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05/04/2025

La zona (2007) di Rodrigo Plá - Minirece

La piazza operaia dell’USB denuncia l’emergenza salari e dice no al riarmo

Quando dal palco dell’Usb di piazza SS Apostoli ha preso la parola la madre di Patrizio Spasiano, giovanissimo operaio “morto sul lavoro” perché investito di ammoniaca, tutti hanno compreso che oltre a quelle oltre i confini c’è una guerra interna che fa centinaia di vittime ogni anno: quella sul lavoro, contro la quale i governi recalcitrano, la politica latita e i lavoratori muoiono.

L’assemblea operaia in piazza convocata da tempo dall’Unione Sindacale di Base sull’emergenza bassi salari e lavoro povero – oltre che sul no al riarmo – ha inteso mettere al centro dell’attenzione una questione diventata decisiva per milioni di lavoratrici e lavoratori.

I bassi salari in Italia sono adesso rilevati un po’ da tutti come problema – dai centri studi alle istituzioni preposte – ma se ne guardano bene dall’affrontare la questione. E non ci sono solo i salari fermi ormai da decenni in ogni categoria, ci sono anche i salari divorati dal costo degli affitti e dalla speculazione sulla situazione abitativa che erode quantità insopportabili dei redditi da lavoro. E poi ci sono i salari divorati dalle spese sanitarie dove ormai si deve scegliere se pagare i privati per curarsi o rinunciare alle cure stesse.

“Questo trend ci porterà tra quindi anni a quindici milioni di poveri assoluti e a 22milioni di persona in povertà relativa” ha denunciato Guido Lutrario che ha ricostruito sia il crollo che la disparità dei salari dei lavoratori italiani rispetto agli altri paesi.

E dentro questo contesto i governi dell’Unione Europea intendono spendere 800 miliardi per il riarmo e le spese militari dopo che hanno dissanguato con i tagli alle spese e ai servizi, l’austerità e i vincoli di bilancio intere società per decenni. Sta dentro questa contraddizione la forza dello slogan “Abbassate le armi, alzate i salari” che il sindacato da tre anni evoca in tutte le piazze, le manifestazioni, gli scioperi.

Lo hanno denunciato i molti interventi che si sono alternati dal palco dell’Usb in piazza SS Apostoli. Abbiamo ascoltato intervenire lavoratori e delegati di servizi ormai strategici come i trasporti e la logistica, protagonisti degli scioperi di questi mesi. E poi le fabbriche come la Jabil e i portuali, i dipendenti pubblici e della scuola e quelli ultraprecarizzati delle cooperative sociali e dei multiservizi, gli inquilini che resistono agli sfratti e i movimenti per il diritto all’abitare, i lavoratori della sanità taglieggiati e imbrogliati dalla politica che li ha chiamati eroi nell’emergenza pandemica e poi gli riserva salari e condizioni di lavoro impossibili.

“Perchè i lavoratori dovrebbe essere coinvolti in una guerra che è solo un aspetto della competizione capitalista” è stato dichiarato nelle conclusioni dal palco da Cristiano Fiorentini. Una asserzione che ribadisce che la funzione di un sindacato confederale e conflittuale è quello di difendere gli interessi dei lavoratori ma con questi anche quelli dell’umanità.

Qui sotto tutti gli interventi dell’assemblea operaia in piazza SS Apostoli dell’Usb


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Migliaia di persone in piazza con il M5S contro il riarmo

Il colpo d’occhio restituisce l’immagine di una manifestazione pienamente riuscita. Almeno 70mila persone (80 mila secondo fonti vicine al M5S) hanno sfilato nel corteo promosso dal M5S da Piazza Vittorio a via dei Fori Imperiali riempiendola da Piazza Madonna di Loreto, dove era stato allestito il palco, fino a largo Corrado Ricci. Si tratta indubbiamente di una delle manifestazioni più grandi degli ultimi anni, che ha surclassato nei numeri quella eurosuprematista di Piazza del Popolo di venti giorni fa.

Gli striscioni di apertura recitano “No al riarmo”; “Basta soldi per le armi, fermiamoli”. È una manifestazione decisamente popolare, con una fortissima presenza di persone venute dal Meridione, a conferma che gran parte dell’insediamento sociale del M5S rimane nel Sud. Ma anche sul piano anagrafico e sociale è ben diversa da quella “europeista” di Serra e La Repubblica. Ci sono molti adulti ma sicuramente meno anziani e benestanti di quelli visti in Piazza del Popolo. Possiamo dire che c’era popolo, anzi “un popolo”, quello pentastellato che ha dato una prova di forza.

La riuscita della manifestazione è indubbiamente un segnale che va messo al positivo, a conferma che nel paese l’opposizione alla guerra e al riarmo ha una sua base di massa che deve trovare una espressione politica, e al momento questa viene individuata nel M5S.

In una netta predominanza di bandiere M5S, tante anche quelle arcobaleno per la pace, nel corteo hanno sfilato i vari spezzoni del movimento. Uno di questi canta Bella Ciao e grida slogan come “fuori i fascisti dallo Stato”.

Più indietro un camioncino diffonde le note di “Give peace a chance” di John Lennon. Colpisce l’articolazione di striscioni e spezzoni su gruppi territoriali di città grandi e piccole, segno che il M5S si è lasciato alle spalle i meetup per strutturarsi sul territorio in modo più stabile. Come dicevamo c’è molto Meridione ma anche lo spezzone M5S della Lombardia era bello nutrito, mentre a chiudere il corteo c’era quello del Friuli.

Sfilano anche le realtà esterne al M5S che hanno scelto di essere in piazza. Il Fronte del Dissenso con uno striscione che invoca “Pace con la Russia, viva la resistenza palestinese”. E poi lo spezzone di Rifondazione Comunista con una grande bandiera della pace e lo striscione “Fuori la guerra dalla storia”. Il PRC questa volta ha fatto uno sforzo con uno spezzone dignitoso, assai più striminzito quello dei Giovani Comunisti.

Sfila poi un bandierone della Palestina a compensare la scarsità di bandiere palestinesi nel corteo, sopperita però da molti slogan come Free Palestine in molti spezzoni anche del M5S. Pochissime – e per fortuna – le bandiere europee anche se una ha continuato a sventolare fastidiosamente davanti all’ex presidente della Camera Roberto Fico mentre interveniva dal palco.

Dal palco del M5S è intervenuto Favio Lotti, organizzatore della marcia per la Pace Perugia-Assisi ma che era presente (non sul palco) anche nella manifestazione eurosuprematista di Piazza del Popolo dello scorso 15 marzo.

Striminzito il gruppo di Avs, poche bandiere e poca gente, praticamente una delegazione più che una partecipazione convinta alla manifestazione. Così come il Pd, senza bandiere ovviamente, che ha inviato una delegazione di parlamentari guidata dal capogruppo Boccia.

“Sono contento che le forze di centrosinistra siamo tutte qui. Stiamo piantando un pilastro solido e fermo per costruire una alternativa di governo” ha dichiarato il presidente del M5S, Giuseppe Conte.

Sfila lo spezzone di una ottantina di persone dell’area di Multipopolare/Ottolina Tv che ha investito molto su questa manifestazione. “Tutti a casa” è il refrain, ma si sente più chiaro e forte il sempreverde – e sempre attuale – “Fuori l’Italia dalla Nato, fuori la Nato dall’Italia”. E poi ancora gruppi territoriali del M5S. Colpisce un cartello “Alziamo la testa in Calabria”.

Più indietro ancora c’è lo striscione bilingue “Il popolo russo non è mio nemico”.

Dopo è tutto un continuum di gruppi territoriali del M5S fino a quello friulano che chiudeva il lungo corteo.

Sul piano politico una domanda ci ha ronzato nella testa mentre ci sfilava davanti un grande corteo: ma questa forza non era il caso di gettarla nello scontro politico anche quando il governo ha abolito il reddito di cittadinanza? Era una misura-simbolo del M5S ed era una misura sociale universale contro la povertà dilagante. La prova di forza dimostrata oggi forse ha mancato ad un appuntamento significativo sul piano sociale, quello che in un certo senso veniva indicato come prioritario – insieme al no al riarmo – dalla assemblea operaia dell’Usb nella vicinissima Piazza SS Apostoli (su questo vedi l’articolo in altra parte del giornale).

In secondo luogo la presenza della delegazione del PD alla manifestazione e l’apertura di Conte sulla futura coalizione di governo dichiarata ai giornalisti alla partenza del corteo, ripresentano per il futuro lo stesso incubo della gabbia del bipolarismo degli anni di Prodi e dei governi di centro-sinistra, una gabbia che ha stritolato e annichilito ogni alternativa in nome delle compatibilità, risucchiandone e disgregandone le forze politiche che intendevano rappresentarla. I danni e i costi li stiamo ancora pagando tutti.

La fretta e la superficialità con cui varie forze della sinistra di classe e alternativa si sono gettate nella manifestazione del M5S di oggi, non è un buon segnale sul futuro ma un indicatore di subalternità. Certo la lotta contro la guerra è una priorità e le convergenze per ingaggiarla con successo sono necessarie. Ma è necessario anche darsi delle coordinate ben definite per gestire i vari passaggi e le interlocuzioni delle mobilitazioni. Le manifestazioni, anche quelle riuscite, passano, ma senza prospettiva e indipendenza politica poi non si va da nessuna parte. C’è del tempo per ridefinire le coordinate e aprire la discussione, ma occorre cominciare a farlo. Un primo appuntamento è per domenica 13 aprile a Roma.

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Approvato il Decreto Sicurezza. L’Italia è uno stato di polizia

Un presidio era stato chiamato ieri pomeriggio in piazza del Pantheon mentre il Senato con un blitz della destra al governo approvava il Decreto Sicurezza. L’iniziativa era stata organizzata dalla “Rete Nazionale a pieno regime” ed aveva chiamato a raccolta movimenti, partiti e sindacati. Presenti alla manifestazione anche esponenti politici di Pd, M5s, Avs, ed anche la Cgil.

Durante la manifestazione contro il Ddl sicurezza, i manifestanti hanno provato ad avanzare in corteo verso i palazzi istituzionali, ma sono stati bloccati dalla polizia che li ha fatti indietreggiare con spintoni e manganellate. Ma alla fine un corteo è riuscito lo stesso a partire dalla piazza.

Il golpe istituzionale compiuto dal governo Meloni, trasformando in Decreto legge il Disegno di legge 1660, indebitamente intitolato alla Sicurezza. In tal modo le destre vogliono dotarsi di più efficace strumentazione repressiva per fronteggiare le crescenti proteste contro il riarmo e la guerra. L’Italia è sempre meno una democrazia e sempre più uno stato di polizia governato da ristrette oligarchie antipopolari e guerrafondaie che devono ricorrere al manganello per imporre le proprie scelte catastrofiche.

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Un nuovo corridoio commerciale tra Pacifico e Atlantico in Messico?

Il primo aprile la presidente del Messico, Claudia Sheinbaum, ha annunciato che è stata completata la prima spedizione transoceanica attraverso l’istmo di Tehuantepec. “È un progetto eccezionale – ha detto la politica – che fornisce un’alternativa al Canale di Panama e, una volta completato, sarà molto più trafficato”.

Lo diciamo subito: notizie e dichiarazioni come queste vanno pesate bene, perché politicamente e giornalisticamente garantiscono molta visibilità, tanto più in una condizione di aperta guerra commerciale come quella in cui ci troviamo oggi, dopo i nuovi dazi statunitensi. Bisogna però capire bene di cosa stiamo parlando.

Il progetto in questione è il Corridoio Interoceanico dell’Istmo di Tehuantepec (CIIT), non una via d’acqua come il Canale di Panama, ma un collegamento su rotaia. Un doppio binario lungo 300 chilometri, attraverso cui treni ad alta velocità dovrebbe connettere i porti di Coatzacoalcos, sull’Atlantico, e quello di Salina Cruz, sul Pacifico.

La spedizione appena conclusa ha riguardato 600 veicoli Hyunday che dall’Estremo Oriente sono passati al Golfo del Messico in 8 ore. Come ha ricordato Sheinbaum, vi sono ancora molti lavori da effettuare al porto di Salina Cruz, così come deve essere potenziata tutta la linea ferroviaria per raggiungere l’obiettivo del passaggio da un oceano all’altro in sole 3 ore.

