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09/04/2025

Crolla un sistema di regole, quindi anche le borse

Neanche il tempo di prendere fiato, e ricrolla giù tutto. Le borse stanno lì per quello, per “anticipare” movimenti e processi che arriveranno settimane o mesi dopo. Ora tutto avviene nel giro di ore, ed anche quel “termometro” del valore (azionario) sembra battere colpi in testa.

Ieri, per esempio, per le piazze mondiali era stata una giornata di recupero, dopo tre sedute da incubo. Ma è bastata ancora una volta un firma di Trump per mandare tutto nuovamente a ramengo. Del resto quella firma rendeva realtà la minaccia – rivolta alla Cina – di raddoppiare i dazi se Pechino avesse reagito alla mossa unilaterale degli Usa, sancita una settimana fa.

Un 50% supplementare sulle merci cinesi, visto che Xi Jinping non aveva obbedito al “diktat” secondo cui aveva tempo fino “alle ore 12” di ieri per annullare i contro-dazi del 34% messi sulle merci Usa per bilanciare quelli subiti.

Inevitabilmente, da quel minuto, le borse europee hanno preso a scendere, chiudendo ancora positive ma con recuperi assai meno eclatanti rispetto alle quotazioni della mattina, mentre quelle Usa – per questioni di orario – potevano scendere ampiamente, guidando il tracollo notturno delle piazze asiatiche e anticipando perciò quello europeo di oggi.

Al fondo c’è chiaramente anche un clamoroso errore di valutazione, oppure una dichiarazione di guerra. E sembra molto più probabile la seconda...

Era infatti impossibile pensare seriamene che la prima potenza manifatturiera del mondo “obbedisse” al comando degli Stati Uniti come una Estonia qualsiasi (il paese di Kaja Kallas, improbabile “ministro degli esteri” della UE, con una popolazione equivalente a tre o quattro quartieri di Roma). E dunque l’intimazione andava presa come un insulto che pretendeva una risposta negativa.

Ora i dazi Usa sulle merci cinesi sono arrivati al 104%. Una misura che ha un solo significato concreto: noi non vogliamo più importare le vostre merci. Cui si può rispondere solo con una “grazie, altrettanto”, se sei un paese che si regge sulle proprie gambe, oppure con un “maestà, ci perdoni, apriamo un negoziato!” se non ce la puoi fare.

Una breve analisi delle merci scambiate tra i due paesi rivela subito che il problema insolubile ce l’hanno gli Stati Uniti. Le merci cinesi di basso livello, infatti, hanno fin qui permesso la sopravvivenza degli americani più poveri, grazie al basso costo. Mentre quelle di alto livello tecnologico sono in genere merci di società statunitensi che producono in Cina. Ne sa qualcosa Apple, crollata in borsa più di tutti, davanti ai dazi trumpiani del 34% che portavano il costo medio degli iPhone intorno ai 2.300 dollari (a quasi 3.000, ora, con il raddoppio di ieri sera).

Dall’altra parte le esportazioni Usa verso Pechino sembrano il menu di un paese povero (soia, carne bovina e di maiale, ecc.), sostituibili appunto con i prodotti equivalenti di altri paesi poveri, magari anche a un prezzo più conveniente...

Questo squilibrio “fisico” spiega molto dell’azzardo statunitense, che mette fine ad un “ordine mondiale” costruito in base ai propri interessi ma che, nel corso dei decenni, gli altri paesi hanno imparato a leggere ed aggirare, come normalmente avviene sempre nel business.

Quell’ordine era per Washington ormai un fardello insostenibile, con squilibri commerciali crescenti (quantificati ora in circa 26.000 miliardi, cumulati nei decenni scorsi), un debito pubblico pantaguelico, una desertificazione industriale imposta dalle stesse imprese Usa quando hanno avviato la “de-localizzazione” della produzione verso i paradisi del baso costo del lavoro, e moltitudini di poveri accampati nelle strade tra un grattacielo e l’altro (guardate le foto di Skid Row, a Los Angeles, per farvi un’idea...).

Il debito pubblico, in genere, è un problema solo relativo. Il Giappone – e ovviamente l’Italia – ne hanno di più alti (in percentuale sul PIL) rispetto a quello Usa, ma con una differenza fondamentale. I titoli di stato (titoli di debito) sono qui e a Tokyo posseduti soprattutto da investitori nazionali, e dunque questi paesi sono indebitati soprattutto con se stessi. Con un po’ di accortezza, insomma, si può gestire la situazione...

Il debito Usa è prevalentemente con investitori stranieri, in primo luogo con Stati (Cina, Arabia Saudita, altre petromonarchie del Golfo, ecc.), che trovavano nel dollaro una moneta di riserva “sicura”.

Mettere fine a quell’ordine significa metter fine a qualsiasi ordine. In effetti era un ordine infame, totalmente ingiusto, fatto su misura per la speculazione finanziaria e l’affamamento dei popoli. Impossibile esserne nostalgici. Ma era un ordine, ossia un sistema di regole e contrappesi che costituiva l’ambiente in cui tutti gli operatori economici – rilevanti o trascurabili – si muovevano, garantendo prevedibilità, per lo meno sui tempi medi.

Chiudere quella fase senza avere un ordine sostitutivo – l’arbitrio imprevedibile con cui agisce l’attuale amministrazione Usa tutto è meno che una “garanzia” – è semplicemente devastante.

I critici “democratici” della svolta trumpiana provano a ciurlare nel manico dicendo che questa rottura prefigura “un mondo in cui il più forte ha ragione, in cui le grandi potenze concludono accordi e intimidiscono quelle piccole”. È una presa in giro, naturalmente. Il mondo capitalistico è quello in cui “il più forte ha sempre ragione”, qualunque sia il sistema di regole vigente. E proprio gli Stati Uniti ne sono la dimostrazione vivente, visto che non hanno mai passato un anno senza essere in guerra contro paesi molto più deboli da quando sono diventati “egemoni” nel mondo.

La differenza che caratterizza il “mondo secondo Trump” è una sola: oggi è esplicito, senza giri di parole, senza melassa “diritto-umanista” o “preoccupazioni ecologiste”. Senza ipocrisia, insomma. “Ci serve la Groenlandia e ce la prenderemo, in un modo o nell’altro”.

Difficile contrastare questa aggressività neocoloniale e fascistoide con il ricorso alla “sacralità delle regole”. Quando ti sparano addosso metti mano alla pistola, se ce l’hai, non cerchi un buon avvocato. Anche negli affari...

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La corsa allo spazio dell’UE contro Starlink... ma non senza problemi interni

Sul nostro giornale abbiamo sempre dato conto di come la nuova corsa allo spazio si stia intersecando con l’inasprirsi della competizione globale. E ciò vale sia che si parli della ricerca di materie prime, sia che si tratti dello sviluppo delle tecnologie dell’informazione e della loro sempre più importante applicazione a fini bellici.

Lo abbiamo visto in maniera chiara con Starlink e la guerra in Ucraina. Ma ora che l’illusione euroatlantica si è definitivamente rotta, e le classi dirigenti continentali vogliono provare a contare solo sulle proprie forze, Bruxelles deve trovare disperatamente un’alternativa ai servizi forniti da SpaceX, o per lo meno un percorso complementare.

Se fino a poco tempo fa si pensava che Giorgia Meloni potesse essere l’ariete degli interessi di Elon Musk nel Vecchio Continente (in un rapporto che si è però raffredato velocemente, almeno così scriveva Bloomberg un mese fa), ora i principali attori di questo settore ancora piuttosto vergine, dal punto di vista della normazione, scoprono le loro carte.

Qui rendiamo conto di due temi che sono comparsi nel dibattito pubblico degli ultimi giorni: l’attività Eutelsat e una costellazione italiana in orbita bassa (come è Starlink), annunciata dal ministro delle Imprese, Adolfo Urso. Per ora, lasciamo da parte Iris2, il sistema di satelliti geostazionari che dovrebbe entrare pienamente in funzione dal 2035.

Le caratteristiche di Iris2 lo rendono più adatto a scopi civili (trasmissione televisiva e comunicazioni mobili), mentre l’interesse è quello di rendere conto brevemente di progetti che dimostrano di avere importanti applicazioni militari. In un periodo del genere, sembra almeno necessario sapere di cosa si sta parlando, per capirne i risvolti.

Lo scorso 4 aprile Eva Berneke, amministratrice delegata di Eutelsat, ha dichiarato a Reuters che la società fornisce il suo servizio internet satellitare ad alta velocità all’Ucraina da almeno un anno. Questo avviene attraverso un operatore tedesco, ed è stata proprio Berlino a finanziare il tutto, anche se Berneke si è rifiutata di commentare i costi.

Eutelsat è nata quasi mezzo secolo fa come organizzazione intergovernativa europea, poi privatizzata a inizio anni Duemila. Ha sede a Parigi, e opera in Italia attraverso la concessionaria Telespazio, società partecipata dall’italiana Leonardo (67% delle azioni) e dalla francese Thales (il restante 33%).

Ad oggi ci sono solo mille terminali che collegano Eutelsat ad utenti ucraini, ma Berneke è convinta che il numero aumenterà tra i 5 e i 10 mila nel giro di poche settimane. Annalena Baerbock, che guida il ministero degli Esteri della Germania, si è rifiutata di commentare la notizia, mentre rimangono i soliti dubbi su chi finanzierà l’espansione di iniziative future.

“Non sappiamo ancora come l’UE, collettivamente o paese per paese, finanzierà gli sforzi futuri”, ha detto Joanna Darlington, portavoce di Eutelsat. Quello che è certo è che nel 2022 la società ha completato l’acquisto di OneWeb, unico attore europeo in grado di competere sulle costellazioni satellitari in orbita bassa, anche se rimane tuttora molto indietro rispetto a SpaceX.

