Il documento sulla Strategia per la Sicurezza Nazionale dell’amministrazione Trump pubblicato venerdì si propone di “ripristinare la preminenza americana nell’emisfero occidentale”, rilanciando esplicitamente la dottrina Monroe, nata per contrastare qualsiasi ingerenza europea nell’emisfero occidentale e in seguito utilizzata per giustificare gli interventi militari statunitensi in America Latina. Contestualmente indica un esplicito bye bye ai vecchi partner europei, anzi li indica quasi esplicitamente come dei competitori.
La frammentazione del mercato mondiale e la riorganizzazione imperialista fondata su blocchi regionali, economici e geopolitici, va prendendo forma piuttosto nitidamente.
Ma se sull’America Latina si torna ad ambizioni egemoniche e linguaggi ottocenteschi, è proprio sull’Europa che il documento di 33 pagine utilizza un linguaggio nuovo definendola a rischio di “cancellazione della civiltà” dovuta al declino economico, alla crisi demografica, alle politiche migratorie permissive e all’erosione della libertà di espressione.
In un paragrafo, appena più rassicurante per i governi europei già andati nel panico, è scritto che “l’Europa resta tuttavia strategicamente e culturalmente vitale per gli Stati Uniti”, ma il rapporto manifesta una visione piuttosto diversa rispetto al passato, sottoposta a giudizi non certo lusinghieri per i partner storici europei finora giudicati affidabili, dal dopoguerra in poi, da ogni amministrazione Usa.
La nuova Strategia per la Sicurezza Nazionale USA indica un quadro del mondo contemporaneo che non lascia margini di ambiguità. Gli Stati Uniti intendono riaffermare la propria centralità e supremazia economica, militare, ideologica e tecnologica, ponendo fine ad ogni istanza multilateralista che – sebbene da sempre subalterna al Washington Consensus – fino a pochi anni fa aveva gestito quella che è stata definita come globalizzazione.
La premessa del documento spiega come oggi la sicurezza nazionale statunitense non nasca soltanto dalla potenza militare, ma dal rafforzamento interno della nazione, dalla ricostruzione del suo apparato industriale, dalla difesa dei confini, dalla salvaguardia dell’identità culturale e dalla protezione delle tecnologie critiche.
Dunque il “contenimento” della Cina e la ridefinizione dei rapporti con l’Europa diventano i pilastri di una strategia che mira a riaffermare le priorità statunitensi, contrastando l’idea di un “declino americano” e rivedendo l’idea che Washington debba sostenere da sola il peso dell’ordine internazionale.
Il passaggio dedicato all’Europa, dalle “nostre parti”, è probabilmente il più indigesto ma significativo del documento. Non vi si trovano più affermazioni di fedeltà alla Nato come un legame quasi sacro. Al contrario, prevale invece un atteggiamento piuttosto disincantato se non apertamente critico.
Washington considera l’Europa come un’area strategicamente importante ma profondamente indebolita dalle contraddizioni interne. Tra queste vengono indicati la stagnazione economica, il declino demografico, l’instabilità politica, le limitazioni alle libertà di espressione e le ondate migratorie verso il vecchio continente. Difficile non ammettere che tali fattori di crisi dell’Europa esistano concretamente, e non occorre certo essere “putiniani” per dirlo.
La stessa guerra in Ucraina viene descritta nel documento come un ulteriore acceleratore di dipendenze (es. quella energetica), di crisi politiche e fragilità economiche che minano la coesione interna europea.
La strategia statunitense, contrariamente ai governi europei, spinge per un rapido ritorno alla stabilità in Europa e a ristabilire i rapporti tra Europa e Russia.
Emblematico il passaggio in cui il futuro della Nato non deve più essere definito dall’espansione continua, bensì dalla capacità europea di assumersi responsabilità e costi molto maggiori sul piano militare.
L’Europa rimane, agli occhi di Washington, un partner ancora utile sul piano commerciale e tecnologico, ma non è più il cuore della strategia statunitense nelle relazioni internazionali.
In questa ridefinizione di priorità, per gli Stati Uniti la Cina appare come la vera sfida del XXI Secolo. Pechino non è più considerata un attore con cui trovare equilibri stabili, ma un competitore sistemico deciso a mettere in discussione la supremazia Usa nel mondo.
Secondo la Strategia per la Sicurezza Nazionale statunitense, i decenni di apertura economica non hanno avvicinato la Cina all’ordine internazionale liberale ma, al contrario, ne hanno accelerato l’ascesa come superpotenza. Le filiere internazionali di produzione sono state ristrutturate in modo da garantire alla Cina un controllo crescente sui mercati emergenti e sulle materie prime critiche. La capacità industriale cinese, abbinata a investimenti massicci in tecnologie come l’intelligenza artificiale, il quantistico, la robotica e lo spazio, costituisce oggi il cuore della competizione con gli Stati Uniti.
Nel documento questi ultimi ammettono apertamente di avere perso terreno e annunciano una controffensiva economica e tecnologica su larga scala di cui la ricostruzione dell’industria nazionale Usa diventa un obiettivo strategico, così come la riduzione delle dipendenze critiche dalle filiere cinesi.
L’obiettivo dichiarato è quello di impedire che la Cina raggiunga una supremazia economica e tecnologica tale da rendere inevitabile la sua leadership globale.
Sul piano militare, la strategia statunitense appare ancora più esplicita. La priorità è contenere la Cina e impedire qualsiasi tentativo di alterare lo status quo nel Mar Cinese Meridionale e nello stretto di Taiwan.
La competizione non viene più circoscritta alla sola dimensione militare, ma investe l’intero sistema industriale-militare: produzione, innovazione, logistica, resilienza economica. Il documento non contempla scenari concilianti con la Cina e il confronto tra le due potenze si ritiene inevitabile, continuo e strutturale. Gli Stati Uniti considerano indispensabile mantenere un vantaggio qualitativo nelle piattaforme navali, negli assetti spaziali, nei missili di nuova generazione, nelle tecnologie.
Ma se i governi europei sono andati in tilt, a dover essere ancora più preoccupati dovrebbero essere quelli dell’America Latina.
La Strategia per la Sicurezza Nazionale degli Stati Uniti afferma infatti che un “Corollario Trump” sarà applicato alla Dottrina Monroe, quella che a partire dal 1820, consolidò l'egemonia statunitense in America Latina, da allora considerata il “cortile di casa” degli Usa e dal quale tenere lontane le potenze europee. In base a quella dottrina gli Stati Uniti sono intervenuti militarmente decine di volte contro i paesi centro e latinoamericani o hanno organizzato colpi di stato contro governi non subalterni a Washington.
Quello che stiamo vedendo in queste settimane in Venezuela ma anche in Colombia, Messico, Honduras confermano questo tentativo di ritorno all’egemonismo statunitense sull’America Latina.
A tale scopo, è scritto nel documento, Washington riadatterà la sua “presenza militare globale per affrontare minacce urgenti nel nostro emisfero e si allontanerà da scenari la cui importanza relativa per la sicurezza nazionale degli Stati Uniti è diminuita negli ultimi decenni o anni”.
L’amministrazione Trump vuole anche porre fine alla migrazione di massa e rendere il controllo delle frontiere “l’elemento principale della sicurezza americana” – afferma la nuova strategia per la sicurezza nazionale Usa – “L’era della migrazione di massa deve giungere al termine. La sicurezza di confine è l’elemento principale della sicurezza nazionale”.
La fase storica della concertazione e della globalizzazione è ormai definitivamente alle nostre spalle, siamo entrati pienamente nella fase della competizione globale imperialista fondata su blocchi economici e politici diversi e contrapposti.
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07/12/2025
ONU: Israele è uno stato torturatore de facto
Il Comitato delle Nazioni Unite contro la tortura (CAT) ha espresso un duro atto d’accusa nei confronti di Israele. In un nuovo rapporto pubblicato venerdì, l’organismo ONU denuncia l’esistenza di una politica statale de facto finalizzata all’uso organizzato e diffuso della tortura contro i prigionieri palestinesi. Una pratica che, secondo gli esperti, ha subito una grave escalation dall’inizio delle operazioni militari a Gaza nell’ottobre 2023.
Il documento, frutto del monitoraggio periodico sui paesi firmatari della Convenzione contro la tortura, dipinge un quadro agghiacciante delle condizioni detentive. Le testimonianze raccolte da gruppi per i diritti umani e durante le inchieste riferiscono di “ripetute e gravi percosse, attacchi con cani, elettrocuzione, waterboarding, uso prolungato di posizioni di stress e violenza sessuale”.
I terroristi israeliani impongono umiliazioni ai prigionieri: sono “costretti a comportarsi come animali o urinando loro addosso”, disumanizzandoli nel tipico schema di un’ideologia suprematista come è il sionismo. Vengono loro negate le cure mediche e, in alcuni casi, l’uso eccessivo di mezzi di contenzione ha portato all’amputazione degli arti.
Per l’ONU, poi, ci si trova davanti a una vera e propria “sparizione forzata” quando si parla della controversa normativa sui “combattenti illegali”. Con essa, Israele arresta sistematica civili, spesso minori, donne incinte e anziani, con l’accusa di essere in sostanza terroristi, e li costringe a una lunga detenzione senza accesso ad avvocati o familiari, i quali a volte hanno dovuto aspettare mesi per sapere cosa fosse successo ai loro cari.
Il Comitato ONU rileva l’assenza di una legislazione che proibisca esplicitamente la tortura, sottolineando come i funzionari pubblici possano spesso evitare la responsabilità penale invocando il principio di “necessità” per le pressioni operate durante gli interrogatori. L’ONU ha dunque chiesto a Tel Aviv di istituire un reato in linea con la Convenzione contro la tortura.
Ha inoltre domandato l’istituzione di “una commissione d’inchiesta ad hoc indipendente, imparziale ed efficace per esaminare e indagare su tutte le denunce di tortura e maltrattamenti” e di “perseguire i responsabili, compresi i superiori gerarchici”. Purtroppo, sono decenni che queste richieste cadono nel vuoto, e la comunità occidentale guarda dall’altra parte.
Israele, attraverso il suo ambasciatore Daniel Meron, ha respinto le accuse definendole “disinformazione” e ribadendo l’impegno del Paese a rispettare i principi morali anche di fronte alla minaccia terroristica.
Ma quasi contemporaneamente, l’esecuzione sommaria di due uomini palestinesi a Jenin, diffusa in un video che non lascia spazio a interpretazioni, e l’assassinio di due bambini a Gaza che raccoglievano legna lungo la “Linea Gialla” che divide in due la Striscia, hanno solo confermato che il terrorismo da cui difendersi per raggiungere la pace è quello israeliano.
Fonte
Il documento, frutto del monitoraggio periodico sui paesi firmatari della Convenzione contro la tortura, dipinge un quadro agghiacciante delle condizioni detentive. Le testimonianze raccolte da gruppi per i diritti umani e durante le inchieste riferiscono di “ripetute e gravi percosse, attacchi con cani, elettrocuzione, waterboarding, uso prolungato di posizioni di stress e violenza sessuale”.
I terroristi israeliani impongono umiliazioni ai prigionieri: sono “costretti a comportarsi come animali o urinando loro addosso”, disumanizzandoli nel tipico schema di un’ideologia suprematista come è il sionismo. Vengono loro negate le cure mediche e, in alcuni casi, l’uso eccessivo di mezzi di contenzione ha portato all’amputazione degli arti.
Per l’ONU, poi, ci si trova davanti a una vera e propria “sparizione forzata” quando si parla della controversa normativa sui “combattenti illegali”. Con essa, Israele arresta sistematica civili, spesso minori, donne incinte e anziani, con l’accusa di essere in sostanza terroristi, e li costringe a una lunga detenzione senza accesso ad avvocati o familiari, i quali a volte hanno dovuto aspettare mesi per sapere cosa fosse successo ai loro cari.
Il Comitato ONU rileva l’assenza di una legislazione che proibisca esplicitamente la tortura, sottolineando come i funzionari pubblici possano spesso evitare la responsabilità penale invocando il principio di “necessità” per le pressioni operate durante gli interrogatori. L’ONU ha dunque chiesto a Tel Aviv di istituire un reato in linea con la Convenzione contro la tortura.
Ha inoltre domandato l’istituzione di “una commissione d’inchiesta ad hoc indipendente, imparziale ed efficace per esaminare e indagare su tutte le denunce di tortura e maltrattamenti” e di “perseguire i responsabili, compresi i superiori gerarchici”. Purtroppo, sono decenni che queste richieste cadono nel vuoto, e la comunità occidentale guarda dall’altra parte.
Israele, attraverso il suo ambasciatore Daniel Meron, ha respinto le accuse definendole “disinformazione” e ribadendo l’impegno del Paese a rispettare i principi morali anche di fronte alla minaccia terroristica.
Ma quasi contemporaneamente, l’esecuzione sommaria di due uomini palestinesi a Jenin, diffusa in un video che non lascia spazio a interpretazioni, e l’assassinio di due bambini a Gaza che raccoglievano legna lungo la “Linea Gialla” che divide in due la Striscia, hanno solo confermato che il terrorismo da cui difendersi per raggiungere la pace è quello israeliano.
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06/12/2025
Israele pone condizioni irrealizzabili per il ritorno dei palestinesi nel campo di Jenin
La tv i24 riferisce che le autorità israeliane hanno presentato una serie di condizioni irrealizzabili per consentire il ritorno dei residenti nel campo profughi palestinese di Jenin e negli altri campi e centri abitati nel nord della Cisgiordania che da quasi un anno sono presi di mira dall’offensiva “Muro di ferro” dell’esercito israeliano. La prima riguarda il divieto imposto all’Autorità Nazionale Palestinese di permettere l’ingresso nei campi alle organizzazioni umanitarie internazionali, una richiesta che per Ramallah è impossibile da realizzare, poiché equivarrebbe all’abbandono anche politico della questione dei rifugiati. Israele ha dichiarato che senza un accordo preliminare su questo punto non si potrà discutere di nulla.
Le altre condizioni appaiono una prosecuzione in chiave amministrativa di quanto l’esercito sta facendo da mesi sul terreno. Il ritorno degli sfollati sarebbe consentito solo dopo il completamento dei lavori di ristrutturazione dei campi, un eufemismo che nella pratica significa demolire case, allargare assi stradali, asfaltare le vie tracciate sulle macerie degli edifici e predisporre un sistema di barriere e posti di polizia destinati a controllare rigidamente l’accesso. Tutto ciò avverrebbe in pieno coordinamento con i comandi militari, che intendono dotare i campi anche di infrastrutture sotterranee per le reti idriche ed elettriche, un’operazione presentata come infrastrutturale, ma che i palestinesi vedono come un modo per consolidare il controllo da parte dell’occupazione militare.
La ricostruzione secondo i parametri israeliani ha già assunto i contorni di una trasformazione profonda dei campi. A Jenin, dove l’esercito è tornato più volte nel corso dei mesi, sono cominciate nuove demolizioni. Dall’inizio dell’offensiva, più di 700 case e strutture sono state distrutte in modo parziale o totale. Non va meglio nei campi di Tulkarem e Nur Shams, anch’essi travolti dall’operazione che ha prodotto oltre cinquantamila sfollati.
La fase attuale è il risultato di oltre 300 giorni di incursioni, rastrellamenti, demolizioni mirate e campagne di arresti che hanno colpito in modo continuo Jenin, Tulkarem e Nur Shams. Il governatore di Tulkarem, Abdullah Kamil, aveva riferito alla fine di ottobre che le autorità israeliane avevano preannunciato l’estensione delle operazioni militari almeno fino alla fine di gennaio 2026.
In questo quadro si inserisce l’ultimo episodio di violenza registrato ieri nel villaggio di Awarta, a sud di Nablus, dove Bahaa Rashid, 38 anni, è stato ucciso da colpi d’arma da fuoco durante un’incursione delle forze israeliane nei pressi della vecchia moschea di Odla. Secondo fonti locali, i soldati hanno sparato proiettili veri, gas lacrimogeni e granate assordanti contro i fedeli che uscivano dalla preghiera, innescando scontri che hanno portato al ferimento mortale di Rashid. Dall’inizio dell’offensiva contro Gaza, l’intensificazione delle attività dell’esercito in Cisgiordania ha causato l’uccisione di almeno 1085 palestinesi e il ferimento di undicimila persone. Parallelamente, si contano circa 21 mila arresti nei territori occupati, inclusa Gerusalemme, con oltre 10.800 ancora nelle carceri israeliane.
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Le altre condizioni appaiono una prosecuzione in chiave amministrativa di quanto l’esercito sta facendo da mesi sul terreno. Il ritorno degli sfollati sarebbe consentito solo dopo il completamento dei lavori di ristrutturazione dei campi, un eufemismo che nella pratica significa demolire case, allargare assi stradali, asfaltare le vie tracciate sulle macerie degli edifici e predisporre un sistema di barriere e posti di polizia destinati a controllare rigidamente l’accesso. Tutto ciò avverrebbe in pieno coordinamento con i comandi militari, che intendono dotare i campi anche di infrastrutture sotterranee per le reti idriche ed elettriche, un’operazione presentata come infrastrutturale, ma che i palestinesi vedono come un modo per consolidare il controllo da parte dell’occupazione militare.
La ricostruzione secondo i parametri israeliani ha già assunto i contorni di una trasformazione profonda dei campi. A Jenin, dove l’esercito è tornato più volte nel corso dei mesi, sono cominciate nuove demolizioni. Dall’inizio dell’offensiva, più di 700 case e strutture sono state distrutte in modo parziale o totale. Non va meglio nei campi di Tulkarem e Nur Shams, anch’essi travolti dall’operazione che ha prodotto oltre cinquantamila sfollati.
La fase attuale è il risultato di oltre 300 giorni di incursioni, rastrellamenti, demolizioni mirate e campagne di arresti che hanno colpito in modo continuo Jenin, Tulkarem e Nur Shams. Il governatore di Tulkarem, Abdullah Kamil, aveva riferito alla fine di ottobre che le autorità israeliane avevano preannunciato l’estensione delle operazioni militari almeno fino alla fine di gennaio 2026.
In questo quadro si inserisce l’ultimo episodio di violenza registrato ieri nel villaggio di Awarta, a sud di Nablus, dove Bahaa Rashid, 38 anni, è stato ucciso da colpi d’arma da fuoco durante un’incursione delle forze israeliane nei pressi della vecchia moschea di Odla. Secondo fonti locali, i soldati hanno sparato proiettili veri, gas lacrimogeni e granate assordanti contro i fedeli che uscivano dalla preghiera, innescando scontri che hanno portato al ferimento mortale di Rashid. Dall’inizio dell’offensiva contro Gaza, l’intensificazione delle attività dell’esercito in Cisgiordania ha causato l’uccisione di almeno 1085 palestinesi e il ferimento di undicimila persone. Parallelamente, si contano circa 21 mila arresti nei territori occupati, inclusa Gerusalemme, con oltre 10.800 ancora nelle carceri israeliane.
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Libano: Hezbollah ferito, ma non sconfitto
Per quasi venti anni Hezbollah ha rappresentato uno dei perni fondamentali della politica libanese, forte della sua capacità militare e dell’influenza esercitata grazie ai suoi alleati interni e regionali. L’anno trascorso dal cessate il fuoco con Israele, firmato (il 27 novembre) dopo quasi 14 mesi di combattimenti e di pesanti bombardamenti israeliani, ha però aperto una fase segnata da incertezze profonde. Le perdite subite durante la guerra, a partire dall’uccisione del leader Hassan Nasrallah, e le pressioni interne su un eventuale disarmo hanno profondamente scosso il movimento sciita.
Secondo il politologo Hussein Ayoub, esperto di Hezbollah, il Libano vive un passaggio iniziato un anno fa, quando la guerra di sostegno a Gaza ha travolto gli equilibri politici che si erano consolidati dal 2005 dopo l’assassinio del premier Rafiq Hariri e il ritiro dell’esercito siriano. Per quasi due decenni il vuoto lasciato da Damasco era stato colmato dall’asse formato da Hezbollah e dall’Iran, un assetto rimasto stabile pur tra tensioni e crisi ricorrenti. L’ingresso nella guerra l’8 ottobre 2023 ha però inaugurato una fase completamente diversa. Prima di quella data, osserva Ayoub, Hezbollah si muoveva entro un equilibrio consolidato con Israele basato sulla reciproca deterrenza. Dopo la guerra, questo equilibrio è saltato.
Durante il conflitto il movimento ha impedito alle truppe israeliane di penetrare in profondità nel territorio libanese, ma ha pagato un prezzo altissimo. Israele è riuscito a colpire la leadership del movimento sciita, incluso lo storico segretario generale Hassan Nasrallah, a distruggere bunker sotterranei, a eliminare i comandanti della brigata Radwan e, con la misteriosa vicenda delle esplosioni dei cercapersone a penetrare la sua sicurezza. La fine della vecchia deterrenza ha definito un nuovo scenario. Per venti anni Hezbollah aveva imposto condizioni e risposte immediate agli assalti di Israele. Oggi quel modello è superato e la tregua del 2024 è stata accettata più per necessità che per scelta, anche per limitare i danni inflitti al Libano e alla sua popolazione.