Il guadagno di tempo previsto rispetto al passaggio per il Canale di Panama ha attirato molto interesse: ricordiamo che per attraversare quella via d’acqua le navi impiegano 8 ore, con tempi di attesa che possono arrivare fino a due settimane. Ma è anche necessario osservare quali sono i lati negativi.

Mentre le navi porta container passano direttamente attraverso il Canale di Panama, le merci che arrivano ai due porti messicani (o a terminali ad essi vicini) devono essere trasferiti sui vagoni, per essere poi nuovamente riportati in container per il trasporto marittimo. Una serie di operazioni non solo complesse quando si tratta di milioni di tonnellate, ma che richiedono anche tempo.

Anche nel caso in cui si possa garantire questo tipo di attività, bisogna poi vedere quanto tonnellaggio può effettivamente passare per il CIIT. Si prevede una capacità intorno alle 300 mila tonnellate al giorno, e dunque, calcolatrice alla mano, ci si può aspettare che per questa nuova via messicana possano passare oltre 100 milioni di tonnellate di merci l’anno.

Può sembrare tantissimo, ed effettivamente lo è, ma non abbastanza da poter sostituire il Canale di Panama, tantomeno da risultare “più trafficato“, come ha detto Sheinbaum. Nel 2021, per il corridoio panamense, sono transitate 516 milioni di tonnellate: anche prendendo a riferimento anni meno eccezionali, parliamo di capacità ben differenti.

Nel 2016 è stato inaugurato il secondo Canale di Panama, parallelo a quello costruito oltre un secolo fa. A realizzare l’immensa opera è stato un consorzio guidato dall’italiana Webuild. Attraverso questo secondo canale, possono ormai passare la maggior parte delle navi per il trasporto marittimo.

Il ruolo insostituibile del percorso panamense è evidente. Possiamo però aggiungere qualche altro elemento che può aiutare a capire come mai il CIIT è un complesso di infrastrutture che va tenuto d’occhio. Non solo, ovviamente, per il fatto di poter comunque assorbire una grossa fetta del commercio mondiale, che forse subirà anche una battuta d’arresto con i dazi di Trump.

Innanzitutto, è interessante perché non è l’unica via che sta venendo posta come alternativa al Canale di Panama, in una fase in cui è netto lo scontro tra Washington e Pechino per il controllo, o almeno il mantenimento di una leva importante su questo snodo fondamentale. La Cina ha stretto importanti accordi col Perù per ciò che riguarda il porto di Chancay.

Il terminale peruviano potrebbe offrire un’importante punto di collegamento tra il mercato cinese e quello dell’America Latina. Allo stesso modo, quello messicano potrebbe svolgere una funzione simile, ma in questo caso è importante fare chiarezza sul fatto di chi, ad oggi, ha mostrato interesse per il CIIT.

La prima spedizione che vi è passata è stata di auto sudcoreane dirette a New York. Nel 2022, l’ambasciatore statunitense in Messico, Ken Salazar, ha espresso grandi aspettative per i progetti che si collegano al CIIT, e lo stesso hanno fatto altri importanti esponenti dell’allora amministrazione Biden.

Il CIIT, infatti, non si concretizza unicamente nel collegamento tra i due oceani. Su questa nuova via si vogliono creare dieci grandi poli industriali, collegandoli poi attraverso il Tren Maya allo Yucatan e attraverso altre infrastrutture anche al Chapas. Non a caso, negli anni questo progetto ha visto una forte opposizione delle comunità zapatiste.

Parliamo di un’ondata di industrializzazione (che porta con sé gasdotti, autostrade, e così via) che vorrebbe approfittare di manodopera a basso costo e importanti risorse naturali. Ciò, per Washington, avrebbe la doppia attrattiva di limitare l’immigrazione messicana e allo stesso tempo di avere un luogo vicino dove operare il reshoring di alcune filiere.

Certo, nel frattempo le contraddizioni del capitale hanno macinato terreno, anche sul piano delle politiche estere. Prima l’ex presidente messicano Obrador ha nazionalizzato il litio del suo paese, poi Trump ha innescato un vero e proprio terremoto con i dazi e ha intrattenuto scambi non pacifici con Sheinbaum.

Ciò significa che il Messico potrebbe considerare più conveniente l’opportunità di cercare non nel paese che confina a nord, ma in altri attori gli investimenti necessari a completare questo pur contraddittorio programma commerciale e industriale. Qui si entra nella “osteria dell’avvenire”, e non ha senso continuare oltre.

E tuttavia, è indubbio che il CIIT esprime una volta di più le forti tensioni della competizione globale e si candida a essere, seppur non a breve termine e sempre che venga portato a termine, come un altro elemento che si inserirà non senza peso nella dinamica di frammentazione del mercato mondiale.

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Istat: pressione fiscale in aumento, redditi e potere d’acquisto in calo

Qualche giorno fa il governo si è vantato dei risultati raggiunti sull’occupazione, anche se è stato piuttosto facile smontare la sua spicciola propaganda che nasconde un modello dilagante di lavoro precario e sottopagato. Ieri, invece, l’Istat ha diffuso dei dati non sorprendentemente passati sotto silenzio.

Infatti, l’istituto di statistica ha certificato che la pressione fiscale nell’ultimo quadrimestre del 2024 è stata pari al 50,6% del PIL, in aumento dell’1,5% rispetto allo stesso periodo del 2023. Calcolandola su tutto l’anno appena trascorso, la pressione fiscale si attesta al 42,6%, rispetto al 41,4% del 2023.

Il dato è dello 0,3% più alto rispetto a quanto scritto nel Piano Strutturale di Bilancio. Qualcosa di cui andrà contenta Bruxelles, ma di certo non qualcosa di cui può andare fiero un governo in cui un po’ tutti non fanno che ribadire la necessità di ridurre le tasse per far ripartire l’economia.

Inoltre, non possono nemmeno giustifica questo aumento della pressione fiscale con l’erogazione di nuovi servizi e l’aumento della spesa pubblica, perché è avvenuto esattamente il contrario. Le entrate del quarto trimestre del 2024 ammontano al 55,4% del PIL, in leggero aumento rispetto allo stesso periodo del 2023.

Eppure, come scrive l’Istat, “per la prima volta dal quarto trimestre del 2019, nel quarto trimestre 2024 le AP [Amministrazioni Pubbliche, ndr] hanno registrato un accreditamento netto a seguito di un sostanziale contenimento della spesa rispetto all’incremento delle entrate”.

Sia il saldo primario (al netto degli interessi passivi) sia quello corrente sono in positivo negli ultimi tre mesi dello scorso anno: segnano un’incidenza sul PIL rispettivamente del 4,1% e del 5,9%. Insomma, piena austerità, mentre l’incertezza e le difficoltà continuano a macinare terreno nella vita di tutti i giorni della maggioranza della popolazione.

Il reddito disponibile delle famiglie è diminuito dello 0,1% rispetto al trimestre precedente e il potere d’acquisto dello 0,6%. Anche la propensione al risparmio è passata dal 9,1% del terzo trimestre all’8,5% del quarto trimestre 2024. Tale riduzione deriva dalla crescita della spesa per consumi finali e dalla flessione del reddito disponibile.

“Il reddito disponibile delle famiglie – scrive l’Istat sul suo sito – è diminuito rispetto al trimestre precedente sia in termini nominali (non succedeva dall’ultimo trimestre del 2020) sia, più marcatamente, in termini reali”. Ci stiamo impoverendo, e ciò impatta pesantemente anche nel momento della spesa.

Infatti, per quanto riguarda i consumi, i dati sulle vendite al dettaglio di febbraio parlano di una stima di un leggero aumento delle vendite in valore (+0,1%), rimaste stazionarie per quanto riguarda il volume. Il che significa che, sostanzialmente, si è speso di più per comprare le stesse cose. Su base annua sono addirittura diminuite, sia in valore sia in volume.

Al solito, l’Unione nazionale consumatori ha denunciato la “cura dimagrante” a cui sono sottoposti gli italiani, soprattutto per quanto riguarda il crollo delle vendite alimentari. Di questo, ovviamente, il governo non fa menzione.

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04/04/2025

Steamboy (2004) di Katsuhiro Ōtomo - Minirece

Trump ha appena graziato... una società?

Tra i numerosi perdoni concessi la scorsa settimana dal presidente Donald Trump a criminali in colletti bianchi, un nome che è largamente sfuggito all’attenzione non apparteneva affatto a una persona.

In quello che potrebbe essere un precedente storico, Trump ha graziato una società. L’azienda a ricevere questo riconoscimento è stata un exchange di criptovalute condannata a una multa da 100 milioni di dollari per violazione della normativa antiriciclaggio.

La mossa ha sorpreso gli studiosi dei perdoni presidenziali, tradizionalmente considerati appannaggio di esseri umani. Diversi esperti interpellati da The Intercept hanno affermato che Trump sembra aver agito nei suoi poteri, ma non erano a conoscenza di precedenti di grazia completa concessa a società.

“Ci sono stati molti casi in cui i presidenti hanno condonato multe, confische o simili”, ha detto Margaret Love, che è stata avvocato per i perdoni presidenziali dal 1990 al 1997. “Per quanto ne so, il presidente non ha mai concesso un perdono completo a una società”.

Un critico di lunga data dell’approccio indulgente del governo federale ai crimini societari ha affermato che il perdono di Trump manda un messaggio pericoloso.

“Mettere sul tavolo i perdoni societari rafforza il potere corrotto e autoritario di Trump sulle aziende”, ha detto Rick Claypool, direttore della ricerca per l’ufficio del presidente del gruppo di difesa dei consumatori Public Citizen. “Questo potrebbe scatenare un frenetico lobbying da parte di qualsiasi società che abbia affrontato azioni federali”.

Il perdono di Trump a HDR Global Trading, proprietaria dell’exchange BitMEX, è stato emesso contemporaneamente a quelli per tre co-fondatori e un dipendente della società.

Come le persone, anche le società possono essere condannate per reati. Pur non potendo finire in prigione, possono affrontare multe e gravi conseguenze come l’esclusione dagli appalti federali.

La società e i quattro dipendenti, incluso l’influente promotore di Bitcoin Arthur Hayes, si sono dichiarati colpevoli di violazione del Bank Secrecy Act, che impone alle aziende di adottare misure antiriciclaggio.

I pubblici ministeri hanno affermato che la società fingeva di ritirarsi dal mercato statunitense per eludere la legge, sapendo che si trattava di una “farsa”, arrivando persino a reclutare influencer americani per promuovere la piattaforma.

HDR Global Trading è registrata alle Seychelles, nazione insulare dell’Oceano Indiano considerata paradiso fiscale dal Tax Justice Network.

La società si è dichiarata colpevole lo scorso luglio. Due mesi fa, un giudice federale l’ha condannata a 100 milioni di dollari di multa e due anni di libertà vigilata. La multa avrebbe dovuto essere pagata entro 60 giorni dalla registrazione della sentenza. La società ha dichiarato di non averla pagata prima del perdono. Il tempismo del perdono di Trump ha permesso all’azienda di evitare la scadenza con poche ore di anticipo.

BitMEX afferma di continuare a vietare l’accesso ai cittadini statunitensi. In una nota, la società ha ringraziato Trump: “Continueremo a essere l’exchange di derivati crittografici più sicuro, affidabile e professionale, con nuovi prodotti mensili per i nostri utenti”.

Gli studiosi precisano che se la multa fosse stata pagata, non sarebbe stata rimborsata. Un precedente della Corte Suprema del 1877 stabilisce che il potere di grazia presidenziale “non può toccare i fondi del tesoro statunitense, salvo espressa autorizzazione del Congresso”.

BitMEX non è stata l’unica azienda a ricevere clemenza. Venerdì Trump ha revocato la libertà vigilata a Ozy Media, piattaforma crollata per accuse di frode al fondatore Carlos Watson due anni fa, esentandola anche da multe e risarcimenti.

I poteri di Trump

Gli esperti confermano che Trump era nei suoi diritti: “È chiaro che il presidente può graziare società. Il potere si estende a qualsiasi entità condannabile”, ha detto Frank Bowman, professore di diritto all’Università del Missouri.