In realtà, già dalla metà di quest’anno si prevede l’attivazione di EU GOVSATCOM, iniziativa parallela a Iris2, che vuole però garantire servizi di comunicazione satellitare alle autorità pubbliche nazionali, impegnate in attività riguardanti la sicurezza nazionale. Inizialmente si baserà sul coordinamento tra sistemi satellitari nazionali, mentre poi potrebbe svilupparsi un’infrastruttura spaziale ad hoc.

Sempre il 4 aprile il ministro Urso ha annunciato che il governo italiano sta valutando un proprio sistema satellitare per rispondere alle esigenze istituzionali riguardanti difesa e sicurezza. “Lo scorso anno – ha detto il ministro – abbiamo dato mandato all’Agenzia spaziale italiana di realizzare un primo studio di fattibilità sui tempi, le modalità e i costi, studio di fattibilità che ci è stato consegnato ed è incoraggiante”.

L’Agenzia spaziale italiana (ASI) ora dovrà verificare la capacità della filiera nazionale di raggiungere questo obiettivo. Tuttavia, Roma deve mantenere aperte varie interlocuzioni: non solo i costi di un’impresa del genere sarebbero nell’ordine dei miliardi di euro, ma i tempi per completarla sono tutt’altro che brevi.

Allo stesso tempo, non sono mancate le scintille tra l’ASI e Leonardo. Infatti, a fine marzo Leonardo, Thales e Airbus hanno presentato alla Commissione Europea un piano preliminare per riunire le loro risorse spaziali in un’unica società. Ipotesi di cui avevamo già reso conto sul nostro giornale alla fine dello scorso anno.

Sarebbe un’opportunità straordinaria per creare un ‘campione europeo’ che, attraverso la sinergia tra competenze complementari e le economie di scala, riesca per lo meno a stare a galla in questo settore fondamentale dell’innovazione. Un passo verso la centralizzazione ulteriore dei capitali a livello del Vecchio Continente.

Vedremo cosa risponderà l’Antitrust UE, date anche le resistenze già esposte dalla tedesca OHB, altro player del settore. Ma intanto, anche Marco Lisi Turriziani, inviato speciale per lo Spazio del ministero degli Esteri e membro del consiglio di amministrazione dell’ASI, ha espresso preoccupazioni al riguarda di un’operazione di tale portata.

Secondo Turriziani, sono innanzitutto tutte le Piccole e Medie Imprese (PMI) europee del settore le prime a subire un contraccolpo. Una filiera che comprende 400 imprese e vale 3 miliardi di fatturato nel nostro paese. Una filiera magari anche tecnologicamente avanzata, ma che di fronte al nuovo colosso Leonardo-Thales-Airbus non potrebbe nulla.

Alessandro Sannini, esperto di politiche economiche spaziali, riguardo questo nuovo soggetto ha detto: “sarebbe capace di dettare unilateralmente le condizioni di mercato, chiudere l’accesso ai grandi programmi e concentrare il know-how”. In sostanza, sarebbe quel ‘campione europeo’ che trasformerebbe davvero il mercato spaziale in senso monopolistico, o quasi.

Dunque, possiamo dire che, nel pieno della crisi delle prospettive dell’imperialismo UE, nel settore spaziale si va delineando in maniera chiara lo scontro tipico che contrappone il capitale multinazionale e la borghesia nazionale. Aspettiamo di vedere se questo si concluderà in favore del primo, oppure se l’azione congiunta di interessi nazionali e di altri grandi attori come OHB fermerà il tutto.

La tendenza, il tentativo di salto di qualità è però incontrovertibile. E a perdere saranno ad ogni modo i lavoratori.

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L’UE si insinua tra Russia e Cina

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Insieme all’Africa, l’Asia Centrale si conferma una delle regioni del pianeta più ambite dalle grandi potenze in competizione.

Pur rimanendo in alcuni casi politicamente ancorate alla Federazione Russa, le repubbliche ex sovietiche dell’area hanno consolidato negli ultimi anni le proprie relazioni economiche e commerciali soprattutto con la Repubblica Popolare Cinese, che da anni aumenta la propria influenza nel quadrante proprio a spese di Mosca.

L’UE si insinua tra Russia e Cina 

In questo gioco ha deciso di entrare anche l’Unione Europea alla ricerca di materie prime strategiche e di nuovi mercati. Complessivamente l’UE rappresenta già il secondo partner commerciale per la regione nonché il principale investitore, con oltre il 40% del totale.

Trainato da gas e petrolio, l’interscambio commerciale tra UE e Kazakistan ha raggiunto nel 2024 i 47 miliardi di dollari, e i 6,5 miliardi con l’Uzbekistan. Per la maggior parte, il petrolio kazako viene trasportato in Europa tramite alcuni oleodotti che attraversano la Russia e poi via mare. Astana punta però a deviare i flussi per arrivare ad esportare fino a 20 milioni di tonnellate di petrolio l’anno (contro gli attuali 1,5 milioni) tramite l’oleodotto Baku-Tbilisi-Ceyhan.

Il Kazakistan, inoltre, presenta un vasto potenziale per la generazione di energia solare ed eolica, e potrebbe diventare un fornitore di energia rinnovabile di primissimo piano per l’Europa.

Il vertice UE-Asia Centrale 

Per rafforzare ulteriormente la propria posizione, lo scorso 4 aprile l’UE ha organizzato a Samarcanda, in Uzbekistan, un importante vertice con i paesi dell’Asia Centrale nel corso del quale la presidente della Commissione Europea Ursula von der Leyen e il presidente del Consiglio Europeo Antonio Costa hanno incontrato i leader locali e quelli di Kazakistan, Kirghizistan, Tagikistan e Turkmenistan.

Ad accompagnare le più alte cariche politiche dell’Europa a 27 c’erano Odile Renaud-Basso, presidente della Banca Europea per la Ricostruzione e lo Sviluppo (BERD) e una delegazione della Banca Europea per gli Investimenti.

Con i cinque paesi, i rappresentanti europei hanno siglato una nuova partnership strategica promettendo investimenti complessivi per 12 miliardi di euro – di cui 2,5 dedicati al settore minerario – da stanziare nell’ambito del Global Gateway, il progetto varato dall’UE nel 2021 con l’obiettivo di sviluppare nuove infrastrutture nei cosiddetti “paesi in via di sviluppo”, proposto come alternativa alla Belt and Road Initiative, cioè la “Nuova via della seta” di Pechino.

I settori chiave di investimento comprendono l’energia, le industrie chimica, farmaceutica, tessile ed elettrotecnica, la produzione di materiali da costruzione, la lavorazione agricola, l’estrazione e la lavorazione mineraria, nonché la logistica e i trasporti.

Il Corridoio Trans-Caspico 

In particolare Bruxelles ha promesso di accelerare la realizzazione del Corridoio di Trasporto Trans-Caspico (TITR), una rotta commerciale lunga ben 6500 km che dovrebbe collegare la Cina al continente europeo attraversando l’Asia Centrale e il Caucaso ma bypassando la Federazione Russa.

Lo sviluppo delle infrastrutture portuali e ferroviarie che dovrebbero costituire la spina dorsale del Corridoio Trans-Caspico – in grado, a regime, di ridurre i tempi di trasporto delle merci dall’Asia Centrale all’Europa a soli 15 giorni – è in forte ritardo rispetto alla tabella di marcia e i paesi coinvolti sono tornati a chiedere a Bruxelles lo stanziamento immediato di risorse economiche adeguate.

La strategia dell’UE 

Per quanto molto relativa, la riuscita del vertice – alcuni governi dell’area hanno espresso dei dubbi sulla capacità europea di dar seguito agli impegni presi – rappresenta comunque un risultato importante per l’UE.

Se da una parte Bruxelles intende frenare l’espansione della Cina (che comunque rappresenta il primo partner economico delle repubbliche dell’Asia Centrale), dall’altra cerca nuove fonti di approvvigionamento energetico e minerario dopo il blocco delle forniture russe seguito all’invasione dell’Ucraina da parte di Mosca, e nuovi mercati per le proprie merci gravate negli Stati Uniti dai dazi imposti da Donald Trump.

Le ambizioni europee non sembrano particolarmente frenate dal fatto che i paesi in questione siano governati da regimi più o meno autoritari e personali.

Energia e terre rare 

In cambio di un impulso determinante allo sviluppo del Corridoio Trans-Caspico (che però, in totale, richiede investimenti per almeno 18 miliardi) l’UE potrà avere accesso ai minerali preziosi e alle terre rare, indispensabili per la transizione energetica e tecnologica, di cui i paesi dell’Asia Centrale sono tra i principali detentori del Pianeta.

In particolare, l’area possiede il 39% delle riserve note mondiali di manganese, il 30% dei giacimenti di cromo, il 20% di quelli di piombo, il 13% delle riserve di zinco e il 9% di quelle di titanio. Alla vigilia del vertice il Kazakistan, che è già il principale produttore al mondo di uranio, ha annunciato la scoperta di nuovi giacimenti di terre rare per un totale stimato di 20 milioni di tonnellate. Il Tagikistan, invece, vanta grandi riserve di antimonio.

Bruxelles ha firmato una dichiarazione d’intenti con l’Uzbekistan ed ha annunciato l’apertura di un ufficio regionale della BEI a Tashkent, la capitale del paese che ha ospitato il vertice. Nel suo intervento introduttivo alla conferenza, Von der Leyen ha promesso che gli europei non mirano esclusivamente a sfruttare le risorse locali – riferendosi evidentemente ai propri competitori – ma sono disponibili a garantire ricadute positive sui territori coinvolti.

L’Asia Centrale vuol fare blocco 

Il vertice UE-Asia Centrale si è svolto in un clima di ritrovata stabilità nell’area, conseguita grazie ad uno storico accordo firmato lo scorso 13 marzo tra Kirghizistan e Tagikistan che delimita finalmente i confini tra i due paesi e mette fine ad una disputa durata trent’anni. Il conflitto trentennale era stato originato anche da alcune controversie sul controllo di importanti risorse idriche, e in più di un’occasione ha portato negli anni scorsi a scontri armati tra le due repubbliche ex sovietiche.