A rendere ancora più fragile la posizione del movimento si è aggiunto un evento “sismico”: il crollo del regime siriano di Bashar Assad, avvenuto il 9 dicembre 2024. La Siria è stata per anni il principale corridoio di collegamento tra Hezbollah e Teheran, indispensabile per il rifornimento di armi e per ricostruire capacità militari, come avvenne dopo la guerra del 2006. Con la caduta di Assad, quel corridoio si è interrotto. Oggi, sottolinea l’analista, Hezbollah non ha più la possibilità di far entrare fondi o materiali attraverso l’aeroporto di Beirut. Perfino i rappresentanti iraniani vengono sottoposti a controlli rigidi all’arrivo. Il risultato è una capacità ridotta di ricostruire rapidamente l’arsenale, limitata allo sviluppo di missili di media gittata e droni prodotti localmente.
Questa nuova vulnerabilità ha aperto spazi ai rivali interni ed esterni. Hezbollah ha dovuto accettare decisioni politiche che prima avrebbe respinto, come l’elezione di Joseph Aoun alla presidenza della Repubblica e di Nawaf Salam alla guida del governo, figure considerate vicine all’Occidente. Un anno dopo il cessate il fuoco, la struttura del movimento si è in parte ristabilita, ma resta difficile valutare quali siano al momento le sue capacità militari.
Il disarmo, sul quale insistono Stati Uniti e Israele, rappresenta oggi uno dei nodi più sensibili. Prima della caduta del regime siriano, Washington e Tel Aviv limitavano la richiesta del disarmo di Hezbollah al sud del fiume Litani nel Libano del sud. Ora la linea è più netta e pretende il disarmo totale nel territorio libanese, affidando il possesso delle armi all’esercito regolare. È improbabile che l’esercito possa forzare la mano. Un confronto diretto rischierebbe di provocare fratture interne, in particolare la fuoriuscita dei militari sciiti, e aprire scenari da guerra civile. Ayoub considera più probabile che un eventuale disarmo diventi oggetto di negoziati regionali tra Stati Uniti, Iran e Arabia Saudita, anche se al momento resta solo un’ipotesi.
Sul fronte israeliano, la mancata consegna delle armi offre teoricamente un pretesto per riprendere l’attacco contro il Libano. Tuttavia Israele ha interesse a mantenere l’attuale livello di scontro a bassa intensità, che gli consente di colpire Hezbollah senza subire costi importanti. Una operazione militare israeliana su larga scala vedrebbe inevitabilmente massicci lanci di missili dal Libano e nuovi sfollamenti dal nord di Israele verso il centro del paese.
Le voci su tensioni interne a Hezbollah vengono ridimensionate da Hussein Ayoub, che ricorda come il movimento sia un partito ideologico dotato di una struttura gerarchica rigida e militanti fedeli. Le uccisioni di Hassan Nasrallah e del suo successore Hashem Safieddine hanno colpito duramente la leadership, ma non hanno creato spaccature. Il nuovo segretario generale, Naim Qassem, viene descritto come un amministratore competente, privo del carisma dei suoi predecessori ma capace di gestire le varie correnti interne grazie all’esperienza maturata nelle elezioni parlamentari e municipali. In 43 anni, ricorda l’analista, Hezbollah non ha conosciuto scissioni e la comunità sciita tende a compattarsi nei momenti di difficoltà. Un elemento che probabilmente emergerà nelle elezioni parlamentari previste nella primavera del 2025, quando il movimento potrebbe ottenere livelli di consenso superiori al passato.
In un Libano segnato da crisi istituzionali, pressioni regionali e ferite aperte dalla guerra, Hezbollah resta dunque un attore centrale, ma più vulnerabile e meno sicuro della propria forza rispetto al passato.
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Secondo il politologo Hussein Ayoub, esperto di Hezbollah, il Libano vive un passaggio iniziato un anno fa, quando la guerra di sostegno a Gaza ha travolto gli equilibri politici che si erano consolidati dal 2005 dopo l’assassinio del premier Rafiq Hariri e il ritiro dell’esercito siriano. Per quasi due decenni il vuoto lasciato da Damasco era stato colmato dall’asse formato da Hezbollah e dall’Iran, un assetto rimasto stabile pur tra tensioni e crisi ricorrenti. L’ingresso nella guerra l’8 ottobre 2023 ha però inaugurato una fase completamente diversa. Prima di quella data, osserva Ayoub, Hezbollah si muoveva entro un equilibrio consolidato con Israele basato sulla reciproca deterrenza. Dopo la guerra, questo equilibrio è saltato.
Durante il conflitto il movimento ha impedito alle truppe israeliane di penetrare in profondità nel territorio libanese, ma ha pagato un prezzo altissimo. Israele è riuscito a colpire la leadership del movimento sciita, incluso lo storico segretario generale Hassan Nasrallah, a distruggere bunker sotterranei, a eliminare i comandanti della brigata Radwan e, con la misteriosa vicenda delle esplosioni dei cercapersone a penetrare la sua sicurezza. La fine della vecchia deterrenza ha definito un nuovo scenario. Per venti anni Hezbollah aveva imposto condizioni e risposte immediate agli assalti di Israele. Oggi quel modello è superato e la tregua del 2024 è stata accettata più per necessità che per scelta, anche per limitare i danni inflitti al Libano e alla sua popolazione.
A rendere ancora più fragile la posizione del movimento si è aggiunto un evento “sismico”: il crollo del regime siriano di Bashar Assad, avvenuto il 9 dicembre 2024. La Siria è stata per anni il principale corridoio di collegamento tra Hezbollah e Teheran, indispensabile per il rifornimento di armi e per ricostruire capacità militari, come avvenne dopo la guerra del 2006. Con la caduta di Assad, quel corridoio si è interrotto. Oggi, sottolinea l’analista, Hezbollah non ha più la possibilità di far entrare fondi o materiali attraverso l’aeroporto di Beirut. Perfino i rappresentanti iraniani vengono sottoposti a controlli rigidi all’arrivo. Il risultato è una capacità ridotta di ricostruire rapidamente l’arsenale, limitata allo sviluppo di missili di media gittata e droni prodotti localmente.
Questa nuova vulnerabilità ha aperto spazi ai rivali interni ed esterni. Hezbollah ha dovuto accettare decisioni politiche che prima avrebbe respinto, come l’elezione di Joseph Aoun alla presidenza della Repubblica e di Nawaf Salam alla guida del governo, figure considerate vicine all’Occidente. Un anno dopo il cessate il fuoco, la struttura del movimento si è in parte ristabilita, ma resta difficile valutare quali siano al momento le sue capacità militari.
Il disarmo, sul quale insistono Stati Uniti e Israele, rappresenta oggi uno dei nodi più sensibili. Prima della caduta del regime siriano, Washington e Tel Aviv limitavano la richiesta del disarmo di Hezbollah al sud del fiume Litani nel Libano del sud. Ora la linea è più netta e pretende il disarmo totale nel territorio libanese, affidando il possesso delle armi all’esercito regolare. È improbabile che l’esercito possa forzare la mano. Un confronto diretto rischierebbe di provocare fratture interne, in particolare la fuoriuscita dei militari sciiti, e aprire scenari da guerra civile. Ayoub considera più probabile che un eventuale disarmo diventi oggetto di negoziati regionali tra Stati Uniti, Iran e Arabia Saudita, anche se al momento resta solo un’ipotesi.
Sul fronte israeliano, la mancata consegna delle armi offre teoricamente un pretesto per riprendere l’attacco contro il Libano. Tuttavia Israele ha interesse a mantenere l’attuale livello di scontro a bassa intensità, che gli consente di colpire Hezbollah senza subire costi importanti. Una operazione militare israeliana su larga scala vedrebbe inevitabilmente massicci lanci di missili dal Libano e nuovi sfollamenti dal nord di Israele verso il centro del paese.
Le voci su tensioni interne a Hezbollah vengono ridimensionate da Hussein Ayoub, che ricorda come il movimento sia un partito ideologico dotato di una struttura gerarchica rigida e militanti fedeli. Le uccisioni di Hassan Nasrallah e del suo successore Hashem Safieddine hanno colpito duramente la leadership, ma non hanno creato spaccature. Il nuovo segretario generale, Naim Qassem, viene descritto come un amministratore competente, privo del carisma dei suoi predecessori ma capace di gestire le varie correnti interne grazie all’esperienza maturata nelle elezioni parlamentari e municipali. In 43 anni, ricorda l’analista, Hezbollah non ha conosciuto scissioni e la comunità sciita tende a compattarsi nei momenti di difficoltà. Un elemento che probabilmente emergerà nelle elezioni parlamentari previste nella primavera del 2025, quando il movimento potrebbe ottenere livelli di consenso superiori al passato.
In un Libano segnato da crisi istituzionali, pressioni regionali e ferite aperte dalla guerra, Hezbollah resta dunque un attore centrale, ma più vulnerabile e meno sicuro della propria forza rispetto al passato.
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L’attacco statunitense al Venezuela sprofonda nel ridicolo
Si complica maledettamente la vicenda legale sull’imbarcazione al largo del Venezuela che è stata affondata dagli Stati Uniti il 2 settembre scorso.
Non si tratta dell’unica imbarcazione attaccata – attualmente ci sono già quasi 100 morti accertati – ma in quel caso c’è stato un “doppio colpo”, ossia un secondo attacco per uccidere due uomini che erano sopravvissuti ed erano rimasti aggrappati ai rottami. Per tutti i trattati internazionali esistenti, voluti e firmati anche dagli Usa, questo è un crimine di guerra. Quegli uomini avrebbero dovuto insomma essere salvati e poi, semmai, processati.
La prima complicazione legale è creata dalla scelta trumpiana di attaccare il Venezuela con la falsa accusa di essere un “narcostato” e di ospitare uno sconosciuto “cartello de los soles” a capo del quale sarebbe addirittura il presidente Maduro. Prove esibite: zero. Colin Powell, per giustificare l’attacco all’Iraq, aveva se non altro agitato una boccetta con polvere bianca giurando fosse antrace, in una seduta dell’Onu. Trump neanche questo...
Le imbarcazioni affondate da allora sono insomma “esecuzioni extragiudiziali” fuori da ogni cornice legale, anche soltanto inventata. Ma l’uccisione di naufraghi – anche se fossero stati davvero narcos – è comunque un crimine di guerra.
La seconda complicazione è creata dal fatto che “l’indagine” è condotta da una commissione del Congresso Usa che sta cercando di capire se Pete Hegseth – lo squilibrato ex conduttore televisivo di Fox News, ora nominato “ministro della guerra” – abbia o no dato personalmente l’ordine di portare il “secondo colpo”. Nel qual caso andrebbe messo in stato di impeachment...
Lui ha scaricato la responsabilità della decisione sull’ammiraglio Frank Bradley, che conduce la flotta al largo del Venezuela. Ciò che dice è riportato all’esterno dai deputati presenti, con versioni contrapposte tra “dem” e repubblicani (terza complicazione).
La versione finora più accreditata era che – sì – c’è stato un “secondo colpo” contro uomini in acqua e senza armi, ma “avrebbero potuto avere ancora una radio con cui chiamare ‘rinforzi’, essere quindi salvati e tornare in seguito a commerciare droga destinata all’America”. Una follia giuridica, ma ritenuta “accettabile” dai repubblicani...
Ora invece c’è l’ennesimo cambio di versione: la barca affondata – avrebbe detto Bradley – non era diretta verso gli Stati Uniti, ma verso una nave più grande diretta verso il Suriname, ex Guyana olandese, piccolo paese sudamericano ad est del Venezuela.
Questo renderebbe già il primo attacco ingiustificabile persino secondo la “dottrina Trump” sulla “guerra al narcotraffico” (se un carico, peraltro dubbio, non è diretto verso gli Usa, non dovrebbe rientrare nel suo campo di interesse); a maggior ragione il “secondo colpo” è un vero e proprio crimine di guerra (che neanche è stata dichiarata, cosa che avrebbe richiesto un voto del Congresso).
Bel pasticcio, vero?
Peggio ancora. Gli ufficiali antidroga statunitensi ascoltati dalla commissione hanno spiegato che le rotte del traffico via Suriname sono principalmente destinate ai mercati europei. Le rotte del traffico di droga dirette negli USA si sono invece concentrate sull’Oceano Pacifico negli ultimi anni. Ma il Venezuela non ha una costa sul Pacifico, dunque neanche una nave-fantasma potrebbe fare quel percorso provenendo da quel Paese...
Soprattutto viene a cadere completamente anche la giustificazione “nazionalistica”: quella barca, diretta verso una nave che andava in Suriname, da cui a volte partono carichi di droga verso l’Europa... non poteva essere una “minaccia imminente per l’America”.
Ha moltiplicato la confusione anche il Segretario di Stato Marco Rubio, esponente degli anti-castristi di Miami e capofila dell’attacco al Venezuela, che aveva dichiarato alla stampa, poco dopo l’attacco, che il presunto natante dei trafficanti preso di mira era “probabilmente diretto a Trinidad o in qualche altro paese dei Caraibi”. Checcefrega, intanto affondiamolo...
Ma, tuttavia, il Presidente Donald Trump aveva scritto in un post che appoggiava l’attacco, il 2 settembre: “L’attacco è avvenuto mentre i terroristi erano in mare in acque internazionali trasportando narcotici illegali, diretti verso gli Stati Uniti”. Al vertice Usa c’è il caos, pare. Oppure si sentono tanto forti da fregarsene di giustificare seriamene quel che fanno.
Secondo le fonti presenti in commissione, oltretutto, l’ammiraglio Bradley – a capo delle Operazioni Speciali Congiunte (JSOC) – ha anche ammesso che la barca aveva invertito la rotta prima di essere colpita, perché le persone a bordo sembravano aver avvistato l’aereo americano in cielo. Tornavano a casa, insomma, e quindi non andavano né in America, né in Suriname, né in Europa (ammesso e non concesso che avessero droga a bordo, che nessuno s’è curato di recuperare come “prova”).
Altro dettaglio. Gli attacchi sono stati addirittura quattro, non due. Uno spreco di fuoco giustificabile forse contro un assalto militare diretto, non certo contro una barca dall’identità incerta e sicuramente priva di armi pesanti.
Una versione dei fatti abborracciata, però, richiede sempre delle giustificazioni “ad minchiam” che la rendono sempre meno credibile. Ogni nuovo dettaglio diventa una martellata sulle proprie dita.
Bradley avrebbe pure aggiunto che i sopravvissuti stavano anche agitando le braccia verso qualcosa in cielo, anche se non è chiaro se stessero cercando di arrendersi o di chiedere aiuto all’aereo americano che avevano avvistato. Alla faccia del “pericolo imminente”...
A questo punto Hegseth, che giurava di essere uscito di scena dopo aver visto in video il primo attacco, rientra sotto inchiesta.
Nella sua seduta davanti alla commissione aveva infatti detto ai deputati di aver dato ordine che gli attacchi dovevano essere “letali”, ma che non era stato informato dei sopravvissuti fino a dopo che erano stati uccisi.
Bradley avrebbe insomma capito che l’obiettivo della missione era uccidere tutti gli 11 individui a bordo e affondare la barca, anche se l’ordine non era esattamente quello di “uccidere tutti”, compreso chi si arrende, cosa che è ovviamente “illegale”.
Le udienze vanno avanti. Ma già così è chiaro che tutta l’“operazione Venezuela” è un’immane montagna di merda imperialista senza alcuna giustificazione che possa reggere anche ad una sola domanda.
P.S. Ciò nonostante, i media mainstream italiani sembrano felici di ospitare altre bufale immonde provenienti dagli States. Stamattina, per esempio, persino il solitamente austero Sole24Ore si abbassa a pubblicare un evidente “tweet” della Casa Bianca secondo cui, nella telefonata tra The Donald e il presidente Maduro quest’ultimo avrebbe chiesto 200 milioni di dollari per lasciare il potere e rifugiarsi a Cuba (che non è nota per essere un “paradiso per i ricchi”, peraltro).
Si vede che qualsiasi favola di corruzione è credibile per giornalisti abituati a vendersi per cifre molto minori...
Ma soprattutto: se davvero bastava così poco per “risolvere il problema Venezuela” perché muovere una flotta con due portaerei e 15.000 soldati, ammazzando gente a casaccio e spendendo cento volte di più?
Fonte
Non si tratta dell’unica imbarcazione attaccata – attualmente ci sono già quasi 100 morti accertati – ma in quel caso c’è stato un “doppio colpo”, ossia un secondo attacco per uccidere due uomini che erano sopravvissuti ed erano rimasti aggrappati ai rottami. Per tutti i trattati internazionali esistenti, voluti e firmati anche dagli Usa, questo è un crimine di guerra. Quegli uomini avrebbero dovuto insomma essere salvati e poi, semmai, processati.
La prima complicazione legale è creata dalla scelta trumpiana di attaccare il Venezuela con la falsa accusa di essere un “narcostato” e di ospitare uno sconosciuto “cartello de los soles” a capo del quale sarebbe addirittura il presidente Maduro. Prove esibite: zero. Colin Powell, per giustificare l’attacco all’Iraq, aveva se non altro agitato una boccetta con polvere bianca giurando fosse antrace, in una seduta dell’Onu. Trump neanche questo...
Le imbarcazioni affondate da allora sono insomma “esecuzioni extragiudiziali” fuori da ogni cornice legale, anche soltanto inventata. Ma l’uccisione di naufraghi – anche se fossero stati davvero narcos – è comunque un crimine di guerra.
La seconda complicazione è creata dal fatto che “l’indagine” è condotta da una commissione del Congresso Usa che sta cercando di capire se Pete Hegseth – lo squilibrato ex conduttore televisivo di Fox News, ora nominato “ministro della guerra” – abbia o no dato personalmente l’ordine di portare il “secondo colpo”. Nel qual caso andrebbe messo in stato di impeachment...
Lui ha scaricato la responsabilità della decisione sull’ammiraglio Frank Bradley, che conduce la flotta al largo del Venezuela. Ciò che dice è riportato all’esterno dai deputati presenti, con versioni contrapposte tra “dem” e repubblicani (terza complicazione).
La versione finora più accreditata era che – sì – c’è stato un “secondo colpo” contro uomini in acqua e senza armi, ma “avrebbero potuto avere ancora una radio con cui chiamare ‘rinforzi’, essere quindi salvati e tornare in seguito a commerciare droga destinata all’America”. Una follia giuridica, ma ritenuta “accettabile” dai repubblicani...
Ora invece c’è l’ennesimo cambio di versione: la barca affondata – avrebbe detto Bradley – non era diretta verso gli Stati Uniti, ma verso una nave più grande diretta verso il Suriname, ex Guyana olandese, piccolo paese sudamericano ad est del Venezuela.
Questo renderebbe già il primo attacco ingiustificabile persino secondo la “dottrina Trump” sulla “guerra al narcotraffico” (se un carico, peraltro dubbio, non è diretto verso gli Usa, non dovrebbe rientrare nel suo campo di interesse); a maggior ragione il “secondo colpo” è un vero e proprio crimine di guerra (che neanche è stata dichiarata, cosa che avrebbe richiesto un voto del Congresso).
Bel pasticcio, vero?
Peggio ancora. Gli ufficiali antidroga statunitensi ascoltati dalla commissione hanno spiegato che le rotte del traffico via Suriname sono principalmente destinate ai mercati europei. Le rotte del traffico di droga dirette negli USA si sono invece concentrate sull’Oceano Pacifico negli ultimi anni. Ma il Venezuela non ha una costa sul Pacifico, dunque neanche una nave-fantasma potrebbe fare quel percorso provenendo da quel Paese...
Soprattutto viene a cadere completamente anche la giustificazione “nazionalistica”: quella barca, diretta verso una nave che andava in Suriname, da cui a volte partono carichi di droga verso l’Europa... non poteva essere una “minaccia imminente per l’America”.
Ha moltiplicato la confusione anche il Segretario di Stato Marco Rubio, esponente degli anti-castristi di Miami e capofila dell’attacco al Venezuela, che aveva dichiarato alla stampa, poco dopo l’attacco, che il presunto natante dei trafficanti preso di mira era “probabilmente diretto a Trinidad o in qualche altro paese dei Caraibi”. Checcefrega, intanto affondiamolo...
Ma, tuttavia, il Presidente Donald Trump aveva scritto in un post che appoggiava l’attacco, il 2 settembre: “L’attacco è avvenuto mentre i terroristi erano in mare in acque internazionali trasportando narcotici illegali, diretti verso gli Stati Uniti”. Al vertice Usa c’è il caos, pare. Oppure si sentono tanto forti da fregarsene di giustificare seriamene quel che fanno.
Secondo le fonti presenti in commissione, oltretutto, l’ammiraglio Bradley – a capo delle Operazioni Speciali Congiunte (JSOC) – ha anche ammesso che la barca aveva invertito la rotta prima di essere colpita, perché le persone a bordo sembravano aver avvistato l’aereo americano in cielo. Tornavano a casa, insomma, e quindi non andavano né in America, né in Suriname, né in Europa (ammesso e non concesso che avessero droga a bordo, che nessuno s’è curato di recuperare come “prova”).
