li Qiang), né l’incontro del 24 sarà preceduto dall’abituale dialogo di alto livello sul commercio, per la mancanza di passi avanti in materia.
Quello che si annuncia è un confronto imbarazzante, nel cinquantesimo anniversario dell’instaurazione delle relazioni diplomatiche tra Pechino e Bruxelles. Ma come si è arrivati a questo punto?
Nel quadro di relazioni bilaterali complicate, dopo l’invasione dell’Ucraina, anche dalla quasi-alleanza tra Cina e Russia, Pechino e Bruxelles avevano lavorato negli ultimi mesi a una distensione.
Poi è intervenuta l’offensiva di Donald Trump sui dazi, alla quale la leadership dell’UE, come per un riflesso pavloviano, ha risposto accettando le tariffe e cercando con gli Stati Uniti un accordo per ridurre i danni, che nuocerebbe alla Cina (alla quale i mercati Usa risulterebbero più chiusi che alla UE), che nel 2024, con l’8,3 per cento, è stata la terza destinazione dell’export dell’UE, e per la quale l’anno scorso ha rappresentato, con il 21,3 per cento, la principale fonte di importazioni.
Eccesso di capacità produttiva, restrizioni alle esportazioni dall’Ue e appoggio alla guerra della Russia sono state le accuse principali che la presidente della Commissione – soprannominata nei circoli di Bruxelles “l’americana” – ha rivolto alla Cina in un discorso durissimo pronunciato ieri davanti al parlamento di Strasburgo, durante una sessione plenaria dedicata proprio ai rapporti UE-Cina. Un attacco che segue uno analogo sferrato dalla stessa von der Leyen durante il G7 del mese scorso in Canada.
Von der Leyen ha accusato Pechino di operare al di fuori delle regole internazionali e di inondare i mercati globali «con eccesso di capacità sovvenzionata, non solo per potenziare le proprie industrie, ma anche per soffocare la concorrenza internazionale». La Cina vanta «il più grande surplus commerciale nella storia dell’umanità», ha proseguito la presidente della Commissione, «mentre le aziende europee hanno sempre più difficoltà a fare affari sul mercato cinese, dove subiscono una discriminazione sistematica».
Mentre molti dei problemi sollevati da von der Leyen sono reali (304 miliardi di euro di deficit commerciale per l’UE nel 2024, la chiusura di una serie di mercati cinesi protetti da barriere non tariffarie, tra gli altri), è chiaro che anche nell’UE si fa ricorso a sussidi statali per favorire i nuovi settori industriali, ad esempio quello dei veicoli elettrici. E che con la Cina l’UE sta ricorrendo al protezionismo.
L’ultimo caso è quello della decisione di Bruxelles di limitare gli acquisti governativi di dispositivi medici made in China, alla quale Pechino ha risposto con una misura analoga, un occhio per occhio che si aggiunge all’irrisolta questione dei dazi varati lo scorso anno dalla Commissione sui veicoli elettrici di fabbricazione cinese e alla ritorsione di Pechino sugli alcolici europei.
Quella operata dall’attuale commissione appare come una scelta eminentemente politica: nel mezzo di una guerra commerciale globale scatenata dagli Stati Uniti, si è schierata con questi ultimi mentre rifiuta un dialogo paritario con Pechino. Una scelta che pone l’UE tra due fuochi: da un lato subisce i dazi di Trump, dall’altro le inevitabili rappresaglie della Cina.
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Il killeraggio di Usa e Israele contro la Relatrice dell’Onu Francesca Albanese
Il governo degli Stati Uniti ha annunciato che imporrà sanzioni a Francesca Albanese, la relatrice speciale delle Nazioni Unite per i Territori Palestinesi a Ginevra. A farlo sapere è stato il segretario di stato Marco Rubio, criticando gli “illegittimi e vergognosi sforzi di Albanese per fare pressione sulla Corte Penale Internazionale affinché agisca contro funzionari, aziende e leader statunitensi e israeliani. Non tollereremo più la sua campagna di guerra politica ed economica”.
Sottoporre a sanzioni un esponente dell’Onu ha dell’assurdo e ne osteggia il lavoro per conto delle Nazioni Unite, ma ormai il genocidio a Gaza e la sua rete di complicità hanno superato tutte le linee rosse del lecito, dell’illecito e delle soglie dell’orrore.
Poco più di una settimana fa, proprio Francesca Albanese aveva reso pubblica una memorabile relazione nella quale chiamava in causa le aziende e le banche coinvolte o che traggono vantaggi dal genocidio in corso contro il popolo palestinese. Un J’accuse! che resterà nella storia e che ha fatto saltare i nervi di molti potenti.
Nel frattempo – e di concerto con quello USA – il governo israeliano ha scatenato una campagna di denigrazione contro Francesca Albanese sui motori di ricerca.
Se si cerca il nome Francesca Albanese su Google, il primo risultato sul motore di ricerca non è più Wikipedia ma è una pagina sponsorizzata da govextra.gov.il, un sottodominio del governo israeliano. Nel testo si legge: “Durante il suo mandato, Albanese ha ripetutamente violato i principi di imparzialità, universalità e integrità professionale, fondamentali per il suo mandato alle Nazioni Unite”.
Il giornale Fanpage rileva che consultando il portale Ads Transparency di Google, risulta che il dominio govextra.gov.il ha sponsorizzato la pagina contro Albanese per la prima volta il cinque luglio, poi l’ha aggiornata l’otto.
La stessa azione di pirateria era stata utilizzata dal governo israeliano contro l’Unrwa – l’agenzia dell’Onu per i rifugiati palestinesi in cui – digitando Unrwa su Google – compariva una pagina falsa gestita dal governo israeliano, ancora prima del sito ufficiale dell’agenzia dell’Onu.
Fonte
Sottoporre a sanzioni un esponente dell’Onu ha dell’assurdo e ne osteggia il lavoro per conto delle Nazioni Unite, ma ormai il genocidio a Gaza e la sua rete di complicità hanno superato tutte le linee rosse del lecito, dell’illecito e delle soglie dell’orrore.
Poco più di una settimana fa, proprio Francesca Albanese aveva reso pubblica una memorabile relazione nella quale chiamava in causa le aziende e le banche coinvolte o che traggono vantaggi dal genocidio in corso contro il popolo palestinese. Un J’accuse! che resterà nella storia e che ha fatto saltare i nervi di molti potenti.
Nel frattempo – e di concerto con quello USA – il governo israeliano ha scatenato una campagna di denigrazione contro Francesca Albanese sui motori di ricerca.
Se si cerca il nome Francesca Albanese su Google, il primo risultato sul motore di ricerca non è più Wikipedia ma è una pagina sponsorizzata da govextra.gov.il, un sottodominio del governo israeliano. Nel testo si legge: “Durante il suo mandato, Albanese ha ripetutamente violato i principi di imparzialità, universalità e integrità professionale, fondamentali per il suo mandato alle Nazioni Unite”.
Il giornale Fanpage rileva che consultando il portale Ads Transparency di Google, risulta che il dominio govextra.gov.il ha sponsorizzato la pagina contro Albanese per la prima volta il cinque luglio, poi l’ha aggiornata l’otto.
La stessa azione di pirateria era stata utilizzata dal governo israeliano contro l’Unrwa – l’agenzia dell’Onu per i rifugiati palestinesi in cui – digitando Unrwa su Google – compariva una pagina falsa gestita dal governo israeliano, ancora prima del sito ufficiale dell’agenzia dell’Onu.
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Si è aperta a Roma la Conferenza per la Ricostruzione dell’Ucraina. Ridda di cifre
La Conferenza per la Ricostruzione dell’Ucraina (URC) rappresenta ormai un appuntamento annuale dedicato al rilancio economico e infrastrutturale del Paese dopo l’attacco russo del febbraio 2022. Alla conferenza partecipano governi, organizzazioni internazionali, attori finanziari, imprese, rappresentanti della società civile e autorità locali.
Ma la URC in realtà ha una storia più lunga, perchè la Ukraine Reform Conference, venne avviata a Londra già nel 2017 con l’obiettivo di sostenere il programma di riforme interne elaborato dal governo ucraino.
A partire dal 2022, con l’attacco sul campo da parte della Russia, la conferenza ha esteso il proprio mandato per includere anche il tema della ricostruzione. I danni della guerra stimati fino ad ora sono di 176 miliardi ma i fondi richiesti e di cui si parla per ricostruire l’Ucraina arrivano alla cifra di 524/589 miliardi. Non solo ma una parte di questa cifra potrebbe accollarsela la stessa Russia.
Nel febbraio scorso la Banca mondiale ha pubblicato un rapporto annuale – il Fourth Rapid Damage and Needs Assessment – che valuta l’entità dei danni subiti dall’Ucraina e i costi necessari per provvedere alla sua ricostruzione e ripresa.
Secondo le stime riportate nel rapporto, a dicembre 2024 i danni diretti inflitti a edifici e infrastrutture ammontano a circa $176 miliardi. I settori più colpiti risultano essere quello abitativo (con danni per $57 miliardi, ovvero il 33% del totale dei danni), quello dei trasporti (circa $36 miliardi, pari al 21%) e quello dell’energia e delle attività estrattive (circa $20 miliardi, pari al 12%).
Le cifre però si gonfiano se si considerano le perdite complessive – comprendenti l’interruzione dei servizi, l’aumento dei costi operativi e la riduzione di entrate per governo e privati – e qui si registra un incremento del 18%, passando dai $499 miliardi stimati nel 2023 ai $589 miliardi nel 2024.
Alla luce di questi dati, la Banca mondiale prevede che un piano decennale di ricostruzione e ripresa, da realizzare tra il 2025 e 2035, che richiederà investimenti per almeno $524 miliardi.
Secondo la Banca mondiale, nel 2025 l’Ucraina punta a realizzare progetti d’investimento per un totale di $17,32 miliardi. Tuttavia, al momento solo 7,36 miliardi sono stati assicurati, di cui 1,7 miliardi attraverso prestiti e sovvenzioni da parte di partner e istituzioni finanziarie internazionali (IFI). Dati alla mano, il gap finanziario in termini di investimenti per il 2025 ammonta dunque a $9,96 miliardi – una carenza che rischia di rallentare in modo irreversibile i tempi previsti per la ricostruzione e ostacolare il rilancio economico del Paese.
Alla luce di questi dati, risulta essenziale un coinvolgimento ancora più ampio del settore privato, estendendo l’appello a investitori oltre i confini dell’Ucraina.
Non sorprende che i settori più colpiti dalla guerra siano anche quelli che necessitano al più presto di maggiori investimenti. Al netto delle spese statali ucraine destinate alla ripresa e alla ricostruzione dei settori analizzati, le principali carenze finanziarie si registrano infatti nel comparto energetico e d’estrazione ($3,5 miliardi), nell’edilizia ($3,4 miliardi) e in misura minore nella sfera dell’istruzione e della ricerca scientifica ($760 milioni).
Il Piano di ricostruzione si ispira al principio del “Building Back Better” e prevede l’integrazione dell’Ucraina nell’Unione europea.
Se il protrarsi del conflitto costituisce un fattore di revisione (al rialzo) dei numeri stilati dalla Banca mondiale, anche eventuali ridefinizioni dei confini potranno influenzare i costi per la ripresa e la ricostruzione.
L’Ispi rileva che sebbene “l’intero territorio ucraino abbia subito attacchi a seguito del 24 febbraio 2022, il 66% dei danni diretti ($116 miliardi) e il 47% dei costi di ripresa/ricostruzione ($248 miliardi) totali sono da ascrivere alle sole regioni caratterizzate dai maggiori scontri – quelle di Kharkiv, Donetsk, Luhansk, Zaporizhzhya e Kherson”.
Qualora Kiev decidesse di concedere le quattro regioni contese per raggiungere la fine delle ostilità, sarebbe la Russia a doversi fare carico di una quota significativa delle spese per la ricostruzione di queste aree, che da sole rappresentano circa il 36% (pari a $188 miliardi) del fabbisogno totale stimato per l’intero territorio ucraino.
Il governo ucraino ha più volte sottolineato l’impossibilità di sostenere autonomamente le spese di ripresa e ricostruzione, esortando gli alleati occidentali a incrementare gli investimenti nel Paese.
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Ma la URC in realtà ha una storia più lunga, perchè la Ukraine Reform Conference, venne avviata a Londra già nel 2017 con l’obiettivo di sostenere il programma di riforme interne elaborato dal governo ucraino.
A partire dal 2022, con l’attacco sul campo da parte della Russia, la conferenza ha esteso il proprio mandato per includere anche il tema della ricostruzione. I danni della guerra stimati fino ad ora sono di 176 miliardi ma i fondi richiesti e di cui si parla per ricostruire l’Ucraina arrivano alla cifra di 524/589 miliardi. Non solo ma una parte di questa cifra potrebbe accollarsela la stessa Russia.
Nel febbraio scorso la Banca mondiale ha pubblicato un rapporto annuale – il Fourth Rapid Damage and Needs Assessment – che valuta l’entità dei danni subiti dall’Ucraina e i costi necessari per provvedere alla sua ricostruzione e ripresa.
Secondo le stime riportate nel rapporto, a dicembre 2024 i danni diretti inflitti a edifici e infrastrutture ammontano a circa $176 miliardi. I settori più colpiti risultano essere quello abitativo (con danni per $57 miliardi, ovvero il 33% del totale dei danni), quello dei trasporti (circa $36 miliardi, pari al 21%) e quello dell’energia e delle attività estrattive (circa $20 miliardi, pari al 12%).
Le cifre però si gonfiano se si considerano le perdite complessive – comprendenti l’interruzione dei servizi, l’aumento dei costi operativi e la riduzione di entrate per governo e privati – e qui si registra un incremento del 18%, passando dai $499 miliardi stimati nel 2023 ai $589 miliardi nel 2024.
Alla luce di questi dati, la Banca mondiale prevede che un piano decennale di ricostruzione e ripresa, da realizzare tra il 2025 e 2035, che richiederà investimenti per almeno $524 miliardi.
Secondo la Banca mondiale, nel 2025 l’Ucraina punta a realizzare progetti d’investimento per un totale di $17,32 miliardi. Tuttavia, al momento solo 7,36 miliardi sono stati assicurati, di cui 1,7 miliardi attraverso prestiti e sovvenzioni da parte di partner e istituzioni finanziarie internazionali (IFI). Dati alla mano, il gap finanziario in termini di investimenti per il 2025 ammonta dunque a $9,96 miliardi – una carenza che rischia di rallentare in modo irreversibile i tempi previsti per la ricostruzione e ostacolare il rilancio economico del Paese.
Alla luce di questi dati, risulta essenziale un coinvolgimento ancora più ampio del settore privato, estendendo l’appello a investitori oltre i confini dell’Ucraina.
Non sorprende che i settori più colpiti dalla guerra siano anche quelli che necessitano al più presto di maggiori investimenti. Al netto delle spese statali ucraine destinate alla ripresa e alla ricostruzione dei settori analizzati, le principali carenze finanziarie si registrano infatti nel comparto energetico e d’estrazione ($3,5 miliardi), nell’edilizia ($3,4 miliardi) e in misura minore nella sfera dell’istruzione e della ricerca scientifica ($760 milioni).
Il Piano di ricostruzione si ispira al principio del “Building Back Better” e prevede l’integrazione dell’Ucraina nell’Unione europea.
Se il protrarsi del conflitto costituisce un fattore di revisione (al rialzo) dei numeri stilati dalla Banca mondiale, anche eventuali ridefinizioni dei confini potranno influenzare i costi per la ripresa e la ricostruzione.
L’Ispi rileva che sebbene “l’intero territorio ucraino abbia subito attacchi a seguito del 24 febbraio 2022, il 66% dei danni diretti ($116 miliardi) e il 47% dei costi di ripresa/ricostruzione ($248 miliardi) totali sono da ascrivere alle sole regioni caratterizzate dai maggiori scontri – quelle di Kharkiv, Donetsk, Luhansk, Zaporizhzhya e Kherson”.
Qualora Kiev decidesse di concedere le quattro regioni contese per raggiungere la fine delle ostilità, sarebbe la Russia a doversi fare carico di una quota significativa delle spese per la ricostruzione di queste aree, che da sole rappresentano circa il 36% (pari a $188 miliardi) del fabbisogno totale stimato per l’intero territorio ucraino.
Il governo ucraino ha più volte sottolineato l’impossibilità di sostenere autonomamente le spese di ripresa e ricostruzione, esortando gli alleati occidentali a incrementare gli investimenti nel Paese.
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I porti europei si preparano alla guerra
Quando si dice che l’Europa si sta armando, non s’intende solamente l’acquisto di armi o comunque il rafforzamento dell’apparato militare propriamente detto, ma il fenomeno comprende anche le infrastrutture di trasporto civile, che progressivamente stanno trasformandosi nell’uso duale, civile e militare, superando l’approccio tradizionale che prevede strutture separate per usi commerciali e militari. Ciò sta già avvenendo e pare in modo sistematico e coordinato, almeno in Europea settentrionale e orientale. Il motore finanziario è il programma comunitario Connecting Europe Facility, che ha destinato 1,75 miliardi di euro per progetti di mobilità militare, con l'obiettivo di raggiungere i 75 miliardi entro il 2030. In prima linea ci sono Paesi Bassi, Germania e Polonia.
In tale contesto, la Commissione Europea ha identificato oltre 500 punti critici infrastrutturali che necessitano di lavori di potenziamento per sostenere la mobilità militare. Questi includono porti, aeroporti, ponti ferroviari, tunnel e corridoi di trasporto che devono essere adattati per il passaggio rapido di equipaggiamenti militari pesanti e di grandi dimensioni. Non è un programma di oggi, perché il Piano d'Azione sulla Mobilità Militare 2.0 è datato novembre 2022 e si basa su un primo piano del 2018, ma la guerra in Ucraina ne ha accelerato l’implementazione.
Il Piano si concentra su quattro azioni principali: adeguamento delle infrastrutture, tramite il potenziamento dei corridoi Ten-T per sostenere movimenti militari su larga scala; semplificazione normativa, tramite la digitalizzazione delle procedure doganali e logistiche; resilienza dei sistemi per proteggerli contro attacchi ibridi, cyber e rischi climatici; connettività, attraverso il rafforzamento dei collegamenti tra Paesi.