Gli ultimi sanguinosi episodi bellici si sono verificati nell’aprile del 2021 e nel settembre del 2022, quando i due eserciti si sono scontrati lungo la frontiera causando centinaia tra morti e feriti.

L’accordo, firmato a Bishkek – la capitale kirghisa – dal presidente locale Sadir Japarov e dal suo omologo tagiko Emomali Rahmon, prevede uno scambio di territori, la riapertura della frontiera e il ripristino dei collegamenti civili e commerciali diretti.

L’accordo sembra propedeutico ad una maggiore cooperazione ed integrazione tra i cinque paesi dell’Asia Centrale ex sovietica, che sembrano interessati a fare fronte comune per avvantaggiarsi del proprio ruolo strategico nella competizione tra Cina, Russia e Unione Europea.

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[Contributo al dibattito] - Riflessioni sulla manifestazione del M5S del 5 aprile

Volendo proporre alcune riflessioni sulla grande manifestazione contro il riarmo svoltasi su iniziativa del M5S sabato 5 aprile, credo sia opportuno partire dalle due questioni correttamente poste in più occasioni, prima e dopo la manifestazione proprio su Contropiano, dal compagno Sergio Cararo.

Sulla prima questione, significato e valore della manifestazione, poco da aggiungere a quanto evidente a tutti: prima grande manifestazione di popolo, in cui per la prima volta dopo tre anni il rifiuto della guerra e delle spese militari, larghissimamente maggioritario nel Paese, si è espresso in modo veramente significativo, tanto per i numeri che per la nettezza dei contenuti; una sberla al mainstream politico e comunicativo.

Aggiungo un rilievo interessante, riportato proprio da Cararo, il dato generazionale, con la presenza di quella generazione di trenta-quarantenni, che della sinistra novecentesca hanno conosciuto solo i cascami e che nel M5S hanno visto una opportunità; la stessa generazione che dell’Europa non ha conosciuto gli ideali e i valori successivi alla II Guerra Mondiale, ma il rigore, le imposizioni, i sacrifici e le ipocrisie di questi ultimi decenni.

Quindi una piazza importante, espressione di una realtà socialmente, politicamente e culturalmente composita, che forse nel nuovo quadro di questa Europa guerrafondaia, trova un terreno di ricomposizione. Altro si potrebbe dire, ma per brevità mi fermo.

La seconda è quella dello sbocco politico, di questa prima espressione sociale contro il riarmo; uno sbocco politico che specialmente dopo la chiamata di Conte al PD e la pronta risposta della Schlein è lecito ritenere possa infine risolversi in un accordo elettorale e di governo tra PD e M5S, in cui il No al riarmo “degli stati”, si trasforma magari in un più compatibile “Si ad un piano di difesa europeo”, magari con un prestito europeo comune come, se non sbaglio, Draghi era stato il primo a proporre.

L’ennesima fregatura rifilata a centinaia di migliaia di persone, ancora una volta poste di fronte al dilemma “turarsi il naso” o mandar tutti a quel paese e non votare. È in questa contraddizione che le residue forze politiche e sociali, con dichiarata posizione di classe e anticapitaliste, rischiano di trovarsi a vivere un film già noto, con due sole apparenti alternative. Da un lato il salir sul “carro più grosso”, per cercarvi un posticino, fin quando qualcun altro più ingombrante, il PD, vi sale e non rimane che saltar giù con le pive nel sacco o rimanerci aggrappati con l’ambizione di “condizionarlo a sinistra” in qualche “tavolo programmatico”.

Dall’altra la scelta di chi, sapendo già come va a finire, “denuncia” il certo tradimento e come ogni inascoltata Cassandra, rimane in un angoletto, guardato da tutti con l’antipatia che ogni Cassandra ispira, magari inventandosi un “movimento” veramente autonomo, con le idee chiare e gli scarsi numeri, in attesa della magra consolazione del “noi l’avevamo detto”.

Un film già visto. Sulla prima opzione credo non ci sia da spendere molte parole: che sia ingenua buona fede o cinico opportunismo, su questa strada non si va da nessuna parte.

Quanto alla seconda credo sia opportuno sottolineare che i grandi movimenti di massa, anche solo d’opinione, non si inventano a tavolino mettendo insieme un po’ di sigle, ma sono il frutto della temperie storica, della situazione sociale, del quadro politico, delle condizioni economiche e infine dell’orizzonte culturale e comunicativo.

Quando una espressione sociale si produce, al di là dei limiti con cui si rappresenta è con essa che ci si misura e non per giudicarla ma per interpretarla: e oggi la società maggioritaria che è contro la guerra, il riarmo e di fatto, anche contro l’Unione Europea, si è espressa il 5 aprile, piaccia o meno.

Ma il concetto di “interpretare”, va ben declinato. Interpretare significa cogliere il “sentire” di cui una manifestazione come quella del 5 aprile è espressione, mettendolo in relazione con il “comprendere”, il quadro dei rapporti reali e delle condizioni oggettive, in cui tale “sentire” si esprime: e sulla base di questo produrre una strategia, che individuando i punti critici in cui il “sentire”, entrerà in contraddizione, con la rappresentazione politica che su di esso è stata prodotta, sappia agire in tale contraddizione.

Il momento in cui le aspettative, si misurano con le risposte, e giungere a quel momento preparati con la massa critica in grado di operare nella contraddizione; è questo che permette a volte di vivere un giorno che vale dieci anni.

Assunto che non viviamo più in quella fase storica in cui i grandi movimenti di massa erano in grado di condizionare almeno parzialmente istituzioni che si mostravano democratiche che comunque ricercavano un qualche consenso, ma siamo di fronte al muro di gomma di una Versailles europea, che del consenso se ne frega, ha organi decisionali che nessuno ha eletto e che in ultima analisi, sta definendo una sorta di nuovo totalitarismo finanziario, credo che sia lecito attendersi che l’opposizione al riarmo subirà lo stesso destino del genocidio palestinese: sarà ignorato.

Ma in questa Europa che del ‘900 dopotutto è figlia, c’è ancora un momento in cui in qualche modo i popoli possono esprimersi (non decidere o contare) ma almeno esprimersi: le elezioni. E quanto questo retaggio novecentesco sia mal visto nella nuova Europa è chiaramente dimostrato da anni di leggi elettorali che hanno scoraggiato la partecipazione al voto e più recentemente da veri e propri atti eversivi: in Francia dove si costruiscono governi in antitesi ai risultati elettorali, in Romania dove si arrestano candidati vincenti, in Germania dove un parlamento superato dal risultato elettorale, vota i nuovi crediti di guerra.

Le elezioni possono ancora essere un momento in cui la contraddizione tra paese reale e paese legale si esplicita, un momento in cui gli opportunismi elettorali si svelano, in cui i soggetti più coscienti della società, possono trasformare il loro “sentire” un malessere, in “comprensione” delle ragioni reali di tale malessere. È a quel momento che si deve giungere pronti e non preparando coalizioni e “tavoli programmatici”, né per trovare in uno 0,2 di maggiori consensi la ragione del proprio agire, ma per offrire un’alternativa credibile a quanti, svelata la menzogna, non vorranno né turarsi il naso, né tornare a casa. E potrebbero essere tanti.

Ma per giungere a ciò non serve né affidarsi alle trattative di segreteria, né inventarsi movimenti autonomi. Serve operare nel fenomeno reale così come si esprime, operare con ogni strumento, da quelli comunicativi, che mantengono vivo l’esercizio critico contro il “nemico che marcia alla propria testa” e permettono alle persone di identificarsi in idee forti e chiare, all’azione concreta e unitaria, nei soli luoghi dove concretezza ed unità sono possibili, i luoghi reali, i territori, le scuole i luoghi di lavoro, in cui organizzare le persone e il loro agire, la loro formazione e loro azione, facendo del fiume di una grande manifestazione, i mille rivoli che irrorano un tessuto sociale desertificato.

Da semplice militante di base ormai senza partito, con i compagni del territorio abbiamo organizzato una prima assemblea di quartiere, con la prospettiva di una prossima iniziativa di piazza, non per discutere di come andrà a finire, della prossima coalizione elettorale o del prossimo tradimento dei leader, ma per allargare e rafforzare un movimento reale, che sia in grado di vivere a prescindere da ogni scelta elettorale e di ogni tradimento, un movimento unitario e senza compromessi sull’unica parola d’ordine in grado di unire soggetti diversi, frammentati e spesso divisi: no alla spesa militare, i nostri soldi servono alla nostra vita. Non ho più l’età, né per l’entusiasmo, né per le illusioni, ma soprattutto per fare da comparsa in un film già visto e che non mi è piaciuto. E umilmente di film cercherò di viverne uno nuovo.

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08/04/2025

Alita - Angelo della battaglia (2019) di R. Rodriguez - Minirece

Argentina - Le lotte si uniscono e la società civile scende in piazza contro Milei

Milei ha siglato un nuovo accordo con il Fondo Monetario Internazionale, un altro prestito. Era l’unico a volerlo, all’interno del al governo, e alla fine è riuscito nel suo intento. È l’accordo numero 23 tra Argentina e Fondo Monetario Internazionale (FMI). Il debito pubblico del paese è stato, tra i grandi, forse il più problematico elemento delle scelte dei governi passati. Almeno da quando, dopo la fine della dittatura civico-militare-ecclesiale, si è imposto il neoliberalismo nel paese. La situazione economica in Argentina è drammatica, tra le proteste di chi, pensionato, si trova in situazione di grave indigenza, e chi perde il lavoro per i tagli del governo. Ma Milei festeggia, assieme ai suoi sostenitori nazionali ed internazionali, il calo dell’inflazione mensile.