Altro dettaglio. Gli attacchi sono stati addirittura quattro, non due. Uno spreco di fuoco giustificabile forse contro un assalto militare diretto, non certo contro una barca dall’identità incerta e sicuramente priva di armi pesanti.
Una versione dei fatti abborracciata, però, richiede sempre delle giustificazioni “ad minchiam” che la rendono sempre meno credibile. Ogni nuovo dettaglio diventa una martellata sulle proprie dita.
Bradley avrebbe pure aggiunto che i sopravvissuti stavano anche agitando le braccia verso qualcosa in cielo, anche se non è chiaro se stessero cercando di arrendersi o di chiedere aiuto all’aereo americano che avevano avvistato. Alla faccia del “pericolo imminente”...
A questo punto Hegseth, che giurava di essere uscito di scena dopo aver visto in video il primo attacco, rientra sotto inchiesta.
Nella sua seduta davanti alla commissione aveva infatti detto ai deputati di aver dato ordine che gli attacchi dovevano essere “letali”, ma che non era stato informato dei sopravvissuti fino a dopo che erano stati uccisi.
Bradley avrebbe insomma capito che l’obiettivo della missione era uccidere tutti gli 11 individui a bordo e affondare la barca, anche se l’ordine non era esattamente quello di “uccidere tutti”, compreso chi si arrende, cosa che è ovviamente “illegale”.
Le udienze vanno avanti. Ma già così è chiaro che tutta l’“operazione Venezuela” è un’immane montagna di merda imperialista senza alcuna giustificazione che possa reggere anche ad una sola domanda.
P.S. Ciò nonostante, i media mainstream italiani sembrano felici di ospitare altre bufale immonde provenienti dagli States. Stamattina, per esempio, persino il solitamente austero Sole24Ore si abbassa a pubblicare un evidente “tweet” della Casa Bianca secondo cui, nella telefonata tra The Donald e il presidente Maduro quest’ultimo avrebbe chiesto 200 milioni di dollari per lasciare il potere e rifugiarsi a Cuba (che non è nota per essere un “paradiso per i ricchi”, peraltro).
Si vede che qualsiasi favola di corruzione è credibile per giornalisti abituati a vendersi per cifre molto minori...
Ma soprattutto: se davvero bastava così poco per “risolvere il problema Venezuela” perché muovere una flotta con due portaerei e 15.000 soldati, ammazzando gente a casaccio e spendendo cento volte di più?
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La lobby israeliana si sta sciogliendo sotto i nostri occhi
di Philip Weiss
Il mese scorso, un membro di spicco dell’organizzazione ebraica J Street, che aveva lavorato per Obama e Harris, ha spiegato che la tradizione del Congresso di sostenere Israele “a prescindere da tutto” è stata imposta da un “gruppo ben finanziato di ebrei”.
“Un piccolo gruppo di ebrei americani, organizzato e ben finanziato, ha trattato la questione come una questione cruciale nelle elezioni, e la maggior parte dei candidati ha deciso che non valeva la pena di opporsi a loro”, ha scritto Ilan Goldenberg.
Non molto tempo fa, simili attacchi alla Lobby israeliana (compreso il mio) sono stati liquidati come “teorie cospirazioniste antisemite”. Ora, un’importante organizzazione ebraica si unisce.
Questo perché la comunità ebraica americana è oggi in aperta crisi per il suo storico sostegno a Israele. Ebrei di spicco stanno finalmente attaccando la Lobby, una struttura politica creata 60 anni fa da importanti gruppi ebraici per garantire che non ci fosse alcuna incomprensione tra il governo israeliano e quello statunitense.
La crisi è stata catalizzata dalla vittoria del Sindaco eletto di New York Zohran Mamdani, che ha infranto una regola della politica americana. Non si può essere antisionisti ed essere presi sul serio nella politica americana
La Lobby israeliana ha speso decine di milioni per sconfiggere Mamdani, guidata da Bill Ackman e Mike Bloomberg, eppure Mamdani ha comunque battuto Andrew Cuomo due volte. Dopo le elezioni generali del mese scorso, l’istituto ebraico ha parlato con timorosa forza. L’elezione di Mamdani è “cupa” e “inquietante”, ha dichiarato la Conferenza dei Presidenti.
“L’elezione di Zohran Mamdani a Gracie Mansion ci ricorda che l’antisemitismo rimane un pericolo chiaro e presente”.
La Lega Anti-Diffamazione ha annunciato un “monitoraggio di Mamdani” sull’idea che Mamdani promuoverà la violenza antisemita, un’affermazione basata sulle critiche di Mamdani a Israele. “Mamdani ha promosso narrazioni antisemite, e ha dimostrato un’intensa animosità verso lo Stato Ebraico, contraria alle opinioni della stragrande maggioranza degli ebrei newyorkesi”.
Se la Lobby pensava di poter abbattere Mamdani, ha fallito. Due settimane dopo le elezioni, Mamdani si è recato alla Casa Bianca e ha parlato di “Genocidio” israeliano, e Trump non ha fatto nulla per contraddirlo. Era ora di sentire quella parola alla Casa Bianca.
Il coraggio di Mamdani ha innescato il nuovo discorso critico nei confronti di Israele, ma è stato reso possibile da un movimento sociale più ampio. I giovani americani si stanno rivoltando contro Israele per le sue politiche anti-palestinesi di Genocidio e Apartheid.
Rahm Emanuel ha portato la triste notizia alla più grande organizzazione ebraica, le Federazioni Ebraiche, il mese scorso. Ricordando che Obama aveva visitato Israele prima di annunciare la sua campagna presidenziale nel 2007, Emanuel, che si candida alla presidenza, ha affermato che nel 2028 nessun candidato democratico oserà seguire il copione tradizionale.
“Nessuno lascerà l’America per andare a Gerusalemme. Questa è la politica”.
E non solo i democratici. Emanuel ha affermato che tutti i giovani, di sinistra e di destra, si stanno rivoltando contro Israele.
“Guardate dove si colloca Israele in America con le persone sotto i 30 anni”, ha detto: “Dimenticate il partito. Oggi è un rischio politico assumere una posizione pro-Israele. Israele è estremamente impopolare, voglio ribadire questo concetto a tutti noi che sosteniamo uno Stato Ebraico, oggi, per una generazione sotto i 30 anni, gli ultimi due anni di Israele saranno una definizione fondamentale tanto quanto lo fu la Guerra dei Sei Giorni per una generazione precedente. Ma dobbiamo essere onesti riguardo al compito che abbiamo qui”.
La Lobby israeliana si sta sciogliendo sotto i nostri occhi. Nella stessa conferenza, Eric Fingerhut, ex membro del Congresso e capo delle Federazioni, ha affermato che la cattiva immagine di Israele era il risultato di una cospirazione internazionale: “Abbiamo assistito a un attacco pianificato e coordinato alla reputazione di Israele in Nord America e alla comunità ebraica che lo sostiene. Alimentato da miliardi di dollari in denaro sporco da Iran, Qatar, Cina, Russia e altri ancora. Diffuso dagli strumenti di comunicazione più avanzati mai inventati”.
La conferenza era dedicata a ripristinare il posto di rilievo di Israele nel dibattito americano, “un’importante riabilitazione a lungo termine della narrazione di ciò che Israele significa”.
Ma è fallita, clamorosamente. La copertura mediatica dell’evento si è concentrata su un altro crollo: l’autrice Sarah Hurwitz, ex autrice di discorsi di Obama, che si è lamentata del fatto che parlare di Israele ai giovani oggi significhi cercare di superare un “muro di bambini morti”.
I bambini morti stanno arrivando persino agli ebrei americani, ha detto Hurwitz: “Avete TikTok che martella il cervello ai nostri giovani tutto il giorno con video della carneficina a Gaza. Ecco perché molti di noi non riescono ad avere una conversazione sana con i giovani ebrei, perché qualsiasi cosa cerchiamo di dire loro, la sentono attraverso questo muro di carneficina. Voglio fornire dati, informazioni, fatti. La sentono attraverso questo muro di carneficina”.
Hurwitz ha affermato che l’educazione all’Olocausto ha fallito con i giovani ebrei. Ha portato i giovani a vedere gli israeliani pesantemente armati come Nazisti e i loro scarni bersagli palestinesi come oggetti di compassione.
Hurwitz è stata attaccata sui social media per questi commenti. Ma è un’eroina per la comunità ebraica ufficiale nella sua insistenza sul fatto che coloro che negano il diritto degli ebrei a uno Stato Ebraico siano antisemiti.
La sovranità ebraica in Medio Oriente è insita nella religione ebraica, afferma Hurwitz, e la forza militare di Israele è la risposta necessaria a una storia di odio ebraico lunga 2000 anni. Negando queste verità, gli antisionisti dimostrano di odiare gli ebrei.
Queste idee sono sbagliate e pericolose. Il motivo per cui i giovani americani odiano Israele è che ha ucciso civili palestinesi indiscriminatamente e distrutto i loro mezzi di sussistenza per due anni a Gaza, con il sostegno del governo americano e della Lobby israeliana.
La celebrità dei media per bambini, la signora Rachel, ha espresso la dimensione morale di Gaza a novembre, quando ha accolto a New York una bambina traumatizzata di nome Qamar: “Mi dispiace tanto per Qamar che il mondo sia rimasto a guardare mentre il suo campo veniva bombardato, le sono state negate le cure mediche per 20 giorni, le hanno dovuto amputare una gamba e ha vissuto in una tenda diroccata, allagata e fredda”.
Non c’è da stupirsi che la signora Rachel sia emersa come immagine principale nell’ambito della solidarietà palestinese negli Stati Uniti, grazie alla sua chiarezza, semplicità e senso di responsabilità.
I media convenzionali oggi stanno facendo tutto il possibile per negare questo movimento. Negano che gli atteggiamenti sulla Palestina abbiano avuto a che fare con la sconfitta di Kamala Harris nel 2024. Negano di essere stati un fattore importante nella vittoria di Mamdani a New York.
Anche se candidati ribelli che si candidano contro Israele stanno spuntando come funghi nelle primarie democratiche in tutto il Paese.
Questo sconvolgimento politico è ora una crisi ebraica, come è giusto che sia. La comunità ebraica si sta disgregando a causa del suo sostegno ufficiale al Genocidio.
Gli ebrei che denunciavano le azioni di Israele erano fondamentali per la coalizione di Mamdani. Alcuni erano Sionisti progressisti. Ma il Sionismo progressista è esso stesso in fermento, abbandonando vecchi dogmi, come quello secondo cui il BDS è antisemita, per allinearsi ai giovani ebrei.
Mentre Sarah Hurwitz, Eric Fingerhut e Jonathan Greenblatt stanno guidando l’istitutivo ebraico verso una posizione marginale, l’argomentazione finale di Hurwitz è “eccezionalista”. “Gli ebrei hanno un ruolo speciale da svolgere nel mondo, ed è per questo che la gente ci odia”.
Si inserisce in una lunga tradizione: la Lobby ha imposto una menzogna dopo l’altra al nostro discorso politico. “I rifugiati non hanno il diritto di tornare alle loro case”. “Trasferire 700.000 coloni in territori occupati va bene”. “Non c’è Apartheid”. “Non c’è Genocidio”.
Le guerre di Israele contro i suoi vicini sono “nell’interesse degli Stati Uniti”.
Queste menzogne ora stanno fallendo. Qualunque fossero gli ideali abbracciati dal Sionismo alle sue origini come movimento di liberazione europeo, di fronte alla Resistenza palestinese si sono trasformati in intolleranza. La comunità ebraica ufficiale ha promosso quell’intolleranza.
Le bugie della Lobby israeliana erano un tempo un argomento tabù in America. Oggi la sua crisi riporta questo dibattito sulla pubblica piazza.
Fonte
Il mese scorso, un membro di spicco dell’organizzazione ebraica J Street, che aveva lavorato per Obama e Harris, ha spiegato che la tradizione del Congresso di sostenere Israele “a prescindere da tutto” è stata imposta da un “gruppo ben finanziato di ebrei”.
“Un piccolo gruppo di ebrei americani, organizzato e ben finanziato, ha trattato la questione come una questione cruciale nelle elezioni, e la maggior parte dei candidati ha deciso che non valeva la pena di opporsi a loro”, ha scritto Ilan Goldenberg.
Non molto tempo fa, simili attacchi alla Lobby israeliana (compreso il mio) sono stati liquidati come “teorie cospirazioniste antisemite”. Ora, un’importante organizzazione ebraica si unisce.
Questo perché la comunità ebraica americana è oggi in aperta crisi per il suo storico sostegno a Israele. Ebrei di spicco stanno finalmente attaccando la Lobby, una struttura politica creata 60 anni fa da importanti gruppi ebraici per garantire che non ci fosse alcuna incomprensione tra il governo israeliano e quello statunitense.
La crisi è stata catalizzata dalla vittoria del Sindaco eletto di New York Zohran Mamdani, che ha infranto una regola della politica americana. Non si può essere antisionisti ed essere presi sul serio nella politica americana
La Lobby israeliana ha speso decine di milioni per sconfiggere Mamdani, guidata da Bill Ackman e Mike Bloomberg, eppure Mamdani ha comunque battuto Andrew Cuomo due volte. Dopo le elezioni generali del mese scorso, l’istituto ebraico ha parlato con timorosa forza. L’elezione di Mamdani è “cupa” e “inquietante”, ha dichiarato la Conferenza dei Presidenti.
“L’elezione di Zohran Mamdani a Gracie Mansion ci ricorda che l’antisemitismo rimane un pericolo chiaro e presente”.
La Lega Anti-Diffamazione ha annunciato un “monitoraggio di Mamdani” sull’idea che Mamdani promuoverà la violenza antisemita, un’affermazione basata sulle critiche di Mamdani a Israele. “Mamdani ha promosso narrazioni antisemite, e ha dimostrato un’intensa animosità verso lo Stato Ebraico, contraria alle opinioni della stragrande maggioranza degli ebrei newyorkesi”.
Se la Lobby pensava di poter abbattere Mamdani, ha fallito. Due settimane dopo le elezioni, Mamdani si è recato alla Casa Bianca e ha parlato di “Genocidio” israeliano, e Trump non ha fatto nulla per contraddirlo. Era ora di sentire quella parola alla Casa Bianca.
Il coraggio di Mamdani ha innescato il nuovo discorso critico nei confronti di Israele, ma è stato reso possibile da un movimento sociale più ampio. I giovani americani si stanno rivoltando contro Israele per le sue politiche anti-palestinesi di Genocidio e Apartheid.
Rahm Emanuel ha portato la triste notizia alla più grande organizzazione ebraica, le Federazioni Ebraiche, il mese scorso. Ricordando che Obama aveva visitato Israele prima di annunciare la sua campagna presidenziale nel 2007, Emanuel, che si candida alla presidenza, ha affermato che nel 2028 nessun candidato democratico oserà seguire il copione tradizionale.
“Nessuno lascerà l’America per andare a Gerusalemme. Questa è la politica”.
E non solo i democratici. Emanuel ha affermato che tutti i giovani, di sinistra e di destra, si stanno rivoltando contro Israele.
“Guardate dove si colloca Israele in America con le persone sotto i 30 anni”, ha detto: “Dimenticate il partito. Oggi è un rischio politico assumere una posizione pro-Israele. Israele è estremamente impopolare, voglio ribadire questo concetto a tutti noi che sosteniamo uno Stato Ebraico, oggi, per una generazione sotto i 30 anni, gli ultimi due anni di Israele saranno una definizione fondamentale tanto quanto lo fu la Guerra dei Sei Giorni per una generazione precedente. Ma dobbiamo essere onesti riguardo al compito che abbiamo qui”.
La Lobby israeliana si sta sciogliendo sotto i nostri occhi. Nella stessa conferenza, Eric Fingerhut, ex membro del Congresso e capo delle Federazioni, ha affermato che la cattiva immagine di Israele era il risultato di una cospirazione internazionale: “Abbiamo assistito a un attacco pianificato e coordinato alla reputazione di Israele in Nord America e alla comunità ebraica che lo sostiene. Alimentato da miliardi di dollari in denaro sporco da Iran, Qatar, Cina, Russia e altri ancora. Diffuso dagli strumenti di comunicazione più avanzati mai inventati”.
La conferenza era dedicata a ripristinare il posto di rilievo di Israele nel dibattito americano, “un’importante riabilitazione a lungo termine della narrazione di ciò che Israele significa”.
Ma è fallita, clamorosamente. La copertura mediatica dell’evento si è concentrata su un altro crollo: l’autrice Sarah Hurwitz, ex autrice di discorsi di Obama, che si è lamentata del fatto che parlare di Israele ai giovani oggi significhi cercare di superare un “muro di bambini morti”.
I bambini morti stanno arrivando persino agli ebrei americani, ha detto Hurwitz: “Avete TikTok che martella il cervello ai nostri giovani tutto il giorno con video della carneficina a Gaza. Ecco perché molti di noi non riescono ad avere una conversazione sana con i giovani ebrei, perché qualsiasi cosa cerchiamo di dire loro, la sentono attraverso questo muro di carneficina. Voglio fornire dati, informazioni, fatti. La sentono attraverso questo muro di carneficina”.
Hurwitz ha affermato che l’educazione all’Olocausto ha fallito con i giovani ebrei. Ha portato i giovani a vedere gli israeliani pesantemente armati come Nazisti e i loro scarni bersagli palestinesi come oggetti di compassione.
Hurwitz è stata attaccata sui social media per questi commenti. Ma è un’eroina per la comunità ebraica ufficiale nella sua insistenza sul fatto che coloro che negano il diritto degli ebrei a uno Stato Ebraico siano antisemiti.
La sovranità ebraica in Medio Oriente è insita nella religione ebraica, afferma Hurwitz, e la forza militare di Israele è la risposta necessaria a una storia di odio ebraico lunga 2000 anni. Negando queste verità, gli antisionisti dimostrano di odiare gli ebrei.
Queste idee sono sbagliate e pericolose. Il motivo per cui i giovani americani odiano Israele è che ha ucciso civili palestinesi indiscriminatamente e distrutto i loro mezzi di sussistenza per due anni a Gaza, con il sostegno del governo americano e della Lobby israeliana.
La celebrità dei media per bambini, la signora Rachel, ha espresso la dimensione morale di Gaza a novembre, quando ha accolto a New York una bambina traumatizzata di nome Qamar: “Mi dispiace tanto per Qamar che il mondo sia rimasto a guardare mentre il suo campo veniva bombardato, le sono state negate le cure mediche per 20 giorni, le hanno dovuto amputare una gamba e ha vissuto in una tenda diroccata, allagata e fredda”.
Non c’è da stupirsi che la signora Rachel sia emersa come immagine principale nell’ambito della solidarietà palestinese negli Stati Uniti, grazie alla sua chiarezza, semplicità e senso di responsabilità.
I media convenzionali oggi stanno facendo tutto il possibile per negare questo movimento. Negano che gli atteggiamenti sulla Palestina abbiano avuto a che fare con la sconfitta di Kamala Harris nel 2024. Negano di essere stati un fattore importante nella vittoria di Mamdani a New York.
Anche se candidati ribelli che si candidano contro Israele stanno spuntando come funghi nelle primarie democratiche in tutto il Paese.
Questo sconvolgimento politico è ora una crisi ebraica, come è giusto che sia. La comunità ebraica si sta disgregando a causa del suo sostegno ufficiale al Genocidio.
Gli ebrei che denunciavano le azioni di Israele erano fondamentali per la coalizione di Mamdani. Alcuni erano Sionisti progressisti. Ma il Sionismo progressista è esso stesso in fermento, abbandonando vecchi dogmi, come quello secondo cui il BDS è antisemita, per allinearsi ai giovani ebrei.
Mentre Sarah Hurwitz, Eric Fingerhut e Jonathan Greenblatt stanno guidando l’istitutivo ebraico verso una posizione marginale, l’argomentazione finale di Hurwitz è “eccezionalista”. “Gli ebrei hanno un ruolo speciale da svolgere nel mondo, ed è per questo che la gente ci odia”.
Si inserisce in una lunga tradizione: la Lobby ha imposto una menzogna dopo l’altra al nostro discorso politico. “I rifugiati non hanno il diritto di tornare alle loro case”. “Trasferire 700.000 coloni in territori occupati va bene”. “Non c’è Apartheid”. “Non c’è Genocidio”.
Le guerre di Israele contro i suoi vicini sono “nell’interesse degli Stati Uniti”.
Queste menzogne ora stanno fallendo. Qualunque fossero gli ideali abbracciati dal Sionismo alle sue origini come movimento di liberazione europeo, di fronte alla Resistenza palestinese si sono trasformati in intolleranza. La comunità ebraica ufficiale ha promosso quell’intolleranza.
Le bugie della Lobby israeliana erano un tempo un argomento tabù in America. Oggi la sua crisi riporta questo dibattito sulla pubblica piazza.
Fonte
Aumenta l’occupazione ma l'Italia è sempre più povera
Come ormai da un paio d’anni, il governo Meloni torna ad usare toni trionfalistici per i numeri pubblicati dall’ISTAT sul nuovo record di occupazione registrato in Italia. Ma il numero crescente di occupati stride in modo sempre più clamoroso con gli zero virgola del PIL (quest’anno siamo a +0,6% e l’anno scorso appena a +0,7%), che testimoniano di un Paese che non cresce. Come è possibile che ci siano 224mila occupati in più in un Paese stagnante e con una industria al 32° mese consecutivo di calo della produzione?