Sul versante marittimo, dove il Cef stanzia 145 milioni di euro, il perno di questa rete è il porto di Rotterdam, ritenuto uno hub primario della Nato per proiettare forze militari verso il fianco orientale dell’alleanza. La sua conversione verso l’uso duale prevede la designazione di banchine dedicate alle navi militari della Nato, l’adattamento dei terminal container per il trasferimento sicuro di munizioni, il coordinamento col porto di Anversa nel caso di volumi elevati e la pianificazione di esercitazioni anfibie regolari.
In un’intervista al Financial Time, il Ceo dell’Autorità portuale di Rotterdam, Boudewijn Simons, ha confermato che si sta riservando spazio alle navi militari e che si sta coordinando con i porti vicini su come gestire l'arrivo di veicoli e carichi britannici, americani e canadesi. Egli ha aggiunto che per quattro o cinque volte l’anno le navi militari potrebbero attraccare al porto, mentre la rete logistica circostante può adattarsi allo stoccaggio di rifornimenti, come forniture mediche, materie prime critiche, attrezzature energetiche, ripari ed eventualmente cibo e acqua.
Un altro scalo strategico è il porto di Amburgo, anch’esso destinato al rifornimento del fronte orientale della Nato. Questa funzione rientra nell’investimento annunciato di 1,1 miliardi di euro per migliorare i terminal container ed espandere i piazzali. Inoltre è previsto l’ampliamento del bacino di manovra da 480 a 600 metri per accogliere navi di maggiori dimensioni. In ambito più strettamente militare, ad Amburgo si svolgono esercitazioni Red Storm Alpha, dove un centinaio di soldati sono schierati per mettere in sicurezza le infrastrutture portuali.
Più a est, in Polonia, si sta attrezzando il porto di Gdynia, che deve diventare il gateway militare del Baltico. Anche qui sono in corso investimenti per aumentare la movimentazione delle merci e l’adattamento di alcune infrastrutture a uso duale. Inoltre, lo scalo sta implementando un sistema di droni per la gestione del traffico, il controllo e il contrasto ad altri velivoli autonomi. Nel 2023, Gdynia ha già compiuto un’operazione duale importante, trasbordando equipaggiamento militare statunitense.
Accanto a questi tre pilastri ci sono altri porti del Nord Europa ritenuti strategici. Uno è il citato porto di Anversa, che serve già come hub per le operazioni militari statunitensi in Europa e sarà sempre più coordinato con Rotterdam. Nei Paesi Bassi i porti di Vlissingen ed Eemshaven hanno già ricevuto spedizioni di veicoli blindati statunitensi nell’ottobre 2024 e tornando in Polonia bisogna citare anche il porto di Swinoujscie, che è importante anche come terminale di Gnl.
Il secondo capitolo degli investimenti europei riguarda il trasporto ferroviario, cui è assegnata circa la metà dei finanziamenti Cef per la mobilità militare, circa 874 milioni. I Paesi Bassi hanno aumentato del venti percento la loro flotta di carri specializzati, acquisendo 75 unità per il trasporto di equipaggiamenti militari in container. In tale contesto si può inserire il vasto programma di potenziamento della rete ferroviaria tedesca, che è fondamentale nel trasferimento degli equipaggiamenti dai porto atlantici verso il fronte orientale.
Il resto dei finanziamenti finora previsti dal Cef è per l’uso duale delle infrastrutture è composto da 548 milioni per quelle stradali, pari al 31% del totale, 164 milioni per quelle aeree (10%) e 16 milioni per le vie navigabili interne (1%). Oggi, quindi, l’interro fondo previsto per il periodo 2021-2027 è stato allocato e mancano ancora indicazioni per il periodo successivo, che va dal 2027 al 2030.
Accanto a questo finanziamento comunitario, altri fondi arrivano dai programmi nazionali e da quelli della Nato. Quest’ultima ha stanziato circa 4,6 miliardi di euro nel suo Security Investment Programme (Nsip), dedicati soprattutto alle infrastrutture marittime. Gli investimenti principali comprendono 2,4 miliardi per facilities marittime nel 2024, inclusi 300 milioni per progetti nella baia di Souda, Grecia; 550 milioni per infrastrutture di rifornimento navale; 190 milioni per miglioramenti portuali alla Stazione Navale di Rota, in Spagna.
Anche l’Italia si sta muovendo per l’uso duale delle infrastrutture di trasporto. Rientrano in tale contesto i fondi del Piano Nazionale di Ripresa e Resilienza e del Piano Nazionale Complementare, ma bisogna citare il programma Cef Military Mobility, che prevede per l’Italia 29 milioni di euro per l'ammodernamento del collegamento ferroviario del bacino portuale di Genova Sampierdarena.
Inoltre, rete Ferroviaria Italiana ha firmato un accordo di collaborazione strategica con Leonardo per un progetto condiviso destinato alla movimentazione di risorse militari, anche con breve preavviso e su larga scala. Questo accordo prevede di sviluppare un'architettura e alcune funzionalità della piattaforma digitale integrata per il trasporto di materiale militare attraverso infrastrutture duali. Questa piattaforma integrerà soluzioni innovative basate su intelligenza artificiale, utilizzando il supercomputer Davinci-1 di Leonardo, uno dei più potenti nel settore aerospazio, difesa e sicurezza.
In tale contesto s’inserisce il recente emendamento al Decreto Infrastrutture che vuole comprendere tra le infrastrutture duali anche il ponte sullo Stretto di Messina e la nuova diga foranea di Genova, con lo scopo di ricevere finanziamenti comunitari. Infatti la loro classificazione come opera militare strategica inserirebbe i due progetti nella quota dell’1,5% del Pil che l’Unione Europea intende dedicare, all’interno dell’obiettivo del 5% del Pil per la Difesa, alle infrastrutture. Però, come ha chiarito il ministro della Difesa italiano, spetta alla Nato stabilire se un’infrastruttura è strategica.
L’estensione dell’uso duale a numerose infrastrutture europee di trasporto pone anche dei rischi. Il primo è ovviamente quello di metterle nel mirino di eventuali nemici nel caso di conflitti e considerando che i porti sono quasi tutti all’interno di grandi città, un attacco militare potrebbe coinvolgere anche la popolazione civile. Ma ci sono pure questioni immediate, che non dipendono da una guerra ma, più in generale, dalle interferenze anche in tempo di pace tra funzioni civili e militari. Per esempio interruzioni operative per esercitazioni, investimenti che non generano ritorni commerciali o competizione con porti che non hanno impegni militari.
Fonte
In tale contesto, la Commissione Europea ha identificato oltre 500 punti critici infrastrutturali che necessitano di lavori di potenziamento per sostenere la mobilità militare. Questi includono porti, aeroporti, ponti ferroviari, tunnel e corridoi di trasporto che devono essere adattati per il passaggio rapido di equipaggiamenti militari pesanti e di grandi dimensioni. Non è un programma di oggi, perché il Piano d'Azione sulla Mobilità Militare 2.0 è datato novembre 2022 e si basa su un primo piano del 2018, ma la guerra in Ucraina ne ha accelerato l’implementazione.
Il Piano si concentra su quattro azioni principali: adeguamento delle infrastrutture, tramite il potenziamento dei corridoi Ten-T per sostenere movimenti militari su larga scala; semplificazione normativa, tramite la digitalizzazione delle procedure doganali e logistiche; resilienza dei sistemi per proteggerli contro attacchi ibridi, cyber e rischi climatici; connettività, attraverso il rafforzamento dei collegamenti tra Paesi.
Sul versante marittimo, dove il Cef stanzia 145 milioni di euro, il perno di questa rete è il porto di Rotterdam, ritenuto uno hub primario della Nato per proiettare forze militari verso il fianco orientale dell’alleanza. La sua conversione verso l’uso duale prevede la designazione di banchine dedicate alle navi militari della Nato, l’adattamento dei terminal container per il trasferimento sicuro di munizioni, il coordinamento col porto di Anversa nel caso di volumi elevati e la pianificazione di esercitazioni anfibie regolari.
In un’intervista al Financial Time, il Ceo dell’Autorità portuale di Rotterdam, Boudewijn Simons, ha confermato che si sta riservando spazio alle navi militari e che si sta coordinando con i porti vicini su come gestire l'arrivo di veicoli e carichi britannici, americani e canadesi. Egli ha aggiunto che per quattro o cinque volte l’anno le navi militari potrebbero attraccare al porto, mentre la rete logistica circostante può adattarsi allo stoccaggio di rifornimenti, come forniture mediche, materie prime critiche, attrezzature energetiche, ripari ed eventualmente cibo e acqua.
Un altro scalo strategico è il porto di Amburgo, anch’esso destinato al rifornimento del fronte orientale della Nato. Questa funzione rientra nell’investimento annunciato di 1,1 miliardi di euro per migliorare i terminal container ed espandere i piazzali. Inoltre è previsto l’ampliamento del bacino di manovra da 480 a 600 metri per accogliere navi di maggiori dimensioni. In ambito più strettamente militare, ad Amburgo si svolgono esercitazioni Red Storm Alpha, dove un centinaio di soldati sono schierati per mettere in sicurezza le infrastrutture portuali.
Più a est, in Polonia, si sta attrezzando il porto di Gdynia, che deve diventare il gateway militare del Baltico. Anche qui sono in corso investimenti per aumentare la movimentazione delle merci e l’adattamento di alcune infrastrutture a uso duale. Inoltre, lo scalo sta implementando un sistema di droni per la gestione del traffico, il controllo e il contrasto ad altri velivoli autonomi. Nel 2023, Gdynia ha già compiuto un’operazione duale importante, trasbordando equipaggiamento militare statunitense.
Accanto a questi tre pilastri ci sono altri porti del Nord Europa ritenuti strategici. Uno è il citato porto di Anversa, che serve già come hub per le operazioni militari statunitensi in Europa e sarà sempre più coordinato con Rotterdam. Nei Paesi Bassi i porti di Vlissingen ed Eemshaven hanno già ricevuto spedizioni di veicoli blindati statunitensi nell’ottobre 2024 e tornando in Polonia bisogna citare anche il porto di Swinoujscie, che è importante anche come terminale di Gnl.
Il secondo capitolo degli investimenti europei riguarda il trasporto ferroviario, cui è assegnata circa la metà dei finanziamenti Cef per la mobilità militare, circa 874 milioni. I Paesi Bassi hanno aumentato del venti percento la loro flotta di carri specializzati, acquisendo 75 unità per il trasporto di equipaggiamenti militari in container. In tale contesto si può inserire il vasto programma di potenziamento della rete ferroviaria tedesca, che è fondamentale nel trasferimento degli equipaggiamenti dai porto atlantici verso il fronte orientale.
Il resto dei finanziamenti finora previsti dal Cef è per l’uso duale delle infrastrutture è composto da 548 milioni per quelle stradali, pari al 31% del totale, 164 milioni per quelle aeree (10%) e 16 milioni per le vie navigabili interne (1%). Oggi, quindi, l’interro fondo previsto per il periodo 2021-2027 è stato allocato e mancano ancora indicazioni per il periodo successivo, che va dal 2027 al 2030.
Accanto a questo finanziamento comunitario, altri fondi arrivano dai programmi nazionali e da quelli della Nato. Quest’ultima ha stanziato circa 4,6 miliardi di euro nel suo Security Investment Programme (Nsip), dedicati soprattutto alle infrastrutture marittime. Gli investimenti principali comprendono 2,4 miliardi per facilities marittime nel 2024, inclusi 300 milioni per progetti nella baia di Souda, Grecia; 550 milioni per infrastrutture di rifornimento navale; 190 milioni per miglioramenti portuali alla Stazione Navale di Rota, in Spagna.
Anche l’Italia si sta muovendo per l’uso duale delle infrastrutture di trasporto. Rientrano in tale contesto i fondi del Piano Nazionale di Ripresa e Resilienza e del Piano Nazionale Complementare, ma bisogna citare il programma Cef Military Mobility, che prevede per l’Italia 29 milioni di euro per l'ammodernamento del collegamento ferroviario del bacino portuale di Genova Sampierdarena.
Inoltre, rete Ferroviaria Italiana ha firmato un accordo di collaborazione strategica con Leonardo per un progetto condiviso destinato alla movimentazione di risorse militari, anche con breve preavviso e su larga scala. Questo accordo prevede di sviluppare un'architettura e alcune funzionalità della piattaforma digitale integrata per il trasporto di materiale militare attraverso infrastrutture duali. Questa piattaforma integrerà soluzioni innovative basate su intelligenza artificiale, utilizzando il supercomputer Davinci-1 di Leonardo, uno dei più potenti nel settore aerospazio, difesa e sicurezza.
In tale contesto s’inserisce il recente emendamento al Decreto Infrastrutture che vuole comprendere tra le infrastrutture duali anche il ponte sullo Stretto di Messina e la nuova diga foranea di Genova, con lo scopo di ricevere finanziamenti comunitari. Infatti la loro classificazione come opera militare strategica inserirebbe i due progetti nella quota dell’1,5% del Pil che l’Unione Europea intende dedicare, all’interno dell’obiettivo del 5% del Pil per la Difesa, alle infrastrutture. Però, come ha chiarito il ministro della Difesa italiano, spetta alla Nato stabilire se un’infrastruttura è strategica.
L’estensione dell’uso duale a numerose infrastrutture europee di trasporto pone anche dei rischi. Il primo è ovviamente quello di metterle nel mirino di eventuali nemici nel caso di conflitti e considerando che i porti sono quasi tutti all’interno di grandi città, un attacco militare potrebbe coinvolgere anche la popolazione civile. Ma ci sono pure questioni immediate, che non dipendono da una guerra ma, più in generale, dalle interferenze anche in tempo di pace tra funzioni civili e militari. Per esempio interruzioni operative per esercitazioni, investimenti che non generano ritorni commerciali o competizione con porti che non hanno impegni militari.
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10/07/2025
Lituania - Si celebrano i nazisti ma si perseguitano i politici non guerrafondai
Il Centro Documentazione e Associazione della comunità ebraica situata in Lituania, Defending History, ha pubblicamente denunciato i processi in corso di riabilitazione e legalizzazione del passato neonazista locale, con commemorazioni, riscrizione della storia circa i crimini e massacri perpetrati nella seconda guerra mondiale nella regione, inaugurazioni di targhe e monumenti a criminali nazisti, antisovietismo e russofobia assurti a leggi e normalità.
Nel frattempo Eduardas Vaitkus, candidato indipendente alle ultime elezioni presidenziali, è stato costretto a scappare dal paese per sfuggire a minacce di morte e persecuzioni continue.
Defending History, in una conferenza stampa a Vilnius nelle scorse settimane, ha denunciato che è in discussione al Seimas, il Parlamento lituano, su richiesta di un gruppo di parlamentari, accademici e attivisti di estrema destra, la creazione di un “collegium” istituzionale per cercare di trasformare gli assassini del Fronte Attivista Lituano , LAF, in “patrioti nazionali”. DH si chiede se sarà vero che “le istituzioni della Lituania diventino realmente la casa per l’ennesimo tentativo di glorificare i primi assassini dell’era dell’Olocausto dell’ebraismo lituano, autori del genocidio che lasciò il 96% degli ebrei lituani annientati? ... Fiduciosi della loro capacità di vendere la storia revisionista, con una lettura di estrema destra agli ingenui occidentali, hanno persino annunciato un’edizione inglese di loro saggi storici a beneficio delle ambasciate occidentali. Questa era l’ultima cosa di cui una Vilnius pacifica, moderna, democratica avrebbe bisogno...”.
L’ex ministro degli Esteri lituano, Audronius Aubalis, cofondatore del “collegium”, aveva annunciato la data di giugno, per il lancio della campagna indirizzata alla glorificazione degli assassini del LAF. I piani propagandisti includono pubblicazioni in lingua inglese destinate a persuadere le principali ambasciate occidentali a Vilnius e istituzioni varie straniere, comprese numerose ONG assortite.
Il Fronte Attivista Lituano o LAF fu un’organizzazione armata anti comunista e neonazista, istituita nel 1940 dopo l’arrivo dell’Unione Sovietica in Lituania.
L’obiettivo dell’organizzazione era staccare la Lituania dall’URSS e stabilire la sua indipendenza sotto l’ala del Terzo Reich, per questo sostenne l’invasione tedesca del paese nel 1941, operando per rendere più agevole l’occupazione della Lituania per i nazisti e scontrandosi con le truppe dell’Armata Rossa e i patrioti lituani antifascisti, in una insurrezione del 22 giugno 1941 assecondata dai tedeschi, che occuparono il paese il 23 giugno.
Fondato su posizioni duramente antisemite, secondo quasi tutti i sopravvissuti dell’Olocausto lituano intervistati negli ultimi decenni, il 23 giugno 1941, per il numero delle vittime, è considerato l’inizio dell’Olocausto lituano.
Fu compiuto l’omicidio di massa da parte di uomini che indossavano i bracciali bianchi del LAF, uccidendo migliaia di ebrei, antifascisti e comunisti lituani, comprese donne e anziani, prima che i tedeschi arrivassero e istituissero la loro autorità. Non c’erano solo i criminali violenti, c’erano gli intellettuali della LAF a Berlino che preparavano i testi e i volantini, dove chiedevano la pulizia etnica dell’ebraismo lituano e del comunismo sovietico.
Nonostante denunce e proteste, soprattutto della comunità ebraica lituana, la targa al collaborazionista nazista Jonas Noreika a Vilnius, non sarà tolta, ha decretato l’autorità giuridica lituana.
In un processo scaturito dalla denuncia di Grant Gochin, un attivista statunitense anti nazista, che aveva chiesto la rimozione della targa onorifica dedicata a Noreika. Persino la nipote del criminale nazista, Silvia Foti, giornalista e storica, da Chicago dove vive, ha pubblicato un breve saggio di documentazioni, frutto di anni di ricerche indipendenti, che conferma invece le accuse rivolte al collaborazionista lituano.
Anche il Simon Wiesenthal Center ha denunciato il fatto che Noreika sia divenuto un eroe in patria perché considerato un martire della resistenza anti comunista lituana. Egli fu fucilato dai sovietici quando la Lituania venne liberata dall’URSS, con l’accusa documentata di assassinii di massa, dopo la sua nomina, avvenuta nel 1941, come capo del villaggio di Šiaulia, sotto l’occupazione nazista.