Tuttavia, pur ricordando condoni aziendali fin dall’Ottocento, gli esperti faticano a trovare precedenti di grazia completa. La prima richiesta nota risale al 1975, respinta da Gerald Ford. Secondo l’ex avvocato del DOJ Sam Morison, Richard Nixon commutò la pena a un’altra società.

Per la professoressa Bernadette Meyler di Stanford, il perdono richiama la sentenza Citizens United: “Pur equiparando le società a persone in altri ambiti, non si era visto nel diritto di grazia”.

Un precedente preoccupante?

Pur riconoscendo la legittimità, molti osservatori esprimono preoccupazione. Claypool evidenzia i legami tra l’amministrazione Trump e l’industria crypto, già beneficiaria di 14 archiviazioni. “Il messaggio è chiaro: se operi in settori favoriti, puoi violare la legge impunemente”, ha detto.

Brandon Garrett, professore alla Duke University, vede nel perdono parte di un più ampio ridimensionamento della lotta ai crimini societari sotto Trump, citando la sospensione dell’Foreign Corrupt Practices Act.

Bowman non è allarmato dal perdono in sé, ma dal modello: “Trump sta graziando aziende indiscriminatamente, senza valutare i meriti o le implicazioni politiche”.

Morison prevede un aumento delle richieste di clemenza, notando che un’azienda esclusa dai benefici è la Trump Organization, condannata a livello statale per frode fiscale: “Trump non può graziare la propria società. Altrimenti l’avrebbe fatto”.

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Gaza - La strage continua senza sosta

C’è una scuola a nord-est di Gaza City che non ospita più lezioni da mesi, ma accoglie centinaia di sfollati. Si chiama Dar al-Arqam e sorge nel quartiere di al-Tuffah, un’area martoriata dai bombardamenti. Ieri è stata colpita da un attacco aereo israeliano che, secondo quanto riferito dalla Difesa civile di Gaza, ha provocato la morte di almeno 33 persone. Tutti civili. Tutti rifugiati. L’ennesimo massacro in una Striscia che non conosce tregua. Nelle ultime 24 ore, secondo la tv Al Jazeera, i palestinesi uccisi sono 112, 38 dall’alba di oggi.

Secondo i comandi israeliani, la scuola Dar al-Arqam sarebbe stata utilizzata come centro di comando e controllo da Hamas, che – affermano – usa sistematicamente le infrastrutture civili a fini militari. Hamas respinge l’accusa e ribadisce di non operare tra i civili. In ogni caso, le scuole colme di sfollati, come gli ospedali e le tendopoli, continuano ad essere prese di mira.

I jet israeliani la scorsa notte hanno colpito anche in Libano dove hanno ucciso un dirigente di Hamas con i figli.

Il bilancio delle vittime, aggiornato dal ministero della Sanità di Gaza, parla di 50.523 morti e 114.776 feriti dal 7 ottobre 2023. Da quando, il 18 marzo, le truppe israeliane hanno ripreso l’offensiva rompendo la fragile tregua durata due mesi, 1.163 persone sono state uccise e altre 2.735 ferite. Un’ecatombe ininterrotta.

Tra le vittime, la percentuale di donne e bambini supera ormai il 60%. A riportarlo è l’Ufficio centrale di statistica palestinese (PCBS), che in occasione della Giornata dei bambini palestinesi – che si celebra il 5 aprile – ha diffuso dati devastanti: 17.954 minori sono stati uccisi dal 7 ottobre 2023, tra cui 274 neonati. 876 bambini sotto l’anno di età sono rimasti vittime dei raid, 17 sono morti di freddo nelle tende degli sfollati, 52 per malnutrizione. Sempre secondo il PCBS, circa 39.000 bambini a Gaza hanno perso uno o entrambi i genitori dall’inizio del conflitto. Di questi, 17.000 sono orfani di entrambi. Vivono accampati tra rovine e tendopoli. “Condizioni tragiche”, recita il rapporto del PCBS.

Da notare che il sistema educativo di Gaza è paralizzato da due anni, con le scuole trasformate in rifugi, insegnanti e studenti dispersi o uccisi. Una paralisi che minaccia di lasciare un enorme vuoto nel futuro della società palestinese.

Nel frattempo, l’esercito israeliano ha annunciato l’occupazione di nuove aree del nord della Striscia, in particolare nel sobborgo di Shujayia (Gaza city), con l’obiettivo dichiarato di espandere la zona cuscinetto lungo i confini con Gaza. Un’operazione che – sostiene il portavoce militare – prevede “corridoi organizzati” per i civili. Le immagini che arrivano da Gaza dicono ben altro: famiglie intere costrette ad abbandonare le case a piedi, su carretti trainati da asini o su biciclette di fortuna, trascinando con sé pochi oggetti.

Centinaia di migliaia di persone sono fuggite nelle ultime settimane, in quello che le agenzie umanitarie definiscono uno degli esodi di massa più grandi della guerra. In molti casi, i palestinesi sono stati costretti a fuggire più volte, inseguendo una sicurezza che non esiste più in nessun angolo della Striscia. Nel sud, le truppe israeliane si stanno concentrando intorno alle rovine di Rafah, al confine con l’Egitto, dove vivono ormai ammassati oltre un milione e mezzo di sfollati.

Israele, dal canto suo, non ha ancora spiegato chiaramente il piano a lungo termine per le aree che sta occupando con la cosiddetta zona di sicurezza. L’obiettivo potrebbe essere lo spopolamento permanente di alcune aree, comprese le ultime terre coltivabili e le riserve idriche della Striscia.

I palestinesi collegano le mosse militari israeliane al piano del presidente americano Donald Trump, che prospettava la trasformazione di Gaza in una sorta di resort sotto controllo internazionale, con la popolazione palestinese trasferita altrove. Un’idea che torna nei timori dei residenti, sempre più convinti che si voglia cancellare l’identità del territorio insieme a quella della sua gente.

Nel frattempo, la Cisgiordania non resta immune: 923 palestinesi, tra cui 188 bambini, sono stati uccisi dal 7 ottobre, e altri 660 bambini feriti.

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Il Pacifico dei guerrieri americani

Dalle voci su un prossimo incontro tra Donald Trump e Xi Jinping, al gelo tra Cina e Stati Uniti. Il segretario alla difesa Usa Hegseth: “fermeremo l’aggressione dei comunisti cinesi”.

A convincere Pechino che non c’è da fidarsi dell’amministrazione repubblicana sono stati non soltanto i dazi sulle merci importate dalla Cina, che Trump ha aumentato del 20 per cento (e oggi potrebbero esserne annunciati altri, durante il “Liberation Day”), ma anche i primi passi del nuovo governo Usa nel Pacifico.

La settimana scorsa, durante il suo viaggio in Asia, Pete Hegseth ha esposto con questo discorso la visione strategica del Pentagono per quanto riguarda l’Indo-Pacifico. Il succo è che gli Usa intendono mantenere l’egemonia nella regione, le parole di Hegseth sono state a tal proposito molto chiare, e il tono da Guerra fredda:
Ripristinando l’ethos guerriero, le forze statunitensi assegnate all’Indo-Pacifico saranno le forze meglio addestrate e meglio equipaggiate al mondo. […] Lavoreremo con i nostri alleati e partner per fermare i comunisti cinesi e la loro aggressione nell’Indo-Pacifico.[…] La nostra missione è evitare la guerra, ma se sarà necessario, assieme sconfiggeremo e distruggeremo i nostri nemici. […] Nessuno deve mettere in dubbio la determinazione degli Stati Uniti d’America nel difendere i nostri interessi nell’Indo-Pacifico e oltre.
Hegseth ha ribadito l’attualità della strategia reaganiana “Pace attraverso la fermezza” (Peace through strength), che implica il potenziamento degli eserciti e il riarmo, degli Stati Uniti e dei loro alleati in Asia, invocato esplicitamente dal segretario alla difesa.

Il ministro di Trump (che ha partecipato alle guerre in Iraq e Afghanistan) non ha fatto alcun riferimento diretto a Taiwan. Del resto nei contatti delle scorse settimane Pechino aveva sempre ribadito a Washington che quella di Taiwan (ovvero l’inviolabilità del principio “una sola Cina”) rappresenta una linea rossa, da non valicare.

Tuttavia nelle scorse settimane il dipartimento di stato ha cancellato dal suo sito internet la frase «non sosteniamo l’indipendenza di Taiwan», facendo aumentare a Pechino i sospetti che anche Trump, così come il suo predecessore, Joe Biden, voglia rafforzare il sostegno militare all’isola e all’“indipendentista” del Partito progressista democratico (Dpp) al governo.

Il discorso di Hegseth a Honolulu era stato preceduto dall’iniziativa del presidente di Taiwan, di William Lai Ching-te (leader del Dpp, autodefinitosi un “lavoratore pragmatico per l’indipendenza di Taiwan”), che, il 13 marzo scorso, ha definito la Repubblica popolare cinese una “forza straniera ostile” e ha proposto un pacchetto di 17 provvedimenti, tra i quali la reintroduzione della corte marziale in tempo di pace, per combattere «i tentativi di infiltrazione e di spionaggio della Cina nell’esercito»; un “obbligo di dichiarazione” per i funzionari taiwanesi che intendano visitare la Repubblica popolare cinese; e requisiti più stringenti per ottenere la residenza a Taiwan per chi arriva dalla Cina continentale, Hong Kong e Macao.

Un programma per realizzare il quale servirebbe una maggioranza che probabilmente Lai non otterrà in parlamento. Per Pechino si tratta comunque di un inaccettabile tentativo di separare i “compatrioti di Taiwan” dalla madrepatria.

Pechino ha risposto con una esercitazione militare intorno all’isola iniziata martedì 2 aprile, alla quale hanno preso parte una ventina di navi da guerra guidate dalla portaerei “Shandong”, bombardieri strategici armati con vettori ipersonici, caccia invisibili, la forza missilistica dell’Esercito popolare (Epl) di liberazione e la guardia costiera (implementando la strategia di fusione civile-militare).

Il portavoce militare, Shi Yi, ha dichiarato che il war game è stato un «severo avvertimento e un forte deterrente per le forze separatiste dell’indipendenza di Taiwan, un’azione legittima e necessaria per difendere la sovranità e salvaguardare l’unità nazionale».

Le continue esercitazioni segnalano che Pechino si sta preparando a uno scenario di guerra nello Stretto: l’Epl ammodernato nell’ultimo decennio possiede ormai i mezzi necessari per un blocco navale o un’invasione di Taiwan.

Tuttavia non è ancora chiaro come Trump – al momento concentrato sui dazi e sull’Ucraina, mentre Gaza è stata abbandonata all’arbitrio di Israele – intenda giocarsi la “carta” Taiwan, se per innervosire la leadership di Pechino o, al contrario, come pedina di scambio nell’ambito di un accordo più ampio (commerciale anzitutto) con la Cina, che non si può ancora escludere.

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Rita De Crescenzo, o della ragionevole ideologia

La palude – di questo si tratta – dell’universo TikTok e – più compiutamente – del mondo social è infestato di spazzatura di ogni tipo. Un diluvio di notizie, video, di consigli, di appelli e di ogni altra forma di persuasione/comunicazione fondato, essenzialmente, su fake news, su banalità di ogni tipo, su contenuti volgari, reazionari e su notizie scopertamente antiscientifiche e dal contenuto oscurantista.

Insomma una sorta di riproduzione digitale e/o virtuale di quei mastodontici e, sempre più veloci, processi di frantumazione sociale che attraversano le società contemporanee avviluppate nei loro parossistici e disumanizzanti rapporti sociali dominanti. Una dilagante fruizione di massa che nutre quel riflesso passivo che prospera nei meandri della fenomenologia delle società a capitalismo maturo.

Ovviamente da persone che vivono in questo mondo ci capita di essere raggiunti dagli echi mediatici prodotti dai vari personaggi che sguazzano in questa palude e – quindi – osserviamo l’ascesa social di questo o quell’influencer o di questo o quel moderno santone per cui, spesso, ci limitiamo, senza perdere troppo tempo, alla risata, all’indifferenza o, qualche volta, anche al sano disprezzo quando riteniamo che le stronzate esternate sono eccessive.

Sta accadendo, però, che una nota protagonista di questo mondo, tale Rita De Crescenzo – nota per canzonette dissacratorie, per un rilevante business economico legato alla promozione di feste private e per il commercio di gadget pacchiani – si è permessa di promuovere, negli ultimi mesi, due iniziative che sono sconfinate dal ghetto/recinto virtuale in cui Rita è, oggettivamente, collocata.

