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25/06/2025

Il vertice NATO entra nel vivo, Rutte stende il tappeto rosso alle spese militari al 5%

Entra oggi nel vivo il vertice NATO dell’Aja, soprattutto perché è arrivato ieri sera l’ospite principale, il presidente statunitense Donald Trump. Dopo aver chiuso, momentaneamente, il fronte iraniano, che aveva aperto camminando sul filo sottile su cui era stato spinto da Israele, ora arriva in Olanda per incassare il nuovo target dell’alleanza per ciò che riguarda le spese militari: il 5% del PIL.

Una percentuale che significa un obiettivo di investimento più che raddoppiato rispetto a quello approvato in Galles, nel 2014, e dunque una decisa spinta verso la corsa agli armamenti (di cui ovviamente si avvantaggeranno molto le industrie stelle-e-strisce), la transizione verso un’economia di guerra, l’accumulazione di forze per ulteriori escalation che si preparano nello scenario di una competizione globale sempre più bellica.

Che sia Trump l’ospite d’eccellenza della giornata l’ha reso chiaro Rutte, con un messaggio privato inviato al tycoon, il quale ha pensato bene di renderlo pubblico, per mandare un segnale chiaro: tutti devono continuare a inchinarsi allo strapotere USA, è ancora Washington il centro del mondo – o per lo meno dell’Occidente. Riportiamone alcune delle parole usate, perché sono significative:
Riuscirai in qualcosa che nessun presidente americano è riuscito a ottenere in decenni. L’Europa pagherà in grande misura, come è giusto che sia, e sarà una tua vittoria... Signor Presidente, caro Donald, congratulazioni e grazie per la tua azione decisiva in Iran, davvero straordinaria, che nessun altro avrebbe osato compiere. Ci rende tutti più sicuri. Stasera volerai verso un altro grande successo all’Aja. Non è stato facile, ma siamo riusciti a far firmare a tutti il 5%.
Toni da paggio reale, che blandisce l’autorità per ribadire la linea di comando. “Siamo riusciti a far firmare a tutti il 5%” (che dovrebbe essere diviso tra un 3,5% di spese militari in senso stretto, e un 1,5% per spese in sicurezza) significa anche che la ritrosia spagnola avrà un impatto fino a un certo punto. Del resto, al riguardo proprio Trump aveva detto che il comportamento di Madrid “è molto ingiusto nei confronti degli altri (alleati, ndr).

Probabilmente, la dichiarazione finale conterrà formule abbastanza flessibili da poter mettere d’accordo tutti, e soprattutto indicherà il 2035 come orizzonte entro il quale raggiungere la soglia prefissata. Con il 2029 come data intermedia per una verifica sugli obiettivi che, come sottolinea La Stampa, non è una data casuale: per allora Trump potrebbe non essere più alla Casa Bianca, e allora potrebbero essere rivisti alcuni aspetti dell’accordo di oggi.

E, soprattutto, si sarà vicini anche alla scadenza prevista dal piano Readiness 2030, ovvero il piano di riarmo UE. Oggi è previsto anche un incontro, presieduto da Rutte, tra Zelensky e i paesi dell’E5, il formato diplomatico che vede uniti i cinque maggiori paesi dell’assetto europeo della difesa: Germania, Francia, Regno Unito, Polonia, e ovviamente Italia. Non a caso, sono anche i principali esponenti dei ‘volenterosi’, anche se Meloni ha provato a smarcarsi da una precedente riunione.

Sarà stata contenta Elly Schlein, che aveva criticato la presidente del Consiglio per non essere stata abbastanza guerrafondaia sull’Ucraina. In realtà, la leader italiana giocava fianco a fianco di Trump, ed era questo poi il problema reale dietro l’attacco della segretaria del PD. E anche alla cena tra capi di stato e di governo che si è svolta ieri Meloni ha ripetuto il copione, sedendosi accanto a The Donald.

In Parlamento, poche ore prima, ha perfino affermato che se è d’accordo per una maggiore collaborazione a livello europeo, allo stesso tempo ha ricordato che “il sistema di difesa occidentale è basato sulla NATO” e che “sarebbe un errore una difesa europea parallela alla NATO, sarebbe una inutile duplicazione”.

Dichiarazioni che sembrano più indirizzate a difendere l’alleanza atlantica, almeno fintanto che non sarà davvero pronta quella europea, se le guardiamo in relazione alle parole che, poco dopo, ha speso Trump mentre era in viaggio sull’Air Force One: “esistono numerose definizione dell’articolo 5” del trattato costitutivo della NATO, quello che impone l’intervento in difesa di un membro attaccato.

È evidente che una tale affermazione è stata fatta per esercitare pressione sugli alleati, affinché accettassero il target del 5%. Ma è anche evidente che la Meloni, se sul lato prettamente economico vuole un’Italia assolutamente integrata con le mire imperialistiche europee, sul lato della difesa rimane ancora preoccupata delle possibilità concrete della UE in un mondo che corre verso la guerra.

In un certo senso, da contraltare fanno le parole che ha pronunciato al Bundestag il cancelliere tedesco Friedrich Merz. Per lui, l’aumento delle spese militari “non lo facciamo per fare un favore agli Stati Uniti e al loro presidente, come alcuni sostengono. Siamo fermamente convinti di doverlo fare perché la Russia sta attivamente e aggressivamente minacciando la sicurezza e la libertà dell’intera regione euro-atlantica”.

Insomma, usando la propaganda della Russia come minaccia esistenziale, il paese guida della UE spinge sul riarmo ‘autonomo’ rispetto ai desiderata statunitensi. L’Ucraina, in tutto questo, diventa l’agnello sacrificale e insieme il campo di battaglia, la carne da macello, la spinta al riarmo e il laboratorio delle nuove tecnologie belliche.

Al di là di queste faglie, che sono assolutamente concrete, rimane il fatto che l’Occidente collettivo ha deciso che la guerra sarà il leitmotiv della politica da qui agli anni a venire. La terza guerra mondiale, per i suoi vertici, non è uno degli scenari, è un problema di quando e come. La preparazione comincia oggi all’Aja.

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Nazigolpisti ucraini al lavoro in Iran

A proposito del parallelo nel lavoro delle Intelligence israeliana e ucraina, la prima in Iran, la seconda sul territorio russo, di cui il generale Fabio Mini scrive il 23 giugno su Il Fatto, ecco un esempio, seppur “complementare”, della penetrazione dei rispettivi agenti, di Mossad e GRU, nei territori di Iran e Russia.

Rilevando la relativa facilità con cui i sionisti hanno portato colpi micidiali ad alcune strutture ed esponenti in vista della Repubblica iraniana, il generale Mini scrive di una “struttura parallela” reclutata dal Mossad, non solo tra civili dissidenti iraniani, ma addirittura anche all’interno dei Guardiani della rivoluzione, attraverso cui è stata condotta l’operazione del trasporto dei droni che hanno colpito vari esponenti iraniani.

Riuscire a «trasportare droni in territorio iraniano, custodirli in aree desertiche per anni e poi attivarli all’occorrenza, o uccidere decine di militari e scienziati, implica il coinvolgimento sul posto di una rete organizzata e fidelizzata. Lo stesso aveva detto Zelenskij prendendosi il merito dell’operazione contro i siti strategici russi. Anche l’eliminazione dei leader iraniani ha un parallelo con le azioni dell’intelligence ucraina», ecc, ecc.

L’analogia, non proprio negli stessi termini, ma con un occhio più rivolto a mettere in guardia la Russia su ciò che può attendersi dal lavorio di agenti ucraini e, appunto, dalla “sorda” penetrazione dell’Intelligence nazigolpista in territorio russo, era stata messa in rilievo dal professor Velentin Katasonov sulla russa Svobodnaja Pressa.

Ecco ora un esempio “trasversale” di simili attività. L’agenzia iraniana Mashregh News scrive che i Servizi di sicurezza iraniani hanno arrestato in Iran tre agenti dell’Intelligence ucraina, sospettati di preparare un attacco terroristico contro un impianto di produzione di velivoli senza pilota a Isfahan.

«Le forze di sicurezza iraniane hanno arrestato 3 agenti dei servizi segreti ucraini che stavano progettando di attaccare un impianto di produzione di droni a Isfahan» è detto nel comunicato.

Un portavoce del Corpo delle guardie rivoluzionarie islamiche ha dichiarato che il gruppo di intelligence è stato eliminato prima che potesse provocare danni. Mashregh News osserva che i tre agivano su istruzioni di Kiev e avevano una mappa con uno schema dettagliato dell’impianto, degli esplosivi e dei mezzi di comunicazione.

L’Ucraina non ha ufficialmente commentato l’incidente. Prima del comunicato di Mashregh News, però, la semiufficiale ucraina Strana aveva scritto che gli attacchi statunitensi agli impianti nucleari iraniani potrebbero causare molti problemi all’Ucraina.

Tra l’altro, quella di Isfahan è la stessa area in cui, appena una settimana prima, le forze di sicurezza iraniane avevano scoperto (con qualche giorno di ritardo, verrebbe da ironizzare, se la faccenda non fosse così seria) un laboratorio clandestino per la produzione di mini-droni, insieme a una significativa quantità di speciali attrezzature ed elementi per la loro messa a punto. L’agenzia IRNA, riportando le dichiarazioni della polizia, aveva parlato di quattro persone arrestate, lasciando intendere chiaramente che nell’attività del laboratorio fossero coinvolti agenti israeliani.

E, a proposito di droni e di rapporti russo-iraniani, nel gennaio 2024, durante i lavori del vertice economico di Davos, l’allora Ministro degli esteri iraniano, Hossein Amir-Abdollahian (morto nel maggio successivo, insieme al Presidente Ibrahim Raisi, in seguito allo schianto dell’elicottero su cui stavano viaggiando, nei pressi del confine tra Iran e Azerbajdžan), aveva dichiarato che, a dispetto delle ripetute affermazioni di Kiev, secondo cui Teheran avrebbe fornito a Mosca missili e droni da combattimento, utilizzati dalle forze russe nel conflitto ucraino, l’Iran non ha «mai fornito droni o missili alla Russia perché li usasse contro l’Ucraina».

Le dichiarazioni ucraine, secondo cui i droni iraniani vengono utilizzati contro di loro, aveva detto Amir-Abdollahian, «stanno creando molto rumore. Tuttavia, non ci hanno mostrato una sola prova o un solo documento» a sostegno di quelle affermazioni.

Evidentemente, i nazigolpisti di Kiev hanno comunque deciso di giocare d’anticipo.

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Il nucleare analizzato da Bankitalia: non gioverà alla bolletta, arriverà tardi e costerà troppo

Sul sito di Bankitalia è apparso uno dei tanti studi commissionati dall’istituto, questa volta con al centro dell’analisi la stima degli effetti della possibile reintroduzione del nucleare in Italia. Lo studio, scritto da Luciano Lavecchia e Alessandra Pasquini, smonta le falsità che ci hanno ripetuto negli ultimi anni: l’energia dell’atomo non ci ridurrà la bolletta.

Ma quello che ci dice il testo di Bankitalia articola ancora più approfonditamente perché il nucleare è pura propaganda, e perché serve solo al complesso militare-industriale. Andiamo con ordine: “dati la struttura del mercato e della bolletta elettrica, una reintroduzione del nucleare non avrebbe significativi impatti sul livello dei prezzi”.

Questa è la prima presa d’atto sul tema. Bisogna dire che il documento afferma pure che il nucleare potrebbe aiutare a “stabilizzare la spesa per l’elettricità per i sottoscrittori di contratti a lungo termine”. Ma, allo stesso tempo, sottolinea anche che lo stesso risultato è possibile raggiungerlo con contratti simili riguardanti le rinnovabili.

Se parliamo di emissioni di gas serra, dice lo studio, il contributo del nucleare è “potenzialmente consistente”. Potenzialmente, perché la tempistica per la realizzazione di una nuova centrale è tra i 10 e i 19 anni, con i siti UE più vicini al limite superiore: in pratica, si arriverebbe molto vicini al 2050, cioè quando dovrebbe essere raggiunta la neutralità carbonica.