La comunità ebraica lituana aveva chiesto ripetutamente la rimozione della targa che commemora Noreika, affissa al muro della biblioteca dell’Accademia delle Scienze a Vilnius, dichiarando che : «Noreika è stato un diretto e fanatico partecipe nella responsabilità della Shoah in Lituania».
Il governo democratico ed europeista, portatore dei valori occidentali, si è però sempre rifiutato di levare la targa.
Qui sotto l’immagine del sito, non ancora chiuso, che ricorda lo sterminio degli oltre 70.000 ebrei e antifascisti lituani, fucilati e sepolti nella foresta di Ponary, durante la Seconda Guerra Mondiale.
Questi massacri, iniziati nel luglio 1941, hanno dato il via al famoso “Olocausto delle pallottole”, una serie di fucilazioni di massa perpetrate dalla Germania nazista e dai suoi collaborazionisti locali nei territori sottratti alle forze sovietiche.
Solo pochi prigionieri riuscirono a fuggire da Ponary ma, una volta tornati alla vita civile, i sopravvissuti sono stati ignorati e i loro racconti dimenticati dai libri di storia attuali. Ponary, è tuttora considerato il più grande luogo di sterminio in Lituania, quasi tutti i massacri sono stati compiuti dal “Plotone speciale di Vilnius”, un’unità volontaria composta da circa 100 nazisti lituani, militanti del LAF.
Le loro vittime includono oltre 80.000 cittadini, sia lituani che sovietici, ed anche molti intellettuali polacchi.
Mentre accade quotidianamente tutto ciò nella Lituania contemporanea e democratica, accade anche che un ex candidato indipendente alle ultime elezioni presidenziali, sia costretto, così come decine di migliaia di membri della comunità russo lituana, a scappare dal paese.
Eduardas Vaitkus, schieratosi per la pace e contro le politiche guerrafondaie del governo lituano, si era posto come riferimento di tutta quella parte della popolazione che “…non sono impazziti e vogliono la guerra. Qui ci sono persone che vogliono una Lituania indipendente e libera, dove i lituani siano padroni della loro terra e della loro Patria, non così è ora…”. Queste dichiarazioni l’hanno fatto diventare nel paese un nemico e un bersaglio.
Pur non appartenendo alla comunità russa lituana, ha dovuto scappare dal paese dopo alcune aggressioni e tentativi di ucciderlo, Ha ottenuto asilo politico in Bielorussia, dichiarando in una conferenza stampa che ora si sente “…totalmente al sicuro in Bielorussia. Mi sento al 100% al sicuro qui. Non come in Lituania. Ancora oggi quando faccio una passeggiata nella foresta e qualcuno si avvicina da dietro, sono diffidente e timoroso, questa è la conseguenza di tutte le minacce e aggressioni che ho ricevuto molte volte in Lituania…”, ha detto Vaitkus.
L’ex candidato presidenziale ha anche denunciato l’attuale dirigenza politica lituana: “…le correnti autorità lituane agiscano a scapito del proprio popolo…sono principalmente interessati al business e al denaro, mentre la componente morale non li tocca minimamente. Stanno solamente agendo nell’interesse dell’Unione europea o dei globalismi unipolari. In tali condizioni non si può parlare di alcun interesse per i semplici cittadini lituani…La componente morale si sta dissolvendo sullo sfondo. Possono convivere con tutto questo, ma non capisco come si possa vivere in questo modo”, ha sottolineato l’ex candidato presidenziale.
Il politico ha detto che spera che la situazione possa cambiare in meglio, ma per questo, occorre creare una nuova forza politica, la quale attraverso le elezioni, rovesci l’attuale leadership, ma non è facile né vicina, come prospettiva. “…La Lituania non deve essere in vendita. La Lituania deve essere indipendente e libera. Dovremmo essere neutrali. Non abbiamo bisogno di essere in guerra con nessuno. Dobbiamo cooperare con i nostri vicini, ripristinare la giustizia e l’uguaglianza. Se questi pensieri sono riconosciuti dal popolo, io mi metterò a disposizione. Per le future elezioni presidenziali…”, ha detto Vaitkus.
Fonte
Nel frattempo Eduardas Vaitkus, candidato indipendente alle ultime elezioni presidenziali, è stato costretto a scappare dal paese per sfuggire a minacce di morte e persecuzioni continue.
Defending History, in una conferenza stampa a Vilnius nelle scorse settimane, ha denunciato che è in discussione al Seimas, il Parlamento lituano, su richiesta di un gruppo di parlamentari, accademici e attivisti di estrema destra, la creazione di un “collegium” istituzionale per cercare di trasformare gli assassini del Fronte Attivista Lituano , LAF, in “patrioti nazionali”. DH si chiede se sarà vero che “le istituzioni della Lituania diventino realmente la casa per l’ennesimo tentativo di glorificare i primi assassini dell’era dell’Olocausto dell’ebraismo lituano, autori del genocidio che lasciò il 96% degli ebrei lituani annientati? ... Fiduciosi della loro capacità di vendere la storia revisionista, con una lettura di estrema destra agli ingenui occidentali, hanno persino annunciato un’edizione inglese di loro saggi storici a beneficio delle ambasciate occidentali. Questa era l’ultima cosa di cui una Vilnius pacifica, moderna, democratica avrebbe bisogno...”.
L’ex ministro degli Esteri lituano, Audronius Aubalis, cofondatore del “collegium”, aveva annunciato la data di giugno, per il lancio della campagna indirizzata alla glorificazione degli assassini del LAF. I piani propagandisti includono pubblicazioni in lingua inglese destinate a persuadere le principali ambasciate occidentali a Vilnius e istituzioni varie straniere, comprese numerose ONG assortite.
Il Fronte Attivista Lituano o LAF fu un’organizzazione armata anti comunista e neonazista, istituita nel 1940 dopo l’arrivo dell’Unione Sovietica in Lituania.
L’obiettivo dell’organizzazione era staccare la Lituania dall’URSS e stabilire la sua indipendenza sotto l’ala del Terzo Reich, per questo sostenne l’invasione tedesca del paese nel 1941, operando per rendere più agevole l’occupazione della Lituania per i nazisti e scontrandosi con le truppe dell’Armata Rossa e i patrioti lituani antifascisti, in una insurrezione del 22 giugno 1941 assecondata dai tedeschi, che occuparono il paese il 23 giugno.
Fondato su posizioni duramente antisemite, secondo quasi tutti i sopravvissuti dell’Olocausto lituano intervistati negli ultimi decenni, il 23 giugno 1941, per il numero delle vittime, è considerato l’inizio dell’Olocausto lituano.
Fu compiuto l’omicidio di massa da parte di uomini che indossavano i bracciali bianchi del LAF, uccidendo migliaia di ebrei, antifascisti e comunisti lituani, comprese donne e anziani, prima che i tedeschi arrivassero e istituissero la loro autorità. Non c’erano solo i criminali violenti, c’erano gli intellettuali della LAF a Berlino che preparavano i testi e i volantini, dove chiedevano la pulizia etnica dell’ebraismo lituano e del comunismo sovietico.
Nonostante denunce e proteste, soprattutto della comunità ebraica lituana, la targa al collaborazionista nazista Jonas Noreika a Vilnius, non sarà tolta, ha decretato l’autorità giuridica lituana.
In un processo scaturito dalla denuncia di Grant Gochin, un attivista statunitense anti nazista, che aveva chiesto la rimozione della targa onorifica dedicata a Noreika. Persino la nipote del criminale nazista, Silvia Foti, giornalista e storica, da Chicago dove vive, ha pubblicato un breve saggio di documentazioni, frutto di anni di ricerche indipendenti, che conferma invece le accuse rivolte al collaborazionista lituano.
Anche il Simon Wiesenthal Center ha denunciato il fatto che Noreika sia divenuto un eroe in patria perché considerato un martire della resistenza anti comunista lituana. Egli fu fucilato dai sovietici quando la Lituania venne liberata dall’URSS, con l’accusa documentata di assassinii di massa, dopo la sua nomina, avvenuta nel 1941, come capo del villaggio di Šiaulia, sotto l’occupazione nazista.
La comunità ebraica lituana aveva chiesto ripetutamente la rimozione della targa che commemora Noreika, affissa al muro della biblioteca dell’Accademia delle Scienze a Vilnius, dichiarando che : «Noreika è stato un diretto e fanatico partecipe nella responsabilità della Shoah in Lituania».
Il governo democratico ed europeista, portatore dei valori occidentali, si è però sempre rifiutato di levare la targa.
Qui sotto l’immagine del sito, non ancora chiuso, che ricorda lo sterminio degli oltre 70.000 ebrei e antifascisti lituani, fucilati e sepolti nella foresta di Ponary, durante la Seconda Guerra Mondiale.
Questi massacri, iniziati nel luglio 1941, hanno dato il via al famoso “Olocausto delle pallottole”, una serie di fucilazioni di massa perpetrate dalla Germania nazista e dai suoi collaborazionisti locali nei territori sottratti alle forze sovietiche.
Solo pochi prigionieri riuscirono a fuggire da Ponary ma, una volta tornati alla vita civile, i sopravvissuti sono stati ignorati e i loro racconti dimenticati dai libri di storia attuali. Ponary, è tuttora considerato il più grande luogo di sterminio in Lituania, quasi tutti i massacri sono stati compiuti dal “Plotone speciale di Vilnius”, un’unità volontaria composta da circa 100 nazisti lituani, militanti del LAF.
Le loro vittime includono oltre 80.000 cittadini, sia lituani che sovietici, ed anche molti intellettuali polacchi.
Mentre accade quotidianamente tutto ciò nella Lituania contemporanea e democratica, accade anche che un ex candidato indipendente alle ultime elezioni presidenziali, sia costretto, così come decine di migliaia di membri della comunità russo lituana, a scappare dal paese.
Eduardas Vaitkus, schieratosi per la pace e contro le politiche guerrafondaie del governo lituano, si era posto come riferimento di tutta quella parte della popolazione che “…non sono impazziti e vogliono la guerra. Qui ci sono persone che vogliono una Lituania indipendente e libera, dove i lituani siano padroni della loro terra e della loro Patria, non così è ora…”. Queste dichiarazioni l’hanno fatto diventare nel paese un nemico e un bersaglio.
Pur non appartenendo alla comunità russa lituana, ha dovuto scappare dal paese dopo alcune aggressioni e tentativi di ucciderlo, Ha ottenuto asilo politico in Bielorussia, dichiarando in una conferenza stampa che ora si sente “…totalmente al sicuro in Bielorussia. Mi sento al 100% al sicuro qui. Non come in Lituania. Ancora oggi quando faccio una passeggiata nella foresta e qualcuno si avvicina da dietro, sono diffidente e timoroso, questa è la conseguenza di tutte le minacce e aggressioni che ho ricevuto molte volte in Lituania…”, ha detto Vaitkus.
L’ex candidato presidenziale ha anche denunciato l’attuale dirigenza politica lituana: “…le correnti autorità lituane agiscano a scapito del proprio popolo…sono principalmente interessati al business e al denaro, mentre la componente morale non li tocca minimamente. Stanno solamente agendo nell’interesse dell’Unione europea o dei globalismi unipolari. In tali condizioni non si può parlare di alcun interesse per i semplici cittadini lituani…La componente morale si sta dissolvendo sullo sfondo. Possono convivere con tutto questo, ma non capisco come si possa vivere in questo modo”, ha sottolineato l’ex candidato presidenziale.
Il politico ha detto che spera che la situazione possa cambiare in meglio, ma per questo, occorre creare una nuova forza politica, la quale attraverso le elezioni, rovesci l’attuale leadership, ma non è facile né vicina, come prospettiva. “…La Lituania non deve essere in vendita. La Lituania deve essere indipendente e libera. Dovremmo essere neutrali. Non abbiamo bisogno di essere in guerra con nessuno. Dobbiamo cooperare con i nostri vicini, ripristinare la giustizia e l’uguaglianza. Se questi pensieri sono riconosciuti dal popolo, io mi metterò a disposizione. Per le future elezioni presidenziali…”, ha detto Vaitkus.
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Il più grande porto d’Europa si prepara alla guerra con la Russia
La militarizzazione del Vecchio Continente procede a passi lunghi e ben distesi. Ne da conto l'articolo seguente che, al netto della consueta russofobia occidentale, mette nero su bianco che la conversione di infrastrutture civili a uso militare non è solo una furbata contabile del Governo Meloni atta a dare l'ennesima prebenda ai cementificatori italiani, ma una prassi che si sta rapidamente consolidando tra le classi dirigenti continentali.
*****
Il porto di Rotterdam, nei Paesi Bassi, avrebbe avviato i preparativi per affrontare una possibile guerra con la Russia, riservando spazio alle navi della NATO che trasportano carichi militari, e non solo. Lo scalo navale più grande d’Europa starebbe pure mappando rotte logistiche per i trasferimenti di armamenti dai diversi Paesi. È quanto rivela in esclusiva il Financial Times.
Secondo il FT, le esercitazioni di sbarco anfibio si svolgeranno proprio nel porto olandese, il quale, in passato, ha già ricevuto spedizioni di armi, ma non ha mai avuto, neanche nelle fasi più tese della Guerra Fredda, un punto di attracco speciale interamente dedicato alla logistica militare.
Il porto di Rotterdam si estende per 42 km lungo il fiume Mosa e smista ogni anno circa 436 milioni di tonnellate di merci, accogliendo 28 mila navi via mare e 91 mila via fiume, provenienti perlopiù dalla Germania e da diverse aree dell'Europa continentale. Il porto ha perso circa l’8% del suo traffico in seguito alle sanzioni internazionali contro Mosca, che hanno colpito le esportazioni russe.
La decisione di prepararsi a un conflitto, arriva proprio mentre gli alleati della NATO vedono sempre meno remoto il rischio di un conflitto su larga scala con la Russia «entro cinque anni». Mosca, da mesi, ha intensificato i bombardamenti sull’Ucraina, respingendo ogni proposta americana di un cessate il fuoco. La Russia, di fatto, sta calcando la mano, attaccando duramente Kiev, tanto da aver spinto pure il presidente USA Donald Trump a criticare più volte il suo omologo Vladimir Putin.
Parte del terminal container, scrive ancora il FT, sarà riqualificata per garantire il trasferimento sicuro di munizioni e altre attrezzature «sensibili», mentre la logistica dei rifornimenti militari sarà coordinata con il porto di Anversa, nel vicino Belgio.
Boudewijn Siemons, amministratore delegato dell'Autorità portuale di Rotterdam, ha spiegato che non tutti i terminal sono attrezzati per gestire carichi di tipo militare, rendendo il coordinamento logistico fondamentale, in particolare per le spedizioni provenienti da Stati Uniti, Regno Unito e Canada.
L'iniziativa militare, tra l’altro, rientrerebbe in un più ampio impegno degli alleati europei a ridurre la loro dipendenza dagli Stati Uniti per quanto concerne la difesa. Il porto, da anni, viene già utilizzato come sito di stoccaggio per la riserva strategica di petrolio.
L'Unione europea ha infatti imposto ai suoi membri di mantenere una riserva di «oro nero» di 90 giorni in seguito alla crisi energetica del 1973, quando i Paesi arabi ridussero la produzione, con il conseguente aumento dei prezzi, per fare pressione sull'Occidente durante il conflitto con Israele.
In questo contesto, i funzionari olandesi hanno dunque esortato i Paesi europei a concentrarsi anche sulla messa in sicurezza nel grande porto di altre risorse critiche, tra cui rame, litio, grafite e terre rare varie.
Le misure preparatorie adottate allo scalo di Rotterdam fanno parte della corsa al riarmo in tutto il Vecchio continente, con l’UE che sta sviluppando un piano del valore di 800 miliardi di euro, per rafforzare le capacità di difesa in risposta all'aggressività della Russia e alle richieste degli Stati Uniti.
La spesa militare di Mosca è invece aumentata vertiginosamente in seguito all'invasione dell'Ucraina. Secondo l’International Institute for Strategic Studies, il bilancio della difesa di Mosca per il 2024 è aumentato del 42% in termini reali, raggiungendo i 462 miliardi di dollari, ossia più del totale combinato di tutti i Paesi europei.
Lo scorso 5 luglio, il segretario generale della NATO, Mark Rutte, ha espresso preoccupazione su una possibile azione militare cinese contro Taiwan, in quanto Pechino potrebbe incoraggiare la Russia ad aprire un secondo fronte in Europa, contro uno degli Stati dell’Alleanza atlantica.
Pure il ministro della Difesa tedesco Boris Pistorius ha recentemente lanciato l'allarme: nei prossimi anni la Russia potrebbe attaccare un territorio della NATO.
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Guerra in Ucraina - Dalle mine antiuomo ai missili sulle città, la Ue ha perso la guerra ma non si deve dire
di Fulvio Scaglione
Ultime notizie dal fronte ucraino. Il presidente Zelensky ha appena firmato un decreto per far uscire il suo Paese dalla Convenzione di Ottawa, che vieta l’uso, la produzione e l’accumulo delle mine antiuomo. Nonostante le usasse sin da inizio conflitto, l’Ucraina va così ad aggiungersi a Estonia, Lettonia, Polonia e Finlandia che dalla Convenzione sono uscite di recente, e naturalmente a Usa e Russia che la Convenzione non l’hanno mai firmata.
Indietro di qualche ora: i russi, avanzando nel settore Sud-Est del fronte, hanno occupato il più grande giacimento ucraino di litio, quello di Shevcenko, che rientrerebbe nell’accordo che Zelensky ha stipulato con Donald Trump. Quel che è peggio è che quella di Shevcenko è una delle tre direzioni in cui le truppe russe stanno penetrando le difese ucraine.
Avanti di qualche ora: dagli ambienti del Parlamento di Kiev partono voci che vogliono per prossima la rimozione del ministro della Difesa Rustan Umerov (che sarebbe sostituito dal suo vice Sergej Boev), come pure la rimozione di Oleksandr Syrsky, comandante in capo delle truppe ucraine, che sarebbe a sua volta rimpiazzato dal capo di stato maggiore Andrej Gnatov.