Il radicale calo dell’inflazione ha fatto sì che il governo argentino potesse “festeggiare” una diminuzione della “povertà” nel secondo semestre del 2024. Un dato pubblicizzato acriticamente dai media di mezzo mondo, ma non da tutti. È stata la CNN a dare spazio a una lettura tutt’altro che rosea della situazione economica, con l’ex presidente della Banca Centrale Argentina, Alejandro Vanoli, a sottolineare un dato, riconosciuto da molti analisti come reale, ovvero che la riduzione dell’inflazione è la chiave per spiegare il calo della povertà grazie alla diminuzione del costo del Paniere Alimentare di Base. Per Vanoli, questo dato, “inverte quello della prima metà dell’anno”. L’economista però aggiunge che è qualcosa che rischia di perdersi nei prossimi mesi poiché “l’inflazione è già aumentata a febbraio 2025 e i dati di marzo parrebbero in crescita. Probabilmente si vedrà una nuova crescita dei prezzi all’arrivo dei dati del primo semestre del 2025, soprattutto se il governo non adotterà misure di compensazione sul lato dei redditi”.

A mostrare “l’altra faccia” dei “risultati di Milei” c’è anche l’Osservatorio del debito sociale (ODSA) dell’Università Cattolica Argentina, secondo cui “i livelli di povertà e indigenza sono simili a quelli di un anno fa, la povertà multidimensionale, l’insicurezza alimentare, l’impossibilità di accedere a farmaci o servizi sanitari, i debiti non pagati o l’impossibilità di riparare l’alloggio hanno continuato ad aumentare”. Nelle scorse ore il Foro de Economía y Trabajo ha pubblicato un rapporto che mette in discussione la strategia economica del governo di Javier Milei. Secondo il documento, le misure attuate dal ministro dell’Economia, Luis Caputo, aggravano la crisi, avvantaggiando un piccolo gruppo di speculatori finanziari e aggravando la recessione e il deterioramento del potere d’acquisto della popolazione.

“Il problema strutturale dell’economia argentina non è la mancanza di valuta estera ma la fuga di capitali, l’evasione fiscale e la speculazione finanziaria”, sottolinea il rapporto. Il Foro evidenzia come l’Argentina sia uno dei pochi Paesi dell’America Latina con un surplus commerciale, il che indica che lo squilibrio economico deriva dalla gestione del debito e da politiche che privilegiano i pagamenti ai creditori esterni rispetto allo sviluppo economico interno. Insomma, Milei con l’accordo con il FMI replicherebbe i drammi delle precedenti amministrazioni ma sembrerebbe che la sua tattica giochi sull’utilizzo dei dollari che arriveranno per “drogare” l’economia del suo paese. Strappando, in questo modo, nuovi e incoraggianti dati che lui vorrebbe utilizzare per rafforzare la sua immagine. Milei è in grande difficoltà. La truffa della cripto moneta, le manganellate a pensionati e pensionate, l’attacco ai movimenti femministi e lgbtqi+ e la costante perdita di ricchezza della popolazione, stanno minando il suo consenso che attorno al suo primo anno di governo era ancora altissimo. Un dato ineludibile è che le manifestazioni politiche contro di lui sono sempre più numerose, più partecipate e sempre più diffuse in tutto il paese. Se il 1 febbraio si è vista la co-azione di movimenti femministi, antifascisti, e lgbtqi+ per rispondere alle accuse e alle violente parole del presidente durante il Foro di Davos, l’8 marzo il maremoto femminista ha occupato il centro di Buenos Aires e di tutte le grandi città del paese.

Il 24 marzo, giorno del ricordo dell’inizio della dittatura civico-militare-ecclesialistica, dopo 19 anni è tornata ad esserci un’unica manifestazione. Nel mezzo si è vista la convergenza di gruppi ultras e tifosi della squadre di calcio nelle piazze dove pensionate e pensionati chiedono i loro diritti. Tifose e tifosi che davanti all’ennesima violenza poliziesca contro chi era in piazza, hanno frapposto i loro corpi e si sono scontrati con la polizia. Dopo quasi un anno di stanchezza e difficoltà, l’opposizione sociale a Milei cresce, senza trovare una degna e importante rappresentanza politica. Il peronismo, responsabile della drammatica situazione economica del paese, non è la soluzione e continua ad avere, nella criticatissima Cristina Kirchner il volto più autorevole. Forse per questo Milei vincerebbe ancora. Però nel solo mese di marzo il consenso verso il governo Milei è caduto del 6% e la scelta del presidente di chiedere soldi al FMI, ovvero chi per il popolo argentino è il grande colpevole della crisi economica, pare non sia stata digerita. In questo scenario, il prossimo 10 di aprile la CGT, la più grande confederazione sindacale argentina, ha convocato uno sciopero generale contro il governo. Le difficoltà di Milei non sono solo fuori dai palazzi del potere, ma anche dentro, tanto che nelle prossime ore si dà quasi per certa la creazione di una commissione d’inchiesta parlamentare sulla cripto-truffa-valuta $LIBRA, lanciata su X dal presidente. La mobilitazione della CGT, appoggiata da movimenti sociali, organizzazioni dei diritti umani, partiti di opposizione, inizierà mercoledì 9 aprile, a mezzogiorno. La scelta è stata quella di unire la protesta di pensionate e pensionati, allungare così lo sciopero a 36 ore, e mostrare una grande unità sociale contro le politiche del governo. In tutto questo Milei incassa anche i dazi imposti da Trump alla traballante economia Argentina. Il capitalismo non ha amici e lo scontro tra gruppi di potere pare superare anche i disperati tentativi dell’uomo della motosega di amicarsi Trump.

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In Europa si torna a parlare di coscrizione obbligatoria

In molti paesi europei dove i governi sono in preda ai furori guerrafondai, viene ripresa in considerazione l’opzione della coscrizione obbligatoria per “rimpolpare i ranghi” delle proprie forze armate e far penetrare nell’opinione pubblica un clima di guerra.

La coscrizione obbligatoria era stata abbandonata o sospesa quasi ovunque in Europa tra gli anni ’90 e i primi dieci anni del duemila. Ma il clima bellicista che ormai emerge dal linguaggio politico come dalle scelte concrete con il piano di riarmo europeo della Von der Leyen, sta però riportando all’ordine del giorno una crescente militarizzazione dell’economia e del senso comune.

Capofila di questa tendenza è, quasi ovviamente, la Germania dove la reintroduzione della coscrizione obbligatoria è diventata tema di dibattito nella formazione del nuovo governo di coalizione tra Cdu-Spd e Verdi.

E proprio i Verdi hanno presentato una proposta per introdurre l’istituto del “servizio di libertà” che renderebbe obbligatorio per tutti i cittadini – tedeschi e non – prestare volontariato in uno degli apparati dello stato. La proposta è stata formulata in modo piuttosto ambiguo.

La leva obbligatoria in Germania è attualmente in fase di discussione all’interno dell’appena subentrato governo e sembra godere di forti consensi da parte degli esponenti politici. Con la proposta dei Verdi si offrirebbe la possibilità di scegliere ai cittadini tra volontariato civile o militare, estendendo tuttavia l’obbligo all’intera popolazione e non limitatamente – come invece avverrebbe con la leva militare – solo ai giovani neomaggiorenni.

Il Ministero dell’Interno, Nancy Faeser (SPD), ha chiesto che i giovani siano preparati alle crisi e ai possibili eventi di guerra. “Alla luce dell’evoluzione della situazione della politica di sicurezza negli ultimi tempi, si dovrebbe porre maggiore attenzione sulla protezione civile, anche nell’istruzione scolastica”, ha detto lunedì il quotidiano tedesco Handelsblatt citando un portavoce del ministero. Nell’articolo si riporta anche l’auspicio del responsabile della sicurezza della CDU Roderich Kiesewetter, secondo cui: “È imperativo che l’emergenza sia praticata, perché gli studenti sono particolarmente vulnerabili e particolarmente colpiti in un’emergenza”.

In Europa attualmente prevale ancora la volontarietà della leva militare. Il servizio militare su base volontaria è stato introdotto in Belgio dal 1994, in Portogallo dal 1999, nel Regno Unito dal 2001, in Spagna dal 2002, in Italia dal 2005, in Francia dal 2006, in Germania nel 2011. Ma oggi in molti paesi sta tornando a crescere l’interesse per forme di coscrizione obbligatoria.

Anche la Svezia, entrata nella Nato nel 2023, ha annunciato nel mese di settembre dello scorso anno il ripristino del servizio militare obbligatorio a partire dal 2028, otto anni dopo la sua soppressione. Ad essere chiamati alle armi saranno tutti i giovani nati dopo il 1999.

In Italia la leva obbligatoria era stata sospesa nel 2005 con la legge numero 226 del 23 agosto 2004. Ma Salvini era tornato a parlare della reintroduzione della ferma obbligatoria nel corso della campagna elettorale del 2018, ma oggi nel clima di guerra dominante quella che allora era sembrata una boutade viene ripresa in considerazione.

Ma le controindicazioni alla coscrizione obbligatoria non stanno solo nella minore o maggiore vocazione guerrafondaia dei governi. Ad esempio ci sono “limiti strutturali” che nel tempo potrebbero incidere seriamente sulla efficacia della leva militare di massa.

Secondo gli scenari indicati dall’Istituto Bruegel (un think thank dei poteri forti europei) l’Unione Europea sta per entrare in un’era di declino demografico che cambierà profondamente il suo assetto socio-economico. A partire dal 2026, la popolazione del continente inizierà a ridursi, con impatti tangibili su economia, mercato del lavoro e welfare. Lo scenario indicato dall’Istituto Bruegel è a tinta grigia: entro il 2050, ben 22 Stati membri sui 27 della Ue vedranno una riduzione della popolazione in età lavorativa, mentre la quota di over 85 raddoppierà.