Non si capisce allora il senso del non investire massicciamente nelle rinnovabili, come del resto sta già avvenendo, soprattutto in Cina. Bankitalia ricorda che i reattori attivi oggi in Europa sono il risultato degli investimenti fatti ai tempi degli shock petroliferi degli anni Settanta e Ottanta. Ormai, le rinnovabili sono molto più competitive, e gli operatori privati “privilegiano tecnologie a minore intensità di capitale e con tempi di costruzione molto più rapidi”, come le rinnovabili, appunto.

Se si volesse fare un paragone tra nucleare e rinnovabili, il volume di investimenti sul primo è oggi minore di 10 volte rispetto a quello posto sulle seconde, ma l’espansione dell’energia davvero verde, in Italia, è nettamente rallentata da farraginosità normative e caoticità del complesso autorizzatorio. Su questo lato, il Belpaese è ben lontano dagli obiettivi fissati, ma non si sta muovendo con la stessa attenzione dedicata all’atomo.

Inoltre, gli impianti nucleari ora in costruzione hanno subito numerosi ritardi e aumenti di costi, mentre quelli su cui vuole puntare il governo italiano, basati sui famosi piccoli reattori modulari, sono ancora a un livello sperimentale. Insomma, si prefigura un pozzo senza fondo di sussidi pubblici per una fonte di energia che arriverebbe fuori tempo massimo.

Stando a valutazioni fatte dall’Agenzia Internazionale dell’Energia (IEA), al 2040 gli impianti di piccoli dimensioni saranno competitivi rispetto al fotovoltaico su scala industriale con sistemi di stoccaggio solo assumendo che “il costo medio ponderato del capitale sia pari al 4% (una prospettiva ottimistica considerato che la IEA lo assume generalmente pari all’8-9% per le tecnologie nucleari)”.

Le quali non sarebbero nemmeno così funzionali: il Piano Nazionale Integrato Energia e Clima (PNIEC) prevede tra i 22 e i 42 siti nucleari (senza specificare dove), con una produzione che coprirebbe solo l’11% del fabbisogno elettrico stimato al 2050. Ma l’idiozia è tale che, seppur piccola, una parte di questa energia prevista viene ricavata dalla fusione nucleare, ben lontana dall’essere utilizzabile per questi scopi.

Lo studio afferma poi un’altra cosa ancora, che contrasta nettamente con l’idea che il nucleare serva a garantire alla UE una maggiore autonomia energetica. Infatti, “la riduzione delle importazioni di idrocarburi sarebbe compensata da una maggiore importazione della tecnologia e del combustibile per la produzione nucleare, in questo momento concentrati in paesi geo-politicamente poco affini all’Italia”.

Le tecnologie dominanti del comparto sono quelle russe e cinesi, sbandierati come i ‘nemici del mondo libero’ da anni, e se il know-how degli operatori italiani è buono, quello che gli manca è l’esperienza. Inoltre, il 90% dell’uranio viene estratto in sei paesi: Kazakistan, Canada, Namibia, Australia, Uzbekistan e Russia.

Un paragrafo è dunque dedicato esplicitamente alla dipendenza per il combustibile, dove viene sottolineato che il 43% della materia prima proviene dal Kazakistan, e che la sua politica estera non è sempre filo-occidentale. E gli europei non possono più nemmeno contare sulle miniere del Niger, ovvero sulla solita proiezione coloniale francese.

In pratica, la realtà è che a differenza di fonti energetiche diffuse e rinnovabili, la ricerca spasmodica del nucleare potrebbe portare persino ad aumentare le tensioni sui mercati e quelle geopolitiche, per accaparrarsi l’uranio necessario. È un quadro abbastanza esaustivo per capire che la reale finalità dietro il ritorno al nucleare è rappresentata dalle opportunità dual use che offre.

A conclusione di questo articolo, è bene riportare le ultime righe dello studio di Bankitalia, perché da sole dicono già tutto il necessario:
Di fronte a queste incertezze, è necessario adottare un approccio prudente nel considerare il ruolo che la reintroduzione del nucleare potrebbe avere nel raggiungimento degli obiettivi di decarbonizzazione fissati dal Governo, valutando e preparando anche strategie alternative. In questo senso l’ampliamento del dibattito sulle opzioni disponibili, stimolato dalle recenti iniziative governative – e aperto anche a tecnologie ancora in fase di sviluppo – offre potenziali vantaggi a condizione che non ostacoli né rallenti il progresso di altre strategie per la diversificazione del mix energetico, in particolare l’espansione delle fonti rinnovabili. Va riconosciuto infine che, quale che sia la soluzione tecnica, difficilmente la creazione di nuovi impianti nucleari potrà esimersi da una compartecipazione del pubblico, o come investitore diretto, con finanziamenti o sussidi, oppure indirettamente, mediante società partecipate.
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Un giorno i redattori della BBC dovranno essere processati per collusione nel genocidio di Israele

Il giornalista veterano Peter Oborne questa settimana ha criticato duramente la BBC per il suo vergognoso reportage su Gaza e, cosa insolita, è riuscito a farlo faccia a faccia con il caporedattore della BBC, Richard Burgess, durante una riunione parlamentare.

Le osservazioni di Oborne si riferiscono a un nuovo e schiacciante rapporto del Centre for Media Monitoring, che ha analizzato in dettaglio la copertura mediatica della BBC su Gaza nell’anno successivo all’attacco di Hamas del 7 ottobre 2023. Il rapporto ha rilevato “un modello di parzialità, doppi standard e silenziamento delle voci palestinesi”. Non si tratta di errori editoriali. Rivelano una sistematica e duratura distorsione della copertura mediatica a favore di Israele.

Oborne è stato uno dei numerosi giornalisti ad affrontare Burgess. I suoi commenti, filmati da qualcuno presente all’incontro, possono essere visti nel link qui sotto.

Oborne solleva una serie di punti importanti che illustrano perché il programma giornalistico tendenzioso e favorevole a Israele della BBC equivale a negare il genocidio e implica che dirigenti come Burgess siano direttamente complici dei crimini di guerra israeliani. 

1. La BBC non ha mai menzionato la direttiva Annibale, invocata da Israele il 7 ottobre 2023, che ha dato il via libera all’uccisione di soldati e civili israeliani, spesso tramite il fuoco degli elicotteri Apache, per impedire che venissero catturati da Hamas. I media israeliani hanno ampiamente riportato il ruolo della direttiva Annibale nella risposta militare israeliana del 7 ottobre, ma tale copertura è stata completamente ignorata dalla BBC e dalla maggior parte dei media britannici.
L’invocazione da parte di Israele della direttiva Annibale – contesto essenziale per comprendere quanto accaduto il 7 ottobre – spiega gran parte della distruzione avvenuta quel giorno in Israele, solitamente attribuita alla “barbarie” di Hamas, come il cimitero di auto bruciate e accartocciate e i resti carbonizzati e fatiscenti delle case nelle comunità vicino a Gaza.
Hamas, con le sue armi leggere, non aveva la capacità di infliggere quel tipo di danni a Israele, e sappiamo da testimoni, filmati e ammissioni di ufficiali militari israeliani che Israele è stato responsabile di almeno una parte della carneficina di quel giorno. Quanto, a quanto pare, non lo verificheremo mai, perché Israele non è disposto a indagare su se stesso, e media come la BBC non stanno conducendo indagini, né esercitano alcuna pressione su Israele affinché lo faccia.

2. La BBC non ha mai menzionato la dottrina israeliana “Dahiya”, alla base del suo approccio “tagliare l’erba del prato” a Gaza negli ultimi due decenni, in cui l’esercito israeliano ha distrutto a intermittenza ampie zone della piccola enclave. L’ obiettivo ufficiale è stato quello di riportare la popolazione, per usare le parole dei generali israeliani, all'“età della pietra“.
Il presupposto è che, costretti a una modalità di sopravvivenza, i palestinesi non avranno l’energia o la volontà di resistere alla brutale e illegale sottomissione da parte di Israele e che sarà più facile per Israele espellerli etnicamente dalla loro patria.
Poiché Israele ha applicato questa dottrina militare – una forma di punizione collettiva e quindi indiscutibilmente un crimine di guerra – per almeno 20 anni, essa è di fondamentale importanza in qualsiasi analisi degli eventi che hanno portato al 7 ottobre o della campagna di distruzione genocida lanciata successivamente da Israele.
Il rifiuto della BBC persino di riconoscere l’esistenza della dottrina lascia il pubblico gravemente disinformato sugli abusi storici commessi da Israele ai danni di Gaza e privato del contesto necessario per interpretare la campagna di distruzione condotta da Israele negli ultimi 20 mesi.

3. La BBC ha completamente omesso di riportare le decine di dichiarazioni genocide rilasciate da funzionari israeliani a partire dal 7 ottobre, un altro contesto essenziale affinché il pubblico comprenda gli obiettivi di Israele a Gaza.
Forse il fatto più scandaloso è che la BBC non ha riportato il paragone biblico fatto dal primo ministro israeliano Benjamin Netanyahu tra i palestinesi e “Amalek”, un popolo che Dio ordinò agli ebrei di sterminare dalla faccia della terra. Netanyahu sapeva che questa affermazione chiaramente genocida avrebbe avuto una risonanza particolare con quella che ora rappresenta la maggioranza dei soldati combattenti a Gaza, appartenenti a comunità religiose estreme che considerano la Bibbia verità letterale.
La cosa più difficile da dimostrare in un genocidio è l’intenzione. Eppure, la ragione per cui la violenza israeliana a Gaza è così chiaramente genocida è che ogni alto funzionario, dal Primo Ministro in giù, ha ripetutamente affermato che il genocidio è la loro intenzione.
La decisione di non informare il pubblico di queste dichiarazioni pubbliche non è giornalismo. È disinformazione filo-israeliana e negazione del genocidio.

4. Al contrario, come osserva Oborne, in più di 100 occasioni in cui gli ospiti hanno cercato di definire genocidio ciò che sta accadendo a Gaza, lo staff della BBC li ha immediatamente bloccati. Come hanno dimostrato altre inchieste, la BBC ha applicato rigorosamente una politica che non solo vieta l’uso del termine “genocidio” da parte dei propri giornalisti in riferimento a Gaza, ma priva anche altri – dai palestinesi ai volontari medici occidentali e agli esperti di diritto internazionale – del diritto di usare il termine.
Ancora una volta, questa è pura negazione del genocidio.

5. Oborne sottolinea inoltre il fatto che la BBC ha ampiamente ignorato la campagna israeliana di omicidi di giornalisti palestinesi a Gaza. Un numero maggiore di giornalisti è stato ucciso da Israele nella sua guerra contro la piccola enclave rispetto al numero totale di giornalisti uccisi in tutti gli altri principali conflitti degli ultimi 160 anni messi insieme.

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Israele si accanisce contro i palestinesi in Cisgiordania e a Gaza, nel silenzio internazionale

Lunedì l’esercito israeliano ha arrestato decine di palestinesi in diverse aree della Cisgiordania occupata e ha iniziato le demolizioni nel campo profughi di Nur Shams a Tulkarm.

Secondo quanto riferisce Al-Jazeera, a Hebron le forze di occupazione hanno arrestato 11 palestinesi e li hanno picchiati duramente, oltre a fare irruzione e saccheggiare le loro case. L’esercito ha anche istituito posti di blocco militari all’ingresso di Hebron e delle sue città, villaggi e campi profughi, oltre a chiudere diverse strade principali e secondarie con cancelli di ferro, blocchi di cemento e cumuli di terra.

Nel governatorato di Ramallah e al-Bireh, le forze di occupazione hanno arrestato 11 palestinesi, tra cui un padre, suo figlio, due fratelli e un ragazzo, durante incursioni in diverse città e villaggi. Hanno anche arrestato tre giovani della città di Qalqilya dopo aver fatto irruzione nelle loro case e saccheggiato il loro contenuto.