Una variante di queste voci vuole Umerov sempre silurato ma a favore di Vasyl Maljuk, attuale capo dell’SBU, l’ideatore dell’audace colpo contro gli aeroporti militari russi. In questa variante, riportano gli spifferi kieviani, Umerov sarebbe spedito a fare l’ambasciatore negli Usa. Un esilio dorato alla Valerij Zaluzhny.
Bisognerebbe aggiungere qualche altro fatto. I bombardamenti russi sulle città e sugli impianti industriali ucraini sono sempre più frequenti, sempre più massicci e sempre più devastanti. Intorno a città ucraine come Sumy (a Nord) o Pokrovsk (a Sud), si registrano concentrazioni di truppe russe di migliaia e migliaia di uomini.
In un mondo normale le persone normali trarrebbero un’unica conclusione: l’Ucraina sta perdendo la guerra. Perde terreno, perde il controllo del proprio spazio aereo, cerca di fermare i fanti russi anche con le mine antiuomo e cerca, ormai un po' disperatamente, di avvicendare gli uomini ai vertici delle forze armate nella speranza di trovare l’idea buona. E mentre succede tutto questo il Financial Times, non certo la Pravda, scrive che diplomatici e funzionari ucraini sempre più spesso chiedono ai politici occidentali, in privato, di arrivare a un cessate il fuoco.
Anche se siamo ancora persone normali, però, non viviamo più in un mondo normale. Viviamo in un mondo in cui l’Europa, che tre anni e mezzo fa ha scommesso di riuscire a sconfiggere la Russia sul campo, non può ammettere di aver sbagliato i conti, e non solo quelli.
Mentre noi parassiti guardiamo gli ucraini combattere e morire, pronti ad assistere alla distruzione del loro Paese per non fare una marcia indietro che, a questo punto, vorrebbe anche dire mandare a monte tutto il bel piano di riarmo che tanto servirà alle aziende meccaniche tedesche e ai produttori di armi Usa, ai quali andrà il 48% (questa la quota Usa nei rifornimenti europei, rispetto al 68% del totale di armi che compriamo fuori Europa) dei famosi 800 miliardi per la Difesa.
E così continuiamo a dirci che i russi sono prossimi al crollo, che non ce la fanno più. Come dice Zelensky in tutte le interviste: hanno bisogno di una pausa per riprendersi. E che, come scrivono gli augusti analisti nostrani, imbeccati dai servizi segreti e dalla giusta propaganda ucraina, perdono 1.300 uomini al giorno. Che fa circa 40 mila uomini al mese. Che, considerato che i russi sono all’offensiva da più di un anno, fa più di 500 mila uomini. Che, considerato che si combatte da tre anni e mezzo ormai, farebbe 1 milione e 750 mila uomini. Che tutto nell’insieme, e purtroppo per l’Ucraina, è solo una bella favola.
Mentre nelle scorse settimane quello che si è visto è questo: i russi hanno restituito agli ucraini i corpi di più di 6 mila soldati ucraini caduti in battaglia, mentre gli ucraini ne hanno restituiti 57. E Vladimir Putin, ha detto di averne almeno altri 3 mila da parte.
Ci pare sempre più evidente che l’Europa non arma e finanzia l’Ucraina per difenderla, ma piuttosto per difendere se stessa, per trovare in questa battaglia sofferta e combattuta da altri un senso che teme di aver smarrito. E non è una bella sensazione.
Fonte
Ultime notizie dal fronte ucraino. Il presidente Zelensky ha appena firmato un decreto per far uscire il suo Paese dalla Convenzione di Ottawa, che vieta l’uso, la produzione e l’accumulo delle mine antiuomo. Nonostante le usasse sin da inizio conflitto, l’Ucraina va così ad aggiungersi a Estonia, Lettonia, Polonia e Finlandia che dalla Convenzione sono uscite di recente, e naturalmente a Usa e Russia che la Convenzione non l’hanno mai firmata.
Indietro di qualche ora: i russi, avanzando nel settore Sud-Est del fronte, hanno occupato il più grande giacimento ucraino di litio, quello di Shevcenko, che rientrerebbe nell’accordo che Zelensky ha stipulato con Donald Trump. Quel che è peggio è che quella di Shevcenko è una delle tre direzioni in cui le truppe russe stanno penetrando le difese ucraine.
Avanti di qualche ora: dagli ambienti del Parlamento di Kiev partono voci che vogliono per prossima la rimozione del ministro della Difesa Rustan Umerov (che sarebbe sostituito dal suo vice Sergej Boev), come pure la rimozione di Oleksandr Syrsky, comandante in capo delle truppe ucraine, che sarebbe a sua volta rimpiazzato dal capo di stato maggiore Andrej Gnatov.
Una variante di queste voci vuole Umerov sempre silurato ma a favore di Vasyl Maljuk, attuale capo dell’SBU, l’ideatore dell’audace colpo contro gli aeroporti militari russi. In questa variante, riportano gli spifferi kieviani, Umerov sarebbe spedito a fare l’ambasciatore negli Usa. Un esilio dorato alla Valerij Zaluzhny.
Bisognerebbe aggiungere qualche altro fatto. I bombardamenti russi sulle città e sugli impianti industriali ucraini sono sempre più frequenti, sempre più massicci e sempre più devastanti. Intorno a città ucraine come Sumy (a Nord) o Pokrovsk (a Sud), si registrano concentrazioni di truppe russe di migliaia e migliaia di uomini.
In un mondo normale le persone normali trarrebbero un’unica conclusione: l’Ucraina sta perdendo la guerra. Perde terreno, perde il controllo del proprio spazio aereo, cerca di fermare i fanti russi anche con le mine antiuomo e cerca, ormai un po' disperatamente, di avvicendare gli uomini ai vertici delle forze armate nella speranza di trovare l’idea buona. E mentre succede tutto questo il Financial Times, non certo la Pravda, scrive che diplomatici e funzionari ucraini sempre più spesso chiedono ai politici occidentali, in privato, di arrivare a un cessate il fuoco.
Anche se siamo ancora persone normali, però, non viviamo più in un mondo normale. Viviamo in un mondo in cui l’Europa, che tre anni e mezzo fa ha scommesso di riuscire a sconfiggere la Russia sul campo, non può ammettere di aver sbagliato i conti, e non solo quelli.
Mentre noi parassiti guardiamo gli ucraini combattere e morire, pronti ad assistere alla distruzione del loro Paese per non fare una marcia indietro che, a questo punto, vorrebbe anche dire mandare a monte tutto il bel piano di riarmo che tanto servirà alle aziende meccaniche tedesche e ai produttori di armi Usa, ai quali andrà il 48% (questa la quota Usa nei rifornimenti europei, rispetto al 68% del totale di armi che compriamo fuori Europa) dei famosi 800 miliardi per la Difesa.
E così continuiamo a dirci che i russi sono prossimi al crollo, che non ce la fanno più. Come dice Zelensky in tutte le interviste: hanno bisogno di una pausa per riprendersi. E che, come scrivono gli augusti analisti nostrani, imbeccati dai servizi segreti e dalla giusta propaganda ucraina, perdono 1.300 uomini al giorno. Che fa circa 40 mila uomini al mese. Che, considerato che i russi sono all’offensiva da più di un anno, fa più di 500 mila uomini. Che, considerato che si combatte da tre anni e mezzo ormai, farebbe 1 milione e 750 mila uomini. Che tutto nell’insieme, e purtroppo per l’Ucraina, è solo una bella favola.
Mentre nelle scorse settimane quello che si è visto è questo: i russi hanno restituito agli ucraini i corpi di più di 6 mila soldati ucraini caduti in battaglia, mentre gli ucraini ne hanno restituiti 57. E Vladimir Putin, ha detto di averne almeno altri 3 mila da parte.
Ci pare sempre più evidente che l’Europa non arma e finanzia l’Ucraina per difenderla, ma piuttosto per difendere se stessa, per trovare in questa battaglia sofferta e combattuta da altri un senso che teme di aver smarrito. E non è una bella sensazione.
Fonte
“Death, death to the IDF”
900 morti. Migliaia di feriti. Diserzioni. Suicidi. Morale a pezzi.
Dal 7 ottobre 2023, la tanto celebrata macchina da guerra israeliana, l’IDF, ha perso almeno novecento terroristi sul terreno. E non per mano di un esercito regolare, ma di una resistenza palestinese invisibile, preparata.
Tunnel come arterie del sottosuolo, armi anti-carro, droni artigianali, imboscate. Gaza è diventata una trappola a cielo aperto per l’esercito terrorista sionista, costretto a rivedere d’urgenza ogni protocollo operativo. Lo ammettono anche i quotidiani israeliani, non certo ostili al potere: “Nessuno si muove più senza copertura”, scrive Maariv.
Ma il vero collasso – coperto dalla censura occidentale – non si consuma solo nei vicoli di Rafah. Avviene dentro le caserme. Nelle teste. Nei corpi. Il nemico non è più solo Hamas: è l’esaurimento morale, l’orrore quotidiano, il sangue senza fine, l’assenza di senso.
Il numero di riservisti che rispondono alla chiamata è in caduta libera: si è passati da un 90% di ottobre 2023 a un 60–70%. Uno su tre si rifiuta. Diserta. Sparisce. Un ex ufficiale dell’IDF ha dichiarato senza filtri: “Siamo stanchi. Sfiduciati. Ci sentiamo carne da cannone”.
E lo sono davvero: oltre 10.000 riservisti hanno richiesto supporto psichiatrico. Ogni mese, 1.000 soldati entrano in centri di riabilitazione: la metà di quelli feriti non torna mai più in prima linea. C’è chi si toglie la vita. Chi scrive lettere di denuncia. Chi rompe il silenzio.
Giugno 2025. The Guardian pubblica una lettera firmata da 41 ufficiali dell’intelligence e riservisti dell’Unità 8200, il fiore all’occhiello dei servizi militari israeliani. Dichiarano di rifiutare ulteriori missioni a Gaza. E usano parole che bruciano: “Una guerra inutile ed eterna ... Ordini illegali secondo il diritto internazionale”.
È un’implosione lenta ma inesorabile. Un’intera generazione, cresciuta tra retorica militare e ideologia suprematista, barcolla. Il sistema dei riservisti, spina dorsale dell’IDF, mostra crepe profonde.
Sistema militare israeliano. Come funziona?
Servizio obbligatorio
Uomini (ebrei): 32 mesi
Donne (ebree): 24 mesi
Dopo, tutti nella riserva.
Riservisti
Richiamabili fino a 49 anni.
I riservisti costituiscono l’80% delle forze in guerra. Il richiamo è “obbligatorio”.
L’IDF non sta perdendo solo uomini. Sta perdendo credibilità interna. Senso strategico. È chiaro a molti: questa non è una guerra. È terrorismo di Stato. Un conflitto infinito, logorante, fondato su vendetta, occupazione, apartheid.
Una leadership – Netanyahu e soci – senza visione, senza onore, senza futuro. Un potere che galleggia sulla guerra, che sopravvive solo producendo morte, distruzione, repressione.
Non è il momento di farsi illusioni.
La strada è lunga, e la bilancia dei rapporti di forza è ancora terribilmente asimmetrica. Ma ogni soldato che si rifiuta, ogni ufficiale che diserta, ogni riservista che dice NO è una crepa nella fortezza.
Come dice Bob Vylan: “death, death to the IDF”.
Fonte
Dal 7 ottobre 2023, la tanto celebrata macchina da guerra israeliana, l’IDF, ha perso almeno novecento terroristi sul terreno. E non per mano di un esercito regolare, ma di una resistenza palestinese invisibile, preparata.
Tunnel come arterie del sottosuolo, armi anti-carro, droni artigianali, imboscate. Gaza è diventata una trappola a cielo aperto per l’esercito terrorista sionista, costretto a rivedere d’urgenza ogni protocollo operativo. Lo ammettono anche i quotidiani israeliani, non certo ostili al potere: “Nessuno si muove più senza copertura”, scrive Maariv.
Ma il vero collasso – coperto dalla censura occidentale – non si consuma solo nei vicoli di Rafah. Avviene dentro le caserme. Nelle teste. Nei corpi. Il nemico non è più solo Hamas: è l’esaurimento morale, l’orrore quotidiano, il sangue senza fine, l’assenza di senso.
Il numero di riservisti che rispondono alla chiamata è in caduta libera: si è passati da un 90% di ottobre 2023 a un 60–70%. Uno su tre si rifiuta. Diserta. Sparisce. Un ex ufficiale dell’IDF ha dichiarato senza filtri: “Siamo stanchi. Sfiduciati. Ci sentiamo carne da cannone”.
E lo sono davvero: oltre 10.000 riservisti hanno richiesto supporto psichiatrico. Ogni mese, 1.000 soldati entrano in centri di riabilitazione: la metà di quelli feriti non torna mai più in prima linea. C’è chi si toglie la vita. Chi scrive lettere di denuncia. Chi rompe il silenzio.
Giugno 2025. The Guardian pubblica una lettera firmata da 41 ufficiali dell’intelligence e riservisti dell’Unità 8200, il fiore all’occhiello dei servizi militari israeliani. Dichiarano di rifiutare ulteriori missioni a Gaza. E usano parole che bruciano: “Una guerra inutile ed eterna ... Ordini illegali secondo il diritto internazionale”.
È un’implosione lenta ma inesorabile. Un’intera generazione, cresciuta tra retorica militare e ideologia suprematista, barcolla. Il sistema dei riservisti, spina dorsale dell’IDF, mostra crepe profonde.
Sistema militare israeliano. Come funziona?
Servizio obbligatorio
Uomini (ebrei): 32 mesi
Donne (ebree): 24 mesi
Dopo, tutti nella riserva.
Riservisti
Richiamabili fino a 49 anni.
I riservisti costituiscono l’80% delle forze in guerra. Il richiamo è “obbligatorio”.
L’IDF non sta perdendo solo uomini. Sta perdendo credibilità interna. Senso strategico. È chiaro a molti: questa non è una guerra. È terrorismo di Stato. Un conflitto infinito, logorante, fondato su vendetta, occupazione, apartheid.
Una leadership – Netanyahu e soci – senza visione, senza onore, senza futuro. Un potere che galleggia sulla guerra, che sopravvive solo producendo morte, distruzione, repressione.
Non è il momento di farsi illusioni.
La strada è lunga, e la bilancia dei rapporti di forza è ancora terribilmente asimmetrica. Ma ogni soldato che si rifiuta, ogni ufficiale che diserta, ogni riservista che dice NO è una crepa nella fortezza.
Come dice Bob Vylan: “death, death to the IDF”.
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La svolta storica di Ocalan
Ocalan chiama all’integrazione della lotta curda nella politica turca
Il 9 luglio è stata rilasciata una dichiarazione video[1] definita storica da parte del leader curdo Abdullah Öcalan, che, esprimendosi in lingua turca, ribadisce ed approfondisce l’invito allo scioglimento del PKK da lui formulato a febbraio.
Sostanzialmente, Apo invita ad implementare il disarmo dell’organizzazione combattente curda rapidamente, a prescindere dalla sua stessa liberazione, che era stata posta dal Congresso del PKK come condizione necessaria. Inoltre, ribadisce che il futuro del movimento di liberazione curdo risiede nell’integrazione con lo stato turco ed i suoi meccanismi, principalmente quelli parlamentari: non vi è più traccia di rivendicazioni federaliste o simili.
Questa svolta è motivata dalla fine delle politiche assimilazioniste da parte dello stato, avvenuto proprio grazie alla lotta del PKK. In tal senso, Öcalan annuncia di aver preparato un “Manifesto per una Società Democratica”, che dovrebbe costituire un’ulteriore svolta teorica.
Nei prossimi giorni dovrebbe tenersi una cerimonia simbolica nel Kurdistan Iracheno, in cui alcune decine di miliziani del PKK verranno ripresi mentre si disferanno delle armi.
Questa dichiarazione va ad aggiungersi ai verbali dei colloqui fra lo stesso Öcalan e una delegazione del Partito DEM intercettati dal Middle East Eye[2] e ad una lettera dal carcere[3] scritta dall’altro detenuto eccellente, Selahattin Demirtaş; tali documenti propongono una svolta integrazionista della lotta di liberazione curda (per quanto riguarda, ovviamente, il cosiddetto “Bakur”, Nord Kurdistan) nello stato turco in chiave “frontista”, per contrapporsi alla guerra imperialista e all’espansionismo sionista nella regione, che prima o poi rischiano d’investire anche la Turchia.
Ancora non è stata espressa una chiara posizione rispetto alla strategia delle organizzazioni curde dei paesi circostanti che dichiarano di essere fedeli a Öcalan. Vi è, come noto, la macro-questione della regione Autonoma del Nord-Est della Siria, che potrebbe influenzare in maniera negativa l’esito del processo politico in Turchia, in quanto è vista da Ankara come un semi-stato controllato da milizie considerate emanazione del PKK. La Turchia ne reclama, pertanto, lo scioglimento.
In generale, le posizioni di Öcalan e Demirtaş potrebbero rivelarsi non facilmente digeribili per alcune organizzazioni e milizie che da tempo adottano la linea di allearsi con chiunque le appoggi nel loro tentativo di guadagnare il controllo di aree autonome, o prometta di farlo. Già piovono accuse di complicità con il “carnefice turco” da parte delle ali più nazionaliste del movimento curdo.
Di seguito la comunicazione integrale di Ocalan.
Il 9 luglio è stata rilasciata una dichiarazione video[1] definita storica da parte del leader curdo Abdullah Öcalan, che, esprimendosi in lingua turca, ribadisce ed approfondisce l’invito allo scioglimento del PKK da lui formulato a febbraio.
Sostanzialmente, Apo invita ad implementare il disarmo dell’organizzazione combattente curda rapidamente, a prescindere dalla sua stessa liberazione, che era stata posta dal Congresso del PKK come condizione necessaria. Inoltre, ribadisce che il futuro del movimento di liberazione curdo risiede nell’integrazione con lo stato turco ed i suoi meccanismi, principalmente quelli parlamentari: non vi è più traccia di rivendicazioni federaliste o simili.
Questa svolta è motivata dalla fine delle politiche assimilazioniste da parte dello stato, avvenuto proprio grazie alla lotta del PKK. In tal senso, Öcalan annuncia di aver preparato un “Manifesto per una Società Democratica”, che dovrebbe costituire un’ulteriore svolta teorica.