A questa domanda ha già da tempo risposto l’Osservatorio per i Conti Pubblici Italiani CPI dell’Università Cattolica, dimostrando che l’aumento dell’occupazione è dovuto per i 3/4 a lavoratori impiegati in settori a bassa produttività, dove le retribuzioni sono più basse e dove si concentra un alto numero di lavoratori marginali. Su 100 nuovi occupati, infatti, 42 appartengono al commercio, 19 alla pubblica amministrazione e 14 alle costruzioni, mentre appena 10 riguardano la manifattura e solo 2 il settore dell’energia.
C’è poi una forte crescita del part-time che già nel 2023 aveva raggiunto la ragguardevole cifra di 4 milioni e 300mila lavoratori, cioè il 18% degli occupati. Quando il governo afferma che sono in crescita i lavoratori a tempo indeterminato, omette di ricordare l’aumento dei part-time, che sono in gran parte involontari, e che certificano un’occupazione povera. Va inoltre ricordato che i lavoratori a termine, sia pure in diminuzione, sono comunque 2 milioni e 514mila e che si registra anche un aumento degli autonomi (più di 5 milioni) di cui una forte percentuale è costituita da lavoro dipendente camuffato, senza responsabilità per le aziende e a bassa retribuzione.
Inoltre è utile considerare che dal 2023 anche i cassaintegrati per meno di 3 mesi vengono conteggiati dall’ISTAT come lavoratori e che la gran parte dei cassaintegrati rientra proprio in questa casistica.
E infine, bisogna tenere conto che una buona fetta della nuova occupazione è costituita da lavoratori over 50 e over 60, che prolungano la loro vita lavorativa sia perchè si sta alzando l’età pensionabile e sia perchè le pensioni sono così basse da comportare la necessità di mantenersi il più possibile in attività. I giovani, invece, sono l’unica classe d’età (quella tra i 25 e i 34 anni) che nell’aumento dell’occupazione vedono diminuire la loro partecipazione al lavoro.
La conclusione è desolante: gli occupati aumentano perchè le retribuzioni sono basse, sempre più persone in età avanzata continuano a lavorare e moltissimi lavorano solo part time. L’aumento del numero degli occupati camuffa e occulta l’impoverimento crescente del Paese. Al governo Meloni dobbiamo continuare a gridare che non è il momento di dare i numeri, ma di smetterla di investire in armamenti e di dedicarsi al rilancio economico dei salari, dei consumi e dell’economia pubblica.
Fonte
A questa domanda ha già da tempo risposto l’Osservatorio per i Conti Pubblici Italiani CPI dell’Università Cattolica, dimostrando che l’aumento dell’occupazione è dovuto per i 3/4 a lavoratori impiegati in settori a bassa produttività, dove le retribuzioni sono più basse e dove si concentra un alto numero di lavoratori marginali. Su 100 nuovi occupati, infatti, 42 appartengono al commercio, 19 alla pubblica amministrazione e 14 alle costruzioni, mentre appena 10 riguardano la manifattura e solo 2 il settore dell’energia.
C’è poi una forte crescita del part-time che già nel 2023 aveva raggiunto la ragguardevole cifra di 4 milioni e 300mila lavoratori, cioè il 18% degli occupati. Quando il governo afferma che sono in crescita i lavoratori a tempo indeterminato, omette di ricordare l’aumento dei part-time, che sono in gran parte involontari, e che certificano un’occupazione povera. Va inoltre ricordato che i lavoratori a termine, sia pure in diminuzione, sono comunque 2 milioni e 514mila e che si registra anche un aumento degli autonomi (più di 5 milioni) di cui una forte percentuale è costituita da lavoro dipendente camuffato, senza responsabilità per le aziende e a bassa retribuzione.
Inoltre è utile considerare che dal 2023 anche i cassaintegrati per meno di 3 mesi vengono conteggiati dall’ISTAT come lavoratori e che la gran parte dei cassaintegrati rientra proprio in questa casistica.
E infine, bisogna tenere conto che una buona fetta della nuova occupazione è costituita da lavoratori over 50 e over 60, che prolungano la loro vita lavorativa sia perchè si sta alzando l’età pensionabile e sia perchè le pensioni sono così basse da comportare la necessità di mantenersi il più possibile in attività. I giovani, invece, sono l’unica classe d’età (quella tra i 25 e i 34 anni) che nell’aumento dell’occupazione vedono diminuire la loro partecipazione al lavoro.
La conclusione è desolante: gli occupati aumentano perchè le retribuzioni sono basse, sempre più persone in età avanzata continuano a lavorare e moltissimi lavorano solo part time. L’aumento del numero degli occupati camuffa e occulta l’impoverimento crescente del Paese. Al governo Meloni dobbiamo continuare a gridare che non è il momento di dare i numeri, ma di smetterla di investire in armamenti e di dedicarsi al rilancio economico dei salari, dei consumi e dell’economia pubblica.
Fonte
“L’ICE funziona come un esercito di occupazione. Lo so perché ne ho fatto parte”
di Rory Fanning
Gli elicotteri dell’Immigration and Customs Enforcement (ICE) sorvoleranno senza dubbio il mio quartiere in cerca di riparatori di tetti e giardinieri in questo “Veterans Day”, proprio come hanno fatto per settimane. Negli Stati Uniti, sei un bersaglio facile se hai la pelle scura e il tuo lavoro richiede di lavorare all’aperto.
La mia città, appena fuori Chicago, pullula di agenti o soldati dell’ICE (i due termini possono essere usati in modo intercambiabile) da settimane ormai. Di recente, due mamme, al freddo e con i loro fischietti, hanno aiutato a sorvegliare una squadra che lavorava su un tetto danneggiato dalla grandine. Gli agenti/soldati dell’ICE, vestiti con l’equipaggiamento militare completo, armati di armi semiautomatiche e con passamontagna per nascondere la loro identità, pattugliano su camion senza insegne – credo che ormai sappiamo tutti come riconoscerli.
Queste persone mi ricordano i soldati con cui ho pattugliato in Afghanistan, solo che l’agente medio dell’ICE ha meno addestramento del soldato medio. Sembra che ogni quartiere degli Stati Uniti sia ora soggetto a uno scontro armato e potenzialmente violento con le truppe federali. L’occupazione statunitense dell’Iraq e dell’Afghanistan ha chiuso il cerchio.
Analogamente a come ho terrorizzato i villaggi afghani durante il mio periodo nell’esercito dopo l’11 settembre, l’ICE ha terrorizzato la mia città. Quando ero nei Ranger dell’esercito americano, prendevamo di mira afghani in età da liceo e università. Il più delle volte, questi ragazzi stavano semplicemente camminando per strada, facendosi i fatti loro, quando venivano perquisiti, interrogati in modo intimidatorio o rapiti.
Dopo un po’, gli afghani avvisavano i vicini ogni volta che la nostra carovana di camion entrava in una città – a volte usavano i fischietti. Gli abitanti del villaggio sparivano rapidamente e sembrava di attraversare una città fantasma. Questa, in parte, è la vita sotto occupazione.
Le forze di occupazione interne del regime di Trump sono in forte crescita
L’addestramento dell’ICE è stato ridotto di cinque settimane per “aumentare” il numero di truppe: l’addestramento dura ora otto settimane rispetto alle precedenti 13. L’amministrazione Trump spera di aumentare il numero di agenti dell’ICE da 6.500 a livello nazionale a 10.000 entro la fine del 2025. Un bonus alla firma di 50.000 dollari ha spinto 150.000 persone a candidarsi per posizioni presso l’ICE. Intanto, l’agenzia utilizza immagini nazionaliste bianche per attrarre reclute suprematiste bianche.
Agenti e soldati dell’ICE stanno occupando i quartieri degli Stati Uniti con alcune delle armi più letali al mondo, con solo otto settimane di addestramento e senza alcuna esperienza pregressa richiesta. Secondo un ex funzionario del Dipartimento per la Sicurezza Interna (DHS) intervistato da NBC News, “[il DHS] sta cercando di far passare tutti, e il processo di selezione non è quello che dovrebbe essere”. Eppure, anche se il controllo fosse più rigoroso e approfondito, nessun addestramento può giustificare il terrore creato nei nostri vicini da parte di soldati armati.
La mia unità Ranger nell’esercito contava su alcuni dei soldati meglio addestrati al mondo. Eppure, ogni sei mesi circa perdevamo un soldato a causa di uno sparo accidentale. Un primo sergente della mia unità, considerato un soldato estremamente competente, sparò accidentalmente con il suo fucile M-4 all’interno di un elicottero Blackhawk. Il primo sergente perse il grado e fu espulso dai Ranger.
Anche Pat Tillman, l’ex giocatore di football professionista che si arruolò nell’esercito dopo l’11 settembre, era nella mia unità. Fu ucciso in un episodio di “fuoco amico” e la sua morte fu insabbiata lungo tutta la catena di comando di George W. Bush.
La stragrande maggioranza delle vittime della “guerra globale al terrore” degli Stati Uniti dopo l’11 settembre erano civili. “Danni collaterali”, è così che li chiamano. Ma in realtà, queste morti dovrebbero essere definite per quello che sono: grave imprudenza con armi mortali e un generale disprezzo per la vita umana. Centinaia di migliaia di persone in tutto il mondo sono morte per mano dei soldati statunitensi e dei loro leader. Non ci si può fidare nemmeno delle unità militari meglio addestrate per fare la cosa giusta. La “guerra globale al terrore” lo ha dimostrato.
Quindi, quando vedo agenti dell’ICE e poliziotti militarizzati armati di fucili d’assalto o di altre armi, mi rendo conto di quanto sia ingenuo e sciocco fidarsi di chi è armato dal governo degli Stati Uniti. Sta diventando sempre più evidente che agli agenti dell’ICE – vestiti ed equipaggiati come soldati – non dovrebbe essere permesso di avvicinarsi ai nostri quartieri, soprattutto se armati di armi d’assalto.
A ottobre, Miramar Martinez, residente a Chicago, è stata colpita cinque volte da un agente della Border Patrol (Polizia di Frontiera ndt). L’agente mascherato, il cui nome non è ancora stato reso pubblico, è fuggito nel Maine subito dopo l’aggressione. Secondo l’emittente locale della rete FOX News, l’uomo mascherato, pochi istanti prima di aprire il fuoco, ha puntato un fucile d’assalto contro Miramar e ha urlato: “Fai qualcosa, puttana”.
Silverio Villegas-Gonzalez è stato colpito e ucciso da un agente/soldato dell’ICE in un altro sobborgo di Chicago a settembre.
Solo nelle ultime settimane abbiamo assistito a numerosi episodi che dimostrano quanto sia pericolosa questa banda mascherata di vigilanti.
Nel frattempo, Trump sta cercando di rendere la Guardia Nazionale complice di questa occupazione: finora ha schierato truppe a Washington DC, Los Angeles, Chicago, Portland, Oregon e Memphis, Tennessee. Minaccia di schierarne ancora di più a Baltimora, New York, New Orleans, Oakland, San Francisco e St. Louis. Il Posse Comitatus Act impedisce alla Guardia Nazionale di essere impiegata in attività di polizia.
Ma come ha documentato Democracy Docket, questa legge vecchia di 150 anni non ha fermato Trump, che è già stato rimproverato da un giudice federale che ha stabilito che la sua amministrazione ha violato il Posse Comitatus Act “utilizzando le truppe per assistere direttamente gli agenti federali che effettuavano arresti, istituendo perimetri e blocchi stradali per le operazioni di polizia e, in almeno due occasioni, per arrestare civili”.
Il morale nella Guardia Nazionale sta crollando. Documenti interni mostrano che l’esercito è consapevole che la propria missione è impopolare; un’istantanea di settembre ha rilevato che solo il 2% dei post sui social media analizzati esprimeva un giudizio positivo sul dispiegamento della Guardia Nazionale a Washington, mentre oltre il 53% dei post esprimeva un giudizio negativo.
Questo offre un’opportunità a chiunque speri di convincere i membri della Guardia Nazionale a deporre le armi e a resistere alle richieste di Trump. Questi soldati hanno la responsabilità morale di rifiutare ordini illegali. È nostro dovere ricordarglielo: qualcosa da tenere a mente la prossima volta che parteciperete a una protesta o avrete l’opportunità di parlare con un membro della Guardia Nazionale in servizio attivo.
Gruppi di veterani come About Face e Veterans for Peace stanno facendo un lavoro fenomenale nell’incoraggiare i membri della Guardia Nazionale a resistere a Trump. Le proteste “Veters Say No” qui a Chicago e in altre città hanno attirato migliaia di persone. Questi gruppi stanno ricordando ai soldati che non sono soli, che gli Stati Uniti hanno una gloriosa tradizione di rifiuto degli ordini e che coraggio e onore a volte implicano dire di no agli ufficiali in comando.
Rifiutare il culto dell’“eroe”
Parlando con gli immigrati del mio quartiere, so che provano una paura simile a quella degli afghani che controllavo. Mi sono arruolato nell’esercito nel febbraio del 2002 pensando che avrei reso gli Stati Uniti più sicuri contribuendo a proteggerli da un altro attacco in stile 11 settembre. Ho imparato che gran parte di ciò che gli Stati Uniti stavano facendo in luoghi come l’Afghanistan stava rendendo il Mondo un posto più pericoloso: sia occupando territori che non avrebbero dovuto invadere, sia uccidendo così tanti civili innocenti. Inoltre, era prevedibile che l’acritica venerazione per i soldati, trattati come eroi, che abbiamo visto dopo l’11 settembre avrebbe generato un pericoloso livello di sicurezza in coloro che portavano armi per conto del governo statunitense.
Divento sempre più arrabbiato e frustrato ad ogni “Veterans Day” che passa – questo è il mio ventesimo da quando ho lasciato i Rangers dell’esercito americano come obiettore di coscienza – perché diventa sempre più chiaro che il “Veterans Day” non è altro che un tentativo di nascondere il programma oppressivo e mortale della classe dirigente statunitense celebrando i nostri “eroi”. Gli eroi non uccidono civili innocenti, non si approfittano degli emarginati e non partecipano a missioni imperialiste progettate solo per arricchire i ricchi, vero? Se porti un’arma per conto del governo federale nel 2025, sei l’opposto di un eroe, nonostante le tue migliori intenzioni.
Non lo chiamo mai “Veterans Day”. Lo chiamo Armistice Day come lo chiamavamo negli anni successivi alla Prima Guerra Mondiale. Il Giorno dell’Armistizio doveva celebrare la fine della guerra, a differenza del Veterans Day, che sembra mirato a glorificare la guerra. Sono d’accordo con Kurt Vonnegut, che disse: «Il Giorno dell’Armistizio è diventato il Giorno dei Veterani. Il Giorno dell’Armistizio era sacro. Il Giorno dei Veterani non lo è. Quindi mi getterò il Giorno dei Veterani alle spalle. Il Giorno dell’Armistizio lo conserverò. Non voglio buttare via nulla di sacro».
Ma in realtà questa giornata è più propriamente definita “Giornata degli occupanti”, un termine che descrive correttamente la minaccia che le nostre comunità negli Stati Uniti devono affrontare da parte di tutti coloro che portano un’arma per conto del governo statunitense.
Collettivamente, consideriamo questa giornata come un’opportunità per mantenere e accelerare la necessaria reazione per allontanare la mentalità imperialista che ha contagiato fin troppe persone in questo Paese. Nessuno è “illegale” e solo abolire l’ICE garantirà la sicurezza alle comunità. Dobbiamo smettere di celebrare gli occupanti, sia in patria che all’estero.
Fonte
Gli elicotteri dell’Immigration and Customs Enforcement (ICE) sorvoleranno senza dubbio il mio quartiere in cerca di riparatori di tetti e giardinieri in questo “Veterans Day”, proprio come hanno fatto per settimane. Negli Stati Uniti, sei un bersaglio facile se hai la pelle scura e il tuo lavoro richiede di lavorare all’aperto.
La mia città, appena fuori Chicago, pullula di agenti o soldati dell’ICE (i due termini possono essere usati in modo intercambiabile) da settimane ormai. Di recente, due mamme, al freddo e con i loro fischietti, hanno aiutato a sorvegliare una squadra che lavorava su un tetto danneggiato dalla grandine. Gli agenti/soldati dell’ICE, vestiti con l’equipaggiamento militare completo, armati di armi semiautomatiche e con passamontagna per nascondere la loro identità, pattugliano su camion senza insegne – credo che ormai sappiamo tutti come riconoscerli.
Queste persone mi ricordano i soldati con cui ho pattugliato in Afghanistan, solo che l’agente medio dell’ICE ha meno addestramento del soldato medio. Sembra che ogni quartiere degli Stati Uniti sia ora soggetto a uno scontro armato e potenzialmente violento con le truppe federali. L’occupazione statunitense dell’Iraq e dell’Afghanistan ha chiuso il cerchio.
Analogamente a come ho terrorizzato i villaggi afghani durante il mio periodo nell’esercito dopo l’11 settembre, l’ICE ha terrorizzato la mia città. Quando ero nei Ranger dell’esercito americano, prendevamo di mira afghani in età da liceo e università. Il più delle volte, questi ragazzi stavano semplicemente camminando per strada, facendosi i fatti loro, quando venivano perquisiti, interrogati in modo intimidatorio o rapiti.
Dopo un po’, gli afghani avvisavano i vicini ogni volta che la nostra carovana di camion entrava in una città – a volte usavano i fischietti. Gli abitanti del villaggio sparivano rapidamente e sembrava di attraversare una città fantasma. Questa, in parte, è la vita sotto occupazione.
Le forze di occupazione interne del regime di Trump sono in forte crescita
L’addestramento dell’ICE è stato ridotto di cinque settimane per “aumentare” il numero di truppe: l’addestramento dura ora otto settimane rispetto alle precedenti 13. L’amministrazione Trump spera di aumentare il numero di agenti dell’ICE da 6.500 a livello nazionale a 10.000 entro la fine del 2025. Un bonus alla firma di 50.000 dollari ha spinto 150.000 persone a candidarsi per posizioni presso l’ICE. Intanto, l’agenzia utilizza immagini nazionaliste bianche per attrarre reclute suprematiste bianche.
Agenti e soldati dell’ICE stanno occupando i quartieri degli Stati Uniti con alcune delle armi più letali al mondo, con solo otto settimane di addestramento e senza alcuna esperienza pregressa richiesta. Secondo un ex funzionario del Dipartimento per la Sicurezza Interna (DHS) intervistato da NBC News, “[il DHS] sta cercando di far passare tutti, e il processo di selezione non è quello che dovrebbe essere”. Eppure, anche se il controllo fosse più rigoroso e approfondito, nessun addestramento può giustificare il terrore creato nei nostri vicini da parte di soldati armati.
La mia unità Ranger nell’esercito contava su alcuni dei soldati meglio addestrati al mondo. Eppure, ogni sei mesi circa perdevamo un soldato a causa di uno sparo accidentale. Un primo sergente della mia unità, considerato un soldato estremamente competente, sparò accidentalmente con il suo fucile M-4 all’interno di un elicottero Blackhawk. Il primo sergente perse il grado e fu espulso dai Ranger.
Anche Pat Tillman, l’ex giocatore di football professionista che si arruolò nell’esercito dopo l’11 settembre, era nella mia unità. Fu ucciso in un episodio di “fuoco amico” e la sua morte fu insabbiata lungo tutta la catena di comando di George W. Bush.
La stragrande maggioranza delle vittime della “guerra globale al terrore” degli Stati Uniti dopo l’11 settembre erano civili. “Danni collaterali”, è così che li chiamano. Ma in realtà, queste morti dovrebbero essere definite per quello che sono: grave imprudenza con armi mortali e un generale disprezzo per la vita umana. Centinaia di migliaia di persone in tutto il mondo sono morte per mano dei soldati statunitensi e dei loro leader. Non ci si può fidare nemmeno delle unità militari meglio addestrate per fare la cosa giusta. La “guerra globale al terrore” lo ha dimostrato.
Quindi, quando vedo agenti dell’ICE e poliziotti militarizzati armati di fucili d’assalto o di altre armi, mi rendo conto di quanto sia ingenuo e sciocco fidarsi di chi è armato dal governo degli Stati Uniti. Sta diventando sempre più evidente che agli agenti dell’ICE – vestiti ed equipaggiati come soldati – non dovrebbe essere permesso di avvicinarsi ai nostri quartieri, soprattutto se armati di armi d’assalto.
A ottobre, Miramar Martinez, residente a Chicago, è stata colpita cinque volte da un agente della Border Patrol (Polizia di Frontiera ndt). L’agente mascherato, il cui nome non è ancora stato reso pubblico, è fuggito nel Maine subito dopo l’aggressione. Secondo l’emittente locale della rete FOX News, l’uomo mascherato, pochi istanti prima di aprire il fuoco, ha puntato un fucile d’assalto contro Miramar e ha urlato: “Fai qualcosa, puttana”.