I militari israeliani hanno anche fatto irruzione nel villaggio di Far’ata, a est di Qalqilya, e hanno arrestato diversi giovani che sono stati interrogati prima di essere rilasciati.

Nella città di Salfit, le forze di occupazione israeliane hanno istituito un pesante posto di blocco militare all’ingresso settentrionale della città, causando una grave congestione del traffico e impedendo il movimento dei residenti.

Al-Jazeera ha anche riferito che l’esercito israeliano ha effettuato vaste operazioni di demolizione nel quartiere di Al-‘Ayada del campo profughi di Nur Shams a Tulkarm, nel nord della Cisgiordania occupata.

Le forze di occupazione hanno demolito una serra nella città di Beit Liqya, a ovest di Ramallah, e ne hanno completamente distrutto il contenuto.

Le forze armate israeliane hanno anche fatto irruzione nel villaggio di Al-Mughayyir, a nord-est di Ramallah, con unità di fanteria, e nella città di Ni’lin a ovest, senza che siano stati segnalati arresti.

L’esercito ha anche preso d’assalto la città di Tubas e ha inviato rinforzi militari dal checkpoint di Tayasir verso la città.

Lunedì i bulldozer israeliani hanno demolito un muro nella città di Beit Hanina e fatto irruzione nelle case nel quartiere At-Tur di Gerusalemme, ha riferito l’agenzia di stampa ufficiale palestinese WAFA.

Allo stesso tempo, le forze di occupazione israeliane hanno continuato a chiudere la moschea di Al-Aqsa nella Gerusalemme occupata per il secondo giorno consecutivo, ha riferito l’agenzia palestinese WAFA.

Secondo il Governatorato di Gerusalemme, le autorità israeliane hanno impedito ai fedeli di entrare nella moschea e di svolgere preghiere nei suoi cortili.

Venerdì sera, le forze israeliane avevano preso d’assalto la Vecchia Sala di Preghiera (al-Musalla al-Qibli) all’interno del complesso della moschea. Testimoni riferiscono che i soldati hanno vandalizzato l’interno e hanno fatto irruzione negli armadietti. Quattro guardie della moschea sono state arrestate.

A Gaza fonti mediche dell’ospedale Al-Shifa hanno confermato che due palestinesi sono stati uccisi e circa altri 15 feriti in un attacco aereo israeliano su una casa nel quartiere di Al-Karama, a nord-ovest di Gaza City.

Nel frattempo, i media palestinesi locali hanno riferito che una persona è stata uccisa e diverse altre ferite quando gli elicotteri israeliani hanno preso di mira una casa a Deir al-Balah, nella Striscia di Gaza centrale.

Al-Jazeera ha anche osservato che diversi palestinesi sono stati uccisi e feriti dal fuoco dei carri armati israeliani e dai bombardamenti vicino ai centri di distribuzione degli aiuti nella Striscia di Gaza centrale e meridionale. Questi centri sono supervisionati dall’esercito israeliano.

In precedenza, fonti ospedaliere a Gaza hanno dichiarato che le forze israeliane hanno ucciso 50 palestinesi dalle prime ore di domenica.

Tra i morti c’erano 18 civili affamati che stavano aspettando aiuti umanitari.

L’Ufficio Stampa del Governo di Gaza ha documentato l’uccisione di 154 palestinesi, il ferimento di 3.500 e la scomparsa di altri 39 da quando questi centri sono stati istituiti il 27 maggio scorso.

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Israele e Iran salvano la faccia, Trump vince (e anche Putin)

La tregua stabilita nelle scorse ore annunciata da Donald Trump e poi dai governi di Teheran e Tel Aviv ha preso corpo troppo in fretta lasciando il dubbio che facesse parte di un piano già predefinito, probabilmente fin dall’avvio dei bombardamenti statunitensi sui centri nucleari iraniani.

Gli ultimi sviluppi del conflitto sembrano indicare che abbia trovato ampie conferme l’ipotesi formulata da Analisi Difesa di “un’ammuina” statunitense tesa a salvare la faccia a Benjamin Netanyahu offrendo una via d’uscita a Israele ormai a corto di armi antimissile.

USA e Israele hanno annunciato la “missione compiuta” dicendosi certi della totale distruzione del programma nucleare iraniano nonostante non vi siano certezze circa i danni inflitti ai bunker sotterranei, alcuni dei quali peraltro non noti, e nonostante non vi sia traccia di oltre 400 chili di uranio arricchito.

Richard Nephew, ex funzionario statunitense esperto di Iran, ha detto al Financial Times che nessuno sa dove siano finiti i 408 chili di uranio arricchito al 60 per cento. Gli Stati Uniti e Israele non hanno la capacità per riuscire a individuarlo a breve. L’intervento militare americano ha al più ritardato di qualche mese il programma atomico di Teheran.

Mohammad Eslami, capo dell’Organizzazione per l’energia atomica dell’Iran, ha dichiarato che Teheran sta “valutando la possibilità di riparare e rilanciare le parti danneggiate dell’industria nucleare. Abbiamo pianificato in modo che non ci fossero interruzioni nel processo produttivo”, ha aggiunto.

L’impianto nucleare iraniano di Fordow “ha subito solo danni parziali a seguito dell’attacco statunitense di domenica sera e la situazione nell’area è tornata alla normalità” ha riferito ieri l’agenzia di stampa ufficiale iraniana Tasnim citando le autorità locali.

Ieri il portavoce della Commissione affari esteri del Majles, il parlamento iraniano, Abbas Golru all’agenzia di stampa ISNA, ha riferito che dopo l’attacco statunitense e gli attacchi israeliani contro i siti del programma nucleare iraniano, Teheran sta valutando l’uscita dal Trattato di Non Proliferazione nucleare (TNP), togliendo la base legale per le ispezioni dei tecnici dell’Agenzia internazionale per l’energia atomica (AIEA).

“L’azione del regime sionista e degli Stati Uniti ha violato in modo palese il diritto internazionale, in particolare il Trattato di non proliferazione nucleare”, ha detto Golru. “Non c’è più alcuna necessità che l’Aiea esprima giudizi sul programma nucleare iraniano”, ha continuato Golru. “Il Parlamento – ha detto ancora – sta esaminando la questione dell’uscita dal TNP”.

Il direttore generale dell’Agenzia internazionale per l’energia atomica Rafael Mariano Grossi ha detto di aver comunicato all’Iran che “qualsiasi trasferimento di materiale nucleare da una struttura protetta a un’altra deve essere comunicata all’Aiea”.

Uranio arricchito e altro materiale sono stati sgomberati insieme al personale prima dei raid americani, a conferma che Washington ha mantenuto canali di comunicazione aperti con l’Iran e di certo con la Russia.

Mosca ha ammesso che Putin e Trump avevano parlato al telefono della guerra tra Iran e Israele ma il portavoce del Cremlino, Dimitri Peskov, ha smentito che il presidente americano avesse comunicato quando avrebbe attaccato i siti nucleari.

Salvare la faccia

Appare in ogni caso evidente la regia russo-americana per gestire la fine del conflitto e forse avviare una fase di negoziati di pace che potrebbe vedre Mosca e Washington tornare a cooperare in modo ufficiale. Un pessimo segnale per l’Ucraina e l’Europa, fattasi scavalcare ancora una volta da un conflitto in cui, come quello in Ucraina, ha tutto da rimetterci, ma dove non ha capito nulla e quindi non tocca palla.

Come avevamo previsto, dopo i raid americani anche l’Iran doveva “salvare la faccia”. Ieri ha lanciato missili balistici verso la base qatarina di al-Udeid utilizzata dall’USAF che vi ha posto il comando aereo del Central Command.

Il Qatar ha affermato di aver intercettato tutti i missili iraniani (probabilmente utilizzando il sistema antimissile statunitense THAAD), tranne uno, caduto nella base aerea senza causare vittime, secondo il generale Shayeq bin Misfir Al Hajri, vice capo di stato maggiore interforze del Qatar.

Intorno alle 19:30 ora locale, sette missili sono stati lanciati dall’Iran verso la base aerea e tutti sono stati abbattuti in mare prima di entrare nel territorio del Qatar. “Subito dopo, la base è stata attaccata da 12 missili, 11 dei quali sono stati abbattuti sul territorio del Paese, e un missile è caduto nella base aerea di Al Udeid”, ha dichiarato Al Hajri, come riporta la CNN. “Non ci sono state perdite lì. Tutti i missili lanciati, grazie a Dio, sono stati abbattuti dai nostri sistemi,  tranne uno, che come ho detto è caduto nella base aerea di Al Udeid”.

Le Guardie della rivoluzione in Iran hanno dichiarato invece che sei missili hanno colpito la base statunitense in Qatar.

Trump ha ringraziato l’emiro al-Thani “per tutto ciò che ha fatto per la pace nella regione” in un nuovo post su Truth. “Riguardo all’attacco di oggi alla base americana in Qatar, sono lieto di annunciare che, oltre a non aver ucciso o ferito alcun americano, e cosa molto importante, non ci sono stati nemmeno qatarioti uccisi o feriti”, ha aggiunto.

Ma l’aspetto che conferma come alla “ammuina” statunitense abbia risposto la “sceneggiata iraniana” emerge dalle dichiarazioni di Trump che dopo gli attacchi missilistici iraniani ha reso noto che non era prevista nessuna risposta o altri interventi militari contro l’Iran dopo il fallito attacco ad al-Udeid.

Base che del resto era stata in gran parte evacuata da aerei e personale in previsione dell’attacco. Il New York Times ha riferito subito, citando fonti ben informate, che l’Iran aveva avvisato in anticipo le autorità del Qatar per minimizzare il rischio di vittime e dimostrando che l’azione aveva un carattere simbolico e calcolato che non voleva innescare ulteriori rappresaglie.

Trump infatti ha persino ringraziato il governo iraniano. “Voglio ringraziare l’Iran per averci avvisato tempestivamente, il che ha permesso di non perdere vite umane e di non ferire nessuno. Forse l’Iran può ora procedere verso la pace e l’armonia nella regione e incoraggerò con entusiasmo Israele a fare lo stesso” ha scritto ieri su Truth.

In poche ore del resto si è giunti al cessate il fuoco e già domenica sera da Israele erano giunte offerte all’Iran di cessare le ostilità dopo i raid statunitensi sui centri nucleari.

Trump ha annunciato che Israele e Iran hanno concordato un cessate il fuoco “completo e totale”, che porterà alla fine della guerra. La dichiarazione è stata diffusa con un messaggio sul social Truth. Il cessate il fuoco, secondo Trump, dovrebbe durare inizialmente 12 ore. Il presidente ha detto che si tratta della fine della “guerra dei 12 giorni” e si è complimentato con Iran e Israele per la scelta fatta. “Questa – ha aggiunto su Truthè una guerra che sarebbe potuta durare anni e distruggere l’intero Medio Oriente, ma così non è stato e mai lo sarà”.

Il bombardamento dei siti nucleari iraniani non è sostenuto dalla maggioranza degli americani secondo un sondaggio commissionato da CNN. Il 56 per cento degli americani è contrario e solo il 44 per cento favorevole.  I democratici sono largamente contrari ai raid, per l’88 per cento, mentre la maggioranza dei repubblicani, l’82 per cento, li sostengono.

Il 58 per cento degli americani sostiene che i raid renderanno l’Iran ancora più una minaccia per gli Stati Uniti e solo il 27 per cento ritiene che la decisione di Trump possa contribuire a contenere la minaccia. Il 39 per cento degli americani è convinto che gli Stati Uniti non abbiano fatto uno sforzo diplomatico sufficiente prima di usare la forza, il 32 la pensa all'opposto.

Tutti vincitori?

A Mosca il ministro degli Esteri russo, Sergej Lavrov, ha affermato che “non sono stati forniti documenti che dimostrino che l’Iran intendesse attaccare Israele” aggiungendo sul cessate il fuoco che “è ancora presto per trarre conclusioni, ma noi sosteniamo la pace. Tentare di assassinare militari e scienziati nella regione è un atto pericoloso che potrebbe portare a importanti cambiamenti e conseguenze in Medio Oriente”.