Ma il problema non è solo numerico, è anche geografico: il calo sarà più marcato nei Paesi dell’Est e dell’Europa euromediterranea, dove a un saldo naturale negativo (più decessi che nascite) si somma la scarsa capacità di attrarre immigrati. In altre parole, mentre le economie più sviluppate del Nord e dell’Ovest riusciranno a tamponare il problema grazie a una maggiore immigrazione, l’Europa del Sud e dell’Est rischiano di trovarsi con le spalle al muro a causa dell’ invecchiamento e dello spopolamento.

Ad esempio Italia, Spagna e Grecia sono i tre Paesi più colpiti dal calo della popolazione in età lavorativa e quindi anche “militarizzabile”: entro il 2050, gli under 65 diminuiranno del 20%, mentre gli over 65 aumenteranno del 40%.

E poi c’è la fuga all’estero dei giovani dai paesi in questione. L’Ue ha fissato come obiettivo per il 2030 un tasso di fuga dei giovani dai propri paesi inferiore al 9%, ma Italia, Spagna e Grecia sono ben lontane da questo obiettivo. Anche nell’Europa dell’Est (quindi dei paesi più vicini alla “frontiera di guerra”, ndr) è in corso lo spopolamento da parte dei giovani. Paesi come Lettonia, Lituania, Romania e Bulgaria stanno sperimentando una doppia emorragia: da un lato, la natalità è in calo vertiginoso; dall’altro, migliaia di giovani lasciano ogni anno i loro Paesi d’origine per cercare migliori opportunità altrove. Le difficoltà nell’arruolamento militare in Ucraina ha già rivelato questa contraddizione.

Sia la Nato che alcuni rapporti dei servizi di sicurezza tedeschi parlano insistentemente del 2030 come “anno fatidico” in cui la guerra potrebbe rivelarsi come opzione sul tappeto della storia in Europa.

Ma i governi guerrafondai devono fare i conti con un sentimento delle proprie popolazioni niente affatto coincidente con i propri progetti bellicosi.

Sondaggio Gallup. In rosso i contrari a combattere per il proprio paese

Un recente sondaggio della Gallup ha rivelato che nell’Unione Europea sono una minoranza coloro che si dicono oggi disponibili a combattere per il proprio paese. Fatta eccezione per la Finlandia (74%), la Grecia (54%) e la Polonia (45%), negli altri paesi le percentuali di disponibilità a combattere diminuiscono vertiginosamente.

In Germania solo il 23 per cento combatterebbe per difendere il proprio stato. In Belgio si dice disponibile solo il 19 per cento. Nei Paesi Bassi ancora meno, il 15 per cento. In Italia ha risposto sì solo il 14 per cento.

Se i governi europei vorranno mettere mano alla questione, e ripristinare la leva obbligatoria per dotare di “carne da cannone” le proprie forze armate, dobbiamo aspettarci già dai prossimi mesi una intensificazione della propaganda bellicista, in particolare nelle scuole e nelle università.

Un processo del resto già avviato da tempo, come denunciano l’Osservatorio contro la militarizzazione di scuola e università o organizzazioni giovanili come Cambiare Rotta. Nulla esclude che tra qualche mese il ministero dell’istruzione venga avanti con l’Alternanza Scuola-Caserma oltre a quella scuola-lavoro. Alle guerre servono carne da cannone ma il problema, anche in questo caso, potrebbe essere quello della scarsità.

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Il mondo alle prese con la follia USA

Tutti alla guerra in ordine sparso. Lo scontro mondiale aperto sui dazi è ben lontano dall’aver trovato una linea evolutiva chiara. Del resto, le mosse dell’amministrazione Trump tutto sono meno che coerenti e tecnicamente precise (considerare un “dazio” lo squilibrio commerciale o l’Iva è una bestialità, in ambito capitalistico), e quindi anche le possibili risposte da parte delle varie aree economiche del pianeta risentono di un margine di incertezza molto alto.

L’unica risposta fin qui chiara e ferma è quella cinese, che ha a sua volta innalzato una tariffa doganale del 34% su merci e servizi statunitensi, simmetrica a quella comunicata da Trump pochi giorni fa. E per essere più chiari Pechino ha confermato che “non cederà a ricatti” e “darà battaglia fino alla fine”.

Del resto tutti gli analisti concordano nel ritenere che l’unico paese con cui non si aprirà un negoziato, almeno a breve termine, è proprio la Cina, il principale bersaglio del tentativo Usa di “riequilibrare” i rapporti di scambio commerciale. Ma Pechino già da tempo stava correndo ai ripari, immaginando – senza troppo sforzo – quel che sarebbe accaduto con l’arrivo del tycoon alla Casa Bianca.

La tv statale China Central Television ha rivelato che Xi Jinping ha usato l’espressione «rilancio dei consumi interni» con l’idea che l’aumento dei consumi «contribuirà a stimolare il ciclo economico interno della seconda economia più grande al mondo». Per quanto siano cresciuti i salari cinesi, in effetti, c’è ancora margine per aumentare la capacità di spesa dei cittadini; e non tutti possono vantare un mercato interno di 1,4 miliardi di persone da cui è stata eliminata ogni sacca di povertà.

Anche l’India ha una popolazione di eguali dimensioni, ma la “solvibilità” dei consumatori è infinitamente minore.

In più Pechino ha comunicato un ulteriore aumento delle riserve auree in marzo, per il quinto mese consecutivo. In tempi di turbolenza, si rafforzano le difese...

Tutti gli europei sono invece appesi al gancio dell’incertezza, tra la necessità di rispondere agli Usa con dazi più o meno significativi (5 o 10%, non di più) e la paura di farlo, viste le minacce di Trump, ovvero un rilancio mostruoso nel caso Bruxelles prendesse questa decisione.

Che Trump sia capacissimo di fare una cosa del genere, è certo. Lo ha minacciato anche nei confronti della Cina, che però ha ben altre spalle e soprattutto una guida unitaria di alto livello (persino Confindustria ha riconosciuto, giorni fa, che la leadership di Pechino è quella maggiormente responsabile nella gestione degli affari internazionali).

Quindi nelle capitali europee si ragiona sulla possibilità o meno di aprire un negoziato con Washington, pur dovendo registrare che Ursula von der Leyen, per il momento, non è riuscita neppure a stabilire un contatto telefonico con la Casa Bianca, mentre il commissario al commercio, Šefčovič, nella sua missione a Washington, è riuscito a parlare solo con funzionari di secondo livello.

Insomma, “l’Europa” è trattata come un servo fastidioso ed inutilmente lamentoso, cui verrà comunicato a tempo debito cosa deve fare.

Perciò, nel frattempo, a Bruxelles ci si balocca con una lista di prodotti Usa su cui imporre dazi comunque più bassi di quelli subiti, in modo da “distribuire il danno in modo omogeneo tra i 27 paesi membri”. Curioso, e nulla di più, che tutti abbiano il terrore di imporli sul whisky, come se questo fosse davvero il “punto di non ritorno” per una eventuale guerra commerciale con Trump.

I problemi per l’area europea sono però ben altri, e più seri. La produzione industriale tedesca – la prima del Vecchio Continente – è calata dell’1,3% rispetto a gennaio e del 4% su base annua. Il che aggrava una crisi già esplosiva, visto che il dato è di 13 punti più basso rispetto al periodo pre-Covid e di 18 punti rispetto al picco del novembre 2017.

In termini occupazionali il settore industriale di Berlino ha perso nell’ultimo anno 120.000 posti di lavoro, e altrettanti sono attesi per l’anno in corso.

Perciò il neocancelliere, il democristiano molto di destra Friedrich Merz, ha sfoderato un bazooka da 1000 miliardi di euro (500 solo per il riarmo militare), fottendosene sia delle politiche di austerità (che continua a pretendere per i partner nella UE), sia dei vincoli del debito pubblico.

Vero è che la Germania è l’unico paese europeo che può permettersi di aumentare il debito pubblico (attualmente intorno al 60% del Pil, come da parametri di Maastricht), ma uno scarto così enorme tra i margini di manovra per la Germania e quelli per i “partner” non può restare sotto silenzio a lungo.

Persino i cerberi del “rigore”, in quasi tutti i paesi, cominciano ad ammettere che il “patto di stabilità” va ora completamente rivisto, se non radicalmente abolito.

Non c’è più certezza, insomma. Ed è la peggiore delle situazioni possibili, per “i mercati”. Che infatti, dopo un breve tentativo di “rimbalzo”, hanno ripreso a scendere...

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Germania - Il processo a Daniela Klette

Il 27 febbraio 2024 è stata arrestata a Berlino Daniela Klette, da più di trent’anni era ricercata per rapina e tentato omicidio. Klette, 67 anni, faceva parte della RAF (Rote Armee Fraktion, Frazione dell’Armata Rossa), scioltosi nel 1998 in seguito ad un “accordo politico” con il governo tedesco secondo cui la cessazione dell’attività armata era la contropartita per la liberazione dei prigionieri politici.

Quell’accordo informale, però, non prevedeva nulla per quanto riguardava i militanti rimasti liberi. Che furono così obbligati ad “arrangiarsi” per sopravvivere comunque da latitanti.

Oltre al suo coinvolgimento nella RAF, è accusata di aver compiuto numerose rapine a mano armata fra il 1999 e il 2016 insieme a due presunti ex membri della RAF, Burkhard Garweg ed Ernst-Volker Staub, tuttora latitanti. Nei giorni scorsi si è aperto il processo contro Daniela Klette, in un clima molto diverso da quello in cui avvenne lo scioglimento del gruppo.

Questo articolo di Karl-Heinz Dellwo – che per i compagni più anziani non ha bisogno di presentazioni e certamente conosce bene la storia della Raf, nonché i giudici e le carceri di Germania – descrive con attenzione e la necessaria ironia il clima parossistico che circonda “l’evento”.