Nei prossimi giorni dovrebbe tenersi una cerimonia simbolica nel Kurdistan Iracheno, in cui alcune decine di miliziani del PKK verranno ripresi mentre si disferanno delle armi.
Questa dichiarazione va ad aggiungersi ai verbali dei colloqui fra lo stesso Öcalan e una delegazione del Partito DEM intercettati dal Middle East Eye[2] e ad una lettera dal carcere[3] scritta dall’altro detenuto eccellente, Selahattin Demirtaş; tali documenti propongono una svolta integrazionista della lotta di liberazione curda (per quanto riguarda, ovviamente, il cosiddetto “Bakur”, Nord Kurdistan) nello stato turco in chiave “frontista”, per contrapporsi alla guerra imperialista e all’espansionismo sionista nella regione, che prima o poi rischiano d’investire anche la Turchia.
Ancora non è stata espressa una chiara posizione rispetto alla strategia delle organizzazioni curde dei paesi circostanti che dichiarano di essere fedeli a Öcalan. Vi è, come noto, la macro-questione della regione Autonoma del Nord-Est della Siria, che potrebbe influenzare in maniera negativa l’esito del processo politico in Turchia, in quanto è vista da Ankara come un semi-stato controllato da milizie considerate emanazione del PKK. La Turchia ne reclama, pertanto, lo scioglimento.
In generale, le posizioni di Öcalan e Demirtaş potrebbero rivelarsi non facilmente digeribili per alcune organizzazioni e milizie che da tempo adottano la linea di allearsi con chiunque le appoggi nel loro tentativo di guadagnare il controllo di aree autonome, o prometta di farlo. Già piovono accuse di complicità con il “carnefice turco” da parte delle ali più nazionaliste del movimento curdo.
Di seguito la comunicazione integrale di Ocalan.
*****
Cari compagni,
Eticamente, mi sento in dovere di fornire, attraverso una lettera esaustiva – seppur ripetitiva – risposte esplicative e creative sui problemi, le soluzioni, i livelli raggiunti e la situazione concreta del nostro Movimento di Compagni Comunisti. 1. Continuo a difendere l’appello per “Pace e Società Democratica“, [dichiarato il] 27 febbraio 2025.
2. Convocando il 12° Congresso di Scioglimento del PKK, avete fornito una risposta positiva e completa al mio appello, sostanziandolo. Attribuisco un valore storico alla vostra risposta.
3. Il punto raggiunto è di grande valore e storicamente significativo. L’impegno dei compagni che hanno contribuito a questa comunicazione è altrettanto prezioso e lodevole.
4. Come risultato di questo processo, ho preparato un “Manifesto per una Società Democratica”, che deve essere considerato una trasformazione storica. Questo Manifesto possiede le caratteristiche necessarie per sostituire con successo il Manifesto “La Via verso la Rivoluzione del Kurdistan”, risalente a 50 anni fa. Credo che esso abbia un valore storico e sociale non solo per la società curda storica, ma anche per la società regionale e globale. Non ho dubbi che costituisca un esempio riuscito della tradizione del manifesto storico.
5. Devo affermare chiaramente che tutti questi sviluppi sono il risultato degli incontri che ho tenuto a Imrali. È stata posta grande attenzione affinché questi incontri si svolgessero sulla base della libera volontà.
6. Il livello raggiunto richiede di passare alla pratica con nuovi passi. La natura dei progressi che si faranno dipende inevitabilmente dalla corretta valutazione della natura storica di questa fase e dal grado di adesione a ciò che essa necessita.
a. Il movimento del PKK e la sua “Strategia di Liberazione Nazionale”, emersa come reazione alla negazione dell’esistenza [dei curdi] e quindi volta a creare uno stato separato, si sono sciolti. L’esistenza [dei curdi] è stata riconosciuta; pertanto, l’obiettivo fondamentale è stato raggiunto. In questo senso, ha fatto il suo tempo. Tutto quanto accaduto dopo [che l’esistenza dei curdi è stata riconosciuta] è stato vi sto come ripetitivo e come una situazione di stallo. Ciò costituirà la base per una critica e un’autocritica complete.
b. La politica non conosce vuoti; pertanto, il vuoto deve essere riempito con il programma della “Società Democratica”, dalla strategia della “Politica Democratica” e dal “diritto olistico” come sua tattica fondamentale. Stiamo parlando di un processo storico.
c. Il processo complessivo di disarmo volontario e la commissione parlamentare che si prevede di istituire per legge e autorizzata dalla Grande Assemblea Nazionale Turca sono cruciali. Attenzione e sensibilità sono essenziali nell’intraprendere questi passi, senza cadere nella sterile logica del “prima tu” o “prima io”. So che i passi intrapresi non saranno vani. Vedo e confido nella sincerità.
d. Pertanto, sono in atto sforzi per fare progressi attraverso l’adozione di misure più concrete. Ecco le principali tesi che propongo:
1) Raggiungere l’obiettivo della Pace e di una Società Democratica è possibile attraverso una prospettiva integrazionista positiva, in cui ognuno faccia la propria parte. La conclusione che ne deriva è che il PKK ha abbandonato il suo obiettivo di Stato-nazione e, abbandonando questo obiettivo fondamentale, ha anche abbandonato la sua strategia fondamentale, ovvero la guerra, ponendo fine alla sua esistenza. Questi punti storici attendono di essere approfonditi ulteriormente.
2) Dovreste accettare con serenità che la vostra garanzia di deporre le armi, di fronte alla testimonianza del pubblico e degli ambienti interessati, non solo avvantaggerebbe la TBMM [Grande Assemblea Nazionale Turca] e la Commissione, ma rassicurerebbe anche l’opinione pubblica e onorerebbe le nostre promesse. L’istituzione di un meccanismo per la deposizione delle armi farà progredire il processo. Si tratta di una transizione volontaria dalla fase della Lotta Armata alla fase della Politica e del Diritto Democratici. Questa non è una perdita, ma deve essere considerata una conquista storica. I dettagli della deposizione delle armi saranno specificati e attuati rapidamente.
3) Il DEM [Partito], che è sotto l’egida del parlamento, farà la sua parte e collaborerà con gli altri partiti per garantire il successo del processo.
4) Nel frattempo, per quanto riguarda “La mia condizione di libertà”, che avete proposto come disposizione indispensabile nei testi di risoluzione del vostro [XII] Congresso, devo dire che non ho mai considerato la mia libertà una questione personale. Filosoficamente, la libertà dell’individuo non può essere astratta dalla [libertà della] società. La libertà dell’individuo è la misura della libertà della società, e la libertà della società è la misura della libertà dell’individuo. Questa tendenza deve essere rispettata.
Non credo nelle armi, ma nel potere della politica e della pace sociale e vi invito a mettere in pratica questo principio.
Gli ultimi sviluppi nella regione hanno chiaramente dimostrato l’importanza e l’urgenza di questo passo storico.
Desidero dichiarare che attendo con ansia di ricevere ogni tipo di critica, suggerimento e contributo che possiate fornire in merito a questo processo.
Affermo, con ambizione e veemenza, che queste discussioni ci porteranno, noi forze della Modernità Democratica, verso un nuovo programma teorico, verso una nuova fase strategica e tattica a livello nazionale, regionale e globale, ed esprimo il mio ottimismo e la mia disponibilità per gli sforzi preparatori.
Affrontiamo il periodo a venire in linea con il mio appello, le decisioni del congresso, le opinioni e i suggerimenti che ho espresso in questo articolo e progrediamo sulla base del successo.
Cordiali saluti da compagni.
Auguri
Abdullah Öcalan
19 giugno 2025
Note
1) https://firatnews.com/guncel/Onder-apo-dan-tarihi-cagri-214619
2) https://contropiano.org/news/internazionale-news/2025/07/07/ocalan-il-movimento-di-liberazione-curdo-non-si-faccia-usare-da-israele-0184770
3) https://x.com/hdpdemirtas/status/1934923066003607614/photo/1
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Bolivia al bivio: tra frammentazione della sinistra e ritorno della destra
Il 17 agosto la Bolivia tornerà alle urne per scegliere chi guiderà un Paese che, a vent’anni dalla sua rivoluzione democratica e indigena, si ritrova più frammentato che mai e rischia di aprire le porte a venti razzisti e reazionari.
Il fallimento e le profonde fratture, interne ed esterne al MAS (il partito di governo Movimento al Socialismo), stanno aprendo uno spazio che – nonostante divisioni e contraddizioni – le destre sono pronte a occupare.
Quell’insieme di forze sociali, indigene e sindacali che nel 2005 rovesciò la partitocrazia neoliberale, spalancando le porte a una delle esperienze più dirompenti dell’America Latina, oggi è imploso in una lotta di potere pura quanto estenuante, figlia, tra l’altro, di quel tremendo fardello latinoamericano chiamato caudillismo.
«Negli anni Novanta – racconta Juan Carlos Morales Calle, attivista politico e filosofo – la Bolivia era governata da una partitocrazia: chi arrivava terzo alle elezioni poteva diventare presidente grazie a patti parlamentari. Ma con la nuova Costituzione del 2009, per governare serve il 50% più uno. Questa regola doveva blindare il potere popolare, ma ora rischia di consegnare la vittoria a una destra che sfrutta la nostra divisione. Samuel Doria Medina, per esempio, ha davvero una possibilità reale di vincere, o almeno di forzare un ballottaggio che prima era impensabile».
Il Movimiento al Socialismo – Instrumento Político por la Soberanía de los Pueblos (MAS–IPSP) nacque come espressione politica della Guerra dell’Acqua di Cochabamba nel 2000: una rivolta popolare che, dalle strade di El Alto alle comunità contadine, rovesciò governi, impose la nazionalizzazione delle risorse naturali e riscrisse la Costituzione del 2009, dando forma a uno Stato Plurinazionale.
Nel 2005, il MAS vinse con Evo Morales, cocalero del Chapare, portando al governo il primo presidente indigeno della storia boliviana. Un simbolo e, insieme, una promessa di riscatto collettivo.
Quella promessa, però, si è presto scontrata con uno degli assi del capitalismo stesso: la logica del potere. Il MAS ha tradito non solo con le scelte elettorali di Morales – che, perso il referendum costituzionale del 2016, decise comunque di ricandidarsi nel 2019 – ma anche con una gestione del potere che ha acuito lo scontro per il controllo dei territori, alimentato tensioni con comunità indigene, campesinas e movimenti femministi, e consolidato una dipendenza dal modello estrattivista, pur socializzandone parte dei guadagni.
«Una delle logiche che ha permesso la corruzione del sistema – spiega Morales Calle – è stata la cooptazione delle dirigenze sindacali. Quella cooptazione ha creato una burocrazia: le teste decidevano da sole, prescindendo dalle basi. Così sono arrivati auto di lusso, viaggi, posti di lavoro per amici e parenti. Questo lo hanno fatto tutti: prima Condepa, poi il MNR, poi il MAS, che ha solo ampliato quella logica, fino a svuotare dall’interno la forza dei movimenti sociali».
La ricandidatura forzata di Morales nel 2019 fu solo la scusa che permise alle destre di attuare un golpe già preparato, sostenuto da oligarchie economiche, apparati militari, gerarchie ecclesiastiche e interessi esterni. Quando Morales fuggì, la Bolivia entrò in una spirale di violenza repressiva, ma la resistenza popolare, radicata in tutto il Paese, riportò in piazza l’anima ribelle che aveva fatto nascere il MAS. Il 18 ottobre 2020, quelle stesse forze sociali strapparono una nuova vittoria elettorale, portando Luis Arce alla guida del Paese. Ma va ricordato: Arce fu scelto da Morales, imponendolo come candidato contro la preferenza dell’assemblea del partito, che avrebbe voluto David Choquehuanca come volto di continuità.
Da lì nacque, subito dopo l’insediamento, lo scontro di leadership tra Morales e Arce: un conflitto che, ancora oggi, segna la frattura di quel sogno collettivo. E la frammentazione non è solo a sinistra: anche la destra boliviana corre divisa, incapace di darsi un fronte unico. Oggi, da quel che fu l’alleanza originaria, emergono almeno tre candidature: Eduardo del Castillo, volto istituzionale del MAS; Eva Copa, sindaca di El Alto, legata a una sinistra popolare di base; Andrónico Rodríguez, leader dei cocaleros e diretto erede della base chapareña di Morales.
Sul fronte opposto, la destra schiera Samuel Doria Medina (Unidad Nacional), l’ex presidente Jorge Quiroga (Libre) e il sindaco di Cochabamba Manfred Reyes Villa (Autonomía Para Bolivia). Nemmeno loro, però, riescono a coalizzarsi in un’unica candidatura, segno di una crisi di leadership speculare a quella del campo progressista.
Gli ultimi sondaggi – elaborati da El Deber, Captura Consulting e Red Uno – fotografano una corsa apertissima: Samuel Doria Medina è accreditato tra il 19 e il 24%, Jorge Quiroga tra il 16 e il 22%, Andrónico Rodríguez intorno al 14–15%, mentre Eva Copa ed Eduardo del Castillo restano sotto il 2%. Manfred Reyes Villa oscilla tra il 7 e il 9%. Ma il dato più pesante è quello degli indecisi, ancora oggi oltre il 20–25%.
«Nemmeno la destra è unita – avverte Morales Calle – Samuel Doria Medina guida una parte, Jorge Quiroga un’altra, Manfred Reyes Villa un’altra ancora. Se fossero compatti, la sconfitta del nostro campo sarebbe certa. Ma pure loro sono prigionieri delle proprie ambizioni personali, di vecchie logiche di potere. Questo ci dice quanto profonda sia la crisi politica del Paese. Intanto il popolo, quello vero, è fuori da tutto questo: lavora giorno e notte solo per portare il pane a casa. E mentre le élite si sbranano, nessuno ascolta davvero quella voce».
Il 17 agosto segnerà se la Bolivia saprà rigenerare quell’energia originaria del 2005 o resterà ostaggio di vecchi e nuovi caudillos, di burocrazie e di una logica di potere che, invece di cambiare la storia, l’ha piegata ai propri interessi. O, ancora peggio, potrebbe tornare a destra, andando in continuità con l’onda che da Trump a Bukele, passando per Milei e Noboa, sta segnando il continente.
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Il fallimento e le profonde fratture, interne ed esterne al MAS (il partito di governo Movimento al Socialismo), stanno aprendo uno spazio che – nonostante divisioni e contraddizioni – le destre sono pronte a occupare.
Quell’insieme di forze sociali, indigene e sindacali che nel 2005 rovesciò la partitocrazia neoliberale, spalancando le porte a una delle esperienze più dirompenti dell’America Latina, oggi è imploso in una lotta di potere pura quanto estenuante, figlia, tra l’altro, di quel tremendo fardello latinoamericano chiamato caudillismo.
«Negli anni Novanta – racconta Juan Carlos Morales Calle, attivista politico e filosofo – la Bolivia era governata da una partitocrazia: chi arrivava terzo alle elezioni poteva diventare presidente grazie a patti parlamentari. Ma con la nuova Costituzione del 2009, per governare serve il 50% più uno. Questa regola doveva blindare il potere popolare, ma ora rischia di consegnare la vittoria a una destra che sfrutta la nostra divisione. Samuel Doria Medina, per esempio, ha davvero una possibilità reale di vincere, o almeno di forzare un ballottaggio che prima era impensabile».
Il Movimiento al Socialismo – Instrumento Político por la Soberanía de los Pueblos (MAS–IPSP) nacque come espressione politica della Guerra dell’Acqua di Cochabamba nel 2000: una rivolta popolare che, dalle strade di El Alto alle comunità contadine, rovesciò governi, impose la nazionalizzazione delle risorse naturali e riscrisse la Costituzione del 2009, dando forma a uno Stato Plurinazionale.
Nel 2005, il MAS vinse con Evo Morales, cocalero del Chapare, portando al governo il primo presidente indigeno della storia boliviana. Un simbolo e, insieme, una promessa di riscatto collettivo.
Quella promessa, però, si è presto scontrata con uno degli assi del capitalismo stesso: la logica del potere. Il MAS ha tradito non solo con le scelte elettorali di Morales – che, perso il referendum costituzionale del 2016, decise comunque di ricandidarsi nel 2019 – ma anche con una gestione del potere che ha acuito lo scontro per il controllo dei territori, alimentato tensioni con comunità indigene, campesinas e movimenti femministi, e consolidato una dipendenza dal modello estrattivista, pur socializzandone parte dei guadagni.
«Una delle logiche che ha permesso la corruzione del sistema – spiega Morales Calle – è stata la cooptazione delle dirigenze sindacali. Quella cooptazione ha creato una burocrazia: le teste decidevano da sole, prescindendo dalle basi. Così sono arrivati auto di lusso, viaggi, posti di lavoro per amici e parenti. Questo lo hanno fatto tutti: prima Condepa, poi il MNR, poi il MAS, che ha solo ampliato quella logica, fino a svuotare dall’interno la forza dei movimenti sociali».
La ricandidatura forzata di Morales nel 2019 fu solo la scusa che permise alle destre di attuare un golpe già preparato, sostenuto da oligarchie economiche, apparati militari, gerarchie ecclesiastiche e interessi esterni. Quando Morales fuggì, la Bolivia entrò in una spirale di violenza repressiva, ma la resistenza popolare, radicata in tutto il Paese, riportò in piazza l’anima ribelle che aveva fatto nascere il MAS. Il 18 ottobre 2020, quelle stesse forze sociali strapparono una nuova vittoria elettorale, portando Luis Arce alla guida del Paese. Ma va ricordato: Arce fu scelto da Morales, imponendolo come candidato contro la preferenza dell’assemblea del partito, che avrebbe voluto David Choquehuanca come volto di continuità.
Da lì nacque, subito dopo l’insediamento, lo scontro di leadership tra Morales e Arce: un conflitto che, ancora oggi, segna la frattura di quel sogno collettivo. E la frammentazione non è solo a sinistra: anche la destra boliviana corre divisa, incapace di darsi un fronte unico. Oggi, da quel che fu l’alleanza originaria, emergono almeno tre candidature: Eduardo del Castillo, volto istituzionale del MAS; Eva Copa, sindaca di El Alto, legata a una sinistra popolare di base; Andrónico Rodríguez, leader dei cocaleros e diretto erede della base chapareña di Morales.