Se Israele ha dichiarato vittoria per lo smantellamento (rivendicato ma non confermato) del programma nucleare iraniano, il Consiglio Supremo per la Sicurezza nazionale dell’Iran, nel confermare che è stato raggiunto un cessate il fuoco con Israele, lo ha definito una sconfitta per lo Stato ebraico.

Le Forze armate iraniane hanno fornito una “risposta umiliante ed esemplare alla crudeltà del nemico”, si legge nella nota aggiungendo che tale risposta è culminata nell’attacco alla base statunitense in Qatar di ieri sera e negli attacchi missilistici all’alba su Israele. Il Consiglio ha affermato che Teheran ha risposto agli attacchi sul suo territorio in modo proporzionato e tempestivo e “ha costretto il nemico a pentirsi e ad accettare la sconfitta e la cessazione unilaterale della sua aggressione. Le forze armate della Repubblica islamica dell’Iran, senza alcuna fiducia nelle parole del nemico e con le dita sul grilletto, sono pronte a fornire una risposta decisa e deterrente a qualsiasi atto di violazione da parte del nemico”, avverte il Consiglio Supremo

Prospettive di pace

Entrambi i contendenti rivendicano un qualche successo e minacciano di tornare a far parlare le armi ma se il cessate il fuoco regge e si consolida anche i negoziati per una pace duratura potranno prendere il via.

Israele è indebolito e Netanyahu ha il fiato corto, quindi meno opzioni per sottrarsi ai diktat di Trump. Anche l’Iran ha subito danni, uccisioni di leader e batoste con la distruzione di una parte del suo apparato militare. Un contesto che rende Teheran più accondiscendente con Mosca come confermano gli incontri di ieri in Russia tra i due ministri degli Esteri e il colloquio telefonico tra i due ministri della Difesa.

Del resto la Russia è il migliore negoziatore per Israele e lran. Ha sempre avuto buoni rapporti con lo Stato ebraico (dove molti abitanti sono di origine russa o ex sovietica) ed è un alleato dell’Iran. Mosca è “padrina” del programma nucleare civile iraniano a cui ha fornito tecnici e la centrale atomica di Busher: per questo ha piena consapevolezza dei piani atomici di Teheran e potrebbe offrire assicurazioni a Israele che l’Iran non si doterà di un arsenale nucleare autonomo, offrendo al tempo stesso garanzie militari all’Iran e ponendolo sotto la protezione del suo ombrello nucleare in caso di attacco di Israele, che è già da decenni una potenza nucleare.

È presto per fare previsioni ma simili garanzie favorirebbero la distensione e un processo di pace oltre a dare domani piena sostanza al riavvicinamento tra Washington e Mosca.

Per ora la cosa più importante era uscire dall’impasse e per l’Amministrazione Trump evitare di cadere nella trappola di Netanyahu, che puntava a coinvolgere gli USA nella guerra che Israele combatte ormai su sei fronti senza ombra di vittoria ma soffrendo un progressivo logoramento militare ed economico.

Che Trump punti a un accordo di pace lo indica oggi anche il rimprovero a Israele per un raid aereo effettuato quando la tregua era già in vigore. Israele ha “sganciato” missili subito dopo aver accettato l’accordo. “Non sono felice con Israele, forse è stato lanciato per errore, ma non sono felice” ha detto il presidente americano parlando a un gruppo di giornalisti prima di partire per partecipare al vertice Nato all’Aja.

Che la tregua non sia casuale ma rientri in un programma predisposto per chiudere il conflitto mediorientale sembrerebbe indicarlo anche la notizia giunta in tarda mattinata dal Qatar, dove il premier e ministro degli Esteri, Mohammad bin Abdulrahman al-Thani, ha auspicato di riprendere i negoziati tra Israele e Hamas per un cessate il fuoco a Gaza entro due giorni. 

“L’aggressione israeliana contro l’Iran ha interrotto gli sforzi per raggiungere un cessate il fuoco a Gaza, ma speriamo che Israele non usi il cessate il fuoco con l’Iran per intensificare il bombardamento di Gaza”, ha concluso.

Il 13 giugno, dopo l’attacco all’Iran, il comando delle IDF aveva definito “fronte secondario” quello della Striscia di Gaza.

Le ultime schermaglie prima della tregua

I Guardiani della rivoluzione islamica hanno affermato oggi che l’ultimo attacco contro Israele è stato lanciato pochi minuti prima dell’entrata in vigore del cessate in fuoco in risposta ai raid israeliani.

I pasdaran hanno fatto sapere di aver lanciato “14 missili” contro “i centri militari e di supporto del regime sionista nei territori occupati”. I Guardiani della rivoluzione hanno aggiunto che continueranno a “monitorare i movimenti del nemico con occhi aperti e vigili”.

Ieri l’Iran aveva rivendicato di aver distrutto dall’inizio del conflitto oltre 130 droni israeliani. Lo ha riferito l’agenzia di stampa ISNA, citando il Quartier generale della difesa aerea iraniana. La contraerea “dall’inizio delle aggressioni del regime sionista fino alle ore 7 di questa mattina, con vigilanza e massima prontezza, ha intercettato oltre 130 droni suicidi da ricognizione e da combattimento – tra cui vari modelli Hermes, Heron e i droni suicidi Harop – riuscendo ad abbatterli e distruggerli in tutto il Paese”.

Dall’inizio dell’attacco israeliano a ieri erano “circa 500” le persone morte in Iran e i feriti oltre 3.000, come ha riferito la tv di Stato iraniana. La stima è stata aggiornato poi a 974 morti e circa 3.500 feriti secondo Human Rights Activists News Agency (Hrana), organizzazione non governativa indipendente iraniana che si occupa di diritti umani.  L’ong denuncia al contempo 705 arresti sul fronte interno in questi giorni, sullo sfondo della stretta delle autorità di Teheran contro i sospetti di spionaggio o collaborazionismo. Il governo ha certificato nel pomeriggio di oggi 610 morti e 4.700 feriti. 

Le forze armate iraniane avrebbero abbattuto ieri un altro caccia F-35 israeliano nei pressi della città di Tabriz nella parte nord-occidentale del Paese. Lo ha riportato l’agenzia Tasnim citando il dipartimento per le relazioni pubbliche del Corpo delle Guardie della Rivoluzione.

Ieri l’Iran ha lanciato almeno 15 missili balistici e decine di droni verso Israele in diverse salve nell’arco di 40 minuti. Colpite anche due centrali elettriche. La compagnia elettrica israeliana (IEX) ha reso noto che a seguito del lancio di droni iraniani verso Israele che hanno colpito anche una infrastruttura strategica nel sud del paese, si sono verificate interruzioni nella fornitura di elettricità a un certo numero di comunità nell’area.

Il ministro della Difesa israeliano, Israel Katz, ha confermato ieri che le IDF hanno colpito una serie di “obiettivi senza precedenti” nella capitale iraniana Teheran. Una nota ha riferito che sono stati attaccati “il quartier generale del corpo paramilitare dei Basi, la prigione di Evin per prigionieri politici e oppositori del regime, l’orologio ‘Distruzione di Israele’ in piazza Palestina, il quartier generale della sicurezza interna delle Guardie rivoluzionarie (i pasdaran), il quartier generale dell’ideologia e altri obiettivi del regime”.

Secondo quanto riferito dal quotidiano Times of Israel, l’attacco all’ingresso del carcere, noto per il gran numero di prigionieri politici e dissidenti, non ha causato vittime e aveva lo scopo di consentire ai detenuti di scappare. L’orologio menzionato da Katz è stato eretto nel cuore di Teheran nel 2017 e segna un ipotetico conto alla rovescia alla “fine di Israele”, prevista dalla Repubblica islamica entro il 2040.

Le IDF hanno attaccato ieri 6 aeroporti nell’Iran occidentale, orientale e centrale, distruggendo 15 aerei ed elicotteri come parte del loro “sforzo per approfondire la superiorità aerea nei cieli iraniani”. Gli attacchi hanno danneggiato piste di decollo, bunker sotterranei, un aereo da rifornimento e velivoli F-14, F-5 e un elicottero da attacco AH-1, ha affermato un comunicato.

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24/06/2025

Gatti rossi in un labirinto di vetro (1975) di Umberto Lenzi - Minirece

Mercati finanziari “apatici”, nonostante le tensioni in Medio Oriente

Fino a qualche anno fa i mercati finanziari sembravano sensibili ad ogni “stormir di foglia”, nervosi e volatili di fronte ad ogni variabile che si presentava sullo scenario internazionale o sui mercati.

Ma la guerra in Medio Oriente, al momento, non sembra destabilizzare più di tanto le borse, al contrario quella che comincia a preoccupare e a far sorgere domande è proprio la loro apatìa di fronte egli eventi. Qualcuno parla ormai di “cinismo dei mercati” ben oltre la soglia fisiologica di un meccanismo che sul cinismo e la speculazione fonda la propria esistenza.

Dopo i raid Usa contro l’Iran, il prezzo del petrolio Brent era salito del 5,7%, fino a 81,40 dollari, il massimo da 5 mesi a questa parte. La fiammata però si era rapidamente esaurita e le quotazioni avevano virato in negativo. Lo stesso era accaduto al gas, salito di un pò dai 42 euro per Megawattora al Ttf in mattinata, ma poi in flessione dell’1% in chiusura, a quota 40,5 euro. Anche i future sul gas europeo non hanno risentito della ritorsione iraniana sulle basi militari Usa in Qatar in quanto la seduta all’Ice era già terminata quando ha iniziato a circolare la notizia di un imminente attacco iraniano in Qatar, Paese da cui proviene il 20% del l’offerta mondiale di Gnl.

Questa mattina alla Borsa di Milano, a causa del calo del prezzo del greggio, i titoli delle società legate al petrolio sono scesi: Eni (-4%), Tenaris (-3,3%), Saipem (-2,8%). Precipitano anche i prezzi del gas ad Amsterdam: -11,5% a 35,97 megawatt all’ora.

“Resta il fatto che i rischi nella regione non si sono spenti. E il mercato petrolifero a questo punto forse li sta sottovalutando” scrive oggi IlSole24Ore. L’Iran (o altri soggetti) potrebbero ancora colpire impianti nel settore Oil&Gas. “E ci sono molte opzioni meno rischiose e anche meno difficili da perseguire rispetto al tanto paventato blocco di Hormuz, che sta comunque spingendo molti armatori a minimizzare il tempo di permanenza delle navi nel Golfo, oltre a spingere al rialzo i costi di trasporto”.

A tranquillizzare Wall Street ci sono poi state le parole di Michelle Bowman. La vicepresidente della Federal Reserve, ha dichiarato che il momento per tagliare i tassi di interesse potrebbe avvicinarsi rapidamente. Non solo. Ha aggiunto di essere “più preoccupata per i rischi che incombono sul mercato del lavoro e meno del fatto che i dazi possano causare un problema di inflazione”.

Secondo il quotidiano economico tedesco Handesblatt “La maggior parte degli investitori scommette che il conflitto rimarrà limitato, senza un impatto significativo sull’economia globale”. Anche sui dazi, mentre si avvicina luglio e la fine della tregua annunciata da Trump, “gli investitori scommettono che i dazi non arriveranno alla fine. Ma così facendo, nascondono problemi essenziali”.

IlSole24Ore, si interroga sul come mai in un contesto così incerto “i listini restino quasi impassibili, senza volatilità”. Anche perché l’apatia dura da almeno metà maggio. Le Borse non avevano reagito neppure quando Trump, nel weekend del 30 maggio, aveva raddoppiato i dazi su acciaio e alluminio dal 25 al 50%: il lunedì successivo l’indice delle Borse europee aveva perso appena lo 0,21%.