Silverio Villegas-Gonzalez è stato colpito e ucciso da un agente/soldato dell’ICE in un altro sobborgo di Chicago a settembre.
Solo nelle ultime settimane abbiamo assistito a numerosi episodi che dimostrano quanto sia pericolosa questa banda mascherata di vigilanti.
Nel frattempo, Trump sta cercando di rendere la Guardia Nazionale complice di questa occupazione: finora ha schierato truppe a Washington DC, Los Angeles, Chicago, Portland, Oregon e Memphis, Tennessee. Minaccia di schierarne ancora di più a Baltimora, New York, New Orleans, Oakland, San Francisco e St. Louis. Il Posse Comitatus Act impedisce alla Guardia Nazionale di essere impiegata in attività di polizia.
Ma come ha documentato Democracy Docket, questa legge vecchia di 150 anni non ha fermato Trump, che è già stato rimproverato da un giudice federale che ha stabilito che la sua amministrazione ha violato il Posse Comitatus Act “utilizzando le truppe per assistere direttamente gli agenti federali che effettuavano arresti, istituendo perimetri e blocchi stradali per le operazioni di polizia e, in almeno due occasioni, per arrestare civili”.
Il morale nella Guardia Nazionale sta crollando. Documenti interni mostrano che l’esercito è consapevole che la propria missione è impopolare; un’istantanea di settembre ha rilevato che solo il 2% dei post sui social media analizzati esprimeva un giudizio positivo sul dispiegamento della Guardia Nazionale a Washington, mentre oltre il 53% dei post esprimeva un giudizio negativo.
Questo offre un’opportunità a chiunque speri di convincere i membri della Guardia Nazionale a deporre le armi e a resistere alle richieste di Trump. Questi soldati hanno la responsabilità morale di rifiutare ordini illegali. È nostro dovere ricordarglielo: qualcosa da tenere a mente la prossima volta che parteciperete a una protesta o avrete l’opportunità di parlare con un membro della Guardia Nazionale in servizio attivo.
Gruppi di veterani come About Face e Veterans for Peace stanno facendo un lavoro fenomenale nell’incoraggiare i membri della Guardia Nazionale a resistere a Trump. Le proteste “Veters Say No” qui a Chicago e in altre città hanno attirato migliaia di persone. Questi gruppi stanno ricordando ai soldati che non sono soli, che gli Stati Uniti hanno una gloriosa tradizione di rifiuto degli ordini e che coraggio e onore a volte implicano dire di no agli ufficiali in comando.
Rifiutare il culto dell’“eroe”
Parlando con gli immigrati del mio quartiere, so che provano una paura simile a quella degli afghani che controllavo. Mi sono arruolato nell’esercito nel febbraio del 2002 pensando che avrei reso gli Stati Uniti più sicuri contribuendo a proteggerli da un altro attacco in stile 11 settembre. Ho imparato che gran parte di ciò che gli Stati Uniti stavano facendo in luoghi come l’Afghanistan stava rendendo il Mondo un posto più pericoloso: sia occupando territori che non avrebbero dovuto invadere, sia uccidendo così tanti civili innocenti. Inoltre, era prevedibile che l’acritica venerazione per i soldati, trattati come eroi, che abbiamo visto dopo l’11 settembre avrebbe generato un pericoloso livello di sicurezza in coloro che portavano armi per conto del governo statunitense.
Divento sempre più arrabbiato e frustrato ad ogni “Veterans Day” che passa – questo è il mio ventesimo da quando ho lasciato i Rangers dell’esercito americano come obiettore di coscienza – perché diventa sempre più chiaro che il “Veterans Day” non è altro che un tentativo di nascondere il programma oppressivo e mortale della classe dirigente statunitense celebrando i nostri “eroi”. Gli eroi non uccidono civili innocenti, non si approfittano degli emarginati e non partecipano a missioni imperialiste progettate solo per arricchire i ricchi, vero? Se porti un’arma per conto del governo federale nel 2025, sei l’opposto di un eroe, nonostante le tue migliori intenzioni.
Non lo chiamo mai “Veterans Day”. Lo chiamo Armistice Day come lo chiamavamo negli anni successivi alla Prima Guerra Mondiale. Il Giorno dell’Armistizio doveva celebrare la fine della guerra, a differenza del Veterans Day, che sembra mirato a glorificare la guerra. Sono d’accordo con Kurt Vonnegut, che disse: «Il Giorno dell’Armistizio è diventato il Giorno dei Veterani. Il Giorno dell’Armistizio era sacro. Il Giorno dei Veterani non lo è. Quindi mi getterò il Giorno dei Veterani alle spalle. Il Giorno dell’Armistizio lo conserverò. Non voglio buttare via nulla di sacro».
Ma in realtà questa giornata è più propriamente definita “Giornata degli occupanti”, un termine che descrive correttamente la minaccia che le nostre comunità negli Stati Uniti devono affrontare da parte di tutti coloro che portano un’arma per conto del governo statunitense.
Collettivamente, consideriamo questa giornata come un’opportunità per mantenere e accelerare la necessaria reazione per allontanare la mentalità imperialista che ha contagiato fin troppe persone in questo Paese. Nessuno è “illegale” e solo abolire l’ICE garantirà la sicurezza alle comunità. Dobbiamo smettere di celebrare gli occupanti, sia in patria che all’estero.
Fonte
05/12/2025
La lezione di Genova
Da quasi 60 anni le cariche contro gli operai in una manifestazione con CgilCislUil segnano il superamento di una linea rossa che quasi nessun governo ha osato oltrepassare.
L’ultimo episodio rilevante erano state le cariche contro i metalmeccanici della Fiom, a Roma, guidati da Maurizio Landini, il 30 ottobre del 2014. Il presidente del consiglio era Matteo Renzi, e gli operai venivano dalle acciaierie di Terni, già aggrediti dalla polizia un anno prima nella cittadina umbra con un pestaggio che aveva ferito persino l’allora sindaco Di Girolamo. La crisi dell’acciaio in Italia ha ormai una lunga storia...
Ieri a Genova mancava la Uil, famosa nell’ex Ilva più come “ufficio raccomandazioni” che come sindacato (a Taranto bisognava iscriversi prima ancora di essere assunti), sostituita però dalla molto più conflittuale Usb, che oggi può vantare una presenza operaia in continua ascesa.
Il ruolo del governo Meloni nella crisi dell’Ilva era ieri molto ben rappresentato dalla blindatura della piazzetta sede della Prefettura (il “palazzo del Governo”, in ogni capoluogo di provincia). Riesumate le grate, utilizzate ai tempi del G8, saldate a chiudere ogni passaggio e con dietro i blindati della polizia.
L’istantanea perfetta di un esecutivo sordo, cieco, inabile a tutto, che però non vuol essere “disturbato” da coloro che sta mandando sul lastrico. E da un Paese in declino...
Il piano presentato dal ministro Urso è stato unanimemente considerato un piano di chiusura, con i dipendenti della ex Ilva buttati in mezzo alla strada e basta. Una scelta idiota sotto molti e diversi punti di vista. Non solo e non tanto per l’occupazione (20.000 persone, tra “interni” ed indotto), quanto per il ruolo strategico da sempre svolto dall’industria dell’acciaio, senza la quale un paese diventa dipendente dalle forniture altrui.
Per misurare quanto sia idiota questa scelta basti pensare che avviene mentre contemporaneamente il governo aumenta gli stanziamenti per le armi, che notoriamente sono destinatarie primarie della produzione di acciaio di tutti i tipi. Noi siamo per il disarmo, è noto, ma stupisce che i reazionari guerrafondai pensino sia possibile fare a meno della “materia prima” per quello che hanno in testa.
Nella fase alta della cosiddetta “globalizzazione” si era pensato che la produzione “indigena” potesse essere sostituita con quella meno costosa proveniente dall’India o dall’Ucraina. Ma oggi sappiamo che Nuova Delhi viaggia su una rotta meno amichevole con l’Occidente coloniale. E l’Azovstal di Mariupol è saldamente tornata in mani russe, quindi con qualche problema di comunicazione creato dalle “nostre” stesse sanzioni.
E dire che persino un manager delle privatizzazioni come Franco Bernabè ha fatto notare che “ristrutturare l’Ilva e continuare la produzione costerebbe meno che chiuderla”. 4 miliardi contro 10-12 da buttare a fondo perduto per la cassa integrazione, i “corsi di riqualificazione” dei licenziati, la bonifica dei siti produttivi (16 kmq a Taranto, oltre un kmq a Genova Cornigliano, ecc.).
Ma è sul piano del conflitto sociale e politico che la giornata di ieri a Genova segna il superamento di una “linea rossa”. Un governo che attacca militarmente gli operai non può più spacciarsi come “vicino al popolo”, per quanto si sforzi di “parlare alla pancia” dei più poveri. Entra in crisi la “narrazione populista” con cui questi post-fascisti si erano travestiti.
Ma nello stesso tempo è anche andata in pensione la divisione tra “buoni e cattivi” nei cortei, utile da sempre a criminalizzare una parte dei movimenti per paralizzarli nel loro insieme. La reazione operaia alla blindatura della Prefettura è stata da manuale: solo chi tratta quotidianamente con l’acciaio sa come fare per sbragare le “difese” erette a protezione del Palazzo. E il “trattore” gigante utilizzato per la movimentazione dei carichi è diventato lo strumento adatto a divellere le grate.
Di lì la pioggia di lacrimogeni, anche di tipo proibito a livello europeo. In particolare, il gas CS (o-chlorobenzylidene malononitrile) è considerato un’arma chimica e il suo uso è regolamentato dalla Convenzione sulle armi di quel tipo.
Stavolta però nessuno ha provato ad imbastire teorie strane sui “black-bloc”, gli “anarchici” o gli “autonomi”. Persino la sindaca di centrosinistra e il presidente regionale di centrodestra si sono precipitati a dare solidarietà e/o disponibilità alla mediazione col governo sordo.
Nella piazza di Genova c’è la classe operaia più classica dell’immaginario novecentesco: i siderurgici, gli uomini dell’acciaio. A viso aperto, con determinazione granitica, competenza meccanica ed intelligenza politica.
Tre mesi fa erano stati i portuali di Genova a “suonare la sveglia” contro il genocidio dei palestinesi indicando le forme della mobilitazione attraverso quel “Blocchiamo tutto” che si è materializzato in tutto il paese.
Questi operai hanno dato una lezione al potere, ma anche al resto del movimento che da mesi – e per fortuna – va montando contro il genocidio, il riarmo, i tagli alla spesa sociale, la militarizzazione strisciante ed esplicita, la repressione, ecc.
Si parte e si torna insieme, sempre. Ci si comporta in piazza come è stato deciso. Nessuna scelta è preclusa, ma deve sempre essere condivisa, altrimenti serve solo ad indebolirci.
È una lezione antica ma sempre attuale. La lotta è una cosa seria e l’unico modo di vincere è nel partire e tornare insieme.
Fonte
L’ultimo episodio rilevante erano state le cariche contro i metalmeccanici della Fiom, a Roma, guidati da Maurizio Landini, il 30 ottobre del 2014. Il presidente del consiglio era Matteo Renzi, e gli operai venivano dalle acciaierie di Terni, già aggrediti dalla polizia un anno prima nella cittadina umbra con un pestaggio che aveva ferito persino l’allora sindaco Di Girolamo. La crisi dell’acciaio in Italia ha ormai una lunga storia...
Ieri a Genova mancava la Uil, famosa nell’ex Ilva più come “ufficio raccomandazioni” che come sindacato (a Taranto bisognava iscriversi prima ancora di essere assunti), sostituita però dalla molto più conflittuale Usb, che oggi può vantare una presenza operaia in continua ascesa.
Il ruolo del governo Meloni nella crisi dell’Ilva era ieri molto ben rappresentato dalla blindatura della piazzetta sede della Prefettura (il “palazzo del Governo”, in ogni capoluogo di provincia). Riesumate le grate, utilizzate ai tempi del G8, saldate a chiudere ogni passaggio e con dietro i blindati della polizia.
L’istantanea perfetta di un esecutivo sordo, cieco, inabile a tutto, che però non vuol essere “disturbato” da coloro che sta mandando sul lastrico. E da un Paese in declino...
Il piano presentato dal ministro Urso è stato unanimemente considerato un piano di chiusura, con i dipendenti della ex Ilva buttati in mezzo alla strada e basta. Una scelta idiota sotto molti e diversi punti di vista. Non solo e non tanto per l’occupazione (20.000 persone, tra “interni” ed indotto), quanto per il ruolo strategico da sempre svolto dall’industria dell’acciaio, senza la quale un paese diventa dipendente dalle forniture altrui.
Per misurare quanto sia idiota questa scelta basti pensare che avviene mentre contemporaneamente il governo aumenta gli stanziamenti per le armi, che notoriamente sono destinatarie primarie della produzione di acciaio di tutti i tipi. Noi siamo per il disarmo, è noto, ma stupisce che i reazionari guerrafondai pensino sia possibile fare a meno della “materia prima” per quello che hanno in testa.
Nella fase alta della cosiddetta “globalizzazione” si era pensato che la produzione “indigena” potesse essere sostituita con quella meno costosa proveniente dall’India o dall’Ucraina. Ma oggi sappiamo che Nuova Delhi viaggia su una rotta meno amichevole con l’Occidente coloniale. E l’Azovstal di Mariupol è saldamente tornata in mani russe, quindi con qualche problema di comunicazione creato dalle “nostre” stesse sanzioni.
E dire che persino un manager delle privatizzazioni come Franco Bernabè ha fatto notare che “ristrutturare l’Ilva e continuare la produzione costerebbe meno che chiuderla”. 4 miliardi contro 10-12 da buttare a fondo perduto per la cassa integrazione, i “corsi di riqualificazione” dei licenziati, la bonifica dei siti produttivi (16 kmq a Taranto, oltre un kmq a Genova Cornigliano, ecc.).
Ma è sul piano del conflitto sociale e politico che la giornata di ieri a Genova segna il superamento di una “linea rossa”. Un governo che attacca militarmente gli operai non può più spacciarsi come “vicino al popolo”, per quanto si sforzi di “parlare alla pancia” dei più poveri. Entra in crisi la “narrazione populista” con cui questi post-fascisti si erano travestiti.
Ma nello stesso tempo è anche andata in pensione la divisione tra “buoni e cattivi” nei cortei, utile da sempre a criminalizzare una parte dei movimenti per paralizzarli nel loro insieme. La reazione operaia alla blindatura della Prefettura è stata da manuale: solo chi tratta quotidianamente con l’acciaio sa come fare per sbragare le “difese” erette a protezione del Palazzo. E il “trattore” gigante utilizzato per la movimentazione dei carichi è diventato lo strumento adatto a divellere le grate.
Di lì la pioggia di lacrimogeni, anche di tipo proibito a livello europeo. In particolare, il gas CS (o-chlorobenzylidene malononitrile) è considerato un’arma chimica e il suo uso è regolamentato dalla Convenzione sulle armi di quel tipo.
Stavolta però nessuno ha provato ad imbastire teorie strane sui “black-bloc”, gli “anarchici” o gli “autonomi”. Persino la sindaca di centrosinistra e il presidente regionale di centrodestra si sono precipitati a dare solidarietà e/o disponibilità alla mediazione col governo sordo.
Nella piazza di Genova c’è la classe operaia più classica dell’immaginario novecentesco: i siderurgici, gli uomini dell’acciaio. A viso aperto, con determinazione granitica, competenza meccanica ed intelligenza politica.
Tre mesi fa erano stati i portuali di Genova a “suonare la sveglia” contro il genocidio dei palestinesi indicando le forme della mobilitazione attraverso quel “Blocchiamo tutto” che si è materializzato in tutto il paese.
Questi operai hanno dato una lezione al potere, ma anche al resto del movimento che da mesi – e per fortuna – va montando contro il genocidio, il riarmo, i tagli alla spesa sociale, la militarizzazione strisciante ed esplicita, la repressione, ecc.
Si parte e si torna insieme, sempre. Ci si comporta in piazza come è stato deciso. Nessuna scelta è preclusa, ma deve sempre essere condivisa, altrimenti serve solo ad indebolirci.
È una lezione antica ma sempre attuale. La lotta è una cosa seria e l’unico modo di vincere è nel partire e tornare insieme.
Fonte
Libri, antifascismo, diritti sociali e manifestazioni culturali
Più Libri Più Liberi… ma, e non certo da oggi, sarebbe meglio dire “più contraddizioni”. O anche, tanto per essere chiari, “più cavolate”.
Di fronte alla manifestazione del fascismo in ogni sua forma, infatti, è ridicolo, offensivo e volgare appellarsi a concetti quali la libertà di stampa o di opinione.
Come è stato detto e ribadito con i fatti, il fascismo non è un’opinione, è un crimine. E combatterlo è, né più né meno, un dovere civico e morale. Certamente, però, a essere contraddittorio è che ci si stupisca che il fascismo, avanzante nella società, esista anche nel mondo dei libri.
Nella prossima edizione di Più Libri Più Liberi ci saranno diversi editori di “destra”, capeggiati, quest’anno dagli “identitari” di Passaggio al Bosco. Ma che dire degli editori di area democratica che da anni posteggiano allegramente nella fiera letteraria di destra Libropolis di Pietrasanta (https://www.libropolis.org/ospiti-ed-editori/) senza che la stessa area democratica – o addirittura di movimento – abbia nulla da ridire?
In realtà, in questi anni, abbiamo assistito a una continua fascistizzazione dello scenario politico generale, con l’assunzione di provvedimenti terrificanti nella loro portata repressiva. Basti citare il recente Decreto Sicurezza per farsi un’idea di ciò che il fascismo è e a cosa il fascismo serva: nei momenti di crisi economica, a comprimere le aspirazioni di chi vive del proprio lavoro a vantaggio degli interessi del grande capitale. E che ci siano Più o Meno Libri, poco importa.
Senz’altro in questi ultimi anni ci sono Più Sfratti e Meno Case Popolari, Più Sfruttamento e Meno Lavoro Garantito, Più Povertà e Meno Valore dei Salari percepiti dalla classe operaia, Più Devastazione Sociale ed Ambientale e Meno Tutela del Territorio, Più Analfabetismo e Meno Scuola, Più Malattia e Meno Sanità, Più Femminicidi e Meno Consultori, Più Guerra e Meno Pace o, per dirla in sintesi: Più Fascismo e Meno Democrazia.
La Red Star Press ha sempre pensato che la partita per i Libri e per la Cultura non si giochi nella sovrastruttura del sistema, ma nel suo cuore.
Per questo il nostro slogan è, non ci stancheremo mai di ripeterlo: «Cosa ci facciamo di un libro se non abbiamo un lavoro decente e neppure una casa?»; ed è sempre per questo che, come casa editrice dedicata alla storia e alla cultura del movimento operaio, siamo convinti che lo spazio per i libri e per la cultura debba essere guadagnato al centro della partecipazione alle battaglie per la conquista dei diritti sociali: all’interno della lotta di classe.
Allo stesso modo pensiamo che sia necessario difendere con le unghie e con i denti gli spazi di agibilità conquistati negli anni a caro prezzo.
Per questo i nostri lettori e le nostre lettrici ci troveranno come sempre nello stand C04 di Più Libri Più Liberi dietro le insegne antifasciste che ci hanno sempre contraddistinto e che proprio raccogliendo consenso nelle manifestazioni di massa capiscono di essere tutt’altro che sole.
Tornando, però, alla prossima edizione di Più Libri Più Liberi, fa davvero specie che l’ex deputato dem Emanuele Fiano, presidente di “Sinistra per Israele”, si stupisca di presenze come quella di Passaggio al Bosco a Più Libri Più Liberi (https://ilmanifesto.it/passaggio-al-bosco-la-presenza... – https://bit.ly/4opqs4k).
Assumendo come reale lo stupore di Fiano, sarà bene far notare al politico del PD come, nel corso del Genocidio in Palestina, le posizioni più estremisticamente a favore di Israele – i sionisti – non abbiano fatto altro che trovare nella destra e nell’estrema destra i propri alleati più fedeli. Il risultato, oltre all’impunito massacro di decine di migliaia di palestinesi, è stato anche un ulteriore spostamento a destra dell’asse politico dell’intero Occidente, dove i governi si sono ostinatamente rivelati sordi alle oceaniche manifestazioni che hanno continuato a rivendicare giustizia e libertà per la Palestina, preoccupandosi solo dei modi per silenziare le voci dissonanti, aggredendo le persone comuni, il “nemico interno”.
Da buoni cani da guardia del capitale, i fascisti hanno supportato e supportano senza nessun problema l’atlantismo guerrafondaio di Trump, il sionismo genocidario di Israele (ammesso che ci sia una reale differenza tra le due cose...) e i governi servili come quello italiano. Ma alla fine non mancano di presentare il proprio conto.
Per le antifasciste e gli antifascisti una battaglia da combattere con la consapevolezza che “neppure i morti saranno al sicuro dal nemico, se vince”.
