Almeno una volta ogni quindici giorni il piccolo mondo ipocrita dei “democratici per il genocidio e la Terza guerra mondiale” scopre che Trump, in fondo, è ancora dei “nostri”. Degli euro-atlantici, insomma, anche se “ci” fa penare con ‘sta storia dei dazi, la fissazione degli immigrati, il disprezzo per i contrappesi costituzionali e il conflitto di interessi, l’atteggiamento verso il mondo Lgbtq ecc., le università più prestigiose e via elencando.
Basta poco per farlo rientrare tra “i nostri”: armare l’Ucraina e prolungare la guerra. Tutto qui? Tutto qui...
Un’occhiata ai giornali mainstream conferma pienamente questa certezza – temporanea, per carità – e la folla dei “Rambini” (con o senza bretelle) si sbraccia per festeggiare il ritorno dell’America.
Si sa che The Donald vorrebbe metter fine a quelle due guerre che doveva chiudere in 24 ore e dopo sei mesi stanno ancora lì, ad intralciare il suo vero obiettivo strategico (“Make America great again”) a colpi di ricatti per imporre accordi commerciali squilibrati che portino soldi per contenere il debito pubblico statunitense.
Ma da un lato si ritrova Netanyahu, che vuole completare il genocidio con il suo consenso in modo da rendere “meritata” la candidatura a premio nobel per la pace (la minuscola è d’obbligo...), dall’altra una Russia che non vuol saperne di accordicchi che riproducono i pasticci di Minsk I e II. Ovvero che lasciano aperta la possibilità di ricostruire l’Ucraina come potenza militare delegata a “premere” su Mosca – anche se quasi soltanto con iniziative terroristiche magari dolorose, ma di nessuna valenza strategica.
Perciò ogni tanto ecco il mondo Maga fare un piccolo e temporaneo passo indietro verso la visione guerrafondaia “neocon” – comune a “democratici” e “repubblicani classici” alla Bush –, mostrarsi “deluso” da Putin e riaprire il flusso di armi verso Kiev.
Ad uno sguardo più attento, però, nella pratica la “svolta” è meno radicale delle parole (un classico dello stile trumpiano, del resto). In realtà il boss della Casa Bianca non ha specificato quali dispositivi verranno inviati, parlando genericamente di “alcune armi”, per giunta “difensive”.
Una specificazione che probabilmente si riferisce a qualche batteria di Patriot anti-missile e poco altro, più che altro un gesto pubblicitario per far scendere la pressione neocon (con effetto immediato, sui media di quell’area). In definitiva, però, non si tratta di nuovi pacchetti di armi approvati dal Congresso, ma piuttosto di una ripresa graduale del vecchio accordo firmato da Biden e ormai agli sgoccioli.
Anche perché – come riporta non solo l’inglese Guardian – il Pentagono dispone attualmente solo del 25% dei Patriot necessari per la difesa Usa. Ucraina e Israele hanno insomma svuotato i magazzini degli States, e non è così semplice ripianare le scorte (anche perché si tratta di armi costose e dai tempi di fabbricazione piuttosto lunghi).
In dettaglio: Lockheed Martin, l’unico produttore di missili PAC-3 MSE, ne ha prodotte solo 500 unità l’anno scorso. Un nuovo contratto mira ad aumentare la produzione a 650. Poca roba rispetto ai 3.376 mancanti nella “pianta organica”.
Qualcosa a Kiev arriverà, insomma, ma quanto basta a far placare le polemiche interne, non certo a cambiare l’andamento della guerra sul campo. Tanto meno a garantire a Kiev capacità “offensive” aggiuntive.
Dall’altra parte, in Russia, nel frattempo, si vanno costruendo nuove fabbriche di droni “economici” ma non per questo meno efficaci, in modo da permettere nuovi “record” di attacchi in contemporanea. Cosa che – come dimostrato anche dall’Iron Dome israeliano durante la “guerra dei 12 giorni” con l’Iran – rende le difese anti-missile numericamente inferiori ed economicamente insostenibili sul medio periodo.
Una situazione che, come si capisce facilmente, non è cambiata di molto, anche se le parole sembra disegnare una “svolta”. Ma dal poco che basta per risollevare il morale dei guerrafondai “democratici” si comprende il grado di disperazione cui sono arrivati...
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