Gli investitori sono convinti che sui dazi Trump stia giocando una partita a poker, con tanto di bluff, ma che alla fine gli accordi verranno trovati. E sulla guerra in Medio Oriente ritengono l’escalation un’ipotesi residuale. Dunque, in generale, pensano che il conflitto in Medio Oriente avrà un effetto contenuto sull’economia.

Dunque se fino a poco tempo fa erano il nervosismo e l’ipersensibilità dei mercati finanziari ad essere fonte di preoccupazione, oggi sembra preoccupare anche la loro apatìa di fronte agli eventi. Un segnale non certo di vitalità, anzi il suo contrario.

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La UE mantiene l’accordo di associazione con Israele, non c’è genocidio che tenga

Ieri si è riunito il Consiglio Affari Esteri della UE, la formula del Consiglio dell’Unione Europea che vede seduti intorno a un tavolo tutti i ministri degli Esteri dei paesi membri. In discussione c’era un rapporto chiaro: Israele viola i diritti umani, non solo a Gaza ma anche in Cisgiordania, alla faccia di chi dice che senza Hamas (che governa solo nella Striscia) non ci sarebbe guerra.

La reazione di Bruxelles è stata altrettanto chiara: l’Accordo di associazione UE-Israele non è stato toccato, nonostante Tel Aviv sia stata trovata in evidente violazione dell’articolo 2 di tale accordo. Nessuna sanzione è stata imposta sui coloni della West Bank, che continuano a strappare le terre dei palestinesi e a fare sfregio del diritto internazionale.

Questa è la misura di quanto il ‘giardino’ europeo tiene in considerazione i diritti di donne e bambini appena al di là del Mediterraneo, che hanno la colpa di non essere bianchi e di essere occupati dall’agente dell’imperialismo occidentale in Medio Oriente, ovvero Israele. Salta di nuovo tutta la retorica umanitaria che vari esponenti europeisti avevano sbandierato per rifarsi una verginità nelle ultime settimane.

Arrivando agli eventi più nel dettaglio, il mese scorso 17 ministri degli Esteri dell’UE (non Tajani) avevano appoggiato una proposta olandese per la revisione dei legami con Israele a causa del genocidio e della pulizia etnica portati avanti impunemente in Palestina. Anche l’evidente blocco di cibo, carburante, acqua e forniture mediche aveva spinto verso questa direzione.

Il Servizio per l’Azione Esterna (SEAE) ha dunque proceduto a stendere un rapporto per Kaja Kallas, Alto rappresentante dell’UE per gli Affari Esteri, che l’ha poi presentato ai colleghi. I quali hanno semplicemente preso atto che ci sono indicazioni di violazione degli obblighi in materia di diritti umani, ma senza adottare alcuna misura.

Qualsiasi decisione in tal senso, se mai venisse presa, è stata rimandata al Consiglio Europeo del 26 giugno o, ancor più probabilemente, alla prossima riunione del Consiglio nel formato Esteri, il 15 luglio. Intanto, il genocidio continua, e non lo nega più nemmeno la UE.

Nelle motivazioni di condanna verso Tel Aviv, non manca un riferimento alle misure della Corte Internazionale di Giustizia, per la quale Israele avrebbe l’obbligo di agire “al fine di impedire che siano commessi atti rientranti nell’ambito della Convenzione sul Genocidio”.

Kallas, negli scorsi giorni, aveva imbastito il solito teatrino della politica imperialista europea. Davanti all’Europarlamento, aveva detto che, fosse stato per lei, avrebbe imposto sanzioni a Israele, ma che per alcune scelte serve l’unanimità. Ma ad esempio, come sottolineava Euronews in un articolo del 18 giugno, per una almeno parziale sospensione dell’accordo, sarebbe bastata una maggioranza qualificata.

La politica estera dei paesi europei è in realtà decisa da Tel Aviv. “Rifiutiamo completamente la direzione presa nella dichiarazione, che riflette una totale incomprensione della complessa realtà che Israele sta affrontando”, ha dichiarato il portavoce del ministero degli Esteri israeliano Oren Marmorstein su X. E Bruxelles ha eseguito.

L’attacco effettuato in barba al diritto internazionale all’Iran da parte di Israele, invece di convincere i politici UE a fare un passo concreto contro il terrorismo sionista, ha rinsaldato le fila europee nella guerra totale che stanno portando avanti contro l’emergere di un ordine multipolare, considerato la minaccia principale all’egemonia occidentale ormai in crisi.

La credibilità di qualsiasi istituzione politica europea è ormai definitivamente compromessa, mostrando lo stato di decomposizione della sempre fasulla ‘democrazia’ occidentale, ormai arrivata però all’aperta accettazione di crimini contro il diritto internazionale e contro l’umanità, fintanto che gli sono utili.

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Perché (il caso) Paragon è persistente

“Qualsiasi tentativo di accedere illegalmente ai dati dei cittadini, compresi i giornalisti e gli oppositori politici, è inaccettabile, se confermato. La Commissione utilizzerà tutti gli strumenti a sua disposizione per garantire l’effettiva applicazione delle norme dell’Unione Europea”.

11 giugno 2025. La Commissione europea interviene su alcune domande poste da membri del Parlamento Ue. Oggetto: l’Italia.

“La Commissione è a conoscenza dei recenti rapporti sull’uso di Paragon”, ha dichiarato la vicepresidente esecutiva e commissaria europea per le Tecnologie digitali e di frontiera Henna Virkkunen. Che ricorda all’Italia come il nuovo Regolamento europeo sulla libertà dei media (European Media Freedom Regulation – EMFA) sarà applicabile dall’8 agosto 2025.

“Il riferimento è a un articolo del regolamento che mira a salvaguardare le fonti giornalistiche vietando alle autorità statali di utilizzare strumenti di sorveglianza sui giornalisti”, salvo circostanze eccezionali (“giustificato da un motivo imperativo di interesse generale”).

Quindi no all’uso di spyware, anche se, come avevano commentato alcuni, rischia di rimanere sempre aperta la finestra delle esigenze di sicurezza nazionale che potrebbe essere sfruttata per far rientrare questi malware nei dispositivi di chi fa informazione. 

Cosa dice la relazione Copasir

L’intervento della commissaria però arriva dopo giorni in cui sembrava che il caso Paragon fosse, se non chiuso, ibernato. Caso che invece, da quando è scoppiato, assomiglia sempre di più a un virus che non si riesce a eliminare. Che anche quando pensi di averlo rimosso ricompare, persistente.

La questione sembrava essere stata chiusa il 4 giugno, quando il Copasir (il Comitato parlamentare per la sicurezza della Repubblica) aveva confermato in una relazione che la società israeliana Paragon ha effettivamente venduto il suo spyware Graphite alle due agenzie di intelligence italiane, Aisi e Aise, a partire dal 2023.

La versione di Graphite fornita non includeva la possibilità di attivare il microfono o la fotocamera del telefono, secondo la relazione. Ma consentiva agli operatori di accedere alle comunicazioni crittografate sui dispositivi violati.

Scrive il Copasir al riguardo: “A partire dal mese di gennaio 2024, lo spyware Graphite è stato utilizzato per acquisire dati dinamici, cioè comunicazioni in corso attraverso sistemi cifrati di messaggistica istantanea, relativamente a un numero estremamente limitato di utenze sempre con autorizzazione del Procuratore generale presso la Corte di appello di Roma, (...) nonché per esfiltrare messaggi di chat giacenti nella memoria di dispositivi di target (...)”.
 
Gli attivisti di Mediterranea

La relazione conferma anche che Graphite ha sfruttato una vulnerabilità di WhatsApp che Meta aveva identificato e chiuso (“patchato”) nel dicembre 2024, un mese prima che l’attività dello spyware venisse rivelata pubblicamente.

Ma la conferma più importante della relazione è che sono stati davvero intercettati attraverso questo software sia Luca Casarini (che avevo intervistato qui), sia Giuseppe Caccia, figure di spicco della ong Mediterranea SavingHumans.

David Yambio, portavoce dell’ONG Refugees in Libya, sarebbe stato intercettato, scrive la relazione, in modo tradizionale, mentre il cappellano di Mediterranea don Mattia Ferrari non sarebbe stato intercettato direttamente. Si tratta, ricordiamolo, di attivisti coinvolti nel salvataggio di migranti in mare.

Non solo: questi attivisti – in particolare Luca Casarini – sono sono stati spiati ripetutamente, e da diversi esecutivi. Anche se l’uso dello spyware sarebbe recente e nato sotto l’attuale governo.

Riprendo al riguardo direttamente la sintesi della relazione Copasir che ha fatto Fanpage: “Casarini sarebbe stato colpito da due operazioni condotte dai servizi”, entrambe autorizzate da Giuseppe Conte nel suo secondo governo. La prima sarebbe durata qualche mese a cavallo tra 2019 e 2020.

La seconda, “di natura più ampia”, partita il 26 maggio 2020, “inizialmente come intercettazione telefonica, si è conclusa nel mese di maggio 2024, sotto il controllo dei Governi Draghi e Meloni”. Inizialmente non veniva utilizzato Graphite, che invece è stato “autorizzato in data 5 settembre 2024” dall’attuale sottosegretario Mantovano.


Nel corso di questa operazione sono stati “attenzionati” non solo Casarini e Beppe Caccia, ma “anche il cittadino sudanese David Yambio”.

Non sarebbe stato colpito don Mattia Ferrari, anche se era sottoposta a intercettazione “un’utenza nella disponibilità di David Yambio, tuttavia intestata a don Ferrari”, ma senza utilizzare Graphite. Queste operazioni, secondo quanto verificato dal Copasir, sarebbero state autorizzate “nelle forme e nei limiti previsti” e “non avrebbero infranto la legge”

“Francesco Cancellato non è stato sorvegliato”

Per quanto riguarda invece proprio il direttore di Fanpage, Francesco Cancellato, la relazione del Copasir è categorica nell’escludere che sia stato sorvegliato dai servizi.

Così dice la relazione: “Con riferimento, invece, alla posizione del giornalista Francesco Cancellato, sulla base degli elementi acquisiti e dalle verifiche svolte dal Comitato risulta che questi non sia stato sottoposto ad alcun tipo di attenzione da parte dei servizi di informazione per la sicurezza italiani attraverso l’utilizzo dello spyware prodotto dalla società Paragon.
Il Comitato ha avuto peraltro modo di verificare direttamente, nel corso dei sopralluoghi svolti presso AISI e AISE e presso la Procura generale presso la Corte di appello di Roma, la mancata sottoposizione del giornalista Cancellato ad attività intercettiva da parte dei servizi di informazione per la sicurezza.
In particolare, nel corso dei sopralluoghi effettuati presso le due Agenzie, i componenti del Comitato, come segnalato sopra, hanno potuto interrogare direttamente il database e il registro di audit del sistema Paragon, inserendo il numero dell’utenza del giornalista oggetto dell’alert di WhatsApp acquisito autonomamente dal Comitato stesso, constatando l’assenza di qualunque attività intercettiva attraverso l’utilizzo dello spyware Graphite relativamente a tale utenza”


La relazione del Copasir aggiungeva anche un dettaglio come vedremo più importante di quel che appare a prima vista.

“A seguito del clamore mediatico suscitato dalla vicenda, il 14 febbraio 2025 Paragon, AISI e AISE hanno concordemente deciso – secondo quanto chiarito in sede di audizioni al Comitato – di non impiegare, dunque di sospendere temporaneamente, le capacità del software Graphite su nuovi target”.

Dunque, ricapitoliamo. A fine gennaio Meta/WhatsApp manda un avviso a decine di utenti in Europa, tra cui il giornalista Cancellato e alcuni degli attivisti citati sopra dicendo che sono stati presi di mira dallo spyware di Paragon (spyware venduto esclusivamente a governi per fare indagini).

Dopo una serie di balletti istituzionali su chi stia usando Paragon in Italia, il Copasir conferma infine quanto era per altro già trapelato, ovvero che sono i servizi a usarlo. La relazione conferma anche che i servizi hanno usato Paragon contro gli attivisti (uno dei quali però era già stato intercettato telefonicamente dai precedenti governi) per questioni di sicurezza nazionale e secondo le procedure delle intercettazioni preventive. Quindi tutto a posto, per loro, a livello procedurale.