Sul fronte opposto, la destra schiera Samuel Doria Medina (Unidad Nacional), l’ex presidente Jorge Quiroga (Libre) e il sindaco di Cochabamba Manfred Reyes Villa (Autonomía Para Bolivia). Nemmeno loro, però, riescono a coalizzarsi in un’unica candidatura, segno di una crisi di leadership speculare a quella del campo progressista.
Gli ultimi sondaggi – elaborati da El Deber, Captura Consulting e Red Uno – fotografano una corsa apertissima: Samuel Doria Medina è accreditato tra il 19 e il 24%, Jorge Quiroga tra il 16 e il 22%, Andrónico Rodríguez intorno al 14–15%, mentre Eva Copa ed Eduardo del Castillo restano sotto il 2%. Manfred Reyes Villa oscilla tra il 7 e il 9%. Ma il dato più pesante è quello degli indecisi, ancora oggi oltre il 20–25%.
«Nemmeno la destra è unita – avverte Morales Calle – Samuel Doria Medina guida una parte, Jorge Quiroga un’altra, Manfred Reyes Villa un’altra ancora. Se fossero compatti, la sconfitta del nostro campo sarebbe certa. Ma pure loro sono prigionieri delle proprie ambizioni personali, di vecchie logiche di potere. Questo ci dice quanto profonda sia la crisi politica del Paese. Intanto il popolo, quello vero, è fuori da tutto questo: lavora giorno e notte solo per portare il pane a casa. E mentre le élite si sbranano, nessuno ascolta davvero quella voce».
Il 17 agosto segnerà se la Bolivia saprà rigenerare quell’energia originaria del 2005 o resterà ostaggio di vecchi e nuovi caudillos, di burocrazie e di una logica di potere che, invece di cambiare la storia, l’ha piegata ai propri interessi. O, ancora peggio, potrebbe tornare a destra, andando in continuità con l’onda che da Trump a Bukele, passando per Milei e Noboa, sta segnando il continente.
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Francia, la Grande Armèe di Macron la pagano i pensionati
Riarmarsi senza distruggere lo Stato
Nelle segrete stanze, l’establishment politico parigino deve far quadrare il cerchio: trovare il modo di riarmarsi fino ai denti, senza scassare i conti dello Stato che già traballano. Macron è un illustre marpione. Sa benissimo che la Russia, solo per tenere il fronte ucraino, già spende il 7,1 per cento del Prodotto interno lordo (dati Sipri, Stoccolma). Ed è quasi al limite. Più si alza l’asticella e più si ‘scolla’ la struttura sociale. Quindi? Putin, anche volendolo (cosa di cui dubitiamo), non potrebbe andare da nessuna parte. Per inedia. E allora, Macron come spiega (al di là delle elucubrazioni sulla incombente invasione sarmatica) il robusto aumento delle spese militari? Semplice, affidandosi alle parole del suo Ministro dell’Economia, Eric Lombard, il quale ha illustrato i piani del governo per arrivare (gradualmente) a una spesa per la difesa del 5 per cento del Pil.
Una china di instabilità politica
Uno sforzo che, per la Francia, non sarà indolore, dati i cronici problemi di bilancio e la pericolosa china di instabilità politica presa dal Paese, sempre più socialmente spaccato. Dunque, nell’attribuire uno dei motivi del riarmo al principio di ‘collegialità atlantica’ (in altre parole, il diktat di Trump), il governo francese ha spiegato che esso rappresenta anche una eccellente opportunità di risparmio e rilancio dell’economia. Saranno proposte obbligazioni bancarie, che i privati potranno sottoscrivere, per sostenere le nuove spese per la difesa, ottenendo un buon guadagno in termini di rendimento. Così TF1 riporta le parole del ministro: «Certo, c’è del rischio – ammette – ma l’obiettivo è investire in ‘buone aziende’». «E in realtà, a lungo termine, i risparmi danno più frutti. Per chi ha risparmi, è un modo per prepararsi al futuro», ha sostenuto il capo di Bercy. «Saranno buoni investimenti, perché sono sia buone che cattive notizie, ma dovremo, a lungo termine, aumentare il nostro impegno nella difesa nazionale».
Miliardi per una lobby potentissima
Questa iniziativa – conclude TF1 – è tuttavia ben lungi dall’essere sufficiente a finanziare l’ascesa dell’industria della difesa: «le aziende del settore necessitano di circa cinque miliardi di dollari in equity, nuovi capitali, finanziamenti da investitori pubblici e privati per aumentare le linee di produzione e svilupparsi», ha spiegato ancora Eric Lombard. «In particolare, ci sono 4 mila piccole e medie imprese, che necessitano di capitali, prestiti e finanziamenti», ha insistito. Quindi, è chiaro. La strategia finanziaria di Macron mira a rifornire di capitali, anche privati, la base industriale e tecnologica della difesa francese. Stiamo parlando di nove grandi gruppi, come Dassault Aviation, Safran, Thales e Airbus, oltre a più di 4.500 piccole e medie imprese. Una lobby potentissima, che fa della Francia una protagonista mondiale nel redditizio settore della produzione di sistemi d’arma, veicoli da combattimento, caccia da superiorità aerea e guerra elettronica. Basti solo pensare che il business militare pone l’Esagono al secondo posto al mondo (assieme alla Russia) per vendite complessive, con l’11 per cento del totale.
Esercito vetrina armata
Il primo utilizzo dei ‘prodotti’ Made in France, dev’essere testato nelle Forze armate transalpine, ‘vetrina’ per il supermarket delle cannoniere. Problemi? Una montagna. I piani di sviluppo degli armamenti, quasi tutti ad alta tecnologia, devono essere poliennali. La domanda dipende dalle congiunture geopolitiche internazionali: le tregue e le paci fanno male al ‘business’. E quindi anche al mercato delle armi, facendo crollare le azioni di chi ci ha investito sopra. Insomma, lo sviluppo, la realizzazione e l’acquisizione di armamenti di ultima generazione vanno finanziati dallo Stato. Con tagli (alla spesa pubblica) o tasse, non si scappa. E in Francia? Beh, tutte e due le cose. Macron è un pericoloso ‘gambler’, gli piace giocare d’azzardo. Spesso perde, ma anziché pagare firma cambiali (politiche), che prima o dopo qualcuno gli sventolerà sotto il naso.
Bilancio 2026 da paura
«Bilancio 2026: lo spettro dell’aumento delle tasse si fa sempre più concreto», titola secco Le Figaro, attribuendo al governo Bayrou propositi ‘suicidi’, se si considerano le tensioni sociali già esistenti e il fatto che mentre si taglia il welfare, con la stessa sfrontatezza si aumenta subito la spesa militare. Che passa dal 2,1 per cento fino a raddoppiare nel 2030 e a stabilizzarsi al 5 per cento, nel 2035. Le Figaro scrive: «La Presidente dell’Assemblea nazionale, Yael Braun-Pivet, pur appartenendo a Renaissance (che ama presentarsi come il partito della riduzione delle tasse), ha ammesso che, nella preparazione del bilancio, che dovrebbe evidenziare uno sforzo di 40 miliardi, ‘non possiamo ignorare le entrate ed escludere a priori qualsiasi aumento delle tasse’. La deputata sta anche aprendo la strada proponendo, su Les Échos, di eliminare la detrazione fiscale del 10% sulle pensioni di vecchiaia o di aumentare l’aliquota più alta del CSG (contributo sociale)». Tutto questo per non parlare dei provvedimenti, già circolati in anteprima, e che riguardano la ‘riforma’ (cioè il ridimensionamento) del Servizio sanitario nazionale. Una medicina amarissima, che sarà fatta trangugiare al popolo francese in settimana, quando sarà approvata la molto controversa legge di bilancio.
‘Legge Putin’ e le crescenti diseguaglianze
Legge di bilancio che potremmo definire anche “legge Putin”, dato che dietro il ‘babau russo’, l’uomo nero che toglie il sonno ai nipotini di Napoleone, c’è l’esigenza di raccattare una quarantina di miliardi di euro, senza abbassare le saracinesche del Matignon. E tutto questo, proprio in un momento in cui Le Figaro titola: «Forte aumento della disuguaglianza e del tasso di povertà al livello più alto degli ultimi 30 anni. La scommessa fallita di Emmanuel Macron». L’articolo si riferisce al piano presentato dal Presidente francese nel 2018 per migliorare la situazione e al riscontro, catastrofico, dell’Istituto nazionale di statistica (INSEE) alla fine del 2023. «Crescenti disuguaglianze e povertà». Nel 2023 – dice il quotidiano parigino – 9,8 milioni di persone vivevano al di sotto della soglia di povertà monetaria nella Francia metropolitana, ha rivelato lunedì l’INSEE. Questa cifra è significativamente più alta rispetto all’anno precedente. Secondo l’Istituto, «il tasso di povertà (la percentuale di individui che vivono con meno di 1.288 euro al mese) è aumentato di 0,9 punti percentuali, raggiungendo il 15,4%. Si tratta di un livello che non si vedeva dal 1996, anno del primo studio INSEE sull’argomento».
‘La madre di tutte le catastrofi’ sulle pensioni
In questo ‘vernissage’ delle disgrazie macroniane, non abbiamo parlato della ‘madre di tutte le catastrofi’: la riforma delle pensioni, che merita un necrologio politico a parte. Ma che sarà il nemico più coriaceo della sua Grande Armèe. Siamo sicuri che ai reggimenti di ardimentosi (e spremuti) pensionati, dimenticati dallo Stato, che protestando civilmente in piazza (e alle urne) grideranno la loro rabbia, le divisioni corazzate di Macron gli faranno un baffo.
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Nelle segrete stanze, l’establishment politico parigino deve far quadrare il cerchio: trovare il modo di riarmarsi fino ai denti, senza scassare i conti dello Stato che già traballano. Macron è un illustre marpione. Sa benissimo che la Russia, solo per tenere il fronte ucraino, già spende il 7,1 per cento del Prodotto interno lordo (dati Sipri, Stoccolma). Ed è quasi al limite. Più si alza l’asticella e più si ‘scolla’ la struttura sociale. Quindi? Putin, anche volendolo (cosa di cui dubitiamo), non potrebbe andare da nessuna parte. Per inedia. E allora, Macron come spiega (al di là delle elucubrazioni sulla incombente invasione sarmatica) il robusto aumento delle spese militari? Semplice, affidandosi alle parole del suo Ministro dell’Economia, Eric Lombard, il quale ha illustrato i piani del governo per arrivare (gradualmente) a una spesa per la difesa del 5 per cento del Pil.
Una china di instabilità politica
Uno sforzo che, per la Francia, non sarà indolore, dati i cronici problemi di bilancio e la pericolosa china di instabilità politica presa dal Paese, sempre più socialmente spaccato. Dunque, nell’attribuire uno dei motivi del riarmo al principio di ‘collegialità atlantica’ (in altre parole, il diktat di Trump), il governo francese ha spiegato che esso rappresenta anche una eccellente opportunità di risparmio e rilancio dell’economia. Saranno proposte obbligazioni bancarie, che i privati potranno sottoscrivere, per sostenere le nuove spese per la difesa, ottenendo un buon guadagno in termini di rendimento. Così TF1 riporta le parole del ministro: «Certo, c’è del rischio – ammette – ma l’obiettivo è investire in ‘buone aziende’». «E in realtà, a lungo termine, i risparmi danno più frutti. Per chi ha risparmi, è un modo per prepararsi al futuro», ha sostenuto il capo di Bercy. «Saranno buoni investimenti, perché sono sia buone che cattive notizie, ma dovremo, a lungo termine, aumentare il nostro impegno nella difesa nazionale».
Miliardi per una lobby potentissima
Questa iniziativa – conclude TF1 – è tuttavia ben lungi dall’essere sufficiente a finanziare l’ascesa dell’industria della difesa: «le aziende del settore necessitano di circa cinque miliardi di dollari in equity, nuovi capitali, finanziamenti da investitori pubblici e privati per aumentare le linee di produzione e svilupparsi», ha spiegato ancora Eric Lombard. «In particolare, ci sono 4 mila piccole e medie imprese, che necessitano di capitali, prestiti e finanziamenti», ha insistito. Quindi, è chiaro. La strategia finanziaria di Macron mira a rifornire di capitali, anche privati, la base industriale e tecnologica della difesa francese. Stiamo parlando di nove grandi gruppi, come Dassault Aviation, Safran, Thales e Airbus, oltre a più di 4.500 piccole e medie imprese. Una lobby potentissima, che fa della Francia una protagonista mondiale nel redditizio settore della produzione di sistemi d’arma, veicoli da combattimento, caccia da superiorità aerea e guerra elettronica. Basti solo pensare che il business militare pone l’Esagono al secondo posto al mondo (assieme alla Russia) per vendite complessive, con l’11 per cento del totale.
Esercito vetrina armata
Il primo utilizzo dei ‘prodotti’ Made in France, dev’essere testato nelle Forze armate transalpine, ‘vetrina’ per il supermarket delle cannoniere. Problemi? Una montagna. I piani di sviluppo degli armamenti, quasi tutti ad alta tecnologia, devono essere poliennali. La domanda dipende dalle congiunture geopolitiche internazionali: le tregue e le paci fanno male al ‘business’. E quindi anche al mercato delle armi, facendo crollare le azioni di chi ci ha investito sopra. Insomma, lo sviluppo, la realizzazione e l’acquisizione di armamenti di ultima generazione vanno finanziati dallo Stato. Con tagli (alla spesa pubblica) o tasse, non si scappa. E in Francia? Beh, tutte e due le cose. Macron è un pericoloso ‘gambler’, gli piace giocare d’azzardo. Spesso perde, ma anziché pagare firma cambiali (politiche), che prima o dopo qualcuno gli sventolerà sotto il naso.
Bilancio 2026 da paura
«Bilancio 2026: lo spettro dell’aumento delle tasse si fa sempre più concreto», titola secco Le Figaro, attribuendo al governo Bayrou propositi ‘suicidi’, se si considerano le tensioni sociali già esistenti e il fatto che mentre si taglia il welfare, con la stessa sfrontatezza si aumenta subito la spesa militare. Che passa dal 2,1 per cento fino a raddoppiare nel 2030 e a stabilizzarsi al 5 per cento, nel 2035. Le Figaro scrive: «La Presidente dell’Assemblea nazionale, Yael Braun-Pivet, pur appartenendo a Renaissance (che ama presentarsi come il partito della riduzione delle tasse), ha ammesso che, nella preparazione del bilancio, che dovrebbe evidenziare uno sforzo di 40 miliardi, ‘non possiamo ignorare le entrate ed escludere a priori qualsiasi aumento delle tasse’. La deputata sta anche aprendo la strada proponendo, su Les Échos, di eliminare la detrazione fiscale del 10% sulle pensioni di vecchiaia o di aumentare l’aliquota più alta del CSG (contributo sociale)». Tutto questo per non parlare dei provvedimenti, già circolati in anteprima, e che riguardano la ‘riforma’ (cioè il ridimensionamento) del Servizio sanitario nazionale. Una medicina amarissima, che sarà fatta trangugiare al popolo francese in settimana, quando sarà approvata la molto controversa legge di bilancio.
‘Legge Putin’ e le crescenti diseguaglianze
Legge di bilancio che potremmo definire anche “legge Putin”, dato che dietro il ‘babau russo’, l’uomo nero che toglie il sonno ai nipotini di Napoleone, c’è l’esigenza di raccattare una quarantina di miliardi di euro, senza abbassare le saracinesche del Matignon. E tutto questo, proprio in un momento in cui Le Figaro titola: «Forte aumento della disuguaglianza e del tasso di povertà al livello più alto degli ultimi 30 anni. La scommessa fallita di Emmanuel Macron». L’articolo si riferisce al piano presentato dal Presidente francese nel 2018 per migliorare la situazione e al riscontro, catastrofico, dell’Istituto nazionale di statistica (INSEE) alla fine del 2023. «Crescenti disuguaglianze e povertà». Nel 2023 – dice il quotidiano parigino – 9,8 milioni di persone vivevano al di sotto della soglia di povertà monetaria nella Francia metropolitana, ha rivelato lunedì l’INSEE. Questa cifra è significativamente più alta rispetto all’anno precedente. Secondo l’Istituto, «il tasso di povertà (la percentuale di individui che vivono con meno di 1.288 euro al mese) è aumentato di 0,9 punti percentuali, raggiungendo il 15,4%. Si tratta di un livello che non si vedeva dal 1996, anno del primo studio INSEE sull’argomento».
‘La madre di tutte le catastrofi’ sulle pensioni
In questo ‘vernissage’ delle disgrazie macroniane, non abbiamo parlato della ‘madre di tutte le catastrofi’: la riforma delle pensioni, che merita un necrologio politico a parte. Ma che sarà il nemico più coriaceo della sua Grande Armèe. Siamo sicuri che ai reggimenti di ardimentosi (e spremuti) pensionati, dimenticati dallo Stato, che protestando civilmente in piazza (e alle urne) grideranno la loro rabbia, le divisioni corazzate di Macron gli faranno un baffo.
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09/07/2025
Guerra in Ucraina - I guerrafondai “democratici” ora sperano in Trump, per disperazione
Almeno una volta ogni quindici giorni il piccolo mondo ipocrita dei “democratici per il genocidio e la Terza guerra mondiale” scopre che Trump, in fondo, è ancora dei “nostri”. Degli euro-atlantici, insomma, anche se “ci” fa penare con ‘sta storia dei dazi, la fissazione degli immigrati, il disprezzo per i contrappesi costituzionali e il conflitto di interessi, l’atteggiamento verso il mondo Lgbtq ecc., le università più prestigiose e via elencando.
Basta poco per farlo rientrare tra “i nostri”: armare l’Ucraina e prolungare la guerra. Tutto qui? Tutto qui...
Un’occhiata ai giornali mainstream conferma pienamente questa certezza – temporanea, per carità – e la folla dei “Rambini” (con o senza bretelle) si sbraccia per festeggiare il ritorno dell’America.