P.S. Come era prevedibile, la presa di parola antifascista, da parte nostra un semplice atto dovuto, ha comportato immediatamente una minaccia. La Red Star Press viene indicata come se fosse un bersaglio da colpire: un invito all’azione che non di rado personaggi a posteriori fatti passare per “matti” hanno raccolto. In ogni caso ribadiamo quello che abbiamo già detto e che appartiene da sempre alla storia del movimento operaio: “Il fascismo non è un’opinione, è un crimine”. Combatterlo non è nient’altro che un dovere civico e morale. Per il resto, da domani ci troverete a Più Libri Più Liberi, nello stand C04. Uno dei motti della nostra casa editrice, ben conscia delle sue dimensioni minime, è “dove andiamo resistiamo”. Resistete con noi.
Fonte
Di fronte alla manifestazione del fascismo in ogni sua forma, infatti, è ridicolo, offensivo e volgare appellarsi a concetti quali la libertà di stampa o di opinione.
Come è stato detto e ribadito con i fatti, il fascismo non è un’opinione, è un crimine. E combatterlo è, né più né meno, un dovere civico e morale. Certamente, però, a essere contraddittorio è che ci si stupisca che il fascismo, avanzante nella società, esista anche nel mondo dei libri.
Nella prossima edizione di Più Libri Più Liberi ci saranno diversi editori di “destra”, capeggiati, quest’anno dagli “identitari” di Passaggio al Bosco. Ma che dire degli editori di area democratica che da anni posteggiano allegramente nella fiera letteraria di destra Libropolis di Pietrasanta (https://www.libropolis.org/ospiti-ed-editori/) senza che la stessa area democratica – o addirittura di movimento – abbia nulla da ridire?
In realtà, in questi anni, abbiamo assistito a una continua fascistizzazione dello scenario politico generale, con l’assunzione di provvedimenti terrificanti nella loro portata repressiva. Basti citare il recente Decreto Sicurezza per farsi un’idea di ciò che il fascismo è e a cosa il fascismo serva: nei momenti di crisi economica, a comprimere le aspirazioni di chi vive del proprio lavoro a vantaggio degli interessi del grande capitale. E che ci siano Più o Meno Libri, poco importa.
Senz’altro in questi ultimi anni ci sono Più Sfratti e Meno Case Popolari, Più Sfruttamento e Meno Lavoro Garantito, Più Povertà e Meno Valore dei Salari percepiti dalla classe operaia, Più Devastazione Sociale ed Ambientale e Meno Tutela del Territorio, Più Analfabetismo e Meno Scuola, Più Malattia e Meno Sanità, Più Femminicidi e Meno Consultori, Più Guerra e Meno Pace o, per dirla in sintesi: Più Fascismo e Meno Democrazia.
La Red Star Press ha sempre pensato che la partita per i Libri e per la Cultura non si giochi nella sovrastruttura del sistema, ma nel suo cuore.
Per questo il nostro slogan è, non ci stancheremo mai di ripeterlo: «Cosa ci facciamo di un libro se non abbiamo un lavoro decente e neppure una casa?»; ed è sempre per questo che, come casa editrice dedicata alla storia e alla cultura del movimento operaio, siamo convinti che lo spazio per i libri e per la cultura debba essere guadagnato al centro della partecipazione alle battaglie per la conquista dei diritti sociali: all’interno della lotta di classe.
Allo stesso modo pensiamo che sia necessario difendere con le unghie e con i denti gli spazi di agibilità conquistati negli anni a caro prezzo.
Per questo i nostri lettori e le nostre lettrici ci troveranno come sempre nello stand C04 di Più Libri Più Liberi dietro le insegne antifasciste che ci hanno sempre contraddistinto e che proprio raccogliendo consenso nelle manifestazioni di massa capiscono di essere tutt’altro che sole.
Tornando, però, alla prossima edizione di Più Libri Più Liberi, fa davvero specie che l’ex deputato dem Emanuele Fiano, presidente di “Sinistra per Israele”, si stupisca di presenze come quella di Passaggio al Bosco a Più Libri Più Liberi (https://ilmanifesto.it/passaggio-al-bosco-la-presenza... – https://bit.ly/4opqs4k).
Assumendo come reale lo stupore di Fiano, sarà bene far notare al politico del PD come, nel corso del Genocidio in Palestina, le posizioni più estremisticamente a favore di Israele – i sionisti – non abbiano fatto altro che trovare nella destra e nell’estrema destra i propri alleati più fedeli. Il risultato, oltre all’impunito massacro di decine di migliaia di palestinesi, è stato anche un ulteriore spostamento a destra dell’asse politico dell’intero Occidente, dove i governi si sono ostinatamente rivelati sordi alle oceaniche manifestazioni che hanno continuato a rivendicare giustizia e libertà per la Palestina, preoccupandosi solo dei modi per silenziare le voci dissonanti, aggredendo le persone comuni, il “nemico interno”.
Da buoni cani da guardia del capitale, i fascisti hanno supportato e supportano senza nessun problema l’atlantismo guerrafondaio di Trump, il sionismo genocidario di Israele (ammesso che ci sia una reale differenza tra le due cose...) e i governi servili come quello italiano. Ma alla fine non mancano di presentare il proprio conto.
Per le antifasciste e gli antifascisti una battaglia da combattere con la consapevolezza che “neppure i morti saranno al sicuro dal nemico, se vince”.
P.S. Come era prevedibile, la presa di parola antifascista, da parte nostra un semplice atto dovuto, ha comportato immediatamente una minaccia. La Red Star Press viene indicata come se fosse un bersaglio da colpire: un invito all’azione che non di rado personaggi a posteriori fatti passare per “matti” hanno raccolto. In ogni caso ribadiamo quello che abbiamo già detto e che appartiene da sempre alla storia del movimento operaio: “Il fascismo non è un’opinione, è un crimine”. Combatterlo non è nient’altro che un dovere civico e morale. Per il resto, da domani ci troverete a Più Libri Più Liberi, nello stand C04. Uno dei motti della nostra casa editrice, ben conscia delle sue dimensioni minime, è “dove andiamo resistiamo”. Resistete con noi.
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Il “Defence Summit” si blinda per paura delle proteste. Militari e manager pianificano il riarmo e l’economia di guerra
Il “Defence Summit” doveva svolgersi lo scorso 11 settembre a Roma, ma le proteste e gli annunci di una mobilitazione di massa antimilitarista avevano costretto gli organizzatori al rinvio.
Ieri sono tornati alla carica blindandosi nella sede del Centro Alti Studi Difesa sul Lungotevere e hanno riunito i vertici delle forze armate insieme agli amministratori e manager delle principali industrie militari italiane.
Gli sponsor dell’evento risultano essere il gotha dell’industria degli armamenti come Avio Aero, Bcg, Cap Gemini, Elt, Ernst &Young, Fincantieri, Iveco Defence, Leonardo, Mbda, Rheinmetall, Thales.
Presenti il capo di Stato maggiore della Difesa Portolano, il capo di Stato maggiore dell’Esercito Carmine Masiello e il comandante generale dei carabinieri Salvatore Luongo. Non poteva mancare il presidente del Comitato militare della Nato Giuseppe Cavo Dragone, reduce dalle polemiche suscitate dalle sue dichiarazioni sulla guerra ibrida contro la Russia.
Così come non potevano mancare l’ amministratore delegato della Leonardo Roberto Cingolani, quello della Fincantieri Pierroberto Folgiero, e poi quelli di Mbda Italia Lorenzo Mariani, della Rheinmetall Italia Alessandro Ercolani, e l’ex ministra piddina della Difesa Roberta Pinotti, oggi presidente del Polo Nazionale della Subacquea inaugurato nel 2023.
I giornalisti sono stati tenuti fuori e hanno potuto seguire i lavori solo in videoconferenza. Gli unici giornalisti presenti erano quelli del gruppo Sole24 Ore sul cui quotidiano c’è un utile resoconto dell’incontro.
Il ministro della Difesa Crosetto ha annunciato che intende portare in Parlamento già tra gennaio e febbraio una riorganizzazione totale della Difesa. Oggi in audizione al Senato, Crosetto presenta il Documento programmatico pluriennale della Difesa che delinea il programma dell’ultimo anno e mezzo di legislatura. “Significa costruire una difesa dal punto di vista degli uomini, degli strumenti normativi e giuridici a 360 gradi per affrontare le sfide del futuro” ha affermato Crosetto intervenendo al Defence Summit.
Si tratta di un “sistema che non abbiamo mai avuto e ormai irrinunciabile per cui è previsto un investimento di 4,4 miliardi di euro” e che si compone di sistemi spaziali per l’allarme missilistico, radar avanzati, velivoli di difesa aerea come il Gcap, il caccia di sesta generazione, la batteria Samp-T next generation, antidroni. “Una necessità che nasce dall’esperienza di quello che vediamo succedere in Israele e ogni giorno in Ucraina”, ha aggiunto il ministro della Difesa.
Da segnalare infine anche la questione della leva giovanile per le forze armate richiamata dal Comandante generale dell’Arma dei carabinieri, Salvatore Luongo, secondo cui “Abbiamo bisogno di ripianare gli organici e di avere forze operative rigenerate anche sotto il profilo anagrafico”.
Fonte
Ieri sono tornati alla carica blindandosi nella sede del Centro Alti Studi Difesa sul Lungotevere e hanno riunito i vertici delle forze armate insieme agli amministratori e manager delle principali industrie militari italiane.
Gli sponsor dell’evento risultano essere il gotha dell’industria degli armamenti come Avio Aero, Bcg, Cap Gemini, Elt, Ernst &Young, Fincantieri, Iveco Defence, Leonardo, Mbda, Rheinmetall, Thales.
Presenti il capo di Stato maggiore della Difesa Portolano, il capo di Stato maggiore dell’Esercito Carmine Masiello e il comandante generale dei carabinieri Salvatore Luongo. Non poteva mancare il presidente del Comitato militare della Nato Giuseppe Cavo Dragone, reduce dalle polemiche suscitate dalle sue dichiarazioni sulla guerra ibrida contro la Russia.
Così come non potevano mancare l’ amministratore delegato della Leonardo Roberto Cingolani, quello della Fincantieri Pierroberto Folgiero, e poi quelli di Mbda Italia Lorenzo Mariani, della Rheinmetall Italia Alessandro Ercolani, e l’ex ministra piddina della Difesa Roberta Pinotti, oggi presidente del Polo Nazionale della Subacquea inaugurato nel 2023.
I giornalisti sono stati tenuti fuori e hanno potuto seguire i lavori solo in videoconferenza. Gli unici giornalisti presenti erano quelli del gruppo Sole24 Ore sul cui quotidiano c’è un utile resoconto dell’incontro.
Il ministro della Difesa Crosetto ha annunciato che intende portare in Parlamento già tra gennaio e febbraio una riorganizzazione totale della Difesa. Oggi in audizione al Senato, Crosetto presenta il Documento programmatico pluriennale della Difesa che delinea il programma dell’ultimo anno e mezzo di legislatura. “Significa costruire una difesa dal punto di vista degli uomini, degli strumenti normativi e giuridici a 360 gradi per affrontare le sfide del futuro” ha affermato Crosetto intervenendo al Defence Summit.
Si tratta di un “sistema che non abbiamo mai avuto e ormai irrinunciabile per cui è previsto un investimento di 4,4 miliardi di euro” e che si compone di sistemi spaziali per l’allarme missilistico, radar avanzati, velivoli di difesa aerea come il Gcap, il caccia di sesta generazione, la batteria Samp-T next generation, antidroni. “Una necessità che nasce dall’esperienza di quello che vediamo succedere in Israele e ogni giorno in Ucraina”, ha aggiunto il ministro della Difesa.
Da segnalare infine anche la questione della leva giovanile per le forze armate richiamata dal Comandante generale dell’Arma dei carabinieri, Salvatore Luongo, secondo cui “Abbiamo bisogno di ripianare gli organici e di avere forze operative rigenerate anche sotto il profilo anagrafico”.
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Riemerge la “questione operaia”. Il 13 dicembre se ne discute a Roma
Nelle piazze gli operai stanno riconquistando protagonismo attraverso vertenze altamente conflittuali (dalla ex Ilva alla logistica, dalla Jabil ai porti). Rimettere al centro dell’agenda politica la “questione operaia”, non solo attraverso il conflitto sociale e sindacale ma anche come fattore decisivo dei rapporti sociali nel paese, è l’obiettivo del convegno su “Industria Nomade. Crisi, innovazione tecnologica e questione operaia” che si svolgerà a Roma sabato 13 dicembre.
Il convegno organizzato dall’USB nasce dalla necessità di leggere una fase in cui la ristrutturazione dell’industria europea sta cambiando in profondità la condizione della classe operaia.
L’accorciamento delle filiere, la crisi della globalizzazione, la competizione tra poli imperiali, la transizione energetica e digitale, insieme alla spinta al riarmo, stanno ridefinendo il ruolo produttivo dell’Italia dentro l’Europa e stanno trascinando con sé licenziamenti, precarietà, desertificazione industriale e un impoverimento sistematico del lavoro.
USB arriva a questo confronto dopo anni di crescita concreta nei settori operai, frutto di un’analisi che ci ha permesso di intervenire dove oggi si produce valore e sfruttamento, dalla logistica alle grandi fabbriche in crisi.
La classe operaia non scompare: cambia forma, si frammenta, si divide tra segmenti più garantiti e un’area sempre più ampia di lavoro precario, cassa integrazione e somministrazione, mentre l’automazione e l’intelligenza artificiale svuotano le mansioni e indeboliscono i rapporti di forza.
Il convegno vuole fornire strumenti per comprendere queste trasformazioni e orientare il conflitto: individuare i settori strategici su cui intervenire, leggere i tempi della ristrutturazione, capire come costruire una presenza sindacale forte dentro processi che il governo affronta solo con ricette vecchie, fatte di privatizzazioni, flessibilità e riarmo.
Intervento pubblico, investimenti nelle filiere strategiche, tutela dei salari, riduzione dell’orario lavorativo, strumenti universali come il salario di transizione, una politica industriale ecologica e sociale. “Industria Nomade” è il luogo in cui USB prepara questo salto: dalla lettura della crisi alla costruzione dell’iniziativa, dal frammento della vertenza alla visione generale necessaria per dare voce e forza alla classe operaia di oggi.
Il convegno si terrà sabato 13 dicembre a Roma presso l’Hotel Massimo D’Azeglio (via Cavour 18) con inizio dei lavori alle ore 10.00
RELAZIONI:
L. Vasapollo – L’industria nomade – No made in Italy
F. Russo – UE Riarmo e industria – Disegni di potenza globale
G. Cremaschi – La soggettività operaia nella ristrutturazione capitalista
V. Giacchè – Verso la seconda grande trasformazione: Stato e pianificazione nel XXI secolo
R. Montanari – La fabbrica logistica: architettura nuova, sfruttamento antico
M. Casadio – Non è un caso se riparliamo di Cipputi
Sono previsti interventi e contributi dei delegati e delegate dalle fabbriche e dai luoghi di lavoro
Fonte
Il convegno organizzato dall’USB nasce dalla necessità di leggere una fase in cui la ristrutturazione dell’industria europea sta cambiando in profondità la condizione della classe operaia.
L’accorciamento delle filiere, la crisi della globalizzazione, la competizione tra poli imperiali, la transizione energetica e digitale, insieme alla spinta al riarmo, stanno ridefinendo il ruolo produttivo dell’Italia dentro l’Europa e stanno trascinando con sé licenziamenti, precarietà, desertificazione industriale e un impoverimento sistematico del lavoro.
USB arriva a questo confronto dopo anni di crescita concreta nei settori operai, frutto di un’analisi che ci ha permesso di intervenire dove oggi si produce valore e sfruttamento, dalla logistica alle grandi fabbriche in crisi.
La classe operaia non scompare: cambia forma, si frammenta, si divide tra segmenti più garantiti e un’area sempre più ampia di lavoro precario, cassa integrazione e somministrazione, mentre l’automazione e l’intelligenza artificiale svuotano le mansioni e indeboliscono i rapporti di forza.
Il convegno vuole fornire strumenti per comprendere queste trasformazioni e orientare il conflitto: individuare i settori strategici su cui intervenire, leggere i tempi della ristrutturazione, capire come costruire una presenza sindacale forte dentro processi che il governo affronta solo con ricette vecchie, fatte di privatizzazioni, flessibilità e riarmo.
Intervento pubblico, investimenti nelle filiere strategiche, tutela dei salari, riduzione dell’orario lavorativo, strumenti universali come il salario di transizione, una politica industriale ecologica e sociale. “Industria Nomade” è il luogo in cui USB prepara questo salto: dalla lettura della crisi alla costruzione dell’iniziativa, dal frammento della vertenza alla visione generale necessaria per dare voce e forza alla classe operaia di oggi.
Il convegno si terrà sabato 13 dicembre a Roma presso l’Hotel Massimo D’Azeglio (via Cavour 18) con inizio dei lavori alle ore 10.00
RELAZIONI:
L. Vasapollo – L’industria nomade – No made in Italy
F. Russo – UE Riarmo e industria – Disegni di potenza globale
G. Cremaschi – La soggettività operaia nella ristrutturazione capitalista
V. Giacchè – Verso la seconda grande trasformazione: Stato e pianificazione nel XXI secolo
R. Montanari – La fabbrica logistica: architettura nuova, sfruttamento antico
M. Casadio – Non è un caso se riparliamo di Cipputi
Sono previsti interventi e contributi dei delegati e delegate dalle fabbriche e dai luoghi di lavoro
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Germania - Studenti in sciopero contro la leva
Oggi, 5 dicembre, 60 città tedesche verranno attraversate dalle proteste degli studenti, che si prevede scenderanno in piazza a migliaia per opporsi con fermezza alla reintroduzione della leva obbligatoria. Le manifestazioni si svolgeranno in contemporanea col voto che si terrà al Bundestag riguardo a questa ennesima misura di una Germania sempre più incamminata verso la guerra.
Il ritorno della leva, abbandonata nel 2011, è stato promosso dal cancelliere Friedrich Merz, che ha annunciato mesi fa, in maniera solenne, di voler trasformare le forze armate tedesche nell’esercito “più forte d’Europa”… che è cosa ben diversa da un esercito europeo forte, prima di consegnarlo nelle mani dell’estrema destra rappresentata dall’AfD.
Lo slogan sotto cui si svolgerà quello che molti commentatori considerano diventerà probabilmente una delle più grandi mobilitazioni degli ultimi anni è molto chiaro: “Non vogliamo diventare carne da cannone!” Un’ipotesi sostenuta invece in maniera bipartisan nella classe politica tedesca, dato che a favore della riforma c’è anche il ministro della Difesa, Boris Pistorius, appartenente ai socialdemocratici della SPD.
Il piano del governo è costruito su di un meccanismo ibrido, che prova a nascondere il ritorno della leva. Il provvedimento in votazione imporrebbe, infatti, la creazione di un registro obbligatorio per tutti i maschi nati dal 2008, ai quali sarà chiesto di compilare un questionario di valutazione nel 2026, e di sottoporsi a visite mediche per l’idoneità al servizio militare nel 2027. Per le donne il processo rimane volontario.
L’obiettivo è quello di rimpolpare le fila dell’esercito con 20 mila nuove reclute, per un periodo minimo di 6 mesi, rinnovabile fino ai 23, con una paga che si aggira sui 2.600 euro lordi. Ma il nodo è che la “volontarietà” è interpretata in maniera piuttosto libera dai decisori tedeschi: nel caso in cui non si presentassero 20 mila volontari, la legge prevede l’attivazione, previo voto parlamentare, dell’estrazione a sorte dei numeri mancanti.
Il problema è che una tale coercizione va in contraddizione con la Legge Fondamentale della Repubblica, la costituzione tedesca che all’articolo 4, comma 3, recita: “Nessuno può essere costretto contro la sua coscienza al servizio militare armato”. È quel che si trova scritto chiaramente sulla piattaforma online attraverso il quale gli studenti stanno amplificando la voce della protesta, e che è possibile consultare qui.
Il processo di reclutamento per lotteria verrebbe ripetuto ogni anno, così da raggiungere i target annuali di reclutamento. Ricordiamo che a inizio settembre l’agenzia britannica Reuters aveva visionato e diffuso le informazioni di un documento firmato dal Capo di Stato Maggiore dell’Esercito tedesco, Alfons Mais, nel quale il militare prevedeva l’aggiunta a quelli attuali di circa 100 mila uomini attivi entro il 2035.
La protesta ha il sostegno della Die Linke e anche del partito Bsw di Sahra Wagenknecht, che su X ha scritto: “con la possibile procedura a sorteggio, il governo federale sta giocando alla roulette russa con le prospettive e, forse, presto, con le vite dei giovani”. E questa è una tendenza sempre più diffusa in tutta Europa.
Anche la Francia di Macron ha annunciato un servizio nazionale “puramente militare” e volontario a partire dall’estate del 2026. Rivolto ai neo-diciottenni, sarà della durata di 10 mesi e verrà pagato 800 euro al mese. L’obiettivo è reclutare intorno alle 2-3 mila persone, ma entro il 2035 si vuole raggiungere un aumento del numero dei militari intorno tra le 35 e le 50 mila unità.
In Italia, il ministro della Difesa Guido Crosetto lavora da tempo su di una riserva ausiliaria di volontari (circa 10 mila), che risponda più che altro a competenze logistiche e di cybersicurezza. Venerdì, però, sarà un bel banco di prova per la disponibilità delle giovani generazioni alla logica guerrafondaia che spira a Bruxelles e tra le capitali europee.