Certo, sul piano politico qualcuno potrebbe domandarsi se intercettare in modo preventivo, per anni, attivisti che si occupano di salvare migranti in mare non sia un’operazione discutibile. Un tema che però sembra interessare poco la politica e la stampa italiana.

Anche qui occorre citare la relazione Copasir, che riconosce come Graphite non potesse essere usato contro giornalisti ma nemmeno contro attivisti, e tuttavia puntualizza che l’uso fatto dall’Italia sarebbe stato diverso. Ovvero, gli attivisti sono stata intercettati non perché attivisti ma per le loro attività potenzialmente relative all’immigrazione irregolare.

Dice la relazione: “Risulta al Comitato che l’atto negoziale con cui è stata acquisita la licenza del sistema Graphite reca clausole che non consentono, tra l’altro, l’approccio nei confronti di device e/o di obiettivi provenienti da determinati Paesi. Inoltre, i termini contrattuali prevedono il divieto di infliggere danno su individui o gruppi di individui semplicemente per religione, sesso, genere, razza, gruppo etnico, orientamento sessuale, nazionalità, Paese d’origine, opinione o affiliazione politica, età, stato personale, nonché di far uso del sistema nei confronti di giornalisti e attivisti per i diritti umani
(…)
Con riferimento alle posizioni di Luca Casarini e Giuseppe Caccia, secondo quanto riferito nelle audizioni svolte, oltre al rispetto della citata normativa in materia di intercettazioni preventive e di garanzie funzionali, è stato altresì evidenziato il rispetto anche dei termini contrattuali sopra richiamati in quanto tali soggetti sono stati sottoposti ad attività intercettiva non in qualità di attivisti per i diritti umani, ma in riferimento alle loro attività potenzialmente relative all’immigrazione irregolare”
.

In quanto a Cancellato, come dicevo sopra, non risulta nulla. Perché sia stato oggetto di quest’attacco con lo spyware di Paragon, e soprattutto da chi, resta un mistero.

La relazione del Copasir ricorda anche che nel rapporto pubblicato da Citizen Lab a marzo 2025 su Cancellato non c’era una “conferma diretta di infezione del dispositivo mobile del giornalista, mentre viene riportata conferma espressa dell’infezione, sulla base di analisi forensi già conclusesi, limitatamente ai dispositivi di Casarini e Caccia”.

E quindi, conclude il Copasir, “sulla base delle informazioni emerse nel corso delle audizioni, l’unico elemento che, allo stato, confermerebbe un’eventuale intrusione nel dispositivo di Cancellato, peraltro non espressamente attribuita al software Graphite, sarebbe rappresentato dalla notifica [da Meta/Whatsapp, ndr] ricevuta sul dispositivo del giornalista”.

Le dichiarazioni di Paragon sui contratti italiani e sulla procedura di controllo

Ma poi arriva il 9 giugno. Quando Paragon, l’azienda israeliana di spyware, ha dichiarato di aver rescisso tutti i contratti con le agenzie di intelligence italiane a causa della decisione italiana di non andare avanti con il procedimento tecnico proposto dalla stessa azienda, procedimento che avrebbe confermato se il suo software di spionaggio sia stato utilizzato contro il giornalista Francesco Cancellato.

“L‘azienda ha offerto al governo e al parlamento italiano un modo per determinare se il suo sistema fosse stato usato contro il giornalista”, e poiché “le autorità italiane hanno scelto di non procedere con questa soluzione, Paragon ha rescisso i suoi contratti in Italia”, ha dichiarato Paragon in un comunicato, riferisce il quotidiano israeliano Haaretz.

Sempre ad Haaretz, Paragon aveva detto in passato di aver disconnesso i suoi sistemi da tutti i clienti in Italia, dopo aver ricevuto la notizia che un giornalista aveva ricevuto lo spyware in attesa di avere i risultati dell’indagine. E già quel primo passaggio avrebbe prodotto tensioni ai livelli più alti.

“Secondo un reportage del programma televisivo israeliano Zman Emet (Real Time), i funzionari italiani erano così irritati dalla decisione di Paragon che il primo ministro italiano avrebbe chiamato il primo ministro Benjamin Netanyahu per avere chiarimenti”, scrive Haaretz.

Dunque Paragon con quell’uscita su Haaretz sembra voler smentire la relazione del Copasir.

La replica di Copasir e servizi

Così entro il 10 giugno arriva la risposta del Comitato parlamentare. Che, con una nota, nega con forza la versione di Paragon riportata da Haaretz e si dice pronto a desecretare, in via straordinaria, il resoconto stenografico dell’audizione dei rappresentanti della società.

“Non vi è mai stato alcun rifiuto, o opposizione, da parte del Governo e dei Servizi italiani, di prestare collaborazione al predetto Comitato: il Copasir ha potuto effettuare accertamenti sui log delle inoculazioni realizzate dalle Agenzie, operazione di verifica che non ha precedenti, riscontrando la conformità a quanto dichiarato da queste ultime”, hanno fatto sapere fonti del Dis, in merito alle polemiche sul caso Paragon, riferisce Fanpage.

Che continua riportando sempre le parole del Dis, il nostro Dipartimento delle informazioni per la sicurezza: “Quanto alla disponibilità di un’azienda privata, qual è Paragon, a installare un proprio software su server di strutture che si occupano della sicurezza nazionale va precisato che gli strumenti di controllo che erano stati offerti dalla società israeliana si limitavano alle seguenti due opzioni: l’analisi delle attività di inoculazione (e perciò dei log di sistema) tramite un software proprietario della stessa società, oppure l’analisi diretta da parte di personale Paragon presso le sedi e i sistemi dei Servizi italiani”.

Una proposta ritenuta inaccettabile dalle Agenzie. “Vi è stata invece la concreta disponibilità, raccolta dal Copasir, a far effettuare gli accessi informatici prima indicati”

Il caso Pellegrino e il nuovo report Citizen Lab

Nel frattempo però succede dell’altro. Succede che alla fine di aprile un altro giornalista di Fanpage, Ciro Pellegrino, aveva ricevuto una notifica in merito a uno spyware governativo, notifica arrivata da Apple, questa volta. Pellegrino quindi fa analizzare il suo dispositivo al laboratorio di analisi di malware e spyware governativi Citizen Lab.

E dunque, il 12 giugno, a stretto giro dopo il battibecco a distanza tra Copasir, Paragon e Dis, arriva la relazione tecnica di Citizen Lab.

Che scrive: “La nostra analisi ha rilevato prove forensi che confermano con elevata sicurezza che sia un importante giornalista europeo (che ha richiesto l’anonimato), sia il giornalista italiano Ciro Pellegrino, siano stati presi di mira con lo spyware Graphite di Paragon. Abbiamo identificato un indicatore che collega entrambi i casi allo stesso operatore Paragon”.

Ma dice anche altro quella relazione. Spiega in pratica che non è così strano che sul telefono di Cancellato non siano state trovate tracce, perché si tratta di un Android su cui trovarle è più difficile, detto in soldoni (mentre quello del suo collega Pellegrino è un iPhone, e infatti se ricordate era stato avvisato da Apple). 

Il Fanpage cluster

Scrive ancora Citizen Lab: “Abbiamo condotto un’analisi forense del dispositivo Android di Cancellato. Tuttavia, al momento del nostro primo rapporto, non siamo riusciti a ottenere la conferma forense dell’avvenuta infezione del dispositivo Android di Cancellato.
 
Come abbiamo spiegato all’epoca: “Data la natura sporadica dei log di Android, l’assenza di un riscontro di BIGPRETZEL [l’artefatto che indicherebbe l’infezione da Graphite, come da precedente report Citizen Lab, ndr] su un particolare dispositivo non significa che il telefono non sia stato violato con successo, ma semplicemente che i log pertinenti potrebbero non essere stati catturati o potrebbero essere stati sovrascritti”

In ogni caso, conclude Citizen Lab, “dopo il caso di Cancellato, l’identificazione di un secondo giornalista di Fanpage.it preso di mira con Paragon suggerisce uno sforzo per colpire questa organizzazione giornalistica. Questo sembra essere un gruppo (cluster) specifico di casi che merita un ulteriore controllo”

E dunque?

Proviamo a tirare le somme come alle elementari. Abbiamo due giornalisti della stessa testata. A distanza di pochi mesi uno riceve una notifica da Meta, uno da Apple, di essere stati target di spyware governativi. Sul dispositivo di uno dei due giornalisti viene anche trovata traccia forense dell’infezione, secondo un terzo soggetto specializzato, Citizen Lab.

Abbiamo dunque due importanti aziende tech che da anni lavorano sul tracciamento degli spyware, e un laboratorio indipendente che fa lo stesso, che ci dicono che un giornalista “europeo” (che vuole restare anonimo) e due giornalisti italiani della stessa testata sono stati presi di mira da uno spyware – che ora sappiamo essere stato in uso ai nostri servizi. Che però negano di intercettare giornalisti, e dalle verifiche del Copasir non ci sarebbe traccia di Cancellato (in quanto a Pellegrino, non risulta dalla relazione che abbiano fatto verifiche su di lui).

Ecco a voi il rompicapo dell’estate. Poteva essere un errore di Meta, come ho sentito alludere da qualcuno in tv? Può essere un errore di Meta, Apple, e Citizen Lab? Può essere uno Stato straniero che smania di spiare Fanpage? Possiamo rimanere con questi dubbi? 

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La maggioranza degli italiani è contro l’esercito europeo

La maggioranza degli italiani è contraria alla costituzione dell’esercito europeo. Lo dice l’insospettabile giornale La Repubblica, sulla base di un sondaggio condotto da Demos. Alla fine i nodi vengono al pettine, e alla fine anche quella redazione deve mettersi l’anima in pace e riportare la realtà delle opinioni più diffusi nella popolazione.

Certo, a leggere l’articolo con cui sono stati presentati i dati sembra di leggere un lamento propagandistico, tipico di chi non si capacita come sia possibile che la gente comune non voglia alimentare le mire di potenza di un imperialismo europeo, che sa di doversi dotare di un esercito per muovere guerra dove serve. E un nucleo lo ha già approvato.

Ma i numeri rimangono numeri. Nel 2022, quando le sirene dell’allarmismo atlantista sul pericolo russo erano sulla cresta dell’onda, il 57% degli italiani era favorevole alla formazione di un esercito europeo, il 4% era indeciso e gli intervistati rimanenti erano contrari. Oggi, questa proporzione si è ribaltata, e i dubbiosi sono spariti.

Dice Repubblica che solo il 48% degli italiani vuole l’esercito europeo, “poco meno di quanti, al proposito, manifestano dissenso”. Che è un bel giro di parole per evitare di scrivere chiaro e tondo che il restante 52%, ovvero la maggioranza della popolazione, non vuole tale follia bellicista, utile solo a proiettare Bruxelles sui teatri di guerra che vanno moltiplicandosi.

C’è poi un altro dato interessante. Il grado di fiducia verso la UE è sceso al 30%, il valore più basso dal 2016 a oggi, 15 punti percentuali sotto il livello raggiunto a inizio di questo decennio. Ovviamente, la responsabilità viene addossata all’incapacità dei paesi europei di muoversi come un sol corpo in uno scenario internazionale in cui Washington ha squarciato l’illusione dell’unità euroatlantica.

Non viene in mente che parte della sfiducia sia derivata proprio dal fatto che, seppur nell’evidente inconsistenza delle sue posizioni, in molti abbiano visto con preoccupazione la crescente deriva bellicista di Bruxelles e la copertura dei più efferati crimini, come quelli commessi da Israele. La retorica del ‘giardino’ contro la ‘giungla’ si è rivelata un bluff.