Si sa che The Donald vorrebbe metter fine a quelle due guerre che doveva chiudere in 24 ore e dopo sei mesi stanno ancora lì, ad intralciare il suo vero obiettivo strategico (“Make America great again”) a colpi di ricatti per imporre accordi commerciali squilibrati che portino soldi per contenere il debito pubblico statunitense.
Ma da un lato si ritrova Netanyahu, che vuole completare il genocidio con il suo consenso in modo da rendere “meritata” la candidatura a premio nobel per la pace (la minuscola è d’obbligo...), dall’altra una Russia che non vuol saperne di accordicchi che riproducono i pasticci di Minsk I e II. Ovvero che lasciano aperta la possibilità di ricostruire l’Ucraina come potenza militare delegata a “premere” su Mosca – anche se quasi soltanto con iniziative terroristiche magari dolorose, ma di nessuna valenza strategica.
Perciò ogni tanto ecco il mondo Maga fare un piccolo e temporaneo passo indietro verso la visione guerrafondaia “neocon” – comune a “democratici” e “repubblicani classici” alla Bush –, mostrarsi “deluso” da Putin e riaprire il flusso di armi verso Kiev.
Ad uno sguardo più attento, però, nella pratica la “svolta” è meno radicale delle parole (un classico dello stile trumpiano, del resto). In realtà il boss della Casa Bianca non ha specificato quali dispositivi verranno inviati, parlando genericamente di “alcune armi”, per giunta “difensive”.
Una specificazione che probabilmente si riferisce a qualche batteria di Patriot anti-missile e poco altro, più che altro un gesto pubblicitario per far scendere la pressione neocon (con effetto immediato, sui media di quell’area). In definitiva, però, non si tratta di nuovi pacchetti di armi approvati dal Congresso, ma piuttosto di una ripresa graduale del vecchio accordo firmato da Biden e ormai agli sgoccioli.
Anche perché – come riporta non solo l’inglese Guardian – il Pentagono dispone attualmente solo del 25% dei Patriot necessari per la difesa Usa. Ucraina e Israele hanno insomma svuotato i magazzini degli States, e non è così semplice ripianare le scorte (anche perché si tratta di armi costose e dai tempi di fabbricazione piuttosto lunghi).
In dettaglio: Lockheed Martin, l’unico produttore di missili PAC-3 MSE, ne ha prodotte solo 500 unità l’anno scorso. Un nuovo contratto mira ad aumentare la produzione a 650. Poca roba rispetto ai 3.376 mancanti nella “pianta organica”.
Qualcosa a Kiev arriverà, insomma, ma quanto basta a far placare le polemiche interne, non certo a cambiare l’andamento della guerra sul campo. Tanto meno a garantire a Kiev capacità “offensive” aggiuntive.
Dall’altra parte, in Russia, nel frattempo, si vanno costruendo nuove fabbriche di droni “economici” ma non per questo meno efficaci, in modo da permettere nuovi “record” di attacchi in contemporanea. Cosa che – come dimostrato anche dall’Iron Dome israeliano durante la “guerra dei 12 giorni” con l’Iran – rende le difese anti-missile numericamente inferiori ed economicamente insostenibili sul medio periodo.
Una situazione che, come si capisce facilmente, non è cambiata di molto, anche se le parole sembra disegnare una “svolta”. Ma dal poco che basta per risollevare il morale dei guerrafondai “democratici” si comprende il grado di disperazione cui sono arrivati...
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Basta poco per farlo rientrare tra “i nostri”: armare l’Ucraina e prolungare la guerra. Tutto qui? Tutto qui...
Un’occhiata ai giornali mainstream conferma pienamente questa certezza – temporanea, per carità – e la folla dei “Rambini” (con o senza bretelle) si sbraccia per festeggiare il ritorno dell’America.
Si sa che The Donald vorrebbe metter fine a quelle due guerre che doveva chiudere in 24 ore e dopo sei mesi stanno ancora lì, ad intralciare il suo vero obiettivo strategico (“Make America great again”) a colpi di ricatti per imporre accordi commerciali squilibrati che portino soldi per contenere il debito pubblico statunitense.
Ma da un lato si ritrova Netanyahu, che vuole completare il genocidio con il suo consenso in modo da rendere “meritata” la candidatura a premio nobel per la pace (la minuscola è d’obbligo...), dall’altra una Russia che non vuol saperne di accordicchi che riproducono i pasticci di Minsk I e II. Ovvero che lasciano aperta la possibilità di ricostruire l’Ucraina come potenza militare delegata a “premere” su Mosca – anche se quasi soltanto con iniziative terroristiche magari dolorose, ma di nessuna valenza strategica.
Perciò ogni tanto ecco il mondo Maga fare un piccolo e temporaneo passo indietro verso la visione guerrafondaia “neocon” – comune a “democratici” e “repubblicani classici” alla Bush –, mostrarsi “deluso” da Putin e riaprire il flusso di armi verso Kiev.
Ad uno sguardo più attento, però, nella pratica la “svolta” è meno radicale delle parole (un classico dello stile trumpiano, del resto). In realtà il boss della Casa Bianca non ha specificato quali dispositivi verranno inviati, parlando genericamente di “alcune armi”, per giunta “difensive”.
Una specificazione che probabilmente si riferisce a qualche batteria di Patriot anti-missile e poco altro, più che altro un gesto pubblicitario per far scendere la pressione neocon (con effetto immediato, sui media di quell’area). In definitiva, però, non si tratta di nuovi pacchetti di armi approvati dal Congresso, ma piuttosto di una ripresa graduale del vecchio accordo firmato da Biden e ormai agli sgoccioli.
Anche perché – come riporta non solo l’inglese Guardian – il Pentagono dispone attualmente solo del 25% dei Patriot necessari per la difesa Usa. Ucraina e Israele hanno insomma svuotato i magazzini degli States, e non è così semplice ripianare le scorte (anche perché si tratta di armi costose e dai tempi di fabbricazione piuttosto lunghi).
In dettaglio: Lockheed Martin, l’unico produttore di missili PAC-3 MSE, ne ha prodotte solo 500 unità l’anno scorso. Un nuovo contratto mira ad aumentare la produzione a 650. Poca roba rispetto ai 3.376 mancanti nella “pianta organica”.
Qualcosa a Kiev arriverà, insomma, ma quanto basta a far placare le polemiche interne, non certo a cambiare l’andamento della guerra sul campo. Tanto meno a garantire a Kiev capacità “offensive” aggiuntive.
Dall’altra parte, in Russia, nel frattempo, si vanno costruendo nuove fabbriche di droni “economici” ma non per questo meno efficaci, in modo da permettere nuovi “record” di attacchi in contemporanea. Cosa che – come dimostrato anche dall’Iron Dome israeliano durante la “guerra dei 12 giorni” con l’Iran – rende le difese anti-missile numericamente inferiori ed economicamente insostenibili sul medio periodo.
Una situazione che, come si capisce facilmente, non è cambiata di molto, anche se le parole sembra disegnare una “svolta”. Ma dal poco che basta per risollevare il morale dei guerrafondai “democratici” si comprende il grado di disperazione cui sono arrivati...
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Espulsa delegazione della UE dalla Libia dell’est
Ieri una delegazione della Ue, della quale faceva parte anche il ministro dell’Interno italiano, Matteo Piantedosi, era arrivata in Libia all’aeroporto di Benina, in Cirenaica, ma il governo parallelo di Bengasi ha annullato la visita in programma denunciando “violazioni delle norme dello Stato libico”.
La visita dei ministri dell’Interno di Italia, Grecia e Malta – Matteo Piantedosi, Thanos Plevris e Byron Camilleri – e del commissario europeo per le Migrazioni, Magnus Brunner, è stata così annullata.
A molti è venuto quasi istintivo invocare una sorta di legge del contrappasso per il ministro Piantedosi – l’espulsore che viene espulso a sua volta – ma la vicenda appare più complessa delle apparenze.
Ai componenti della missione, di cui fanno parte i ministri dell’Interno di Italia, Grecia e Malta e il commissario europeo per le Migrazioni, Magnus Brunner, è stato comunicato che “devono lasciare immediatamente il territorio libico in quanto persone non gradite”.
Il comunicato ufficiale porta la firma del capo del governo libico dell’est, Osama Hammad, e definisce l’episodio un “chiaro superamento delle consuetudini diplomatiche e dei trattati internazionali”.
Nel testo si legge che le autorità di Bengasi hanno considerato il comportamento della delegazione europea una “mancanza di rispetto alla sovranità nazionale libica e una palese violazione delle leggi del Paese”, sottolineando inoltre “il mancato rispetto delle procedure di ingresso e soggiorno dei diplomatici stranieri stabilite dal governo libico”.
La nota aggiunge che “dopo l’arrivo della delegazione all’aeroporto internazionale di Benina”, le autorità hanno ritenuto necessario notificare ai funzionari europei “l’obbligo di lasciare immediatamente il territorio libico e considerarli persone non gradite”.
Il governo di Hammad ha inoltre ribadito “a tutti i diplomatici e membri delle missioni internazionali e delle organizzazioni non governative e governative l’importanza di rispettare pienamente la sovranità dello Stato libico”, attenendosi “alle leggi e ai regolamenti in vigore” e riconoscendo “le prerogative delle autorità libiche nel disciplinare le visite ufficiali”.
Il premier ha quindi invitato tutte le parti a “coordinarsi con il governo libico” in vista di futuri incontri diplomatici, sottolineando che eventuali future violazioni saranno gestite “secondo quanto previsto da accordi e trattati internazionali”.
La visita a Bengasi dei ministri sarebbe saltata sul nascere, a causa di una “imboscata diplomatica”. Secondo quanto riferiscono fonti informate a “Agenzia Nova”, l’episodio ha preso una piega imprevista già al momento dell’atterraggio dell’aereo con a bordo la delegazione europea, quando a scendere per primo è stato l’ambasciatore dell’Unione europea in Libia, Nicola Orlando.
Sul piazzale dell’aeroporto di Benina, tuttavia, ad accogliere la delegazione non c’erano gli interlocutori previsti dai protocolli definiti nei giorni precedenti. Al loro posto, erano presenti rappresentanti del Governo di stabilità nazionale guidato da Osama Hammad, premier designato dalla Camera dei rappresentanti di Tobruk ma non riconosciuto dalla comunità internazionale.
La visita – precisano le fonti – era stata concordata con Khalifa Haftar, comandante generale dell’Esercito nazionale libico (ENL), e non con le autorità governative dell’Est.
Secondo questa ricostruzione nessun elemento andrebbe letto in chiave bilaterale contro l’Italia o altri Paesi membri dell’Unione europea: la questione è squisitamente legata ai delicati equilibri istituzionali in Libia e alle dispute di legittimità tra i diversi attori libici.
La delegazione europea ha chiesto di evitare foto ufficiali con gli interlocutori libici presenti all’aeroporto – diversi da quelli previsti dal protocollo – per non attribuire un riconoscimento formale al governo di Hammad, rimanendo però disponibile – come segno di rispetto – a incontrare le autorità locali in modo informale e senza esposizione mediatica.
A quel punto è scattata la reazione da parte libica con la dichiarazione che la visita non avrebbe più avuto luogo.
Secondo le fonti di “Agenzia Nova” – una delle fonti più informate sulla situazione libica – si è trattato di un’azione deliberata da parte del governo di Hammad, probabilmente finalizzata a ribadire la richiesta di pieno riconoscimento politico.
Secondo due analisti sentiti dall’Agenzia Nova, il blocco della delegazione europea all’aeroporto di Bengasi sarebbe anche il riflesso di una crisi diplomatica sempre più profonda tra il governo dell’Est libico e la Grecia. “Le relazioni tra Bengasi e Atene sono oggi estremamente deteriorate, anche per via del potenziale avvicinamento della Libia orientale alla Turchia e dell’eventuale ratifica del memorandum marittimo turco-libico da parte delle autorità dell’Est”. Sullo sfondo c’è l’allargamento della Zona Economica Esclusiva libica e il suo ricongiungimento con quella della Turchia.
Secondo un altro osservatore “Il gesto di Hammad – dichiarare persona non grata la delegazione europea – può essere letto anche come un tentativo di affermarsi come interlocutore politico autonomo, rafforzando la propria posizione nella complessa gerarchia del potere cirenaico”, afferma un analista dell’Istituto Internazionale di Studi Strategici.
Fonte
La visita dei ministri dell’Interno di Italia, Grecia e Malta – Matteo Piantedosi, Thanos Plevris e Byron Camilleri – e del commissario europeo per le Migrazioni, Magnus Brunner, è stata così annullata.
A molti è venuto quasi istintivo invocare una sorta di legge del contrappasso per il ministro Piantedosi – l’espulsore che viene espulso a sua volta – ma la vicenda appare più complessa delle apparenze.
Ai componenti della missione, di cui fanno parte i ministri dell’Interno di Italia, Grecia e Malta e il commissario europeo per le Migrazioni, Magnus Brunner, è stato comunicato che “devono lasciare immediatamente il territorio libico in quanto persone non gradite”.
Il comunicato ufficiale porta la firma del capo del governo libico dell’est, Osama Hammad, e definisce l’episodio un “chiaro superamento delle consuetudini diplomatiche e dei trattati internazionali”.
Nel testo si legge che le autorità di Bengasi hanno considerato il comportamento della delegazione europea una “mancanza di rispetto alla sovranità nazionale libica e una palese violazione delle leggi del Paese”, sottolineando inoltre “il mancato rispetto delle procedure di ingresso e soggiorno dei diplomatici stranieri stabilite dal governo libico”.
La nota aggiunge che “dopo l’arrivo della delegazione all’aeroporto internazionale di Benina”, le autorità hanno ritenuto necessario notificare ai funzionari europei “l’obbligo di lasciare immediatamente il territorio libico e considerarli persone non gradite”.
Il governo di Hammad ha inoltre ribadito “a tutti i diplomatici e membri delle missioni internazionali e delle organizzazioni non governative e governative l’importanza di rispettare pienamente la sovranità dello Stato libico”, attenendosi “alle leggi e ai regolamenti in vigore” e riconoscendo “le prerogative delle autorità libiche nel disciplinare le visite ufficiali”.
Il premier ha quindi invitato tutte le parti a “coordinarsi con il governo libico” in vista di futuri incontri diplomatici, sottolineando che eventuali future violazioni saranno gestite “secondo quanto previsto da accordi e trattati internazionali”.
La visita a Bengasi dei ministri sarebbe saltata sul nascere, a causa di una “imboscata diplomatica”. Secondo quanto riferiscono fonti informate a “Agenzia Nova”, l’episodio ha preso una piega imprevista già al momento dell’atterraggio dell’aereo con a bordo la delegazione europea, quando a scendere per primo è stato l’ambasciatore dell’Unione europea in Libia, Nicola Orlando.
Sul piazzale dell’aeroporto di Benina, tuttavia, ad accogliere la delegazione non c’erano gli interlocutori previsti dai protocolli definiti nei giorni precedenti. Al loro posto, erano presenti rappresentanti del Governo di stabilità nazionale guidato da Osama Hammad, premier designato dalla Camera dei rappresentanti di Tobruk ma non riconosciuto dalla comunità internazionale.
La visita – precisano le fonti – era stata concordata con Khalifa Haftar, comandante generale dell’Esercito nazionale libico (ENL), e non con le autorità governative dell’Est.
Secondo questa ricostruzione nessun elemento andrebbe letto in chiave bilaterale contro l’Italia o altri Paesi membri dell’Unione europea: la questione è squisitamente legata ai delicati equilibri istituzionali in Libia e alle dispute di legittimità tra i diversi attori libici.
La delegazione europea ha chiesto di evitare foto ufficiali con gli interlocutori libici presenti all’aeroporto – diversi da quelli previsti dal protocollo – per non attribuire un riconoscimento formale al governo di Hammad, rimanendo però disponibile – come segno di rispetto – a incontrare le autorità locali in modo informale e senza esposizione mediatica.
A quel punto è scattata la reazione da parte libica con la dichiarazione che la visita non avrebbe più avuto luogo.
Secondo le fonti di “Agenzia Nova” – una delle fonti più informate sulla situazione libica – si è trattato di un’azione deliberata da parte del governo di Hammad, probabilmente finalizzata a ribadire la richiesta di pieno riconoscimento politico.
Secondo due analisti sentiti dall’Agenzia Nova, il blocco della delegazione europea all’aeroporto di Bengasi sarebbe anche il riflesso di una crisi diplomatica sempre più profonda tra il governo dell’Est libico e la Grecia. “Le relazioni tra Bengasi e Atene sono oggi estremamente deteriorate, anche per via del potenziale avvicinamento della Libia orientale alla Turchia e dell’eventuale ratifica del memorandum marittimo turco-libico da parte delle autorità dell’Est”. Sullo sfondo c’è l’allargamento della Zona Economica Esclusiva libica e il suo ricongiungimento con quella della Turchia.
Secondo un altro osservatore “Il gesto di Hammad – dichiarare persona non grata la delegazione europea – può essere letto anche come un tentativo di affermarsi come interlocutore politico autonomo, rafforzando la propria posizione nella complessa gerarchia del potere cirenaico”, afferma un analista dell’Istituto Internazionale di Studi Strategici.
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USA - Il laboratorio di sfruttamento di Amazon Prime non ha niente da festeggiare
Sono arrivati i Prime Days di luglio di Amazon: la promozione annuale super pubblicizzata e iper-scontata che regala un sacco di offerte interessanti ai clienti e guadagni alle stelle per i dirigenti aziendali. I Prime Days regalano un po’ meno euforia agli 1,5 milioni di lavoratori nei magazzini, nelle stazioni di trasporto aereo e nei veicoli per le consegne di Amazon negli Stati Uniti, costretti a sopportare giornate di lavoro estenuanti e lunghissime, colpi di calore e un preoccupante aumento di infortuni e ricoveri ospedalieri.
Il Prime Day è un’invenzione dell’azienda vecchia di un decennio, ideata per attrarre nuovi abbonati Prime e incrementare i ricavi in un periodo dell’anno in cui solitamente le vendite calano. Dal punto di vista commerciale, è stato un successo straordinario. Oggi, 180 milioni di americani sono abbonati ad Amazon Prime. L’anno scorso, l’azienda ha registrato un fatturato di 14,2 miliardi di dollari durante i due giorni di saldi del Prime Day a luglio, ben quattro volte il fatturato medio di un periodo di due giorni.