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Cold Case RAF? Il processo a Daniela Klette

È considerata, come ebbe a dire la procuratrice capo Gresel-Appelbaum nel 2015 durante la consegna di un attestato di riconoscimento ministeriale, “un colpo di fortuna per la procura di Verden”. È anche nota come investigatrice di cold case.

Oggi siede, insieme alla vice-procuratrice capo Katharina Sprave, nell’aula bunker dell’Alta Corte di Celle, nel ruolo di pubblica accusa contro Daniela Klette. È descritta come una donna passionale, e dai resoconti si sa che, quando irrompe in un appartamento durante una perquisizione, in genere alla ricerca di Burkhard Garweg, a volte esplode già sulla soglia con un: «Dov’è?». Puntando a sopraffare legalmente l’interlocutore.

Durante gli interrogatori, a volte si sporge bruscamente verso l’imputato, superando ogni limite di distanza, e gli sibila un «Lei ne sa di più!» quasi fisicamente. L’obiettivo è smantellare le difese dell’altro, renderlo inerme.

Anche nel processo, sembra essere la parte più attiva rispetto a Daniela Klette. Legge infatti undici dei tredici capi d’accusa con voce monotona, in piedi, com’è d’obbligo per l’accusa, mentre gli avvocati siedono durante le loro controdeduzioni. Capelli neri, toga nera, nella luce artificiale di un’aula senza finestre dove ogni volto sembra grigio, ricorda una figura di un film noir, emanando una certa durezza e disillusione – perché il male, si sa, non muore mai.

Eppure, nonostante l’immagine quasi da corvo mentre picchietta con voce chiara le prove, come beccando il guscio duro di una noce da rompere, c’è un dettaglio che contrasta: le scarpe rosse che indossa il primo e il secondo giorno del processo. Nero e rosso, che abbinamento!

Chissà se sa che sta sfoggiando i colori preferiti degli anarchici. Potere e anarchia non sono così distanti, se si pensa alla frase del Duca di Blangis in Salò di Pasolini, dove rivendica che i veri anarchici sono loro, «ma solo quando il potere dello Stato è nelle nostre mani. Solo il potere rende possibile l’anarchia». La dottoressa Marquardt ha lo Stato dalla sua parte, e lo incarna.

Nei processi alla RAF, la giustizia politica aveva mano libera: esclusione di avvocati, intercettazioni della difesa, accordi segreti con le corti d’appello, rifiuto sistematico di ogni richiesta contestuale della difesa. Un vago sentore di anarchia pervade anche l’atto d’accusa di Verden, come l’avvocato Ulrich von Klinggräff ha evidenziato nel suo ricorso di archiviazione.

Si mischia tutto come conviene. Mentre pubblicamente la Marquardt sostiene che si tratta solo di rapine, dove le prove scarseggiano, riempie i vuoti con l’ideologia: «Era tipico della RAF». L’intero atto d’accusa è intriso di riferimenti a una presunta “mentalità RAF” – già allora un costrutto fittizio – dove tutti sparano senza rimorso e vivono in uno stato di permanente disposizione all’omicidio. Questo per contrastare un’imputata che, come noto, è stata arrestata senza resistenza nonostante avesse armi in casa.

L’obiettivo è chiaro: attribuire a Daniela Klette intenzioni omicide e minacciare l’ergastolo.

Il secondo giorno, la Marquardt si giustifica dicendo di aver offerto all’imputata la possibilità di parlare per raccogliere prove a suo favore. Come se non esistesse il diritto al silenzio. La minaccia di «intenzioni omicide» è un tentativo di pressione per estorcere confessioni, spingendo a un patteggiamento: dichiarazioni in cambio di sconti di pena.

Questo meccanismo si è visto con altri ex membri della RAF rifugiatisi nella ex DDR: dopo essersi accusati a vicenda, furono rilasciati in tempi brevi. Lo Stato ha sempre bisogno del tradimento come Viagra politico – un tradimento che è sempre auto-tradimento. In Germania, giuramenti e valute cambiano: dal marco al marco occidentale, all’euro. Chi si ricorda del valore della carta straccia?

Non si tratta di «verità», ma di conflitto tra sovranità. Nella lotta tra RAF e Stato, il punto era su quali basi fondare l’esistenza collettiva. Per lo Stato, conta solo il tradimento: nessuno deve assumersi la responsabilità delle proprie azioni. Chi lo fa, attacca – ed è già terrorismo. Chi tradisce, invece, è annientato e quindi innocuo.

Il potere, come insegnava Foucault, funziona con disciplina e coercizione alla confessione. Come in 1984, dove Winston e Julia si tradiscono, e lui realizza: «Avevano tradito se stessi. Lo scopo della tortura era proprio questo: non morire, ma spezzarsi prima».

Questa è la battaglia della dottoressa Marquardt: ridurre l’imputato a nulla, mentre lo Stato trionfa. Una dipendenza mai sazia. Lina E. ha preso 5 anni per attacchi a neonazisti. Ai tempi di Weimar, per 22 omicidi di sinistra: 10 esecuzioni, pena media 15 anni. Per 354 omicidi di destra: un ergastolo, pena media 4 mesi. E i giudici nazisti dopo il ’45? Nessuno condannato. La vedova di Roland Freisler ha ricevuto la pensione, mentre la Corte Federale ha negato quella ai membri del Politbüro della DDR per la loro detenzione nei lager (durante il regime nazista, ndr).

Ironico che la giudice del BGH, dottoressa Dietsch, giustifichi il divieto di visita di Gabriele Rollnik a Daniela Klette dicendo che «i crimini del movimento 2 giugno, seppure decenni fa, erano di tale gravità da permettere di dedurne l’attuale mentalità» (sentenza BGH, 20/12/2024). Chissà se applicherebbe lo stesso criterio alla magistratura...

L’ultima azione RAF fu nel 1993: la distruzione del carcere di Weiterstadt, attentato in cui si assicurarono che nessuno rimanesse ferito. Si sciolsero nel 1998, ma non il rapporto mediatico e statale. Dopo l’arresto di Klette nel febbraio 2024, i media hanno banchettato: finalmente il nemico amato – anche se solo una proiezione – era tornato. Lo Spiegel titolò senza prove che Christian Klar aveva incontrato Klette. Puro calcolo aritmetico: Klette + Klar + RAF = terrorismo.

L’avvocato Lukas Theune ha chiesto la sospensione del processo dopo che alla difesa sono stati consegnati, 16 ore prima dell’inizio, due dischi da 12 e 6 terabyte di materiale – una mole ingestibile. La polizia ha usato il software Pathfinder di Cellebrite (fornitore anche di dittature) per organizzare i dati; la difesa no. La richiesta di accesso al programma è stata respinta il 1° aprile. Ora devono cercare degli aghi in un pagliaio.

Anche la richiesta di archiviazione è stata rigettata. La Corte, cortese ma determinata, assicura di essere imparziale e di aver già escluso i riferimenti alla RAF come irrilevanti. Vedremo.

Cold case per alcuni è il non plus ultra dell’investigazione; per altri, un peso. Risolvere ciò che altri non hanno fatto è una sfida. Ma il più grande cold case del secolo scorso – la Germania post-fascista con i suoi criminali nazisti impuniti, molti nella polizia e nella magistratura – la Marquardt l’ha ignorato. Da lì nacque la RAF, e dopo la sua fine, la necessità dei ricercati di trovare risorse per sopravvivere. Consegnarsi a quella giustizia politica era impensabile.

Si possono criticare i metodi di sopravvivenza, persino giudicarli male, ma negare ogni moralità politica ai coinvolti e demonizzarli è solo bassezza. Questo è il cuore dell’atto d’accusa di Verden.

E in mezzo a tutto questo, c’è un’imputata che sembra serena, emanando quella calma necessaria quando i cacciatori credono di aver vinto.

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Il genocidio israeliano a Gaza denunciato da B’tselem

Israele accusato di crimini di guerra mentre Netanyahu fa visita a Orban in beffa alla Corte internazionale di giustizia. Dalla ‘Voce di New York’, Eric Salerno: «I giornalisti stranieri non possono entrare nella striscia di Gaza, quelli israeliani solo accompagnati da esponenti del governo israeliano. I loro racconti sono sempre censurati. Ma non c’è bisogno di andare in quel inferno per capire e giudicare».

B’tselem, l’occhio della coscienza ebraica

Da anni c’è un’organizzazione israeliana che segue gli eventi nei territori occupati e che si serve dei racconti degli stessi militari dell’IDF, delle immagini a disposizione di tutti girate dai droni israeliani (oltre a quelle delle stesse vittime del massacro che va avanti dal 7 ottobre 2023). L’orrore dell’attacco di Hamas agli insediamenti israeliani vicino a Gaza è stato più volte denunciato. B’tselem ieri è stata chiara. Ha esaminato gli eventi di pochi giorni:
«Dal 18 marzo, Israele ha ucciso oltre 1.000 palestinesi nella Striscia di Gaza, più di 300 dei quali bambini, in bombardamenti indiscriminati. Da un mese affama la popolazione e blocca qualsiasi ingresso di rifornimenti e aiuti. La farina è finita. Dall’inizio della guerra, Israele ha ucciso più di 1.000 membri delle squadre mediche e di soccorso a Gaza. Recentemente i soldati hanno ucciso 15 medici e operatori sanitari e li hanno seppelliti in tombe comuni...».
Genocidio e pulizia etnica

L’obiettivo finale delle azioni israeliane appare chiaro. «Il capo di stato maggiore Zamir sta progettando di conquistare Gaza, il ministro della difesa Katz sta formando un ufficio per la ‘emigrazione volontaria’ e Netanyahu ha dichiarato che Israele sta conquistando buona parte del territorio di Gaza». «Con il sostegno degli Stati Uniti e la tacita approvazione dell’UE e del resto del mondo, Israele – denunciano questi attivisti israeliani – sta effettuando una pulizia etnica nella Striscia di Gaza».