Così come, per ciò che riguarda l’entusiasmo per un esercito europeo, una volta che la propaganda iniziale sulle sorti progressive di una UE armata fino ai denti hanno adombrato una reale partecipazione a un conflitto, come ad esempio per le basi USA in Italia in occasione del recente attacco all’Iran, allora le opinioni sull’importanza di indossare un elmetto per ‘esportare democrazia’ sono cambiate.

Infine, è utile sottolineare che il sostegno maggiore all’esercito europeo arriva dai giovani. Ma se si va a vedere come tale sostegno si divide tra le forze politiche emerge un elemento particolare: per lo più si osserva tra coloro che sono vicini ai partiti di centro-sinistra.

Innanzitutto, com’era forse scontato, tra i guerrafondai di +Europa, Azione e Italia Viva. Ma vengono poi i simpatizzanti del PD e di AVS. Il sostegno scende fra i sostenitori dei partiti di governo, e tra la base del 5 stelle. La posizione di Conte, che dice di essere contro il riarmo ma per la razionalizzazione delle spese militari attraverso una difesa europea, comincia a scricchiolare.

Quello che è certo è che, in generale nel paese, si aprono ancora più opportunità per chi vuole rappresentare una reale opposizione alla guerra, e agli strumenti che, per prepararsi ad essa, la UE sta mettendo in campo.

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Dalla guerra “devastante” alla “pace subito”. Che succede?

Alle 6:00 di questa mattina USA e Iran hanno fatto partire una “tregua” di 12 ore, successivamente definita “illimitata”. Cui dovrebbe seguire, secondo i comunicati della Casa Bianca, una “pace” tra i due paesi.

È in qualche modo sorprendente che questo annuncia segua di poche ore la raffica di missili lanciati da Tehran contro una base militare USA in Qatar come risposta al bombardamento con ordigni bunker-buster dei siti nucleari iraniani.

E non è finita qui. Donald Trump, nel corso di un’intervista esclusiva a Nbc News, ha affermato che anche la guerra tra Israele e Iran è finita. Alla domanda su quanto durerà la tregua, il presidente americano ha risposto: “Durerà per sempre”, lanciandosi poi nel solito bla bla di panna montata sulle proprie virtù. È un “grande giorno per l’America” e un “grande giorno per il Medio Oriente”, “sono molto felice di essere riuscito a portare a termine l’opera”.

Alla domanda se la guerra fosse completamente finita, ha risposto: “Sì. Non credo che si spareranno mai più”. Di lì a minuti, come risposta all’ennesimo raid israeliano contro il proprio territorio, Tehran ha fatto partire un’altra ondata di missili che hanno raggiunto Haifa, Tel Aviv, Beer Sheba.

Un funzionario iraniano ha comunque confermato alla Reuters che Teheran ha accettato il cessate il fuoco.

“Al momento non esiste alcun ‘accordo’ su un cessate il fuoco o una cessazione delle operazioni militari, tuttavia a condizione che il regime israeliano cessi la sua aggressione non abbiamo intenzione di continuare la nostra risposta”, ha confermato poi su X il ministro degli Esteri iraniano Abbas Araghchi.

“Come l’Iran ha ripetutamente chiarito: Israele ha dichiarato guerra all’Iran, non il contrario”, scrive ancora Araghchi specificando che “la decisione finale sulla cessazione delle operazioni militari” di Teheran “verrà presa in seguito e a condizione che il regime israeliano cessi la sua aggressione illegale contro il popolo iraniano” entro stamattina.

Per ora, silenzio ufficiale da Israele che, se l’annuncio trumpiano venisse seguito da fatti coerenti, sarebbe il vero sconfitto questa svolta.

Qualcosa si era intuito dalle “stranezze” dell’attacco USA su Natanz, Fordow ed Esfahan. Quei buchi “troppo piccoli” per essere stati creati dalla bombe GBU-57, l’assenza di fughe radioattive, i camion che nei giorni precedenti facevano la spola dalle basi probabilmente per allontanare le componenti essenziali dei laboratori, ecc.. 

Tutti elementi che avevano portato a definire “telefonato” l’attacco americano, anche tramite una vera e propria chiamata per avvertire e circoscrivere il significato politico del bombardamento.

La stessa cosa è apparsa chiara ieri sera a proposito della risposta iraniana contro le basi USA in Qatar, confermata peraltro dallo stesso Trump: “Voglio ringraziare l’Iran per averci avvisato tempestivamente, il che ha permesso di non perdere vite umane e di non ferire nessuno. Forse l’Iran può ora procedere verso la pace e l’armonia nella regione e incoraggerò con entusiasmo Israele a fare lo stesso”.

Messa così, par di capire che ci sia stato uno scontro piuttosto serio dentro l’establishment statunitense tra il vecchio “deep state” neocon (quello che accomunava repubblicani e “dem”, Bush, Biden, Obama, Clinton) e il “nuovo sceriffo in città” (definizione data dal vice presidente Vance), ovvero il mondo “Maga” (Make America great again”). Ossia tra chi pensa di ristabilire l’egemonia statunitense a forza di guerre una dietro l’altra e chi pensa di riuscirci agendo soprattutto su altri terreni (dalle guerre commerciali con i dazi alle trattative con la pistola in pugno). Stesso fine imperiale, mezzi in parte diversi.

Due risposte diverse alla crisi – entrambe squilibrate e sature di rischi – che avrebbero trovato un momento di “compromesso” spedendo – sì – i bombardieri strategici B-2 sull’Iran (come chiedeva Israele, non in grado di condurre attacchi abbastanza rilevanti a grande profondità), ma senza dare il via a una guerra prolungata che avrebbe inevitabilmente costretto Russia e Cina a sostenere in vario modo Teheran, attaccata chiaramente per disgregare il progetto Brics+.

Il convitato di pietra resta Israele, in preda ad un delirio millenaristico genocida. Ma basteranno poche ore per chiarire se anche lì si è fatto strada un atteggiamento più realistico – la quantità di missili iraniani intercettati diminuiva di giorno in giorno, a riprova del rapido venir meno delle “munizioni” per lo scudo Iron Dome – oppure se verrà scelta l’antica strada di Sansone e Masada.

Ore 9:00. Israele ha accettato il cessate il fuoco con l’Iran proposto dagli Stati Uniti affermando di aver raggiunto i propri traguardi e di aver eliminato la doppia minaccia costituita dalle armi nucleari e missilistiche iraniane.

In pratica, ognuno può dire di aver vinto, anche se questa volta non ha vinto nessuno (tranne per i media più servili del mondo, a partire dal Corriere e Repubblica, ridotti a megafono delle vanterie del Mossad).

È semplicemente illogico, infatti, che se Israele fosse stato davvero sul punto di vincere avrebbe chiesto tanto insistentemente l’intervento diretto USA. O che si sarebbe accontentato di un intervento “recitato e telefonato”, dai dubbi risultati operativi, e condotto di concerto con Teheran in modo tale che nessuno si facesse davvero male.

Di fatto, perciò, non è neanche davvero una “pace”, ma una sospensione dalla durata incerta. Che verrà rotta da USA e Israele alla prima scusa utilizzabile... 

Certo che quella dell'“atomica iraniana quasi pronta, massimo quindici giorni”, ormai su piazza da quasi venti anni sarà ancor meno credibile. Ma verrà utilizzata lo stesso, non essendocene altre...

(In aggiornamento)

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Un “attacco devastante” per chiedere il cessate il fuoco...

Districarsi nella propaganda di guerra è sempre difficile, ripetiamo. Specie quando ci sono in azione veri professionisti della falsificazione come l’Hasbara israeliano e gli sceneggiatori prestati da Hollywood.

Però al momento la ricostruzione più attendibile del film dell’attacco statunitense ai siti nucleari iraniani sembra la seguente.

Abbiamo il livello pubblico, affidato a un sistema mediatico che ha smesso da decenni di farsi domande e ripete a pappagallo – con contorno di interviste ad “esperti” pescati proprio nei “giri giusti” della Nato o dell’Idf – ogni velina emanata dai governi di Washington e Tel Aviv.

Secondo questa facciata ufficiale, e con le parole di Trump, i tre siti di Fordow, Esfahan e Natanz sarebbero stati oggetto di un “attacco devastante” che avrebbe di fatto cancellato il programma iraniano di nucleare civile (quello militare, come spiegato dagli scienziati e persino da quel poco di buono di Rafael Grossi, alla guida dell’Aiea, non è mai stato al livello di produrre un ordigno nucleare).

Stabilito questo “successo spettacolare” si è passati in un attimo – all’interno delle stesse frasi – all’offerta di “pace”. La cosa più sorprendente è stata semmai l’adesione di Netanyahu a questa “visione”, con il quotidiano israeliano Yedioth Ahronoth che, citando funzionari israeliani, afferma: “Accetteremo un cessate il fuoco domani se Khamenei annuncerà di volerlo”.

Non serve un professore di retorica per capire che Israele sta chiedendo un cessate il fuoco ma si pretende che sia l’Iran a farsene promotore. E in effetti proporlo in prima persona rovinerebbe sia la “narrazione trionfale” sull’attacco statunitense, sia l’immagine stessa di Netanyahu-Terminator.

Col passare delle ore, tra l’altro, la sceneggiatura hollywoodiana comincia a mostrare qualche smagliatura. L’Aiea – composta da centinaia di scienziati perbene, anche se la guida “politica” è stata affidata a un servo – fa il suo dovere verificando che intorno ai siti bombardati non c’è traccia di aumento della radioattività.

Il che contraddice platealmente, quanto meno, la dimensione “devastante” degli attacchi. Se scarichi più bombe da una tonnellata e mezzo su dei laboratori nucleari, infatti, è fisicamente impossibile che nemmeno qualche particella radioattiva finisca in atmosfera (anche se le esplosioni sono avvenute in profondità, infatti, c’è pur sempre il tunnel aperto dalle bombe a fare da “camino”).

A quel punto il facente funzioni di segretario alla Difesa Usa, l’improbabile Pete Hegseth, se ne esce in conferenza stampa con la serena affermazione che l’operazione “ha avuto l’effetto desiderato” (anche se a questo punto è incerto quale sia), mentre il capo di stato maggiore, generale Dan Caine (quello che faceva le corna nella situation room), afferma che è “troppo presto” per stabilire se l’Iran abbia ancora capacità nucleari.

I “danni monumentali” vantati da Trump, insomma, potrebbero anche essere solo robetta. Ma non lo sa nessuno, a Washington... E se guardiamo alla tecnica usata a proposito dei dazi sulle importazioni, qualche dubbio in effetti sorge.

Nel frattempo un discreto numero di analisti si concentra sulle foto satellitari diffuse dal Pentagono sui siti prima e dopo l’attacco. Qualcuno, scrutando i sei “buchi” creati nel terreno a Fordow, li misura e afferma che sono troppo piccoli per essere stati davvero provocati dalle gigantesche bombe bunker-buster GBU-57. Il paragone con gli effetti di quelle israeliane sganciate sul rifugio di Nasrallah, a Beirut, è impietoso...

Altri segnalano altre foto dove – nelle stesse ore in cui Trump faceva i suoi giochini “deciderò entro due settimane se attaccare o no” e “ho già dato gli ordini” – si vedono decine di autocarri con cassone ribaltabile che svolgevano “attività insolite” a Fordow due giorni prima dell’attacco.

Il che combacia invece perfettamente con la versione di Tehran: “avevamo trasferito il materiale strategico altrove e da tempo”. E del resto che Israele volesse distruggere i siti nucleari iraniani è risaputo da decenni... 

La coincidenza temporale con la sceneggiata trumpiana spinge così gli analisti più “complottisti” ad ipotizzare che l’attacco sia stato “telefonato” in senso letterale. Con un preavviso di circa 48 ore... 

L’elemento che resta sullo sfondo è comunque il vero cuore della questione. Perché Israele sembra accettare questa narrazione e si spinge a chiedere – sia pure obliquamente, come detto – un “cessate il fuoco” dopo aver aperto le ostilità con un attacco a tradimento e non provocato?