Uno sconfinamento che sta incontrando (ed impattando!) con gli strali sdegnati, classisti, razzisti e differenzianti dell’intero arco di maitre a penser che regge l’articolato sistema che alimenta e gestisce il grande caravanserraglio dell’informazione dominante e della comunicazione deviante.

Ci riferiamo alle due iniziative – strane e fuori dal coro – che la signora De Crescenzo ha promosso: il diritto – sacrosanto – di consentire a decine di migliaia di persone che nella loro vita non hanno mai visto la neve, di recarsi nella località turistica di Roccaraso con pochi Euro sottraendosi, di fatto, allo strozzinaggio/speculazione dei manager del turismo d’élite e l’invito, che sta circolando in questi giorni, alla partecipazione contro il Riarmo del 5 aprile a Roma.

Per l’episodio della cosiddetta invasione dei barbari a Roccaraso le critiche e gli strali contro la De Crescenzo si sono limite al dileggio personale, magari a proposito del suo look improbabile o del suo lessico ridondante, sgrammaticato e sconnesso. Un attacco che si è contenuto nel quadro della descrizione folkoristica della vicenda.

Ora, invece, per ciò che attiene alla questione della manifestazione di Roma contro il Riarmo si sono scomodati i talk televisivi, le grande testate giornalistiche e il complesso dei dispositivi informativi preposti al linciaggio ed alle variegate forme di criminalizzazione che si innestano quando si verificano condizioni di contraddizione agente contro il pensiero dominante.

Ovviamente – e non occorre precisarlo – siamo tra i più sideralmente distanti (come idea/forza di concezione del mondo) dalla signora Rita De Crescenzo. Anche se – e lo affermiamo sottovoce – il suo variegato habitat è frequentato e vissuto, anche, da soggetti che sono, comunque, i nostri (a proposito dei settori popolari e dell’eventuale Blocco Sociale a cui riferirsi).

Con questa consapevolezza continuiamo il nostro impegno politico e sociale teso a contrastare la desertificazione ideale, l’irrazionalità delle relazioni sociali, sforzandoci di contribuire a promuovere il protagonismo dei soggetti come possibile motore dei processi di trasformazione e di emancipazione.

Questa volta – però – avvertiamo una sensazione di anomala empatia verso Rita, verso il suo dress code, verso la sua disarticolata sintassi e – soprattutto – verso quel suo basico messaggio che sta ampiamente veicolando: basta guerra, basta armi e... posate i soldi per i nostri bisogni!

Al momento non sappiamo se questo suo invito si concretizzerà in una reale presenza nella piazza No War (qualche pentastellato, con la puzza al naso, e con gli occhi rivolti al suo elettorato nelle ZTL delle città, ha provato a “prendere le distanze da questa signora”) oppure il tutto si limiterà ad una querelle attorno ed alla vigilia di questo appuntamento.

Ciò di cui siamo certi e che – ancora una volta – i dispositivi di comando e controllo dell’articolato e capillare sistema della cosiddetta libera democrazia stanno facendo a pezzi una voce che ha osato schierarsi ed agire controcorrente alla vulgata dominante.

Quindi, almeno per questa volta: Forza Rita De Crescenzo!

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Quei dazi calcolati “a caso”

Viene giù tutto, e pure in picchiata. Le borse di tutto il mondo hanno reagito decisamente male all’ordine esecutivo di Trump che ha imposto dazi all’intero pianeta.

A Wall Street, ieri sera, l’indice Dow Jones ha chiuso perdendo il 3,11%, mentre il Nasdaq (i titoli delle aziende tecnologiche) ha lasciato sul terreno il 3,79%. Stessa situazione, grosso modo, per le piazze europee ieri ed anche stamattina, accompagnate da quelle asiatiche che hanno lavorato quando qui è notte (Tokyo e Seul, visto che in Cina è un giorno festivo).

In decisa controtendenza solo la borsa di Mosca, che guadagna intorno al 2%. Si vede che le “sanzioni durissime” euroatlantiche hanno messo in ginocchio la Russia, no?

Con la solita ironia Maria Zakharova, portavoce del ministero degli esteri, ha infierito sull’Unione Europea: “La Russia commercia ormai pochissimo con l’America o con l’Unione Europea: abbiamo sostituito i MacDonald con ristoranti e prodotti locali, abbiamo sostituito Ikea con i nostri artigiani. E nonostante le sanzioni continuiamo a svilupparci, nel primo trimestre del 2025 la crescita sarà di circa il 3%.
Quindi non c’è bisogno di agitarsi. Seguiremo il consiglio di Lao Tzu e ci siederemo in riva al fiume, aspettando che il corpo del nemico passi galleggiando. Il cadavere in decomposizione dell’economia dell’UE”
.

Battute a parte, “i mercati” sembrano preoccupati non solo dai dazi – che in fondo erano ormai attesi e in qualche misura già “scontati” dalle quotazioni delle settimane scorse – ma soprattutto dalle minacce di recessione (il primo trimestre negli Usa sembra che si chiuderà con un terrificante -3,7% del Pil) e dall’incredibile modo in cui sono state calcolate le percentuali da applicare ad ogni singolo paese.

Già ieri, a botta calda, il Financial Times era inorridito davanti a tanto pressapochismo. Ma con il passare delle ore la “formula” con cui sono stati “pesati” i singoli dati è apparsa come uno scherzo da idioti. Che purtroppo guidano la prima superpotenza del pianeta...

L’amministrazione Trump, infatti, non ha preso per nulla in considerazione gli eventuali dazi effettivamente applicati da ogni singolo paese nei confronti di merci e servizi Usa, ma ha semplicemente calcolato il differenziale presentato dalla singola bilancia dei pagamenti.

Come sintetizza il prof. Marco Veronese Passarella, “Se, ad esempio, il disavanzo commerciale USA con l’UE è di 200 mld, mentre le importazioni USA di prodotti UE sono state di 510 mld, allora il dazio implicito UE su prodotti USA è calcolato come: 200/510 = 0.39 = 39%”.

A quel punto viene fatta una divisione a metà ed esce fuori il presunto “dazio reciproco arrotondato” pari al 20% (effettivamente deciso per l’area UE).

Un simile modo di calcolare è da idioti – ripetiamo – non solo perché mette insieme “capra e cavoli” (fattori economici completamente differenti), ma in prims perché totalmente astratto rispetto a quel che viene materialmente scambiato tra due paesi. E infatti il Financial Times ironizzava pesantemente chiedendo “e le banane?”.

Due parole sono necessarie per capire la battuta. In qualsiasi “mercato”, anche precapitalistico o futuristico, si scambiano prodotti diversi provenienti da ambiti specializzati, per motivi industriali o anche semplicemente naturali. Nei mercati antichi, per dire, si incontravano prodotti provenienti dalle montagne e si scambiavano con quelli delle pianure e del mare (o dei fiumi).

“Le banane”, insomma, non crescono negli Stati Uniti e dunque, se si vogliono avere a tavola, vanno importate. Magari da paesi poverissimi che hanno individuato in quel prodotto l’unica cosa che possono mandare in Occidente o altrove, autocondannandosi spesso alle “monoculture” che rischiano di distruggerli sia sul piano ambientale che economico (se “cambia la moda” o qualcun altro produce a prezzi ancora inferiori).

Quei paesi, proprio perché poveri, difficilmente acquisteranno molto dagli Stati Uniti, e dunque la bilancia commerciale reciproca sarà totalmente sbilanciata, forse fino al 100%. Applicare un dazio del 50% a quel paese, dunque, magari ridurrà la domanda di banane da parte dei cittadini Usa (che si ritroveranno il prezzo decisamente aumentato), ma non cambierà di una virgola il rapporto economico quantificato dalla bilancia commerciale. Invece di un miliardo l’anno quel paese esporterà banane negli Usa magari solo per 500 milioni, ma lo “sbilancio” sarà comunque del 100%.

È questo modo di “fare i calcoli” che ha portato a decidere sanzioni anche per isole sperdute, coperte di ghiaccio e di neve, abitate quasi solo da… pinguini, come le Heard e McDonald, al largo dell’Antartide.

Ma l’esempio delle “banane” ci aiuta anche a intuire le possibili reazioni ai dazi. Chi le produce, non potendone più vendere nella stessa misura agli Usa, sarà costretto a mangiarsele (“domanda interna”) oppure a cercare nuovi clienti. E magari ne troverà anche di disposti a pagare un prezzo migliore.

La rottura del “mercato globalizzato”, insomma, mette in moto reazioni e alternative fin qui impensabili. Ma adesso disperatamente necessarie...

L’Unione Europea monopolizzata dai lobbisti delle multinazionali sembra ora decisamente avviata sulla strada del riarmo per tornare a “controllare le filiere” di rifornimento delle risorse di cui è priva, come ai “bei tempi” del colonialismo bruto. Purtroppo per lei quasi da nessuna parte troverà ancora i “poveri selvaggi” senza armi né cognizione delle dinamiche di mercato. Il suprematismo bianco ha fatto il suo tempo: deve solo decidere se entrare in guerra col resto del mondo o se prendere l’autostrada della cooperazione tra pari.

Prima che sia troppo tardi...

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Israele attacca la Siria e apre un nuovo fronte con la Turchia

Tra mercoledì 2 e giovedì 3 aprile, Israele ha lanciato in Siria una serie di attacchi aerei e di terra, uccidendo almeno 29 persone, tra civili e militari. Nel giro di pochi minuti, cinque aree del Paese sono state bombardate, in particolare Hama e il suo aeroporto militare che, secondo le autorità al potere a Damasco, è stato quasi completamente distrutto. Più di dieci raid hanno colpito la struttura, causando diverse vittime. È stata colpita anche la base aerea T4 nelle campagne di Homs, in quelle che sembra essere stata un’azione coordinata per lanciare un avvertimento alla Turchia.

La tensione tra Ankara e Gerusalemme sta aumentando, soprattutto nelle ultime settimane. Erdoğan, sostenitore (e mente) dell’azione che ha rovesciato Bashar al-Assad, ha in programma di utilizzare alcune delle strutture militari preesistenti sul territorio siriano, trasformandole in basi da cui controllare droni o sistemare aerei da guerra. Netanyahu sta tentando, invece, di approfittare del vuoto di potere, da un lato occupando territorio e dall’altro cercando di limitare l’influenza di altri attori regionali, ad esempio distruggendo le basi militari e scientifiche che la Turchia intende controllare.

L’aeroporto militare di Hama e la base aerea T4 sono state messe fuori combattimento. Anche il Centro scientifico di ricerca Barzah, appena fuori Damasco, è stato attaccato da Israele, il quale ha fatto coincidere i bombardamenti con un’incursione militare di terra nella Siria meridionale. I carri armati sono avanzati in profondità e violenti scontri sono scoppiati tra i militari di Tel Aviv e combattenti del posto. Fonti locali hanno confermato che almeno nove civili sono stati uccisi e molti altri feriti nella foresta di Al-Jubailiyah Dam, ad ovest di Daraa, nel sud della Siria, in seguito agli attacchi aerei e all’avanzata di terra israeliana.

Le incursioni sono rese più semplici dalla costruzione di strade e infrastrutture di collegamento che lo stesso esercito sta realizzando attraverso le alture del Golan occupate fin dentro il Paese, in profondità. A Daraa e Quneitra le invasioni di Tel Aviv sono diventate sempre più frequenti.

Le autorità di Damasco hanno condannato gli attacchi come una grave violazione della sovranità territoriale e un tentativo di mantenere il Paese destabilizzato e insicuro per poter sfruttare la sua debolezza secondo i propri scopi. Il ministro della difesa Israel Katz ha rivendicato i raid, descrivendoli come “un avvertimento per il futuro”. Katz si è rivolto direttamente al leader Ahmad al-Shara’ (al-Joulani): “Avverto il leader siriano Joulani: se permetti alle forze ostili di entrare in Siria e minacciare gli interessi di sicurezza israeliani, pagherai un prezzo pesante”. Tel Aviv ha chiesto la completa smilitarizzazione del sud della Siria, dichiarando di non volere la presenza di personale militare governativo. Allo stesso tempo, l’esercito effettua incursioni sempre più all’interno del paese, intendendo la propria occupazione a tempo “indefinito”.