Fonte
Il ritorno della leva, abbandonata nel 2011, è stato promosso dal cancelliere Friedrich Merz, che ha annunciato mesi fa, in maniera solenne, di voler trasformare le forze armate tedesche nell’esercito “più forte d’Europa”… che è cosa ben diversa da un esercito europeo forte, prima di consegnarlo nelle mani dell’estrema destra rappresentata dall’AfD.
Lo slogan sotto cui si svolgerà quello che molti commentatori considerano diventerà probabilmente una delle più grandi mobilitazioni degli ultimi anni è molto chiaro: “Non vogliamo diventare carne da cannone!” Un’ipotesi sostenuta invece in maniera bipartisan nella classe politica tedesca, dato che a favore della riforma c’è anche il ministro della Difesa, Boris Pistorius, appartenente ai socialdemocratici della SPD.
Il piano del governo è costruito su di un meccanismo ibrido, che prova a nascondere il ritorno della leva. Il provvedimento in votazione imporrebbe, infatti, la creazione di un registro obbligatorio per tutti i maschi nati dal 2008, ai quali sarà chiesto di compilare un questionario di valutazione nel 2026, e di sottoporsi a visite mediche per l’idoneità al servizio militare nel 2027. Per le donne il processo rimane volontario.
L’obiettivo è quello di rimpolpare le fila dell’esercito con 20 mila nuove reclute, per un periodo minimo di 6 mesi, rinnovabile fino ai 23, con una paga che si aggira sui 2.600 euro lordi. Ma il nodo è che la “volontarietà” è interpretata in maniera piuttosto libera dai decisori tedeschi: nel caso in cui non si presentassero 20 mila volontari, la legge prevede l’attivazione, previo voto parlamentare, dell’estrazione a sorte dei numeri mancanti.
Il problema è che una tale coercizione va in contraddizione con la Legge Fondamentale della Repubblica, la costituzione tedesca che all’articolo 4, comma 3, recita: “Nessuno può essere costretto contro la sua coscienza al servizio militare armato”. È quel che si trova scritto chiaramente sulla piattaforma online attraverso il quale gli studenti stanno amplificando la voce della protesta, e che è possibile consultare qui.
Il processo di reclutamento per lotteria verrebbe ripetuto ogni anno, così da raggiungere i target annuali di reclutamento. Ricordiamo che a inizio settembre l’agenzia britannica Reuters aveva visionato e diffuso le informazioni di un documento firmato dal Capo di Stato Maggiore dell’Esercito tedesco, Alfons Mais, nel quale il militare prevedeva l’aggiunta a quelli attuali di circa 100 mila uomini attivi entro il 2035.
La protesta ha il sostegno della Die Linke e anche del partito Bsw di Sahra Wagenknecht, che su X ha scritto: “con la possibile procedura a sorteggio, il governo federale sta giocando alla roulette russa con le prospettive e, forse, presto, con le vite dei giovani”. E questa è una tendenza sempre più diffusa in tutta Europa.
Anche la Francia di Macron ha annunciato un servizio nazionale “puramente militare” e volontario a partire dall’estate del 2026. Rivolto ai neo-diciottenni, sarà della durata di 10 mesi e verrà pagato 800 euro al mese. L’obiettivo è reclutare intorno alle 2-3 mila persone, ma entro il 2035 si vuole raggiungere un aumento del numero dei militari intorno tra le 35 e le 50 mila unità.
In Italia, il ministro della Difesa Guido Crosetto lavora da tempo su di una riserva ausiliaria di volontari (circa 10 mila), che risponda più che altro a competenze logistiche e di cybersicurezza. Venerdì, però, sarà un bel banco di prova per la disponibilità delle giovani generazioni alla logica guerrafondaia che spira a Bruxelles e tra le capitali europee.
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Primi colloqui diretti tra Libano e Israele ma cresce il rischio di escalation
Il 3 dicembre si è svolto l’incontro diretto tra funzionari civili libanesi e israeliani, un momento importante perché era qualcosa che non succedeva dal 1983, ovvero da quando i sionisti invasero il sud del paese dei cedri. L’incontro si è tenuto presso il quartier generale delle forze UNIFIL, nella città di Naqoura, all’interno della cornice del meccanismo di monitoraggio del cessate il fuoco.
Un cessate il fuoco che è cominciato ormai oltre un anno fa, ma che è violato sistematicamente da Israele, mettendo pressione su Beirut affinché proceda al disarmo di Hezbollah. La preoccupazione è quella che il gruppo sciita si stia riarmando, mentre il governo libanese sa che finché Tel Aviv continuerà i suoi attacchi, non può far passare presso l’opinione pubblica l’idea che il paese sia in grado di proteggere la propria sovranità, una volta messo fuori gioco Hezbollah.
Il dialogo si è perciò svolto in un clima di estrema tensione e diffidenza reciproca. La delegazione libanese è stata guidata dall’ex ambasciatore negli Stati Uniti, Simon Karam, nominato dal Presidente della Repubblica, Joseph Aoun, dopo consultazioni con i vertici dello Stato. Per Israele era presente Uri Resnick, in rappresentanza del Consiglio di Sicurezza Nazionale. A supervisionare i lavori vi era l’inviata statunitense Morgan Ortagus.
Secondo la legge libanese, le sue autorità non possono intrattenere rapporti diretti con funzionari israeliani, ma questo scoglio è stato superato col tecnicismo di un dialogo interno all’ambito del cessate il fuoco. Il premier libanese Nawaf Salam ci ha tenuto a ribadire ai giornalisti che quelli in atto non sono negoziati di pace “politici”.
Washington aveva fatto pesanti pressioni su Beirut affinché entrasse in contatto con Tel Aviv, o in maniera diretta o tramite il meccanismo guidato dagli Stati Uniti nel monitoraggio del cessate il fuoco dello scorso novembre. L’obiettivo era anche quello di imporre una normalizzazione de facto dei rapporti tra i due paesi, elemento cardine della politica trumpiana in Medio Oriente.
L’ufficio del premier israeliano Benjamin Netanyahu ha accolto l’evento come “un primo tentativo di creare una base per una relazione e una cooperazione economica tra Israele e Libano”. Hezbollah aveva invece in passato definito momenti come quelli del 3 dicembre quali “trappole negoziali” che “garantiranno solo ulteriori guadagni al nemico israeliano”.
Hezbollah ha consegnato armi e posizioni all’esercito libanese a sud del fiume Litani, ma afferma che il completo disarmo può avvenire solo nell’ambito di una strategia di difesa libanese in cui le armi siano incorporate nell’esercito e rimangano disponibili per la difesa del paese.
“Non prevediamo che Hezbollah rinunci alle sue armi in base ad alcun accordo, quindi non ha senso proseguire. Stiamo andando verso un’escalation e decideremo quando, in base ai nostri interessi”, avrebbe detto un funzionario israeliano dopo incontri con l’inviata stelle-e-strisce Ortagus a Gerusalemme.
Il Dipartimento di Stato americano sta preparando un rapporto per il Segretario di Stato Marco Rubio sullo smantellamento dell’arsenale di Hezbollah, mentre emergono indiscrezioni inquietanti: secondo il canale israeliano Channel 14, la stessa Ortagus avrebbe suggerito di bombardare il funerale dell’ex segretario di Hezbollah, Hassan Nasrallah, un evento che ha radunato centinaia di migliaia di civili.
Anche secondo l’emittente pubblica israeliana Kan, Israele si starebbe preparando a una “significativa escalation”, ritenuta inevitabile nonostante gli sforzi di Washington. Se il disarmo di Hezbollah non avverrà entro il 2025, è questo lo scenario ad ora più probabile, con un sostanziale lasciapassare statunitense.
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Un cessate il fuoco che è cominciato ormai oltre un anno fa, ma che è violato sistematicamente da Israele, mettendo pressione su Beirut affinché proceda al disarmo di Hezbollah. La preoccupazione è quella che il gruppo sciita si stia riarmando, mentre il governo libanese sa che finché Tel Aviv continuerà i suoi attacchi, non può far passare presso l’opinione pubblica l’idea che il paese sia in grado di proteggere la propria sovranità, una volta messo fuori gioco Hezbollah.
Il dialogo si è perciò svolto in un clima di estrema tensione e diffidenza reciproca. La delegazione libanese è stata guidata dall’ex ambasciatore negli Stati Uniti, Simon Karam, nominato dal Presidente della Repubblica, Joseph Aoun, dopo consultazioni con i vertici dello Stato. Per Israele era presente Uri Resnick, in rappresentanza del Consiglio di Sicurezza Nazionale. A supervisionare i lavori vi era l’inviata statunitense Morgan Ortagus.
Secondo la legge libanese, le sue autorità non possono intrattenere rapporti diretti con funzionari israeliani, ma questo scoglio è stato superato col tecnicismo di un dialogo interno all’ambito del cessate il fuoco. Il premier libanese Nawaf Salam ci ha tenuto a ribadire ai giornalisti che quelli in atto non sono negoziati di pace “politici”.
Washington aveva fatto pesanti pressioni su Beirut affinché entrasse in contatto con Tel Aviv, o in maniera diretta o tramite il meccanismo guidato dagli Stati Uniti nel monitoraggio del cessate il fuoco dello scorso novembre. L’obiettivo era anche quello di imporre una normalizzazione de facto dei rapporti tra i due paesi, elemento cardine della politica trumpiana in Medio Oriente.
L’ufficio del premier israeliano Benjamin Netanyahu ha accolto l’evento come “un primo tentativo di creare una base per una relazione e una cooperazione economica tra Israele e Libano”. Hezbollah aveva invece in passato definito momenti come quelli del 3 dicembre quali “trappole negoziali” che “garantiranno solo ulteriori guadagni al nemico israeliano”.
Hezbollah ha consegnato armi e posizioni all’esercito libanese a sud del fiume Litani, ma afferma che il completo disarmo può avvenire solo nell’ambito di una strategia di difesa libanese in cui le armi siano incorporate nell’esercito e rimangano disponibili per la difesa del paese.
“Non prevediamo che Hezbollah rinunci alle sue armi in base ad alcun accordo, quindi non ha senso proseguire. Stiamo andando verso un’escalation e decideremo quando, in base ai nostri interessi”, avrebbe detto un funzionario israeliano dopo incontri con l’inviata stelle-e-strisce Ortagus a Gerusalemme.
Il Dipartimento di Stato americano sta preparando un rapporto per il Segretario di Stato Marco Rubio sullo smantellamento dell’arsenale di Hezbollah, mentre emergono indiscrezioni inquietanti: secondo il canale israeliano Channel 14, la stessa Ortagus avrebbe suggerito di bombardare il funerale dell’ex segretario di Hezbollah, Hassan Nasrallah, un evento che ha radunato centinaia di migliaia di civili.
Anche secondo l’emittente pubblica israeliana Kan, Israele si starebbe preparando a una “significativa escalation”, ritenuta inevitabile nonostante gli sforzi di Washington. Se il disarmo di Hezbollah non avverrà entro il 2025, è questo lo scenario ad ora più probabile, con un sostanziale lasciapassare statunitense.
Fonte
La forza operaia resiste come l’acciaio nel silenzio assordante del Governo
La giornata di sciopero dei metalmeccanici e degli operai dell’ex Ilva di Genova si chiude con una certezza: dal governo non è arrivata una sola risposta. Nessuna indicazione sul futuro produttivo, nessuna garanzia per l’occupazione, nessuna parola chiara su un settore strategico che continua a essere lasciato nell’incertezza più totale. Un silenzio assordante che ha alimentato la rabbia e l’esasperazione dei lavoratori.
A rendere ancora più grave la situazione è quanto accaduto ieri in piazza Corvetto dove il prefetto ha scelto di barricarsi e gli operai in protesta sono stati colpiti da lanci copiosi di lacrimogeni. Una scena che parla da sola: invece di ascoltare chi chiede dignità e futuro, si risponde con la forza. È un segnale preoccupante, che racconta meglio di mille dichiarazioni la distanza tra chi governa e chi ogni giorno manda avanti le fabbriche di questo Paese.
In piazza ieri è esploso un messaggio chiaro: i lavoratori non accettano più rinvii, silenzi e promesse vuote. La crisi della siderurgia, il destino dell’ex Ilva, la salvaguardia di migliaia di posti di lavoro non possono essere trattati come questioni secondarie né affidati al caso. Serve un confronto vero, trasparente e immediato, capace di affrontare una crisi che sta logorando territori interi e la cui soluzione, come USB lo diciamo da tempo, è la nazionalizzazione dell’ex Ilva e il rilancio di un piano industriale serio.
Con 35 miliardi di riarmo troviamo assurdo non trovarne meno di un terzo per il piano industriale nazionale.
Questa giornata si chiude con la determinazione di chi sa che nulla è stato risolto e che l’incontro di domani al Ministero dovrà finalmente fare chiarezza. I lavoratori hanno dimostrato ancora una volta la loro forza e sono determinati a proseguire sciopero e blocchi anche nella giornata di domani.
Non un passo indietro, la lotta dei lavoratori dell’ex Ilva è la lotta di tutti i lavoratori e le lavoratrici.
Fonte
A rendere ancora più grave la situazione è quanto accaduto ieri in piazza Corvetto dove il prefetto ha scelto di barricarsi e gli operai in protesta sono stati colpiti da lanci copiosi di lacrimogeni. Una scena che parla da sola: invece di ascoltare chi chiede dignità e futuro, si risponde con la forza. È un segnale preoccupante, che racconta meglio di mille dichiarazioni la distanza tra chi governa e chi ogni giorno manda avanti le fabbriche di questo Paese.
In piazza ieri è esploso un messaggio chiaro: i lavoratori non accettano più rinvii, silenzi e promesse vuote. La crisi della siderurgia, il destino dell’ex Ilva, la salvaguardia di migliaia di posti di lavoro non possono essere trattati come questioni secondarie né affidati al caso. Serve un confronto vero, trasparente e immediato, capace di affrontare una crisi che sta logorando territori interi e la cui soluzione, come USB lo diciamo da tempo, è la nazionalizzazione dell’ex Ilva e il rilancio di un piano industriale serio.
Con 35 miliardi di riarmo troviamo assurdo non trovarne meno di un terzo per il piano industriale nazionale.
Questa giornata si chiude con la determinazione di chi sa che nulla è stato risolto e che l’incontro di domani al Ministero dovrà finalmente fare chiarezza. I lavoratori hanno dimostrato ancora una volta la loro forza e sono determinati a proseguire sciopero e blocchi anche nella giornata di domani.
Non un passo indietro, la lotta dei lavoratori dell’ex Ilva è la lotta di tutti i lavoratori e le lavoratrici.
Fonte
04/12/2025
A Genova lacrimogeni contro gli operai in sciopero
Oggi a Genova è una giornata di sciopero generale dei metalmeccanici convocato da Fiom, Fim e Usb. Lo sciopero era iniziato con il concentramento degli operai in piazza Massena, raggiunta dai lavoratori dell’ex Ilva, che da lunedì presidiano piazza Savio con i mezzi da lavoro bloccando via Guido Rossa. In gioco ci sono migliaia di posti di lavoro.
Alle 9 dai Giardini Melis è partito il corteo con migliaia di lavoratori. In piazza ci sono gli operai di tutte le grandi fabbriche genovesi come Ansaldo Energia, Fincantieri, Piaggio Aerospace e di altre aziende in solidarietà con gli operai della ex Ilva.
I lavoratori hanno poi raggiunto largo Lanfranco dove la polizia aveva posizionato una grata per impedirgli l’accesso alla Prefettura. Decine di operai hanno iniziato a sbattere e lanciare i caschetti al grido di “lavoro, lavoro”.
La polizia ha lanciato lacrimogeni verso gli operai che hanno tentato di sradicare con dei cavi legati a uno dei mezzi da lavoro della fabbrica la grata montata questa mattina dalla polizia. I manifestanti hanno acceso dei fumogeni lanciando slogan come “Vogliamo lavorare, ci dovete arrestare” e “Urso bugiardo, sei solo un codardo”. Uova e bottiglie sono state lanciate contro i muri della prefettura. I lacrimogeni sono arrivati anche in Piazza Corvetto dove c’era il resto del corteo operaio. Gli operai nel corso della protesta hanno bloccato anche due banchine della stazione ferroviaria di Brignole.
La mobilitazione non si fermerà finché il Governo non aprirà un confronto unico, serio e all’altezza della crisi che stanno vivendo migliaia di operai dell’industria siderurgica.
A Taranto dalla tarda serata di ieri sera è stata liberata prima una delle due statali occupate, la 106 Jonica per Reggio Calabria, e poi anche la statale 100 Appia per Bari. Le strade attorno allo stabilimento siderurgico sono libere al transito perché lo sciopero è terminato stamattina alle 7. Era stato proclamato a mezzogiorno di martedì da Fim, Fiom, Uilm e Usb e ha avuto una progressiva estensione interessando prima l’interno della fabbrica di Taranto poi le aree esterne.
Lo sciopero è stato indetto per rivendicare un nuovo incontro con il governo a Palazzo Chigi e il ritiro del piano sull’ex Ilva presentato dallo stesso esecutivo e dai commissari dell’azienda, bocciato dai sindacati che lo ritengono un piano di chiusura.
In un comunicato i sindacati scrivono: “Siamo consapevoli che le azioni messe in campo da Fim, Fiom, Uilm e Usb hanno creato disagio a un città già fortemente provata da anni di mancanza di risposte da parte tutti i Governi che si sono susseguiti negli anni, consapevoli che non è certo la maggioranza della città a essere contro i lavoratori. Per tali ragioni – si annuncia – sospendiamo momentaneamente lo sciopero, a partire dalle ore 7 del 4 dicembre e riportiamo al consiglio fabbrica, convocato in maniera permanente, le prossime iniziative di lotta”.
Guarda qui il video degli scontri
Fonte e foto dello sciopero
Alle 9 dai Giardini Melis è partito il corteo con migliaia di lavoratori. In piazza ci sono gli operai di tutte le grandi fabbriche genovesi come Ansaldo Energia, Fincantieri, Piaggio Aerospace e di altre aziende in solidarietà con gli operai della ex Ilva.
I lavoratori hanno poi raggiunto largo Lanfranco dove la polizia aveva posizionato una grata per impedirgli l’accesso alla Prefettura. Decine di operai hanno iniziato a sbattere e lanciare i caschetti al grido di “lavoro, lavoro”.
La polizia ha lanciato lacrimogeni verso gli operai che hanno tentato di sradicare con dei cavi legati a uno dei mezzi da lavoro della fabbrica la grata montata questa mattina dalla polizia. I manifestanti hanno acceso dei fumogeni lanciando slogan come “Vogliamo lavorare, ci dovete arrestare” e “Urso bugiardo, sei solo un codardo”. Uova e bottiglie sono state lanciate contro i muri della prefettura. I lacrimogeni sono arrivati anche in Piazza Corvetto dove c’era il resto del corteo operaio. Gli operai nel corso della protesta hanno bloccato anche due banchine della stazione ferroviaria di Brignole.
La mobilitazione non si fermerà finché il Governo non aprirà un confronto unico, serio e all’altezza della crisi che stanno vivendo migliaia di operai dell’industria siderurgica.
A Taranto dalla tarda serata di ieri sera è stata liberata prima una delle due statali occupate, la 106 Jonica per Reggio Calabria, e poi anche la statale 100 Appia per Bari. Le strade attorno allo stabilimento siderurgico sono libere al transito perché lo sciopero è terminato stamattina alle 7. Era stato proclamato a mezzogiorno di martedì da Fim, Fiom, Uilm e Usb e ha avuto una progressiva estensione interessando prima l’interno della fabbrica di Taranto poi le aree esterne.
Lo sciopero è stato indetto per rivendicare un nuovo incontro con il governo a Palazzo Chigi e il ritiro del piano sull’ex Ilva presentato dallo stesso esecutivo e dai commissari dell’azienda, bocciato dai sindacati che lo ritengono un piano di chiusura.
In un comunicato i sindacati scrivono: “Siamo consapevoli che le azioni messe in campo da Fim, Fiom, Uilm e Usb hanno creato disagio a un città già fortemente provata da anni di mancanza di risposte da parte tutti i Governi che si sono susseguiti negli anni, consapevoli che non è certo la maggioranza della città a essere contro i lavoratori. Per tali ragioni – si annuncia – sospendiamo momentaneamente lo sciopero, a partire dalle ore 7 del 4 dicembre e riportiamo al consiglio fabbrica, convocato in maniera permanente, le prossime iniziative di lotta”.
Guarda qui il video degli scontri
Fonte e foto dello sciopero
Gaza - Scontro a fuoco a Rafah, bombardato campo di sfollati. I tunnel incubo per gli occupanti
Ieri pomeriggio, cinque soldati israeliani sono rimasti feriti, uno dei quali gravemente, in uno scontro tra combattenti palestinesi e le truppe stanziate a Rafah, nel sud di Gaza.