Quel poco di democrazia che rimane

C’è una parte di Israele – purtroppo minoritaria – che si muove per cercare di fermare il genocidio. Ieri tredici esperti legali – professori universitari e magistrati – hanno chiesto al procuratore generale Gali Baharav-Miara e al procuratore militare capo Yifat Tomer-Yerushalmi di aprire un’indagine per sospetti crimini di guerra su uno degli attacchi dell’IDF a Gaza nel mese di marzo.

Netanyahu in beffa al mondo

Nelle stesse ore, il premier israeliano ha nuovamente sfidato la comunità internazionale ed è volato in Ungheria a trovare il suo alleato Orban, il primo leader europeo, finora, che lo ha accolto nonostante il mandato di cattura del Tribunale Internazionale di Giustizia, organismo che fu creato dopo la seconda guerra mondiale proprio per cercare di impedire altri genocidi come quello nazista.

Netanyahu è sotto processo per numerosi resti, diciamo, comuni legati ai periodi in cui era o è capo di governo. Negli ultimi giorni, sul suo conto, pesano azioni attribuite ad alcuni suoi stretti collaboratori e che potrebbero configurare addirittura il reato di «alto tradimento».

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Spagna - Uno straordinario segnale di lotta sulla questione abitativa

“Questo 5 aprile abbiamo fatto di nuovo la storia. Siamo scesi in piazza in centinaia di migliaia di persone in più di 40 città con un messaggio forte ai rentier colpevoli (coloro che vivono della rendita immobiliare, in questo caso, ndr) e ai governi responsabili, ecco il potere degli inquilini”. Sabato scorso in tutta la Spagna decine di migliaia di persone sono scese in piazza a manifestare contro quella che ormai è una insopportabile emergenza abitativa.

Il movimento per il diritto alla casa in Spagna è estremamente chiaro su questo: i politici hanno esaurito il tempo. Migliaia di persone sono scese in piazza sabato scorso per “porre fine al business dell’edilizia” e chiedere un calo immediato degli affitti.

Continua infatti a crescere la protesta in Spagna per il problema degli alloggi, con il boom degli affitti che sta colpendo in particolare Madrid e Barcellona ma non solo. I prezzi degli affitti sono aumentati a causa dei contratti a breve termine offerti principalmente ai turisti. Movimenti di quartiere, sindacati degli inquilini e piattaforme sociali si sono uniti per chiedere soluzioni immediate alla crisi abitativa in Spagna.

“La paura ha cambiato faccia: non chiederemo altri cambiamenti, siamo organizzati e abbiamo un piano contro il rentierismo”, dicono gli organizzatori delle proteste. Le principali richieste del movimento sono: - l’abbassamento immediato dei prezzi degli affitti, chiedendo una riduzione fino al 50%;
- il recupero di “tutte le case vuote”, l’illegalizzazione delle società di sfratti;
- il divieto di sfratto per le famiglie vulnerabili;
- lo stop alla proliferazione incontrollata di appartamenti turistici.

Le mobilitazioni contro il caro affitti e l’emergenza abitativa erano esplose nell’aprile 2023 nelle Isole Canarie prese d’assalto dal turismo di massa, ma già c’erano stati segnali di protesta in diverse città spagnole dove i residenti erano scesi in piazza per chiedere un modello di turismo “sostenibile” e denunciare la mancanza di soluzioni abitative. “La casa è diventata un lusso alla portata di pochissime famiglie”, denunciano i movimenti degli inquilini.

La protesta si era estesa da Malaga con lo slogan “Malaga per vivere, non per sopravvivere”, seguita da Madrid, Barcellona, Valencia e Bilbao, tra le altre città.

La situazione abitativa in Spagna ha raggiunto livelli critici. Secondo i sindacati degli inquilini, “gli affitti hanno registrato aumenti allarmanti, con un incremento di oltre il 18% negli ultimi due anni. I salari, nel frattempo, rimangono stagnanti”.

In alcune zone, come Ibiza, i movimenti sociali denunciano che “i prezzi degli affitti in molti casi superano il 100% del salario abituale”, mentre in altre, come Cáceres, “gli affitti sono aumentati lo scorso anno del 17% in città e del 27% a livello provinciale”.

I movimenti degli inquilini indicano esplicitamente il modello turistico incontrollato e la speculazione immobiliare come causa della crisi. “Il modello di città è mercificato, espellendo gli abitati dei quartieri, perché l’industria del turismo sfrutta i nostri quartieri”, denuncia la piattaforma ‘València no està en Venda’

In regioni insulari come le Canarie e le Baleari, la situazione è particolarmente grave a causa dei limiti geografici e della pressione turistica. “Ci troviamo di fronte a un’emergenza abitativa senza precedenti: sfratti, affitti inaccessibili e speculazione edilizia, mentre la popolazione non può accedere a questo diritto fondamentale”, denunciano i movimenti di lotta per la casa spagnoli.

Un segnale da cui c’è moltissimo da apprendere e replicare in un paese come l’Italia devastato dalla speculazione sugli affitti e dalla rendita immobiliare.

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Lavorare si, ma per salari da fame

Qualche giorno fa, l’Organizzazione internazionale del lavoro ha pubblicato il consueto report sui salari. Si tratta di uno studio che si occupa di tracciare le traiettorie dei salari reali e della disuguaglianza su un arco di tempo medio-lungo nei vari paesi del mondo. In Italia la pubblicazione ha destato commenti sorpresi e fintamente scandalizzati da parte della stampa e della politica (compreso il Partito Democratico, artefice di buona parte delle riforme del mercato del lavoro che si sono susseguite in Italia). In realtà i contenuti del rapporto erano tristemente noti e attesi.

Il report è molto chiaro: l’Italia, tra i paesi del G20, è quello in cui i salari reali medi (cioè la quantità di beni che concretamente possiamo acquistare con i nostri stipendi) sono caduti di più rispetto al 2008. Sì tratta di una riduzione clamorosa, pari all’8,7% in 16 anni, quasi -0,6% all’anno. Il leggero rimbalzo avvenuto nel 2024 (+2,3%), inoltre, non è stato in grado di far recuperare nemmeno i livelli del 2019, ultimo anno precedente alla pandemia e all’esplosione dell’inflazione, ed è stato comunque inferiore alle media europea (dunque non si capisce di cosa possa vantarsi il governo Meloni).

Se il dato aggregato è impressionante di per sé, uno sguardo a ciò che è accaduto alle retribuzioni di fatto (che considerano non solo i dati tabellari, ma tutte gli emolumenti che a qualsiasi titolo concorrono alla retribuzione) dei lavoratori e delle lavoratrici può aiutarci a capire meglio dove si annida il problema che – lungi dall’essere una questione legata a particolari categorie di lavoratori – ha tutte le caratteristiche di una questione generale.

Per farlo, utilizzeremo i dati riportati nel rapporto INPS del 2024. A fronte di un’inflazione cumulata tra il 2019 e il 2024 prossima al 17%, secondo l’INPS, nel settore privato le retribuzioni dei lavoratori con contratto a tempo indeterminato sono cresciute solo dell’8,3%. Poco meglio hanno fatto i contratti a tempo indeterminato del settore pubblico (9,2%). La perdita di potere d’acquisto, in ogni caso, appare evidente e significativa in tutti i settori.

Questo quadro, di cui già conoscevamo le tinte fosche e a cui non fanno altro che aggiungersi ulteriori sfumature di nero, merita tuttavia di essere letto insieme ai dati sull’occupazione, per cui il Governo tutto si è sperticato in espressioni di giubilo. Come di consueto, il primo aprile l’ISTAT ha diffuso gli ultimi dati sul mercato del lavoro, riferiti a Febbraio 2025. Da essi emerge che l’Italia è in piena espansione occupazionale con il numero dei disoccupati che cade e il numero di occupati che cresce. Una crescita che riguarda i contratti a tempo indeterminato più che i contratti a tempo determinato. La tendenza è confermata anche se si guarda il tasso di occupazione, arrivato ormai al 63% e il tasso di disoccupazione, pari al 5,9%. Sembrerebbero quindi periodi di vacche grasse per il mondo del lavoro. Tuttavia, questi dati, se guardati con occhio critico e facendo riferimento a quanto detto nelle righe precedenti in riferimento agli andamenti salariali, non fanno altro che certificare una notizia se vogliamo assai più preoccupante.

In Italia non solo si sta creando occupazione povera, ma si sta creando un’occupazione non più in grado di esigere e ottenere aumenti salariali. Visto dall’altro lato, le imprese possono comunque raggiungere profitti soddisfacenti senza ricorrere al potere disciplinante di tassi di disoccupazione elevati, visto che il potere contrattuale dei lavoratori è stato ridotto al lumicino da anni di austerità e riforme del lavoro contro di essi. Gli esiti delle contrattazioni salariali negli anni dell’inflazione avevano già preannunciato questa conclusione, ma ora possiamo purtroppo affermarlo con maggiore consapevolezza. I proclami di Governatori della Banca d’Italia, politici e sindacalisti di varia razza per non spingere sulla leva dei salari al fine di evitare pericolosi (per chi?) rincorse prezzi-salari non erano altro che l’ultimo afflato di una strategia di lunga data. I decenni di precarizzazione e di riforme del lavoro, le progressive riduzioni delle tutele, l’eliminazione dell’articolo 18, l’introduzione di un contratto a tempo indeterminato farlocco come il contratto a tutele crescenti, i decreti Poletti, gli interventi di questo governo contro il reddito di cittadinanza e le minime migliorie del decreto dignità hanno definitivamente svolto il loro compito affievolendo anche l’atavica paura dei padroni per la piena occupazione (legata alla circostanza per cui normalmente al decrescere del numero di disoccupati, decresce quell’esercito industriale di riserva pronto a lavorare con retribuzioni più basse di quelle medie pur di lavorare calmierando così, tramite una lotta tra poveri, il livello generale dei salari). La flebile ripresa post-covid ha portato con sé una crescita dei posti di lavoro cui si è accompagnata, di converso, una caduta drammatica dei salari reali.