Qui i misteri non ci sono. I danni provocati dai missili iraniani sono così rilevanti da non poter più essere nascosti nemmeno dagli specialisti dell’Hasbara. Palazzi sventrati, intere strade bloccate dalle macerie, cittadini che litigano per non farne entrare altri nei rifugi, laboratori segreti colpiti duramene (rilevante il Weizmann Institute of Science di Rehovot, parte dell’infrastruttura di sicurezza nazionale israeliana, specializzato nella guerra biologica, ecc.).

Perfino l’Idf ha dovuto ammettere che il tasso di intercettazione dei missili iraniani è sceso molto negli ultimi giorni (dichiarano dal 90 a 65%, che appare comunque trionfalistico), a conferma di problemi di rifornimento per le batterie dell’Iron Dome, ormai a corto dei costosissimi missili anti-missile forniti dagli Usa.

È la conferma dei limiti strutturali della “potenza militare” israeliana, abile nell’offensiva terroristica (dai cercapersone usati contro Hezbollah ai droni stoccati per anni all’interno dell’Iran, ecc.), feroce negli attacchi aerei fulminei, ma non in grado di reggere una “guerra d’attrito”, su tempi medio lunghi, contro un paese comunque industrialmente avanzato e oltre 10 volte più popoloso. Come l’Iran.

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Il Consiglio di Sicurezza dell’Onu diviso sugli attacchi statunitensi contro l’Iran

Nella giornata di ieri, Russia, Cina e Pakistan, insieme ad altri membri del Consiglio di Sicurezza, hanno fatto circolare una bozza di risoluzione che chiede un “cessate il fuoco immediato” in Iran. Il testo “condanna con la massima fermezza gli attacchi contro siti e strutture nucleari pacifiche”.

Ma il Consiglio di Sicurezza si è diviso, con altri membri come Francia e Gran Bretagna che hanno chiesto invece all’Iran di esercitare moderazione. In una dichiarazione congiunta di domenica, la Francia e la Gran Bretagna hanno esortato l’Iran – ma non Israele e Stati Uniti – a non intraprendere alcuna azione che possa destabilizzare ulteriormente la regione.

Israele ovviamente ha salutato gli attacchi statunitensi contro l’Iran mentre Teheran li ha duramente condannati.

Il capo delle Nazioni Unite Antonio Guterres ha affermato che gli attacchi americani alle principali strutture nucleari iraniane hanno segnato una “svolta pericolosa” nella regione. “Ho ripetutamente condannato qualsiasi escalation militare in Medio Oriente”, ha detto il segretario generale. “La gente della regione non può sopportare un altro ciclo di distruzione. Eppure, ora rischiamo di cadere in una fossa di rappresaglie dopo ritorsioni”. 

Parlando al Consiglio di Sicurezza in collegamento video, il direttore dell’Aiea, Rafael Grossi, ha detto che c’erano crateri visibili nell’impianto nucleare iraniano di Fordow, ma ha osservato che nessuno era stato in grado di valutare i danni sotterranei. Ha aggiunto che “gli attacchi armati contro gli impianti nucleari non dovrebbero mai aver luogo e potrebbero provocare rilasci radioattivi con gravi conseguenze all’interno e all’esterno dei confini dello Stato che è stato attaccato”.

Il rappresentante dell’Iran, Amir Iravani, ha criticato il “barbaro assalto” contro l’Iran, dicendo che “la storia non dimenticherà questi tragici giorni”, identificando l’Iran come uno “stato amante della pace” e “non nucleare” e Israele come un “regime criminale”.

Iravani ha detto che “il criminale di guerra ricercato a livello internazionale Netanyahu è riuscito a dirottare la politica estera degli Stati Uniti, trascinando gli Stati Uniti in un’altra guerra costosa e infondata”.

“L’Iran si riserva il suo pieno e legittimo diritto, ai sensi del diritto internazionale, di difendersi da questa palese aggressione degli Stati Uniti e del suo delegato israeliano. I tempi, la natura e la portata della risposta proporzionata dell’Iran saranno decisi dalle sue forze armate”, ha detto il rappresentante iraniano all’Onu.

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23/06/2025

Space sweepers (2021) di Jo Sung-hee - Minirece

Missili iraniani sulle basi militari Usa in Medio Oriente. Il conflitto si allarga

Oggi pomeriggio intorno alle 18:40 l’Iran ha lanciato una serie di missili contro le basi militari statunitensi in Qatar e Iraq come risposta ai raid Usa avvenuti nella notte tra sabato e domenica.

Pochi minuti prima degli attacchi il Qatar, preavvisato dall’Iran, ha annunciato la chiusura temporanea dello spazio aereo. Almeno sei missili pare abbiano colpito la base americana di Al-Udeid nel quadro di una operazione militare definita come “Promessa per la vittoria”. La difesa aerea è stata attivata in diverse basi Usa nella regione.

La base militare di Al-Udeid ospita circa 10.000 soldati e funge da quartier generale regionale del Comando centrale degli Stati Uniti (CENTCOM).
Il CENTCOM dirige le operazioni militari statunitensi in tutto il territorio che si estende dall’Egitto al Kazakistan.

Almeno 10 missili sono stati lanciati verso il Qatar dall’Iran e almeno un missile è stato lanciato verso l’Iraq, secondo un rapporto di Axios.

Il Consiglio di sicurezza nazionale iraniano ha dichiarato che le sue operazioni militari sono “libere da qualsiasi minaccia o pericolo per il paese amico e fraterno del Qatar e il suo popolo”. Il Qatar ha chiesto l’immediata cessazione di tutte le azioni militari e un serio ritorno al tavolo dei negoziati e al dialogo. “Il Qatar si riserva il diritto di rispondere direttamente in proporzione alla forma e alla portata del flagrante attacco e in conformità con il diritto internazionale”, ha detto il ministero degli Esteri.

Il corpo delle Guardie rivoluzionarie islamiche (Irgc) ha dichiarato che è in corso un’operazione congiunta con l’esercito iraniano, denominata Bashar al-Fatah, in risposta all’aggressione militare statunitense. I missili hanno preso di mira il quartier generale dell’Aeronautica militare statunitense, definito da Teheran “la più grande risorsa strategica dell’esercito nella regione dell’Asia occidentale”.

Sono state segnalate esplosioni anche in Iraq e le sirene hannosuonato anche nelle basi militari americane in Bahrain e Kuwait. La Reuters ha riferito che le autorità del Bahrein hanno dichiarato di aver temporaneamente chiuso il loro spazio aereo, tra i timori di una ritorsione iraniana per gli attacchi statunitensi.

Le notizie sono in evoluzione. Seguiranno aggiornamenti.

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Le due manifestazioni contro la guerra ci dicono cose importanti

Le due manifestazioni contro il riarmo e la guerra che hanno sfilato nelle strade di Roma sabato scorso, inducono a qualche considerazione utile per il presente e per il futuro.

Nel paese c’è una forte sensibilità contro le minacce di guerra che incombono nelle relazioni internazionali e nella tenuta democratica del “fronte interno”. Come questa sensibilità troverà la strada per darsi rappresentanza politica nel paese è ancora una incognita e una sfida tutta aperta.

La partecipazione di massa, niente affatto scontata ma visibile a tutti, rende superflua ogni guerra di cifre tra le due manifestazioni, anche perché i due cortei hanno indicato una composizione sociale – oltre che piattaforme e prospettive politiche – diverse tra loro.

La composizione sociale del corteo partito da Porta San Paolo non è andata oltre i soggetti tradizionali dell’associazionismo, del terzo settore, dei sindacati concertativi e di qualche residuale partito e realtà della sinistra radicale. Una composizione vista e ripetuta nel tempo che ripropone un consueto perimetro sociale, politico e culturale che si riproduce ma non si espande.

Quasi spontaneamente emerge la domanda su come dovrebbero sentirsi le migliaia di persone che, generosamente e magari dopo aver viaggiato per centinaia di chilometri, hanno partecipato alla manifestazione partita da Porta San Paolo con vagonate di buone ragioni, ma che poi hanno visto la gestione politica delle stesse ragioni affidata quasi esclusivamente alle dichiarazioni dei vari Conte, Bonelli, Fratoianni. Per chi non ha un rapporto fideistico o stipendiale con tali leadership non deve essere proprio un piacere.

Dentro lo schema bipolarista che il sistema politico intende imporre come una gabbia alla dialettica politica nel paese, non c’è stato e non ci sarà spazio alle loro ragioni ma solo per quelle previste da tale schema.

Si fa invece francamente fatica a sorvolare sull’opportunismo di settori “di movimento antagonista” che, con una subalternità disarmante, hanno scelto di essere in quella piazza e in quella composizione sociale, dalla CUB che il giorno prima sciopera con i sindacati di base e il giorno dopo va in piazza con quelli concertativi, ai vari gruppi o collettivi ultracomunisti che pensano sempre di poter influenzare le piazze di altri ma ne vengono sempre e sistematicamente risucchiati.

Portare uno striscione contro la Nato o avere l’uscita dalla Nato come tema della piattaforma è cosa ben diversa e non produce certo risultati duraturi sul piano dell’orientamento e dell’azione politica.

Ancora una volta, dunque, vediamo zero spazio per l’autonomia dei movimenti contro la guerra, degli uomini e donne che li animano materialmente e un tentativo di ferreo controllo da parte della “politica”, un controllo visibile oggi per essere giocato domani sul piano elettorale per il campo largo e, se possibile, di governo.

Un destino amaro, ma che tale rimarrà, se non emergeranno nuove ipotesi di spazio ed espressione politica, sui temi della guerra e della pace sicuramente, ma anche più complessivamente sugli assetti politico-sociali del paese.

Diversamente la manifestazione partita da Piazza Vittorio ha mostrato materialmente un blocco sociale possibile e alternativo, fatto visibilmente di studenti, lavoratori, realtà sociali di lotta. Dagli occupanti delle case ai lavoratori della logistica, delle fabbriche, della ricerca e del Pubblico Impiego fino ai camionisti organizzatisi recentemente in modo indipendente con l’USB; e poi gli studenti di Cambiare Rotta, di OSA e del CAU fino alle strutture locali di Potere al Popolo, ai NO TAV e a molti altri comitati territoriali.

Da qui è derivata non solo la maggiore vivacità, combattività e nuova anagrafe politica del corteo ma anche la possibilità di una nuova composizione sociale e politica alternativa e indipendente dallo schema bipolare che si vorrebbe imporre.

Una condizione, questa, importante per costruire una prospettiva indipendente ma radicata nel complesso tessuto sociale, rifiutando il politicismo imperante a sinistra e mirando ad allargarsi alla nuova composizione di classe maturata nel paese.

Lo stesso sciopero generale del 20 giugno ha dimostrato come la realtà stessa stia producendo una politicizzazione della lotte sindacali suscitando tra i lavoratori una crescente attenzione e presa di coscienza sui pericoli di guerra e i danni derivanti dall’economia di guerra.

D’altra parte l’aggressione statunitense all’Iran, avvenuta nella notte tra il 21 ed il 22 giugno, è talmente grave e foriera di sviluppi drammatici per tutti, anche per il nostro paese, che potrebbe incrinare quella passività che da troppo tempo è stata ideologicamente assorbita dal mondo del lavoro. Lo sciopero del 20 si è posto appunto su questo crinale della contraddizione in antagonismo ai sindacati complici.

È una condizione nuova e di enorme interesse ma che, appunto, deve trovare all’appuntamento organizzazioni sindacali e ragionamenti come quelli messi in campo dall’USB e non comunicati formali che non si trasformano mai in azioni coerenti.

Le contraddizioni della realtà stanno infatti producendo condizioni nuove che lasciano intravedere un blocco sociale possibile da mettere in campo contro i governi e gli apparati che stanno portando l’umanità di nuovo dentro il gorgo del riarmo e della guerra.

La piena riuscita della manifestazione del Coordinamento Disarmiamoli del 21 giugno ci restituisce un ottimo risultato ma anche stimoli e indicazioni utili per il prossimo futuro.

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