Secondo quanto riporta il Times of Israel, la versione dei portavoce militari israeliani afferma che lo scontro è iniziato quando i soldati della Brigata Golani hanno avvistato una figura sospetta nascosta da una coperta entrare in un edificio. Un blindato Namer con truppe è stato inviato nell’area per aiutare nella ricerca del sospetto.
Due palestinesi armati sarebbero emersi da un tunnel nell’est di Rafah – un’area controllata da Israele nel sud della Striscia – ingaggiando uno scontro a fuoco con i soldati israeliani. Uno di essi avrebbe lanciato un razzo Rpg contro il blindato israeliano ferendo i cinque soldati e sarebbe poi rientrato in un tunnel.
Il primo ministro Benjamin Netanyahu ha dichiarato che Hamas ha violato la tregua e ha promesso una risposta, affermando: “La nostra politica è chiara: Israele non tollererà attacchi contro i soldati delle IDF e risponderà di conseguenza”. E la rappresaglia non si è fatta attendere.
Al 55° giorno del cessate il fuoco a Gaza, 5 palestinesi, inclusi due bambini, sono stati uccisi durante un bombardamento da parte di droni israeliani contro tende di sfollati a Mawasi, nei pressi di Khan Younis, mentre i soldati israeliani continuavano a far saltare in aria edifici nel quartiere di Al Tuffah di Gaza City. Al Jazeera ha riportato che due palestinesi sono stati uccisi da colpi israeliani nel quartiere Zeitoun citando una fonte dell’ospedale battista Al-Ahli di Gaza City.
In realtà l’esercito israeliano ha violato la “tregua” ben 591 volte, causando la morte di circa 357 palestinesi e il ferimento di altri 903 fino a domenica scorsa.
I tunnel a Gaza continuano ad essere un incubo per le truppe di occupazione
L’esperto militare e strategico Elias Hanna, ex brigadiere generale, ha affermato che Israele soffre di “cecità tattica e di intelligence” che gli impedisce di tracciare la mappa dei tunnel nella Striscia di Gaza, anche nelle aree che considera sotto il suo controllo, e questo nonostante oltre due anni di guerra.
Israele ritiene che tra i 60 e gli 80 combattenti della resistenza palestinese continuino ad essere attivi nell’area di Rafah nonostante il loro completo isolamento e l’interruzione delle loro linee di rifornimento.
La negazione di qualsiasi via d’uscita che non prevede la resa o la morte (probabilmente entrambi) fa si che i combattenti palestinesi agiscano secondo la regola non scritta di ogni combattente messo con le spalle al muro: “vendere cara la pelle”.
Una indagine della CNN rivela che l’esercito israeliano ha abbandonato i corpi di alcuni dei palestinesi uccisi vicino al valico di Rafah in tombe poco profonde e senza segni di riconoscimento. In altri momenti, i resti dei cadaveri palestinesi venivano semplicemente lasciati a decomporsi all’aperto, rendendo impossibile il loro recupero nell’area militarizzata.
Secondo gli esperti legali la pratica di gestire male i corpi seppellendoli in tombe senza nome può violare il diritto internazionale, il quale prevede che le parti in conflitto dovrebbero cooperare nel seppellire i morti in modo da permettere loro di essere identificati, ha detto Janina Dill, co-direttrice dell’Oxford Institute for Ethics, Law and Armed Conflict.
Mahmoud Basal, portavoce della Difesa Civile a Gaza, ha dichiarato che “il genocidio condotto dalle forze di occupazione israeliane contro i civili nella Striscia di Gaza non si è fermato, ma il suo ritmo è cambiato”.
Fonte
Secondo quanto riporta il Times of Israel, la versione dei portavoce militari israeliani afferma che lo scontro è iniziato quando i soldati della Brigata Golani hanno avvistato una figura sospetta nascosta da una coperta entrare in un edificio. Un blindato Namer con truppe è stato inviato nell’area per aiutare nella ricerca del sospetto.
Due palestinesi armati sarebbero emersi da un tunnel nell’est di Rafah – un’area controllata da Israele nel sud della Striscia – ingaggiando uno scontro a fuoco con i soldati israeliani. Uno di essi avrebbe lanciato un razzo Rpg contro il blindato israeliano ferendo i cinque soldati e sarebbe poi rientrato in un tunnel.
Il primo ministro Benjamin Netanyahu ha dichiarato che Hamas ha violato la tregua e ha promesso una risposta, affermando: “La nostra politica è chiara: Israele non tollererà attacchi contro i soldati delle IDF e risponderà di conseguenza”. E la rappresaglia non si è fatta attendere.
Al 55° giorno del cessate il fuoco a Gaza, 5 palestinesi, inclusi due bambini, sono stati uccisi durante un bombardamento da parte di droni israeliani contro tende di sfollati a Mawasi, nei pressi di Khan Younis, mentre i soldati israeliani continuavano a far saltare in aria edifici nel quartiere di Al Tuffah di Gaza City. Al Jazeera ha riportato che due palestinesi sono stati uccisi da colpi israeliani nel quartiere Zeitoun citando una fonte dell’ospedale battista Al-Ahli di Gaza City.
In realtà l’esercito israeliano ha violato la “tregua” ben 591 volte, causando la morte di circa 357 palestinesi e il ferimento di altri 903 fino a domenica scorsa.
I tunnel a Gaza continuano ad essere un incubo per le truppe di occupazione
L’esperto militare e strategico Elias Hanna, ex brigadiere generale, ha affermato che Israele soffre di “cecità tattica e di intelligence” che gli impedisce di tracciare la mappa dei tunnel nella Striscia di Gaza, anche nelle aree che considera sotto il suo controllo, e questo nonostante oltre due anni di guerra.
Israele ritiene che tra i 60 e gli 80 combattenti della resistenza palestinese continuino ad essere attivi nell’area di Rafah nonostante il loro completo isolamento e l’interruzione delle loro linee di rifornimento.
La negazione di qualsiasi via d’uscita che non prevede la resa o la morte (probabilmente entrambi) fa si che i combattenti palestinesi agiscano secondo la regola non scritta di ogni combattente messo con le spalle al muro: “vendere cara la pelle”.
Una indagine della CNN rivela che l’esercito israeliano ha abbandonato i corpi di alcuni dei palestinesi uccisi vicino al valico di Rafah in tombe poco profonde e senza segni di riconoscimento. In altri momenti, i resti dei cadaveri palestinesi venivano semplicemente lasciati a decomporsi all’aperto, rendendo impossibile il loro recupero nell’area militarizzata.
Secondo gli esperti legali la pratica di gestire male i corpi seppellendoli in tombe senza nome può violare il diritto internazionale, il quale prevede che le parti in conflitto dovrebbero cooperare nel seppellire i morti in modo da permettere loro di essere identificati, ha detto Janina Dill, co-direttrice dell’Oxford Institute for Ethics, Law and Armed Conflict.
Mahmoud Basal, portavoce della Difesa Civile a Gaza, ha dichiarato che “il genocidio condotto dalle forze di occupazione israeliane contro i civili nella Striscia di Gaza non si è fermato, ma il suo ritmo è cambiato”.
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Questionari di guerra dall’AGIA, ma il 68% dei giovani non si arruolerebbe
L’Autorità Garante per l’Infanzia e l’Adolescenza (AGIA) ha lanciato una consultazione pubblica dal titolo “Guerra e conflitti”. Un questionario di 32 domande rivolto ai giovani tra i 14 e i 18 anni, che vuole indagare attraverso quali canali passa l’informazione sui conflitti nel mondo, quali sensazioni suscitano e come ragazze e ragazzi vedono il proprio ruolo nella costruzione della pace.
La consultazione è partita il 18 novembre, e rimarrà aperta fino al 19 dicembre. Ma l’Autorità ha già rilasciato un primo comunicato stampa con alcuni risultati preliminari. Probabilmente, non quelli che voleva sentire il governo: ricordiamo che alla guida dell’AGIA c’è Marina Terragni, nominata dai presidenti di Camera e Senato, Lorenzo Fontana e Ignazio La Russa.
Infatti, nel comunicato stampa dell’organismo si legge che “più o meno il 68% di un campione provvisorio di 4.000 risposte non si arruolerebbe se l’Italia entrasse in guerra”, con una significativa differenza tra maschi (60,2%) e femmine (73,6%). Ad ogni modo, in entrambi i casi molto più della metà dei giovani non ha nessuna intenzione di “immolarsi per la patria”.
Oltre all’inaspettata preminenza della televisione per la ricerca di informazioni attendibili – non i social, dunque –, nel comunicato si legge anche che “la guerra è una delle principali preoccupazioni per i ragazzi: una preoccupazione superiore a quella per il climate change”. Già questo basterebbe per far sorgere alcuni interrogativi alla nostra classe politica.
Le televisioni sono forse gli spazi meno contendibili dell’informazione pubblica, e sono attraversate continuamente dall’allarmismo di una guerra imminente. La preoccupazione per un conflitto viene dunque dal martellamento continuo intorno a una tendenza alla guerra inevitabile, ma contro cui, è evidente, gli adolescenti italiani hanno forti anticorpi, probabilmente rafforzati dal palese doppio standard occidentale (genocidio in Palestina docet).
È interessante notare che tra le prime domande del questionario (si possono vedere coi propri occhi, chiunque può accedervi) viene chiesto se i giochi che simulano conflitti possano avere conseguenze sul comportamento delle persone. Non il richiamo continuo alla giustizia dei “guerrieri d’Europa”, a mo’ di Scurati... ma i videogiochi.
Ma il resto delle domande ha un’altra finalità abbastanza evidente: quella di procedere a una sorta di controllo di massa – per quanto anonimo – dai risvolti tutti politici. Tra le domande viene chiesto se si parla di guerra e di pace a scuola, ma anche come i giovani pensano di potersi davvero impegnare per la pace: dentro associazioni, sensibilizzando, con attività politiche?
Viene anche chiesto cosa si pensa della massima latina “si vis pacem para bellum”. Seppur tradotta, la stessa frase è stata usata dall’Alto rappresentante agli Esteri della UE Kaja Kallas, in un messaggio inviato alla Maratona per la Pace organizzata dalla CISL all’Auditorium Massimo di Roma, a metà di novembre.
È chiaro che si vuole tastare il terreno intorno a una propaganda bellicista sempre più spudorata, e al contempo verificare fino a che punto le grandi mobilitazioni degli ultimi mesi contro il genocidio in Palestina e il riarmo europeo abbiano fatto breccia tra ragazze e ragazzi. C’è una domanda che chiede proprio questo: “le mobilitazioni pacifiste, secondo te, sono: utili/inutili/mi lasciano indifferente”.
C’è poi la domanda di cui il risultato parziale delle risposte è accennato all’inizio dell’articolo: “se il mio Paese entrasse in guerra mi sentirei responsabile e se servisse mi arruolerei”. Come detto, per lo più i giovani rifiutano questa narrazione. Ma non si può non evidenziare come la domanda sia pensata per indurre lo spirito guerrafondaio in chi legge.
L’entrata in guerra dell’Italia viene associata alla parola responsabilità. Sarebbe da chiedersi se nel 1940 l’arruolamento nella carneficina fascista vada inteso come un’assunzione di responsabilità. Una domanda così generica non lascia spazio a una responsabilità che, in tanti casi, può essere quella di disertare, perché la diserzione si accompagna alla giustizia.
Infine, le ultime domande sono dedicate ai “conflitti nel mio quotidiano”. Qui si cerca di porre sullo stesso piano le guerre e gli scontri che possono accadere nella quotidianità. Anche qui, c’è un duplice meccanismo in atto.
Da una parte, le ragioni delle tensioni nell’arena della politica internazionale vengono derubricate a quelle delle discussioni tra amici o familiari: una formula su cui è facilmente sovrapponibile l’idea che qualcuno abbia “ragione” e qualcuno “torto”, e non ci sia invece una profonda complessità e stratificazione, di questioni ma anche storica, che vada sciolta e compresa per assumere una posizione equilibrata e diplomatica.
Dall’altra, cerca invece di disinnescare il conflitto sociale e politico interno. “Secondo te c’è differenza tra conflitto e guerra?” e “Secondo te, imparare a gestire i conflitti quotidiani può aiutare a costruire una cultura di pace?” sono due delle domande che sembrano indagare se tra i più giovani ci sia spazio per associare al discorso sulla “pace”, per come la intendono i guerrafondai, col ritorno alla passività sociale.
Sono interpretazioni le nostre, e non possiamo essere sicuri su cosa gli estensori del questionario volevano davvero informarsi. Avere dei dati di massima su cosa pensano gli adolescenti sottoposti costantemente alla propaganda bellicista è di per sé utilissimo. Ma in ogni caso, il modo con cui è stata confezionata questa consultazione è preoccupante, e bisogna dare atto ai giovani che hanno mostrato di avere una salda cultura pacifista dalla loro.
Un ultimo appunto. Perché l’AGIA ha deciso di diffondere in anticipo alcuni risultati? Probabilmente, c’è di mezzo un articolo de Il Fatto Quotidiano, che ha etichettato le domande del questionario come patriottiche. L’Autorità ha voluto probabilmente difendersi, mostrando che non è di certo riuscita a indirizzare le opinioni degli adolescenti.
Ma il pericolo, ora, è che questi risultati vengano usati per affermare ancora più strenuamente la necessità di militarizzazione, delle menti e dei luoghi della formazione. Contro tutto ciò bisogna lottare strenuamente. Riportiamo qui sotto anche un commento dell’OSA.
La consultazione è partita il 18 novembre, e rimarrà aperta fino al 19 dicembre. Ma l’Autorità ha già rilasciato un primo comunicato stampa con alcuni risultati preliminari. Probabilmente, non quelli che voleva sentire il governo: ricordiamo che alla guida dell’AGIA c’è Marina Terragni, nominata dai presidenti di Camera e Senato, Lorenzo Fontana e Ignazio La Russa.
Infatti, nel comunicato stampa dell’organismo si legge che “più o meno il 68% di un campione provvisorio di 4.000 risposte non si arruolerebbe se l’Italia entrasse in guerra”, con una significativa differenza tra maschi (60,2%) e femmine (73,6%). Ad ogni modo, in entrambi i casi molto più della metà dei giovani non ha nessuna intenzione di “immolarsi per la patria”.
Oltre all’inaspettata preminenza della televisione per la ricerca di informazioni attendibili – non i social, dunque –, nel comunicato si legge anche che “la guerra è una delle principali preoccupazioni per i ragazzi: una preoccupazione superiore a quella per il climate change”. Già questo basterebbe per far sorgere alcuni interrogativi alla nostra classe politica.
Le televisioni sono forse gli spazi meno contendibili dell’informazione pubblica, e sono attraversate continuamente dall’allarmismo di una guerra imminente. La preoccupazione per un conflitto viene dunque dal martellamento continuo intorno a una tendenza alla guerra inevitabile, ma contro cui, è evidente, gli adolescenti italiani hanno forti anticorpi, probabilmente rafforzati dal palese doppio standard occidentale (genocidio in Palestina docet).
È interessante notare che tra le prime domande del questionario (si possono vedere coi propri occhi, chiunque può accedervi) viene chiesto se i giochi che simulano conflitti possano avere conseguenze sul comportamento delle persone. Non il richiamo continuo alla giustizia dei “guerrieri d’Europa”, a mo’ di Scurati... ma i videogiochi.
Ma il resto delle domande ha un’altra finalità abbastanza evidente: quella di procedere a una sorta di controllo di massa – per quanto anonimo – dai risvolti tutti politici. Tra le domande viene chiesto se si parla di guerra e di pace a scuola, ma anche come i giovani pensano di potersi davvero impegnare per la pace: dentro associazioni, sensibilizzando, con attività politiche?
Viene anche chiesto cosa si pensa della massima latina “si vis pacem para bellum”. Seppur tradotta, la stessa frase è stata usata dall’Alto rappresentante agli Esteri della UE Kaja Kallas, in un messaggio inviato alla Maratona per la Pace organizzata dalla CISL all’Auditorium Massimo di Roma, a metà di novembre.
È chiaro che si vuole tastare il terreno intorno a una propaganda bellicista sempre più spudorata, e al contempo verificare fino a che punto le grandi mobilitazioni degli ultimi mesi contro il genocidio in Palestina e il riarmo europeo abbiano fatto breccia tra ragazze e ragazzi. C’è una domanda che chiede proprio questo: “le mobilitazioni pacifiste, secondo te, sono: utili/inutili/mi lasciano indifferente”.
C’è poi la domanda di cui il risultato parziale delle risposte è accennato all’inizio dell’articolo: “se il mio Paese entrasse in guerra mi sentirei responsabile e se servisse mi arruolerei”. Come detto, per lo più i giovani rifiutano questa narrazione. Ma non si può non evidenziare come la domanda sia pensata per indurre lo spirito guerrafondaio in chi legge.
L’entrata in guerra dell’Italia viene associata alla parola responsabilità. Sarebbe da chiedersi se nel 1940 l’arruolamento nella carneficina fascista vada inteso come un’assunzione di responsabilità. Una domanda così generica non lascia spazio a una responsabilità che, in tanti casi, può essere quella di disertare, perché la diserzione si accompagna alla giustizia.
Infine, le ultime domande sono dedicate ai “conflitti nel mio quotidiano”. Qui si cerca di porre sullo stesso piano le guerre e gli scontri che possono accadere nella quotidianità. Anche qui, c’è un duplice meccanismo in atto.
Da una parte, le ragioni delle tensioni nell’arena della politica internazionale vengono derubricate a quelle delle discussioni tra amici o familiari: una formula su cui è facilmente sovrapponibile l’idea che qualcuno abbia “ragione” e qualcuno “torto”, e non ci sia invece una profonda complessità e stratificazione, di questioni ma anche storica, che vada sciolta e compresa per assumere una posizione equilibrata e diplomatica.
Dall’altra, cerca invece di disinnescare il conflitto sociale e politico interno. “Secondo te c’è differenza tra conflitto e guerra?” e “Secondo te, imparare a gestire i conflitti quotidiani può aiutare a costruire una cultura di pace?” sono due delle domande che sembrano indagare se tra i più giovani ci sia spazio per associare al discorso sulla “pace”, per come la intendono i guerrafondai, col ritorno alla passività sociale.
Sono interpretazioni le nostre, e non possiamo essere sicuri su cosa gli estensori del questionario volevano davvero informarsi. Avere dei dati di massima su cosa pensano gli adolescenti sottoposti costantemente alla propaganda bellicista è di per sé utilissimo. Ma in ogni caso, il modo con cui è stata confezionata questa consultazione è preoccupante, e bisogna dare atto ai giovani che hanno mostrato di avere una salda cultura pacifista dalla loro.
Un ultimo appunto. Perché l’AGIA ha deciso di diffondere in anticipo alcuni risultati? Probabilmente, c’è di mezzo un articolo de Il Fatto Quotidiano, che ha etichettato le domande del questionario come patriottiche. L’Autorità ha voluto probabilmente difendersi, mostrando che non è di certo riuscita a indirizzare le opinioni degli adolescenti.
Ma il pericolo, ora, è che questi risultati vengano usati per affermare ancora più strenuamente la necessità di militarizzazione, delle menti e dei luoghi della formazione. Contro tutto ciò bisogna lottare strenuamente. Riportiamo qui sotto anche un commento dell’OSA.
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QUESTIONARI AGIA SULL’ARRUOLAMENTO: CI VOLETE CARNE DA CANNONE, CI AVRETE OPPOSIZIONE, NO ALLA LEVA!
Il questionario Agia è uno schifo, non saremo braccia per la guerra voluta da governo Meloni e Occidente
L’AGIA (Autorità garante per l’infanzia e l’adolescenza) chiede a 4.000 studenti e studentesse se si arruolerebbero per andare in guerra. Con un questionario apparentemente neutro, distribuito a ragazzi fra i 14 e i 18 anni, l’istituto compie un inquietante campionamento di massa, per testare la risposta dei giovani alla chiamata alle armi del Governo Meloni.
Le 32 domande sottoposte assomigliano insieme a un esperimento sociale e a una forma di controllo sfacciata, viene chiesto agli studenti di tutto: se credono nelle mobilitazioni per la pace, con quali media si informano e – domanda delle domande – se si arruolerebbero per la guerra. Il 68% non lo farebbe come rivela la stessa Agia.
Le giovani generazioni sono contro la guerra e questo dà fastidio. Stanno venendo preparate a un futuro di guerra, fatto di riarmo, leve militare, conflitti nel mondo per gli interessi delle classi dirigenti europee e occidentali. La recente proposta di reintroduzione della leva è la conferma definitiva che il governo Meloni ci vuole “carne da cannone” per dei conflitti che è l’Occidente che fomenta nel mondo e per cui dovremo essere noi ad andare al fronte.
Per fare ciò sta venendo condotta una guerra cognitiva alle giovani generazioni per prepararle all’idea della guerra, che si compie anche attraverso la trasformazione bellicistica della didattica in scuole e università, come confermano i nuovi programmi scolastici reazionari di Valditara, o il caso del corso per ufficiali all’Università di Bologna, con cui addirittura l’Università diventa uno strumento in mano all’Esercito.
Fuori la guerra da scuole e atenei, no alla leva. Dopo le mobilitazioni di 28 e 29 novembre non ci fermiamo. Noi non ci arruoliamo!
Fonte
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