Tel Aviv, che pure si è auto-agiudicata il merito per la caduta di Bashar al-Assad, ha da prima avuto un atteggiamento benevolo nei confronti delle forze di Hayat Tahrir Al-Sham (HTS), che sono ora al potere in Siria, salvo poi cambiare strategia. Oggi accusa il leader Ahmad al-Shara’ (al-Joulani) e il suo gruppo di essere terroristi e giustifica i suoi attacchi al Paese con la necessità di proteggere la propria sicurezza interna.

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03/04/2025

Still Crazy (1998) di Brian Gibson - Minirece

Verso un attacco USA-Israele contro l’Iran?

Venti di guerra contro l’Iran. Dopo le minacce di Donald Trump e le inequivocabili dichiarazioni del governo Netanyahu contro Teheran, il Pentagono ha dislocato nell’area mediorientale alcuni bombardieri strategici a capacità nucleare.

La scorsa settimana sono giunti nella grande infrastruttura militare di Diego Garcia (Oceano indiano) sei bombardieri subsonici B-2 Spirit (con caratteristica stealth, che consentono loro di sfuggire al controllo radar e predisposti al trasporto di testate nucleari B-61 e B-83).

Il 1 aprile, è stato registrato invece un intenso traffico di grandi velivoli da trasporto C-17A Globemaster III dell'US Air Force tra alcune importanti basi aeree in Europa (in particolare Ramstein, Germania) e lo scalo Al Udeid in Qatar, hub operativo e logistico chiave per le operazioni delle forze armate USA nello scacchiere mediorientale (presenza fino a 10.000 militari e un centinaio di velivoli). È presumibile che in Qatar siano stati trasferiti sistemi d’arma, munizioni e apparecchiature in vista dell’escalation bellica contro l’Iran.

Presso la base di Al Udeid è pure presente una Cellula Nazionale Interforze italiana che ha il compito di coordinare la pianificazione delle attività degli assetti dell’Aeronautica Militare impiegati nelle operazioni “anti-terrorismo” a guida USA in Iraq e Siria.

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Contro il riarmo europeo è bene manifestare, ma occorre anche chiarezza

Come abbiamo scritto spesso, la guerra è un discrimine che taglia in due ogni ragionamento e presa di posizione. Mentre tutti i governi europei sembrano ormai posseduti dal furore guerrafondaio e varano un gigantesco piano di riarmo, la politica è costretta a schierarsi pro o contro, quasi sempre suo malgrado.

Nella maggioranza di governo si dividono strumentalmente, cercando disperatamente di non apparire spaccati in due, tra i sostenitori della “pace di Trump” e i facilitatori del riarmo e delle ambizioni europee.

All’opposizione c’è chi vorrebbe tenere il piede in due scarpe (vedi il PD) e chi come il M5S sembra aver imbracciato con maggiore determinazione lo stop al riarmo europeo.

I sondaggi finora disponibili, dimostrano che nell’opinione pubblica prevale ancora un sentimento contrario al coinvolgimento nella guerra in Ucraina e al riarmo. È un dato importante, ma che rischia di diventare aleatorio se non trova una espressione politica capace di pesare nei rapporti di forza. E questi, nell’attuale Parlamento, sono ancora sfavorevoli ad una scelta non guerrafondaia.

Pesa infatti l’ambiguità sull’idea che l’Unione Europea (arbitrariamente e strumentalmente confusa con “l’Europa”), per pesare nella competizione globale con le altre grandi potenze, debba dotarsi di un forte apparato militare e di politiche conseguenti.

La guerra commerciale scatenata dagli Stati Uniti in qualche modo rafforza questa opzione e la alimenta nella campagna massmediatica tra le opinioni pubbliche del Vecchio Continente.

Ma i fatti, oltre che la storia europea, ci insegnano che una intensa campagna di riarmo parallela ad una guerra commerciale di stampo protezionista formano un combinato disposto micidiale che ha sempre innescato le guerre, e che per qualche motivo queste hanno sempre trovato in Europa la loro incubazione principale.

In uno scenario così inquietante, raddrizzare il piano inclinato appare una priorità sulla quale far convergere tutte le forze che ne hanno consapevolezza, in contrasto con quelle che spingono per inclinarlo ancora di più verso il baratro.

In tale contesto, la manifestazione contro il riarmo europeo del 5 aprile convocata dal M5S coglie l’occasione e sembra riuscire a catalizzare una gran parte delle forze schierate per la pace.

Si può asserire che era nata in un modo – condizionare il dibattito nel “campo largo” – ed è diventata via via un’altra cosa. Ma non appare affatto scontato se questo segno della manifestazione del 5 aprile reggerà nel tempo oppure no.

L’esperienza fattuale ci ha insegnato che le posizioni delle forze politiche italiane cambiano significativamente tra quando si trovano al governo o all’opposizione. In materia di riarmo il M5S di governo ha dato una pessima prova di sé, sia sulla spesa militare che sulla prima fase della guerra in Ucraina. Una volta all’opposizione ha modificato – in meglio – le proprie posizioni. Ne prendiamo atto, ma...

Su questa contraddizione, negli anni passati, non abbiamo mai fatto sconti alle forze del centro-sinistra e della sinistra parlamentare sulle posizioni adottate quando erano al governo o all’opposizione. È sufficiente ricordare lo scontro con il governo D’Alema sull’aggressione Nato alla Jugoslavia (con Mattarella vice e ministro della Difesa) o, in tempi più recenti, quello con il secondo governo Prodi sulla partecipazione dei militari italiani alle guerre degli Usa in Iraq e Afghanistan.

Quando le forze politiche che avevano fatto quelle scelte, una volta tornate all’opposizione, hanno provato a rifarsi una verginità politica nelle piazze, non abbiano mai fatto sconti. Non si capisce perché con il M5S si dovrebbe usare uno standard diverso.

Dunque è un bene che ci sia una manifestazione contro il riarmo europeo, ma meno bene che le forze della sinistra di classe accettino l’egemonia del M5S su questa mobilitazione, che non abbiano previsto né prevedano altre ipotesi, né che esitino a definire più nitidamente le coordinate politiche sulle quali “convergere” con le altre forze che si battono per la pace.

Può sembrare un dettaglio ma non lo è. È stato proprio l’aver perso questa funzione chiarificatrice che ha disgregato e indebolito la sinistra di classe e alternativa in questo paese. Ne riparliamo a partire dal 6 aprile.

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La vittoria di Pirro della Troika in Grecia, sulla pelle della gente

Mentre Bruxelles e il FMI festeggiano i numeri del Pil greco, la realtà è un’altra: la Grecia sta solo rimandando il conto di un disastro annunciato. Sono queste le conclusioni che si possono trarre da un rapporto redatto dal Levy Economics Institute, che smaschera la grande menzogna delle politiche di austerity: dopo anni di tagli selvaggi, salari strozzati e privatizzazioni, Atene non è affatto “salva”. Anzi, la crescita odierna si regge su una montagna di debito estero, svendita del patrimonio pubblico e un mercato del lavoro allo sbando.

L’economia greca ha registrato una crescita del 2,3% nel 2024, superiore alla media europea, ma questa ripresa nasconde gravi fragilità strutturali. Questo dice il rapporto, in merito ai limiti strutturali dell’economia greca che non è riuscita, più di un decennio dopo la devastante crisi del debito del 2011, a superare gli squilibri profondi che ne hanno minato lo sviluppo.

Nonostante i dati positivi su Pil, occupazione e consumi, il modello di sviluppo rimane insostenibile, secondo gli autori del report, in quanto basato su un eccessivo indebitamento estero, una crescente dipendenza dalle importazioni e un trasferimento massiccio di proprietà immobiliari a investitori stranieri.

Uno dei motori della crescita che ha permesso alla Grecia le ‘mirabolanti’ (si fa per dire) performance degli ultimi anni è stato il Recovery and Resilience Facility (RRF), il Fondo di Ripresa e Resilienza post-pandemico europeo da 650 miliardi, che ha finanziato investimenti pubblici, mentre i consumi privati hanno beneficiato temporaneamente di trasferimenti statali. Tuttavia, con l’esaurirsi di questi fondi nel 2027, il Paese rischia una brusca frenata. Infatti, l’RRF ha una natura temporanea ed è stato concepito per esaurirsi nel 2026.

Un altro punto critico è il deficit delle partite correnti, che nel 2024 ha raggiunto il -5,3% del Pil e potrebbe aggravarsi ulteriormente (-10,6% nel 2026), alimentando il debito del paese verso l’estero. Secondo gli autori, infatti, la crisi del debito prima e le misure di austerity poi hanno contribuito a distruggere la capacità produttiva del paese, con un grande numero di imprese sparito o aquisito da competitor stranieri.

La guerra in Ucraina e l’aumento dei prezzi dell’energia che ne è conseguito hanno comportato una nuova esplosione della bilancia delle partite correnti, e il conseguente fallimento della strategia che sperava di portare la bilancia in pareggio attraverso la depressione della domanda interna.

Il settore turistico, nonostante i record di presenze, non basta a compensare lo squilibrio commerciale. Anzi, la crescita del turismo ha aumentato le importazioni, peggiorando il deficit. Inoltre, la vendita di immobili a stranieri (attraverso programmi come il Golden Visa) sta trasferendo ricchezza all’estero, mentre l’aumento dei prezzi delle case rende difficile l’accesso al mercato per i residenti.

Sul fronte del lavoro, la Grecia sconta ancora bassi salari (la quota salari sul Pil è al 34,7%, contro una media Ue del 57%) e un tasso di occupazione tra i più bassi d’Europa (52,8%). La disoccupazione ufficiale (9,4%) nasconde una realtà più drammatica, dal momento che esiste una discrepanza tra il numero di disoccupati registrati dall’ufficio statistico di riferimento (ELSTAT) e l’agenzia dei servizi per l’impiego (DYPA), che invece riporta quasi il doppio di persone registrate come disoccupate, molte delle quali senza sussidi.

Le proiezioni del Levy Institute sono molto più pessimistiche di quelle del governo greco, della Commissione Europea e del FMI: si prevede una crescita di appena dello 0,9% nel 2025 e una recessione dell’1,3% nel 2026. Senza un cambio di rotta, che includa una riforma del sistema produttivo e politiche salariali più eque, la Grecia rischia di ritrovarsi in una nuova crisi, aggravata dal peso del debito pubblico e dalla dipendenza dai capitali esteri.

L’Europa ha trasformato la Grecia in un parco giochi per turisti e speculatori immobiliari, mentre i greci faticano ad arrivare a fine mese. E quando i fondi Ue si esauriranno, resterà solo il buco nero dei conti pubblici. L’austerity non ha risolto nulla: ha solo preparato la prossima crisi.

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Gli USA contro tutti, e potrebbe andarle male…

Ce n’è per tutti, nessuno escluso. L’America di Trump dichiara guerra (commerciale) al mondo intero, applicando “dazi reciproci” differenti per ogni paese in base alle molto presunte “disparità” applicate nei confronti delle merci statunitensi.

È un Trump con la faccia più tosta del consueto quello che ha agitato tabelle e 400 pagine di ordine esecutivo in conferenza stampa, recitando la parte del “paese saccheggiato” soprattutto dagli alleati storici che si sarebbero approfittati della stolidità dei governi precedenti. “Dazi reciproci” vorrebbe infatti significare che quella americana è una “risposta” ad analoghe tariffe già operanti su e contro le esportazioni statunitensi. Anche se molto raramente ciò è vero.

Solo per fare un esempio veloce, se si considera l’Iva applicata su tutte le merci europee come una “barriera tariffaria” è chiaro che si sta ciurlando nel manico. Perché l’“imposta sul valore aggiunto” (al 21%) viene pagata da tutti – consumatori e imprese, nelle loro forniture reciproche – anche in tutta Europa. Dunque non è e non può essere uno “svantaggio competitivo” per merci e prodotti statunitensi.