Amazon, ovviamente, non può quadruplicare la produzione senza gravare sui lavoratori che prelevano, smistano, confezionano e consegnano la merce. “Non è raro che ci sia una sfilata di ambulanze che lasciano JFK8, soprattutto durante la settimana Prime e l’alta stagione, quando la sicurezza va a farsi benedire”, mi ha detto Tristian Martinez, un veterano con sei anni di esperienza nel magazzino di Staten Island e membro del sindacato Amazon Labor Union Local 1 dei Teamsters. “Ti spingono e ti spingono sempre più”.
Nei giorni precedenti, durante e successivi al Prime Day, così come durante il periodo di punta dal Ringraziamento a Natale, Amazon istituisce il suo famigerato programma di lavoro obbligatorio (MET). Per i magazzinieri, questo significa un’ora o più aggiunta al turno ogni giorno – che per la maggior parte dura già 10 ore – più un giorno di lavoro extra ogni settimana. Per i corrieri, ci sono straordinari e aumenti del carico di lavoro. Questo programma infernale rovina il tempo dedicato alla famiglia e al tempo libero dei lavoratori durante i saldi, ma lascia anche un segno più duraturo su molti.
Gli infortuni gravi nei magazzini Amazon sono aumentati vertiginosamente durante il Prime Day dello scorso anno, con un aumento del 35% di settimana in settimana, secondo lo Strategic Organizing Center, un’organizzazione sindacale che ha tratto i dati dall’Amministrazione federale per la sicurezza e la salute sul lavoro. Questo si aggiunge a un tasso di infortuni che è già superiore del 66% rispetto ai magazzini non Amazon, secondo il SOC. Per quanto questi dati siano negativi per i lavoratori Amazon, è probabile che siano ampiamente sottostimati: nel 2022, gli ispettori federali per la sicurezza sul lavoro hanno multato Amazon per aver sistematicamente classificato in modo errato e persino omesso di registrare infortuni e malattie.
Quest’anno, il Prime Day promette di essere ancora più estenuante. L’azienda ne ha raddoppiato la durata, portandola a quattro giorni, dall’8 all’11 luglio. I lavoratori non vedono l’ora. Due settimane fa, durante un’ondata di caldo a New York, Michael LeBron ha misurato una temperatura di 35 gradi Celsius nella sua postazione di lavoro del turno di notte al JFK8 . Ha registrato un video su TikTok: “È ridicolo. Non ho ancora ricevuto acqua. Mi hanno solo detto di andare al lavoro”.
LeBron non ce l’ha fatta a finire il turno. Avendo lamentato dolori al petto a metà turno, è stato mandato all’Amcare, la clinica sanitaria aziendale. “Mi hanno dato del Tylenol e mi hanno detto di tornare al lavoro”, mi ha raccontato. “È così che funziona Amazon. Non gli importa proprio niente della nostra salute”. LeBron ha chiesto un’ambulanza ed è stato trasportato in un ospedale vicino dove, per fortuna, i suoi dolori al petto sono stati diagnosticati come stiramenti muscolari, non come un infarto. Amazon fornisce ventilatori alle postazioni di lavoro, ma “quando fa caldo, è come se ti soffiasse aria calda”, mi ha detto Antonie Sparrow, un’altra sindacalista del JFK8. I colpi di calore sono comuni. “Vedo un gran flusso di persone che entrano ed escono da Amcare”. Adrian Easterling è svenuto di recente nel reparto stiva del JFK8. “Ho avuto un colpo di calore nonostante mi stessi idratando correttamente”, mi ha raccontato. “Ho detto a un altro operaio: ‘Non mi sento bene’, e la cosa successiva che ricordo è che ero in Amcare”. Un’ambulanza lo ha trasportato in ospedale, dove gli hanno somministrato liquidi e un trattamento di raffreddamento. Molti lavoratori di Staten Island hanno lunghi spostamenti, anche due o tre ore per tratta. “Durante il MET, letteralmente torni a casa, chiudi gli occhi e poi ricomincia da capo”, ha detto Sparrow.
Il problema è sistemico e riguarda tutti gli oltre 1.000 magazzini, centri di trasporto aereo e stazioni di consegna di Amazon. “Durante il periodo Prime, caricano di più gli aerei” a causa del maggior volume di pacchi, ha detto Allen (nome di fantasia), un operaio di rampa di Amazon a Fort Worth, in Texas. “Dicono sempre che non vogliamo che abbiate fretta, ma i manager saranno lì a dire a tutti di sbrigarsi e di infilare tutti i pacchi nella stiva [dell’aereo]”, mi ha detto, aggiungendo che i manager ricevono un bonus quando tutti gli aerei partono in orario.
“Ad Amazon piace dire che la sicurezza è tutto, ma sappiamo tutti che viene dopo la produttività”, mi ha detto Rebecca (anche questo è un nome di fantasia), una magazziniera di Sacramento.
Anche gli autisti addetti alle consegne di Amazon sono sottoposti a condizioni di lavoro brutali. Tecnicamente, gli autisti sono assunti da una serie di appaltatori – i cosiddetti “partner per i servizi di consegna” (DSP) – ma Amazon detta e monitora i loro ritmi di lavoro e il carico dei pacchi. Gli autisti faticano a concedersi una pausa durante i loro turni di consegna di 10 ore e molti ricorrono alla pipì in bottiglie nei loro furgoni.
Gli autisti su canali di chat come Reddit notano che la situazione peggiora durante la settimana di Prime, quando i carichi di pacchi aumentano e si verifica un picco di infortuni muscolari, affaticamento estremo e incidenti stradali. I dirigenti della maggior parte dei DSP non sono collaborativi. Un fattorino del Colorado mi ha raccontato di un collega che è svenuto durante una consegna con 35 gradi Celsius. “Il DSP ha reagito riducendogli l’orario di lavoro. Quando ha espresso frustrazione per questo trattamento nella chat di gruppo aziendale, i dirigenti hanno immediatamente cancellato tutti i messaggi e lo hanno rimosso dalla chat”, mi ha raccontato l’autista.
In alcuni luoghi, i lavoratori di Amazon si stanno organizzando, opponendosi e ottenendo alcuni miglioramenti. Presso l’hub di trasporto aereo KSBD di San Bernardino, in California, i lavoratori hanno organizzato azioni dirette e ottenuto pause contro il riscaldamento, acqua fredda e stazioni di raffreddamento. Presso il centro di trasporto aereo KCVG in Kentucky, i lavoratori si sono rifiutati di lavorare sulla rampa finché l’azienda non avesse fornito ai furgoni un sistema di aria condizionata funzionante. Vergognosamente, Amazon ha poi licenziato l’attivista sindacale che aveva guidato l’azione.
A Garner, nella Carolina del Nord, dove i lavoratori del magazzino RDU1 hanno protestato per la sicurezza legata al riscaldamento dopo una serie di ricoveri ospedalieri all’inizio di quest’anno, Amazon ha iniziato a installare più ventilatori e a revisionare il sistema di ventilazione dell’edificio. “Questa è una grande vittoria, è il risultato della nostra attività di advocacy”, ha dichiarato Ras Amon, un lavoratore di RDU1 e membro del sindacato indipendente Carolina Amazonians United for Solidarity and Empowerment.
Ma nel complesso, il ritmo dell’organizzazione in Amazon non è minimamente paragonabile all’urgenza sul posto di lavoro. Lo scorso dicembre, il sindacato dei Teamsters ha guidato scioperi di minoranza in otto magazzini Amazon, ma da allora ha mantenuto un basso profilo organizzativo a livello nazionale. Negli ultimi mesi, diversi lavoratori in tutto il paese mi hanno espresso perplessità sul perché i Teamsters non abbiano intrapreso una campagna più aggressiva.
C’è sicuramente una grande differenza sindacale da sottolineare. Anche i Teamster di UPS stanno lottando per la sicurezza contro il caldo, ma grazie al loro contratto sindacale, la direzione deve fornire acqua e ghiaccio agli autisti e due ventilatori in ogni furgone. I Teamster di UPS hanno diritto a pause extra in caso di stress da caldo.
Una rete nazionale informale di lavoratori Amazon, che ho supportato attraverso il mio lavoro al Center for Work and Democracy, incoraggia i lavoratori a visitare Amazonworkers.org per contribuire con le loro storie di caldo pericoloso. I membri dell’ALU Local 1 hanno elaborato una Carta dei Diritti sulla Sicurezza e la stanno diffondendo a livello nazionale affinché lavoratori e sostenitori di Amazon possano firmarla, mentre continuano a lottare per il riconoscimento sindacale al JFK8, tre anni dopo aver vinto le elezioni per la rappresentanza federale.
Per quanto riguarda la gestione dello sfruttamento di Prime di questa settimana, Easterling di JFK8 esorta i colleghi di Amazon che sopportano il caldo estremo e gli eccessi di lavoro a organizzare i propri colleghi e “a non avere paura. A reagire. Questo può essere normale, ma non va bene”.
Fonte
Il Prime Day è un’invenzione dell’azienda vecchia di un decennio, ideata per attrarre nuovi abbonati Prime e incrementare i ricavi in un periodo dell’anno in cui solitamente le vendite calano. Dal punto di vista commerciale, è stato un successo straordinario. Oggi, 180 milioni di americani sono abbonati ad Amazon Prime. L’anno scorso, l’azienda ha registrato un fatturato di 14,2 miliardi di dollari durante i due giorni di saldi del Prime Day a luglio, ben quattro volte il fatturato medio di un periodo di due giorni.
Amazon, ovviamente, non può quadruplicare la produzione senza gravare sui lavoratori che prelevano, smistano, confezionano e consegnano la merce. “Non è raro che ci sia una sfilata di ambulanze che lasciano JFK8, soprattutto durante la settimana Prime e l’alta stagione, quando la sicurezza va a farsi benedire”, mi ha detto Tristian Martinez, un veterano con sei anni di esperienza nel magazzino di Staten Island e membro del sindacato Amazon Labor Union Local 1 dei Teamsters. “Ti spingono e ti spingono sempre più”.
Nei giorni precedenti, durante e successivi al Prime Day, così come durante il periodo di punta dal Ringraziamento a Natale, Amazon istituisce il suo famigerato programma di lavoro obbligatorio (MET). Per i magazzinieri, questo significa un’ora o più aggiunta al turno ogni giorno – che per la maggior parte dura già 10 ore – più un giorno di lavoro extra ogni settimana. Per i corrieri, ci sono straordinari e aumenti del carico di lavoro. Questo programma infernale rovina il tempo dedicato alla famiglia e al tempo libero dei lavoratori durante i saldi, ma lascia anche un segno più duraturo su molti.
Gli infortuni gravi nei magazzini Amazon sono aumentati vertiginosamente durante il Prime Day dello scorso anno, con un aumento del 35% di settimana in settimana, secondo lo Strategic Organizing Center, un’organizzazione sindacale che ha tratto i dati dall’Amministrazione federale per la sicurezza e la salute sul lavoro. Questo si aggiunge a un tasso di infortuni che è già superiore del 66% rispetto ai magazzini non Amazon, secondo il SOC. Per quanto questi dati siano negativi per i lavoratori Amazon, è probabile che siano ampiamente sottostimati: nel 2022, gli ispettori federali per la sicurezza sul lavoro hanno multato Amazon per aver sistematicamente classificato in modo errato e persino omesso di registrare infortuni e malattie.
Quest’anno, il Prime Day promette di essere ancora più estenuante. L’azienda ne ha raddoppiato la durata, portandola a quattro giorni, dall’8 all’11 luglio. I lavoratori non vedono l’ora. Due settimane fa, durante un’ondata di caldo a New York, Michael LeBron ha misurato una temperatura di 35 gradi Celsius nella sua postazione di lavoro del turno di notte al JFK8 . Ha registrato un video su TikTok: “È ridicolo. Non ho ancora ricevuto acqua. Mi hanno solo detto di andare al lavoro”.
LeBron non ce l’ha fatta a finire il turno. Avendo lamentato dolori al petto a metà turno, è stato mandato all’Amcare, la clinica sanitaria aziendale. “Mi hanno dato del Tylenol e mi hanno detto di tornare al lavoro”, mi ha raccontato. “È così che funziona Amazon. Non gli importa proprio niente della nostra salute”. LeBron ha chiesto un’ambulanza ed è stato trasportato in un ospedale vicino dove, per fortuna, i suoi dolori al petto sono stati diagnosticati come stiramenti muscolari, non come un infarto. Amazon fornisce ventilatori alle postazioni di lavoro, ma “quando fa caldo, è come se ti soffiasse aria calda”, mi ha detto Antonie Sparrow, un’altra sindacalista del JFK8. I colpi di calore sono comuni. “Vedo un gran flusso di persone che entrano ed escono da Amcare”. Adrian Easterling è svenuto di recente nel reparto stiva del JFK8. “Ho avuto un colpo di calore nonostante mi stessi idratando correttamente”, mi ha raccontato. “Ho detto a un altro operaio: ‘Non mi sento bene’, e la cosa successiva che ricordo è che ero in Amcare”. Un’ambulanza lo ha trasportato in ospedale, dove gli hanno somministrato liquidi e un trattamento di raffreddamento. Molti lavoratori di Staten Island hanno lunghi spostamenti, anche due o tre ore per tratta. “Durante il MET, letteralmente torni a casa, chiudi gli occhi e poi ricomincia da capo”, ha detto Sparrow.
Il problema è sistemico e riguarda tutti gli oltre 1.000 magazzini, centri di trasporto aereo e stazioni di consegna di Amazon. “Durante il periodo Prime, caricano di più gli aerei” a causa del maggior volume di pacchi, ha detto Allen (nome di fantasia), un operaio di rampa di Amazon a Fort Worth, in Texas. “Dicono sempre che non vogliamo che abbiate fretta, ma i manager saranno lì a dire a tutti di sbrigarsi e di infilare tutti i pacchi nella stiva [dell’aereo]”, mi ha detto, aggiungendo che i manager ricevono un bonus quando tutti gli aerei partono in orario.
“Ad Amazon piace dire che la sicurezza è tutto, ma sappiamo tutti che viene dopo la produttività”, mi ha detto Rebecca (anche questo è un nome di fantasia), una magazziniera di Sacramento.
Anche gli autisti addetti alle consegne di Amazon sono sottoposti a condizioni di lavoro brutali. Tecnicamente, gli autisti sono assunti da una serie di appaltatori – i cosiddetti “partner per i servizi di consegna” (DSP) – ma Amazon detta e monitora i loro ritmi di lavoro e il carico dei pacchi. Gli autisti faticano a concedersi una pausa durante i loro turni di consegna di 10 ore e molti ricorrono alla pipì in bottiglie nei loro furgoni.
Gli autisti su canali di chat come Reddit notano che la situazione peggiora durante la settimana di Prime, quando i carichi di pacchi aumentano e si verifica un picco di infortuni muscolari, affaticamento estremo e incidenti stradali. I dirigenti della maggior parte dei DSP non sono collaborativi. Un fattorino del Colorado mi ha raccontato di un collega che è svenuto durante una consegna con 35 gradi Celsius. “Il DSP ha reagito riducendogli l’orario di lavoro. Quando ha espresso frustrazione per questo trattamento nella chat di gruppo aziendale, i dirigenti hanno immediatamente cancellato tutti i messaggi e lo hanno rimosso dalla chat”, mi ha raccontato l’autista.
In alcuni luoghi, i lavoratori di Amazon si stanno organizzando, opponendosi e ottenendo alcuni miglioramenti. Presso l’hub di trasporto aereo KSBD di San Bernardino, in California, i lavoratori hanno organizzato azioni dirette e ottenuto pause contro il riscaldamento, acqua fredda e stazioni di raffreddamento. Presso il centro di trasporto aereo KCVG in Kentucky, i lavoratori si sono rifiutati di lavorare sulla rampa finché l’azienda non avesse fornito ai furgoni un sistema di aria condizionata funzionante. Vergognosamente, Amazon ha poi licenziato l’attivista sindacale che aveva guidato l’azione.
A Garner, nella Carolina del Nord, dove i lavoratori del magazzino RDU1 hanno protestato per la sicurezza legata al riscaldamento dopo una serie di ricoveri ospedalieri all’inizio di quest’anno, Amazon ha iniziato a installare più ventilatori e a revisionare il sistema di ventilazione dell’edificio. “Questa è una grande vittoria, è il risultato della nostra attività di advocacy”, ha dichiarato Ras Amon, un lavoratore di RDU1 e membro del sindacato indipendente Carolina Amazonians United for Solidarity and Empowerment.
Ma nel complesso, il ritmo dell’organizzazione in Amazon non è minimamente paragonabile all’urgenza sul posto di lavoro. Lo scorso dicembre, il sindacato dei Teamsters ha guidato scioperi di minoranza in otto magazzini Amazon, ma da allora ha mantenuto un basso profilo organizzativo a livello nazionale. Negli ultimi mesi, diversi lavoratori in tutto il paese mi hanno espresso perplessità sul perché i Teamsters non abbiano intrapreso una campagna più aggressiva.
C’è sicuramente una grande differenza sindacale da sottolineare. Anche i Teamster di UPS stanno lottando per la sicurezza contro il caldo, ma grazie al loro contratto sindacale, la direzione deve fornire acqua e ghiaccio agli autisti e due ventilatori in ogni furgone. I Teamster di UPS hanno diritto a pause extra in caso di stress da caldo.
Una rete nazionale informale di lavoratori Amazon, che ho supportato attraverso il mio lavoro al Center for Work and Democracy, incoraggia i lavoratori a visitare Amazonworkers.org per contribuire con le loro storie di caldo pericoloso. I membri dell’ALU Local 1 hanno elaborato una Carta dei Diritti sulla Sicurezza e la stanno diffondendo a livello nazionale affinché lavoratori e sostenitori di Amazon possano firmarla, mentre continuano a lottare per il riconoscimento sindacale al JFK8, tre anni dopo aver vinto le elezioni per la rappresentanza federale.
Per quanto riguarda la gestione dello sfruttamento di Prime di questa settimana, Easterling di JFK8 esorta i colleghi di Amazon che sopportano il caldo estremo e gli eccessi di lavoro a organizzare i propri colleghi e “a non avere paura. A reagire. Questo può essere normale, ma non va bene”.
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