Il modo in cui sono state ricavate le percentuali da applicare è però molto più scriteriato di così, al punto da sorprendere persino gli smaliziati analisti del Financial Times:
“Ecco cosa sembrano aver fatto la Casa Bianca e il suo team di investigatori commerciali: prendi il deficit commerciale degli Stati Uniti con un qualsiasi paese in particolare e dividilo per la quantità totale di beni importati da quel paese. Dimezza quella percentuale e ottieni il tasso tariffario ‘reciproco’ degli Stati Uniti. Possiamo confermare che questo corrisponde ai numeri dei primi 24 paesi elencati, che abbiamo controllato a mano perché non ci potevamo credere e anche perché ci rifiutiamo di usare l’IA per qualsiasi cosa”.
Sollecitando dunque una reazione davvero scandalizzata in chi vive per affermare il capitalismo occidentale:
“Gli USA... insinuano che tutti i deficit commerciali sono il risultato di pratiche sleali o manipolazione della valuta? E il vantaggio comparato? David Ricardo si starà sicuramente rivoltando nella tomba. E le banane? Non crescono negli USA!”
Dettagli a parte – rintracciabili appunto nelle 400 pagine del diktat imperiale – la botta al commercio internazionale è tale da segnare un passaggio d’epoca, con conseguenze in qualche caso devastanti ma anche con aspetti paradossali che vale la pena di accennare, più avanti.

Per restare alle cose di casa nostra “l’Europa” viene trattata come un’area unitaria, senza distinzioni tra i vari paesi, con dazi generali del 20%. Si tratta di dazi su merci e servizi diversi da acciaio, alluminio e automobili per cui erano stati già decise barriere del 25%, in parte già operativi, mentre per le auto sono scattati solo oggi.

Potrebbe sembrare un riconoscimento della entità europea come soggetto anche politicamente autonomo, ma è l’esatto contrario. La riprova formale/diplomatica sta nel fatto che Ursula von der Leyen – responsabile ufficiale dell’Unione Europea – chiede da tempo di poter incontrare “Potus” (President of the United States), ma non le viene neanche risposto. Come una questuante qualsiasi, insomma...

È chiaro dunque che imporre dazi identici a un’area frammentata in quanto a interessi specifici (i paesi membri della UE hanno rapporti commerciali molto diversi con gli Usa per quantità, valore, percentuali di Pil, ecc.) significa incentivare le differenze e inserire un cuneo divisivo fondato non sulle chiacchiere (i presunti “valori condivisi” e altra cialtronerie buone per le cerimonie o i talk show), ma sui profitti.

Gli effetti si vedranno presto, ma le risposte e i commenti dei vari governi europei già ora sono molto differenziati, tra appelli alla “prudenza” e minacce di “vendetta” comunque subordinata a trattative che ancora non sono state aperte. Ne si sa quando potranno esserlo...

A parte Gran Bretagna e Australia, “beneficiate” di dazi minimi al 10%, per il resto del mondo va decisamente peggio. La Cina è colpita con tariffe aggiuntive del 34%, curiosamente identiche a quelle riservate a Taiwan (+32%), cosa che potrebbe generare più sintonie che divergenze tra le “due Cine” (uno dei tanti paradossi di questa strategia statunitense).

Colpite al 49% le merci provenienti dal sud-est asiatico (Cambogia, Vietnam, ecc.), che fin qui erano state “facilitate” nel tentativo di favorirne lo sganciamento rispetto all’economia cinese.

Stessa misura, quasi incomprensibile per “noi europei”, nei confronti del Lesotho (una piccola enclave semi-indipendente all’interno del territorio del Sudafrica), di cui probabilmente Trump ignora persino la collocazione geografica.

Ma potete tranquillamente scorrere il “mattone” firmato ieri sera, qui allegato.

Sul piano politico, si diceva, è la fine certificata di un’epoca chiamata “globalizzazione”, da cui si esce con una frammentazione totale del mercato mondiale. Il tentativo apparente è quello di costringere ogni singolo paese a ricercare rapporti individuali con gli Stati Uniti, ovviamente mettendo a disposizione la possibilità di firmare accordi-capestro molto svantaggiosi.

Ma la reazione generale può facilmente essere anche l’opposto, ossia la ricerca di accordi commerciali migliori che prescindono totalmente dal rapporto individuale con gli Usa. L’esempio recente della triangolazione fin qui impensabile tra Cina, Giappone e Corea del Sud (le tre principali economia asiatiche nel Pacifico) ci sembra piuttosto indicativo di una tendenza che può rapidamente diventare valanga.

Una eventualità del genere, che sarà naturalmente contrastata con ogni mezzo – soprattutto finanziario e militare – da Washington, potrebbe così materializzare un potente boomerang che si abbatte sull’economia Usa.

La quale non è pensabile possa in tempi brevi re-internalizzare le produzioni de-localizzate nell’arco di 80 anni e con più velocità dopo la caduta dell’Unione Sovietica.

Se per le merci di lusso il problema non è drammatico (i dazi possono essere comodamente riassorbiti grazie agli alti margini di profitto dei produttori, e comunque peserebbero marginalmente nelle tasche piene di soldi degli acquirenti abituali di Ferrari e alta moda), per l’infinita lista di merci e servizi a basso costo che “l’America” ha smesso di produrre già da decenni non si vede possibilità di sostituzione in tempi rapidi.

Per esempio, circa venti anni fa WalMart (una catena di grande distribuzione presente capillarmente sul territorio americano, con presenza in ogni sperduto villaggio e con quasi un milione di dipendenti) rappresentava il 12% di tutte le esportazioni cinesi nel mondo. Parliamo di merci che noi troviamo “dal cinese” sotto casa, e che nessuno più produce in Occidente. Men che meno negli Usa...

I giochi sono dunque, a questo punto, tutti aperti. La scommessa dei trumpiani è di restare “king maker” contando sullo strapotere nei rapporti individuali con tutti i paesi del mondo. Ma non è proprio detto che tutto il mondo reagisca accettando di finire sotto il cappio uno alla volta.

E a quel punto si comincia a ragionare sulle possibile alternative. I Brics+ si erano già portati avanti col lavoro, ci sembra...

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[Contributo al dibattito] - Il grande disegno di Trump

di Chiara Brusini

Cosa c'è nel "Manuale per una ristrutturazione del sistema globale del commercio" scritto da Stephen Miran, consigliere economico della Casa Bianca. Che sogna di costringere i partner commerciali a indebolire il dollaro per aumentare la competitività Usa, usando anche la difesa come leva.


Un nuovo ordine commerciale (e finanziario) globale – Sarebbe questo il vero obiettivo dietro l’annuncio di Donald Trump sui nuovi dazi nei confronti dei partner commerciali. Il piano è tutt’altro che segreto. L’economista Stephen Miran l’ha esposto nel dettaglio lo scorso novembre, quando ancora lavorava per la società di investimento Hudson Bay Capital, in un paper dal titolo inequivocabile: A User’s Guide to Restructuring the Global Trading System (Manuale per una ristrutturazione del sistema globale del commercio). Poco dopo, il 41enne Miran è stato chiamato dal presidente Usa a guidare il suo Consiglio dei consulenti economici. Cosa che fa potenzialmente di quel saggio, secondo molti osservatori non privo di errori e contraddizioni, il canovaccio del grande disegno della Casa Bianca per rilanciare l’industria americana. Conviene leggerlo per capire quali potrebbero essere le prossime mosse di Washington. A partire da un accordo internazionale mirato a ridurre il valore del dollaro, secondo Miran sopravvalutato a danno della competitività dei prodotti statunitensi, e ad allungare la vita del debito pubblico Usa per stabilizzarne i tassi a spese dei detentori stranieri. I quali – e così il cerchio si chiude – verranno convinti con “il bastone delle tariffe” e “la carota della difesa”, cioè la minaccia di essere privati dell’ombrello protettivo fin qui fornito da Washington.

Un vademecum per Trump – Miran, Ph.D ad Harvard e un passato da advisor del dipartimento del Tesoro durante il primo mandato di Trump, si era fatto notare lo scorso agosto per un paper a doppia firma con Nouriel Roubini che accusava l’allora segretaria al Tesoro Janet Yellen di manipolazione dell’emissione di titoli del debito pubblico a fini politici (avrebbe favorito l’indebitamento a breve termine per tener bassi i rendimenti e “drogare” l’economia favorendo una rielezione di Joe Biden). Tesi molto apprezzata dai Repubblicani, anche se il successore di Yellen, Scott Bessent, si è finora ben guardato dall’invertire la rotta. A una settimana dalle elezioni presidenziali, l’economista ha poi sfornato la Guida che è dichiaratamente un vademecum per il tycoon intenzionato a “rendere di nuovo grande l’America”. Miran mette nero su bianco di attendersi che il secondo mandato trumpiano “sarà probabilmente ancora più determinato del primo nel riconfigurare il sistema commerciale e finanziario internazionale” e di aver voluto proprio per questo mettere insieme “un menù di strumenti di policy” che gli consentirebbero a suo dire di raggiungere i suoi obiettivi di rivitalizzazione della manifattura e aumento della competitività a stelle e strisce.

Il dollaro sopravvalutato causa dei mali dell’industria Usa – Per Miran la radice del “profondo malcontento nei confronti dell’ordine economico prevalente” sta nella sopravvalutazione del dollaro, che rende più costoso e dunque meno competitivo l’export Usa imponendo un “handicap” alla manifattura statunitense e provocando la perdita di posti di lavoro. Il dollaro sarebbe sopravvalutato a causa – stando all’economista – dell’accumulazione di riserve di dollari e titoli di Stato Usa da parte di Paesi terzi in cerca di un rifugio sicuro. Ci sarebbe insomma un eccesso di domanda di dollari che finisce per determinare un deficit commerciale, visto che la bilancia dei pagamenti (export meno import) tende sempre ad assestarsi fino a pareggiare i flussi di capitale in entrata nel Paese. Attraverso il biglietto verde, Washington starebbe di fatto reggendo sulle proprie spalle la crescita mondiale a beneficio dei partner e a spese della propria economia. Una spiegazione troppo semplicistica, ha evidenziato il Nobel Paul Krugman, visto che fino a fine anni Settanta – nonostante il ruolo del dollaro come valuta di riserva fosse identico – il Paese ha registrato persistenti surplus commerciali. Ma tant’è.

Il secondo tempo: l’accordo di Mar-a-lago – Il doppio binario è necessario perché, di per sé, colpire le importazioni tende a far salire i prezzi a danno dei consumatori Usa e rafforzare ulteriormente la valuta nazionale. Risultato opposto a quello desiderato nell’architettura della Guida. E allora ecco l’idea, dopo aver “ammorbidito” i leader dei maggiori Paesi a suon di dazi punitivi, di convocarli a Mar-a-Lago, la residenza di Palm Beach che è il buen retiro del tycoon, per la firma di un nuovo grande accordo sui tassi di cambio come quello sottoscritto all’hotel Plaza di New York da Usa, Francia, Germania, Giappone e UK nel 1985. Si tratterebbe di convincere i partner, in cambio di una riduzione delle tariffe e del mantenimento per chi aderisce dell'“ombrello difensivo” Usa, a mettere in campo azioni coordinate – vendendo le loro riserve – per ridurre il valore del dollaro.

Un approccio multilaterale basato sull’intimidazione – Il conseguente aumento dei tassi di interesse, deleterio per Washington il cui debito è previsto in salita dall’attuale 100% al 156% del pil entro il 2055, verrebbe tamponato facendolo pagare ai Paesi che quel debito lo stanno finanziando. L’idea è quella di chiedere o imporre loro di scambiare i titoli del Tesoro a breve termine che hanno in portafoglio con obbligazioni di lunghissimo termine, addirittura century bonds, con rendimenti ridotti. Un “approccio multilaterale”, così lo definisce Miran, basato di fatto sull’intimidazione. L’alternativa unilaterale appare del resto ancora più improbabile: tra le proposte ci sono l’attivazione dell’International emergency economic powers act per imporre agli Stati che detengono buoni del Tesoro Usa una commissione d’uso (con la motivazione che “sono un fardello per l’export”) o l’uso del Fondo di stabilizzazione del cambio per comprare valuta estera e gonfiarne il valore.

Tutti i dubbi – È lo stesso Miran a riconoscere che le mosse che consiglia potrebbero annullarsi a vicenda: per esempio, se la compensazione valutaria funzionasse i dazi smetterebbero di incidere sui flussi commerciali rendendo più costose le importazioni. Palesi anche altre incoerenze rispetto agli obiettivi dichiarati dall’amministrazione Trump: come ha evidenziato Krugman, la rinazionalizzazione della produzione pare in evidente contrasto con la convinzione che non si registrerà alcun effetto inflattivo (perché allora i consumatori dovrebbero preferire prodotti domestici?). L’esplicito legame con la fornitura di “servizi di difesa” suscita poi diverse perplessità, che nel paper vengono tacitate sostenendo che nel caso l’Europa non si adegui e decida di procedere sulla strada di un drammatico aumento della propria spesa militare non sarà un problema, anzi: “Gli Usa potranno concentrarsi di più sulla Cina, che è una minaccia peggiore della Russia”. Analisti e banche d’affari, da JP Morgan a Abn Amro, giudicano del tutto improbabile che l’accordo di Mar-a-Lago possa materializzarsi. E si attendono che il primo step del piano, i dazi, porterà con sé inflazione e un impatto negativo sulla crescita.

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Salari più bassi per i giovani lavoratori, una miseria per precari e stagionali

I dati sulla crescita dell’occupazione in Italia contengono parecchi scheletri nell’armadio. Se nel nostro paesi i salari sono i più bassi a livello Ocse, per i neo-assunti e i giovani lavoratori la forbice diventa ancora più profonda. Dunque si lavora ma si viene pagati poco.

Osservando i salari dei dipendenti nel settore privato si scopre che oltre ad una media già di per se modesta (solo 22.839 euro lordi l’anno) quella dei giovani lavoratori scende a 15.616 euro. Ma questo solo nel caso di un posto di lavoro stabile e per milioni di giovani non è affatto così.

Viene rilevato che il 40,9% dei lavoratori sotto i 35 anni ha un contratto precario, a tempo determinato o stagionale. Ma il dato è andato peggiorando perché i dati relativi ai nuovi contratti stipulati nel 2023 vedono salire la quota dei lavori precari tra gli under 30 addirittura al 79,8% dei casi. Si tratta di contrattini della durata che va tra una settimana e un mese di lavoro.

Con questi lavori a fine anno si racimolano briciole di salario: 9.038 euro lordi per chi ha un contratto a termine e 6.433 per gli stagionali. Molto meno di mille euro al mese. Ma intanto le statistiche possono affermare – facendo gonfiare il petto alle donne e uomini di governo – che l’occupazione è cresciuta e che tutto va bene sul fronte sul lavoro.

I dati qui sopra, inoltre, non rendono una sorpresa il fatto che la forza lavoro sta invecchiando. “Dal 2004 al 2024 – ha detto il presidente dell’Istat Francesco Maria Chelli – gli occupati sono 1 milione 631 mila in più (+7,3%): il saldo positivo sintetizza un calo di oltre due milioni di occupati tra i giovani di 15-34 anni e di quasi un milione tra i 35 e 49 anni, più che compensato dall’aumento degli over 50, pari a quasi 5 milioni”.

I giovani scappano da un paese che non offre possibilità. Chelli ha sottolineato che nel decennio 2013-2022 sono espatriati oltre un milione di cittadini italiani, di cui circa un terzo, 352 mila, aveva tra i 25 e i 34 anni. Di queste persone, il 37,7% – oltre 132 mila – avevano la laurea. Se parliamo di chi è tornato nel Bel Paese, “i rimpatri di giovani della stessa fascia d’età sono stati circa 104mila, di cui oltre 45mila laureati”.

Ha poi continuato: “mentre il Nord e il Centro riescono a compensare le uscite dei giovani laureati grazie ai movimenti migratori provenienti dal Mezzogiorno, quest’ultima ripartizione registra una perdita netta di 168mila individui tra il 2013 e il 2022, un’erosione di capitale umano che ne riduce la capacità di sviluppo e la possibilità di recupero a fronte di possibili shock esogeni”.

Al solito, il governo si fregia delle statistiche che gli fanno comodo, nascondendo inoltre la realtà di povertà che soggiace ad esse.

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Il protezionismo che accelera la crisi dell’impero americano

di Emiliano Brancaccio

È il gran «giorno della liberazione», come Trump ama chiamarlo: vale a dire, una nuova ondata di barriere doganali con cui l’America indebitata verso l’estero punta a limitare gli afflussi di merci provenienti dal resto del mondo. Definirla «liberazione», in effetti, suona ironico.

Per decenni gli Stati Uniti hanno potuto importare senza freni dall’estero anche in virtù dell’esorbitante privilegio di emettere dollari, la valuta più richiesta per i pagamenti internazionali. È quello che gli economisti chiamano il «grado di libertà in più» della politica economica americana: una forza monetaria che è anche espressione di una più vasta egemonia imperiale, nel senso che la moneta dominante si è fatta largo anche grazie al controllo politico-militare delle aree in cui si diffondeva. Risultato: il Mondo portava i beni all’America, e questa in cambio lo ingozzava di banconote.

Proprio quel «grado di libertà» della politica americana, tuttavia, è oggi messo in discussione. Come riconosciuto da Larry Fink e da altri insider del capitalismo statunitense, è possibile che l’egemonia monetaria dell’America stia volgendo al termine.

Del resto, se i paesi esportatori accumulano dollari e gli Stati Uniti alzano barriere commerciali e finanziarie che impediranno il libero utilizzo di quegli stessi dollari, per quanto tempo ancora ci si potrà fidare del valore universale del biglietto verde? A ben vedere, proprio la politica protezionista americana accelera la crisi egemonica americana.

Se dunque così stanno le cose, in effetti proprio di «liberazione» si tratta. Ma a liberarsi non è tanto l’America, quanto piuttosto quella enorme parte di mondo che per decenni si è assoggettata all’imperio «militar-monetario» statunitense. Le parole di Donald Trump, come spesso capita, significano il contrario di quel che sembrano.

Certo, la storia insegna che nessuna «liberazione» è indolore. Tanto meno questa, il cui travaglio si annuncia lungo e carico di minacce. Il problema di una crisi egemonica è che bisogna costruire un’egemonia alternativa, possibilmente attraverso un accordo multilaterale globale. Facile a dirsi. Come una bestia abituata a dominare che avverte i segni del proprio declino, l’America farà ogni tipo di resistenza a un accordo che delinei la fine del suo esorbitante privilegio.

Ma anche i cinesi si guardano bene dal prendere un’iniziativa di coordinamento. Per adesso, a Pechino preferiscono agitare la vecchia bandiera del libero commercio globale contro quella insorgente del protezionismo statunitense. Ma è pura retorica. Il liberismo indiscriminato degli anni passati, infatti, è esso stesso una causa degli squilibri finanziari che hanno poi dato la stura alle barriere americane. Con buona pace di Xi Jinping, un ritorno al globalismo deregolato non può esser soluzione poiché è parte del problema.

Quanto all’Unione Europea, per aiutare a governare la crisi americana in modo pacifico potrebbe in primo luogo ammettere le sue responsabilità. Come il fatto che il veleno dell’austerity europea ha represso anche le nostre importazioni dal resto del mondo, e così ha contribuito a far montare il debito americano e gli altri squilibri internazionali.

Ma a Bruxelles non sembrano di questo avviso. Anzi, ieri (1 aprile, ndr) von der Leyen ha dichiarato che in caso di nuovi dazi americani l’UE è pronta a «vendicarsi». Altro che promozione del multilateralismo. Ancora una volta un linguaggio guerresco, che rivela mefitiche ambizioni da nuova Europa imperiale.

In questa angosciosa tormenta delle relazioni internazionali, resta da capire la linea dell’Italia. Il nostro paese si trova in una posizione difficile, poiché è tra quelli che più vendono agli Stati Uniti e quindi più contribuiscono all’indebitamento USA verso l’estero. Gli americani registrano infatti un eccesso di importazioni dall’Italia di ben 44 miliardi di dollari e lamentano di comprare quasi due volte e mezzo più beni e servizi di quelli che noi acquistiamo da loro.

Con un tale squilibrio, può anche darsi che nel «giorno della liberazione» l’Italia risulti un po’ meno colpita di altri paesi. Ma i dati indicano che resteremo a lungo tra i bersagli più grossi della politica protezionista di Washington. Rimembrando Marco Polo, faremmo bene a guardarci intorno in cerca di sbocchi commerciali alternativi.

Uscire senza troppe ferite dalla crisi strutturale del capitalismo atlantico richiederà lungimiranza strategica. L’esatto opposto della grottesca disputa tra Meloni, Tajani e Salvini a chi sa impersonare meglio «un americano a Roma».

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02/04/2025

Echi Mortali (1999) di David Koepp - Minirece

La Germania deporta quattro giovani stranieri per attivismo pro-Palestina

Nelle ultime settimane, sul nostro giornale abbiamo riportato alcuni casi di pesante repressione che hanno colpito studenti e dottorandi nelle università statunitensi, a causa del sostegno e della solidarietà data alla causa palestinese. Le vittime della lunga mano del sionismo non fanno che moltiplicarsi, ma questo non succede solo al di là dell’Atlantico.

L’articolo qui riportato è stato tradotto da The Intercept, ed è comparso anche su +972 Magazine. È stato scritto dal giornalista Hanno Hauenstein, i cui lavori sono comparsi anche sul The Guardian e Haaretz. La storia che ricostruisce è quella di come le autorità di Berlino stanno adottando la stessa logica di Trump per l’espulsione dei solidali con la Palestina.

In un certo senso, per le specifiche legali che vengono evidenziate nell’articolo e la cittadinanza di paesi dell’area Schengen di tre dei quattro manifestanti colpiti dagli ordini di espulsione, forse questi casi sono ancora peggiori di quelli degli USA. Ma non è certo il caso di fare una classifica della ‘migliore’ repressione.

Prima di lasciare il lettore alle parole di Hauenstein, vogliamo sottolineare solo due questioni. La prima è come, in maniera sempre più diffusa, il combinato disposto tra l’associazione di ogni forma di dissenso alla categoria di “terrorismo” e l’invocazione di “ragioni di sicurezza nazionale” vengano usati per la repressione del fronte interno di una guerra che pervade la società occidentale, fuori e dentro i suoi confini.

Questo non avviene solo negli Stati Uniti di Trump, che con una semplice elezione, da “culla della democrazia” si sono trasformati in un paese quasi “canaglia”, e anche un po’ sottosviluppati culturalmente (stando alle parole suprematiste sentite nella piazza per l’Europa guerrafondaia di Michele Serra).

Avviene nel cuore della UE, in Germania, dove il principale partito è l’equivalente della nostra vecchia Democrazia Cristiana. E dove è stato fatto votare un parlamento ormai scaduto (ovvero “senza più potere di decidere”) per superare il vincolo costituzionale di bilancio che metteva freno al riarmo, nuova cartina tornasole del livello di civiltà e di democrazia nella vulgata bellicista di Bruxelles.

Insomma, alla fin fine, almeno se si tratta di reprimere ogni voce critica, USA e UE non sono poi così diversi.

L’altro elemento che a questo punto va sottolineato è che di fronte ai casi tedeschi suscita davvero rabbia la difesa che abbiamo sentito a più riprese in vari programmi televisivi, per cui – sì – è vero, anche l’Occidente ha violato il diritto internazionale, ma qui abbiamo il diritto di denunciarlo.

Le ritorsioni che stanno subendo i quattro manifestanti di cui si parla qui sotto mostrano che non è più vero neanche questo minimo. Se si prova a denunciare la complicità in un genocidio mentre questo accade, la tua vita viene resa impossibile. Forse, a distanza di qualche decennio, quando lo sterminio sarà completato, le classi dirigenti potrebbero permettere a qualcuno di dirlo: “è vero, i nostri governi sono stati complici del genocidio“.

Per quanto sia solo un’illusione (non accadrà davvero e, nel caso, troveranno sempre una scusante per giustificare il suprematismo europeo), questo è un insegnamento da tenere a mente: il capitale al massimo ti potrà concedere di dire le cose, non di cambiarle. Che è quello che vogliono davvero le forze emancipatrici in una società ingiusta.

Buona lettura.

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Le autorità per l’immigrazione di Berlino stanno procedendo all’espulsione di quattro giovani residenti stranieri con l’accusa di aver partecipato alle proteste contro la guerra di Israele a Gaza, una decisione senza precedenti che solleva serie preoccupazioni sulle libertà civili in Germania.

Gli ordini di espulsione, elaborati ai sensi della legge tedesca sull’immigrazione, sono stati emessi in mezzo a pressioni politiche e a obiezioni interne da parte del capo dell’agenzia per l’immigrazione di stato di Berlino. Il conflitto interno è sorto perché tre di coloro che sono stati presi di mira per l’espulsione sono cittadini di stati membri dell’Unione Europea che normalmente godono della libertà di movimento tra i paesi dell’UE.

Gli ordini, emessi dallo stato di Berlino, la cui amministrazione del Senato sovrintende all’applicazione delle leggi sull’immigrazione, dovrebbero entrare in vigore in meno di un mese. Nessuno dei quattro è stato condannato per alcun crimine. Questi casi sono paragonabili all’uso che gli Stati Uniti fanno degli ordini di espulsione per reprimere i movimenti sociali.

“Quello che stiamo vedendo qui è tratto direttamente dal manuale dell’estrema destra”, ha detto Alexander Gorski, un avvocato che rappresenta due dei manifestanti. “Lo si può vedere negli Stati Uniti e ora anche in Germania: il dissenso politico viene messo a tacere prendendo di mira lo status di migrante dei manifestanti”.

“Da un punto di vista legale, siamo rimasti allarmati dal ragionamento, che ci ha ricordato il caso di Mahmoud Khalil“, ha detto Gorski, riferendosi al laureato palestinese della Columbia University e residente permanente negli Stati Uniti che è stato prelevato dal suo condominio con l’accusa di attività pro-Palestina nel campus.

Le quattro persone destinate all’espulsione – Cooper Longbottom, Kasia Wlaszczyk, Shane O’Brien e Roberta Murray – sono cittadini, rispettivamente, degli Stati Uniti, della Polonia e, negli ultimi due casi, dell’Irlanda.

Secondo la legge tedesca sull’immigrazione, le autorità non hanno bisogno di una condanna penale per emettere un ordine di espulsione, ha affermato Thomas Oberhäuser, avvocato e presidente del comitato esecutivo per il diritto dell’immigrazione presso l’Ordine degli avvocati tedesco. Le motivazioni citate, tuttavia, devono essere proporzionali alla gravità dell’atto di espulsione, che può implicare fattori come la separazione dalla propria famiglia o la perdita della propria attività.

“La domanda chiave è: quanto è grave la minaccia e quanto è proporzionata la risposta?”, ha detto Oberhäuser, che non è coinvolto nel caso. “Se qualcuno viene espulso semplicemente per le sue convinzioni politiche, si tratta di un enorme eccesso”.

Ognuno dei quattro manifestanti deve affrontare accuse separate da parte delle autorità, tutte sostanziate sulla base di file della polizia e collegate ad azioni pro-Palestina a Berlino. Alcune accuse, ma non tutte, rientrano nel diritto penale in Germania; quasi nessuna di esse è stata portata dinnanzi a un tribunale penale.

Le proteste in questione includono un sit-in di massa presso la stazione centrale di Berlino, un blocco stradale e l’occupazione di un edificio presso la Free University di Berlino, avvenuta a fine 2024.

L’unico evento che collega i quattro casi è l’accusa che i manifestanti abbiano partecipato all’occupazione dell’università, che ha comportato “danni alla proprietà” e una presunta ostruzione di un arresto, con lo scopo di bloccare la detenzione di un altro manifestante.

Nessuno dei manifestanti è accusato di particolari atti di vandalismo o dell’ostruzione dell’arresto presso l’università. Invece, l’ordine di espulsione cita il sospetto che abbiano preso parte a un’azione di gruppo coordinata. La Free University ha detto a The Intercept di non essere a conoscenza degli ordini di espulsione.

Alcune delle accuse sono di minore entità. In due, ad esempio, sono accusati di aver definito un agente di polizia “fascista“, e perciò di aver insultato un agente, che è un reato. In tre sono accusati di aver manifestato con gruppi che scandivano slogan come “From the river to the sea, Palestine will be free” (che è stato dichiarato illegale l’anno scorso in Germania) e “Free Palestine”. Le autorità affermano inoltre che tutti e quattro hanno urlato “slogan antisemiti” o anti-Israele, anche se nessuno è specificato.

Due di loro sono accusati di aver afferrato il braccio di un agente o di un altro manifestante nel tentativo di fermare gli arresti durante il sit-in alla stazione ferroviaria. O’Brien, uno dei cittadini irlandesi, è l’unico dei quattro il cui ordine di espulsione includeva un’accusa, ovvero quella di aver definito un agente di polizia “fascista”. Reato per il quale è stato portato davanti a un tribunale penale di Berlino, dove è stato assolto.

Tutti e quattro sono accusati, senza prove, di sostenere Hamas, gruppo che la Germania ha definito un’organizzazione terroristica. Tre dei quattro ordini di espulsione invocano esplicitamente presunte minacce alla sicurezza pubblica e il supporto ad Hamas per sostenere che i manifestanti non possono far valere i loro diritti costituzionali alla libertà di espressione e di riunione durante i procedimenti di espulsione.

“Quello a cui stiamo assistendo sono le misure più dure possibili, basate su accuse estremamente vaghe e in parte del tutto infondate”, ha affermato Gorski, l’avvocato di due dei manifestanti. In una mossa senza precedenti, ha affermato Gorski, tre dei quattro ordini di espulsione citano come giustificazione l’impegno nazionale della Germania a difendere Israele, la Staatsräson, termine tedesco per ragion di Stato.

Oberhäuser, del comitato per l’immigrazione dell’Ordine degli avvocati, ha affermato che Staatsräson è un principio piuttosto che una categoria giuridica significativa. E un organo parlamentare ha recentemente sostenuto che non vi sono effetti giuridicamente vincolanti della disposizione.

Questa distinzione, ha affermato Oberhäuser, rende giuridicamente dubbio l’uso dello Staatsräson nei procedimenti di espulsione: “Ciò è inammissibile secondo il diritto costituzionale”.

Le e-mail interne ottenute da The Intercept mostrano pressioni politiche dietro le quinte per emettere gli ordini di espulsione, nonostante le obiezioni dei funzionari dell’immigrazione di Berlino. La battaglia si è svolta tra i burocrati del Senato di Berlino, dell’organo esecutivo del Land sotto l’autorità del sindaco Kai Wegner, a sua volta eletto dall’organo parlamentare della città.

Dopo che il Dipartimento degli Interni del Senato di Berlino ha chiesto un ordine di espulsione, Silke Buhlmann, responsabile della prevenzione della criminalità e del rimpatrio presso l’agenzia per l’immigrazione, ha sollevato delle obiezioni.

In una e-mail, Buhlmann ha sottolineato che le sue preoccupazioni erano condivise dal funzionario più alto in grado dell’agenzia per l’immigrazione, Engelhard Mazanke. Buhlmann ha espressamente avvertito che la base giuridica per revocare la libera circolazione dei tre cittadini dell’UE era insufficiente e che la loro espulsione sarebbe stata illegale.

“In coordinamento con il signor Mazanke, vi informo che non posso ottemperare alla vostra direttiva del 20 dicembre 2024, ovvero condurre udienze per gli individui elencati da a) a c) e successivamente determinare la perdita della libertà di movimento, per motivi legali”, ha scritto Buhlmann, riferendosi ai tre cittadini degli stati dell’UE come casi da A a C.

Buhlmann ha scritto che, sebbene i rapporti della polizia “suggeriscano una potenziale minaccia all’ordine pubblico da parte degli individui interessati, non ci sono condanne penali definitive per comprovare una minaccia sufficientemente seria e reale”.

L’obiezione interna, assunta come rimostranza, è stata rapidamente respinta dal funzionario del Dipartimento del Senato di Berlino, Christian Oestmann, che ha respinto le preoccupazioni e ha ordinato di procedere comunque con gli ordini di espulsione.

“Per questi individui, la libertà di movimento continuata non può essere giustificata per motivi di ordine pubblico e sicurezza, indipendentemente da eventuali condanne penali”, ha scritto. “Pertanto, chiedo che le udienze siano condotte immediatamente come da istruzioni”.

In una dichiarazione rilasciata a The Intercept, un portavoce del Dipartimento del Senato ha dichiarato che il Dipartimento degli Interni aveva autorità sull’ufficio immigrazione. “Il Dipartimento per gli Interni e lo Sport del Senato esercita la supervisione tecnica e amministrativa sullo State Office for Immigration”, ha affermato il portavoce. “Come parte di questo ruolo, detiene l’autorità di emanare direttive”.

Il Senato ha rifiutato di commentare i dettagli dei casi, citando la protezione della privacy. L’agenzia per l’immigrazione non ha risposto alla richiesta di commento di The Intercept. Alla fine, Mazanke, il massimo funzionario della giustizia sull’immigrazione, ha rispettato la direttiva e ha firmato l’ordine.

Nelle interviste rilasciate a The Intercept, i quattro manifestanti destinatari degli ordini di espulsione hanno rifiutato di discutere le accuse specifiche rivolte loro. Nel frattempo, a tutti e quattro è stato ordinato di lasciare la Germania entro il 21 aprile 2025, altrimenti saranno espulsi con la forza.

Le conseguenze più gravi spetterebbero a Longbottom, uno studente americano di 27 anni di Seattle, Washington, a cui l’ordine impedirebbe di entrare in uno qualsiasi dei 29 paesi della zona Schengen per due anni dopo aver lasciato la Germania.

Longbottom, che ha negato qualsiasi antisemitismo, ha dichiarato a The Intercept che gli restano solo sei mesi per completare la sua laurea magistrale presso l’Università Alice Salomon di Berlino, dove studia diritti umani. “Riuscirò a finire il mio percorso qui? Dove andrò a vivere?” ha detto Longbottom. “Tutte queste domande sono molto poco chiare”.

Longbottom, che è trans, vive a Berlino con il suo compagno, un cittadino italiano. La prospettiva di essere separati pesa molto su di loro. “Non ho niente da cui ricominciare”, ha detto. “Come persona trans, l’idea di tornare negli Stati Uniti in questo momento mi fa davvero paura”.

Kasia Wlaszczyk, 35 anni, operatrice culturale e cittadina polacca, ha affermato di non aver mai immaginato che ciò potesse accadere. Ha sottolineato che le accuse di antisemitismo sono prevalentemente una tattica razzista rivolta contro palestinesi, arabi e musulmani in Germania e gli ordini di deportazione riflettono un aumento nell’uso dell’accusa contro chiunque si schieri in solidarietà con loro.

“La Germania usa queste accuse come un’arma”, ha affermato. Wlaszczyk, anch’egli trans, non vive più in Polonia dall’età di dieci anni. “Se ciò andasse si concretizzasse, verrei sradicato dalla comunità che ho costruito qui”, ha affermato.

Tra i manifestanti era comune il senso di imminente perdita di senso di comunità. “La mia illusione di Berlino è stata infranta dalla mancanza di risposta al genocidio”, ha detto Shane O’Brien, 29 anni, cittadino irlandese. La violenta repressione delle comunità arabe a Berlino, ha detto, lo ha lasciato scosso.

Dopo tre anni a Berlino, la minaccia di espulsione ora appare come una rottura per Roberta Murray, 31 anni, anche lei irlandese. “La mia vita è qui“, ha detto. “Non sto facendo progetti per l’Irlanda. Credo che vinceremo, e che resteremo. Non credo che questo reggerà in tribunale”.

Gorski e altri avvocati hanno ora presentato una mozione urgente per ottenere provvedimenti provvisori, insieme a un ricorso formale per contestare la legalità degli ordini di espulsione.

Ha sottolineato di aver lavorato su casi simili in cui la legge sull’immigrazione è stata utilizzata per prendere di mira attivisti filo-palestinesi per i loro discorsi, ma ciò che distingue gli attuali quattro casi, ha affermato, è la facilità con cui la cosiddetta Staatsräson tedesca viene utilizzata per giustificare le espulsioni.

“I precedenti penali di queste persone sono puliti”, ha detto Gorski. Eppure il governo di Berlino sembra costruire una narrazione di “pericolo imminente” per eludere il giusto processo.

Gorski ha avvertito che i casi rappresentano un banco di prova per una più ampia repressione contro immigrati e attivisti in Germania, e non riguardano solo quattro manifestanti. Ha detto: “Vengono usati come cavie”.

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