Del resto quando si parla di mercato del lavoro e di distribuzione del reddito, nulla è meccanico, nulla è automatico, nulla è dato per scontato. Oltre 30 anni di controriforme del lavoro e dei diritti sociali e di acquiescenza sindacale hanno depotenziato drammaticamente la forza contrattuale dei lavoratori.

Per poterla recuperare occorre che una rinvigorita forza unitaria riaccenda il conflitto sui luoghi di lavoro, nelle vertenze e nell’arena politica generale. La battaglia per immediati aumenti salariali deve infatti accompagnarsi necessariamente ad una battaglia politica per il ripristino di tutte quelle condizioni normative e di contesto che contribuiscono a determinare la forza contrattuale della classe lavoratrice: in primo luogo la tutela contro i licenziamenti disintegrata con il jobs act, in secondo luogo la protezione contro la costante minaccia di delocalizzazione determinata dalla libera circolazione di capitali a livello europeo e internazionale; in terzo luogo i vincoli di bilancio legati al patto di stabilità europeo che impongono tagli alla spesa sociale che si riflettono enormemente sul valore dei salari reali e sulle condizioni di vita di chi vive del proprio lavoro.

Lotta sindacale e lotta politica si intrecciano indissolubilmente e non possono che camminare sugli stessi binari verso gli stessi obiettivi di cambiamento di paradigma ed emancipazione sociale.

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07/04/2025

Seven sisters (2017) di Tommy Wirkola - Minirece

Gaza - Ritorsioni palestinesi sul territorio israeliano. Dopo un anno mezzo di stragi Netanyahu è al punto di partenza

Domenica sera, la resistenza palestinese ha lanciato una raffica di razzi da Gaza verso le città israeliane di Ashdod e Ashkelon.

I media israeliani hanno riferito di feriti multipli e di danni materiali significativi a seguito degli attacchi.

Le Brigate Al-Qassam, il braccio armato del movimento di resistenza palestinese Hamas, hanno rivendicato la responsabilità del lancio di razzi, affermando che si trattava di una risposta ai “massacri sionisti contro i civili”.

Secondo il quotidiano israeliano Israel Hayom, i rapporti iniziali indicavano un colpo diretto ad Ashkelon, provocando l’invio di squadre mediche di emergenza.

Il comune di Ashkelon ha confermato che una persona ha riportato ferite lievi mentre la città ha riportato danni materiali.

Il canale israeliano Channel 13 ha successivamente riferito che tre persone sono rimaste ferite, mentre Channel 12 ha aggiornato la cifra a sette, tutte trasferite all’ospedale Barzilai. Il canale ha anche rilevato ingenti danni a edifici e veicoli.

I media israeliani hanno riferito che sette razzi sono stati lanciati verso Ashdod, mentre l’esercito israeliano ha dichiarato di aver rilevato circa dieci razzi lanciati da Gaza, la maggior parte dei quali sono stati intercettati. In seguito è stato confermato che cinque razzi lanciati dal centro di Gaza sono stati intercettati, mentre altri sono caduti in varie località del territorio israeliano.

A Gaza le brigate Abu Alì Mustafa (vicine al Fplp) hanno annunciato di aver abbattuto un drone israeliano che conduceva operazioni di intelligence nel nord della Striscia, mentre le Brigate Al Quds (ala militare della Jihad islamica) affermano di aver distrutto un veicolo militare israeliano utilizzando un potente ordigno esplosivo “Thaqib” piazzato in precedenza ad Al-Shuja’iya, nella parte orientale di Gaza.

In Israele gli oppositori di Netanyahu hanno commentato duramente questi avvenimenti. Per Benny Gantz,: “Un anno e mezzo dopo la guerra, Hamas sta ancora lanciando razzi contro gli israeliani”. Avigdor Lieberman, capo del partito Yisrael Beiteinu, ha criticato il governo, denunciano che: “Un anno e mezzo di guerra, con i razzi ancora lanciati, 59 ostaggi detenuti e il governo del 7 ottobre ancora al potere, parlare di vittoria totale non ha senso”.

A Gaza dal 18 marzo, quando è stata interrotta tregua, 1.335 palestinesi sono stati uccisi e 3.297 feriti. Solo nelle ultime 24 ore tra i palestinesi ci sono stati 26 morti, 113 feriti a causa dei bombardamenti israeliani su Khan Younis e Gaza City.

In Cisgiordania è una giornata di sciopero generale in risposta all’appello lanciato dalle forze nazionali e islamiche palestinesi per condannare la guerra di sterminio contro il popolo palestinese nella Striscia di Gaza e la continua aggressione contro le città e i paesi palestinesi.

Lo sciopero ha riguardato tutti gli aspetti della vita, dalle istituzioni ufficiali e civili ai settori commerciale, educativo e dei trasporti. Le scuole pubbliche e private e gli istituti bancari hanno chiuso i battenti, lo sciopero ha incluso i trasporti pubblici, le strade erano vuote di veicoli e pedoni, e fabbriche e officine sono rimasti chiusi.

Lo giornata di protesta avviene mentre gli israeliani continuano a fare irruzione nelle città e nei paesi della Cisgiordania, in concomitanza con le campagne quotidiane di arresti. Risultano arrestati 4 palestinesi del campo di Al-Jalazun, a nord di Ramallah. Un giovane è stato arrestato a Hebron e un altro a Nablus, oltre a sette giovani della città di Qalqilya, nel nord della Cisgiordania.

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Trump annuncia la nuova ondata di dazi...

Aumenta il rischio recessione negli Usa e di rallentamento della crescita mondiale

Nell’atteso discorso del 2 aprile, Donald Trump dalla Casa Bianca ha annunciato l’elenco degli stati che verranno sottoposti alla nuova ondata di dazi dopo quelli già precedentemente introdotti ai danni dei prodotti importati da Messico e Canada nella misura del 25% e del 20% per quelli cinesi.

In questo caso si tratta di tariffe differenziate non solo per stato di provenienza delle merci, ma anche per comparto produttivo con aliquote del 10%, 15% e 20%, con l’automotive che subirà la maggior penalizzazione col 25%.

Per quanto riguarda le tariffe applicate ai singoli paesi, oltre a quella generalizzata del 10% che colpirà indistintamente tutti i partner commerciali, compreso il Regno Unito nonostante abbia un saldo commerciale passivo con Washington, la scure trumpiana si è abbattuta in modo più gravoso su Cambogia (49%), Vietnam (46%), Thailandia (36%), Cina (34%), Taiwan e Indonesia (32%), Svizzera (31%), India (26%), Sud Corea (25%), Giappone (24%) e l’Unione europea (20%). Nessuno si è salvato, nemmeno gli alleati geopolitici più stretti. Le nuove misure entreranno in vigore il 5 e il 9 aprile.

Peraltro, poco prima, il Dipartimento del commercio Usa aveva comunicato l’introduzione di dazi del 25% sull’import di birra e sulle lattine di alluminio a partire dal 5 aprile.

I principali mercati finanziari mondiali, soprattutto quelli asiatici, hanno subito un immediato contraccolpo a causa del crescente clima di incertezza provocato dall’annuncio, la cui portata è andata oltre le previsioni.

Nel suo discorso Trump ha dichiarato che “Questo è il giorno in cui l’industria Usa rinasce, in cui si comincia a rendere di nuovo ricca l’America dopo che per decenni Paesi sia amici che nemici hanno derubato gli Stati Uniti, rubando posti di lavoro e fabbriche”, concludendo che questa “E’ una nuova dichiarazione di indipendenza economica”.

In realtà, secondo gli esperti, le nuove tariffe impatteranno negativamente sulla crescita Usa, e degli altri paesi, e potrebbero innescare un rialzo dell’inflazione, costringendo la Fed a mantenere fermo il tasso di riferimento all’attuale 4,5% con conseguenze negative sull’esborso statale per gli interessi sui titoli di stato Usa che già oggi sfiorano i 1.000 miliardi di $ annui.

Inoltre, l’affermazione di Trump relativa al furto dei posti di lavoro e di fabbriche da parte degli altri paesi risulta ampiamente priva di fondamento in quanto la globalizzazione neoliberista è stato fenomeno a trazione statunitense a beneficio delle proprie multinazionali. Le quali hanno tratto enormi profitti negli ultimi decenni dal processo di delocalizzazione delle proprie filiali produttive verso paesi con inferiore costo della manodopera, per poi rivendere i prodotti finiti agli stessi prezzi nei mercati delle economie sviluppate.

In particolare, tale strategia è stata utilizzata a piene mani dalle multinazionali Usa dell’automotive, comparto nel quale, secondo il sindacato United Auto Workers (UAW), l’occupazione ha accusato una perdita netta di 350.000 posti di lavoro (1/3 degli occupati del comparto) solo negli ultimi 20 anni e una sensibile moderazione salariale sotto il ricatto della delocalizzazione estera.

Il provvedimento di Trump potrebbe rivelarsi evanescente per la reindustrializzazione a cui sostiene di mirare poiché i tempi di trasferimento degli impianti produttivi negli Usa comportano quantomeno tempi medi e ingenti investimenti di capitale.

Anticipando i tempi, pochi giorni prima, la sudcoreana Hyundai, ha annunciato un piano di investimenti da 21 miliardi negli Usa, dei quali circa 6 miliardi saranno destinati alla realizzazione di un nuovo impianto siderurgico da 3 milioni di tonnellate annue di acciaio che sarà utilizzato per la produzione di auto del proprio marchio negli States, aggirando i dazi, e con una ricaduta occupazionale prevista di 14.000 posti di lavoro, che ovviamente saranno persi altrove.

Maggior preoccupazione serpeggia indubbiamente in Germania dove la crisi economica, con un biennio di recessione, e industriale, con 20 mesi consecutivi di contrazione della produzione, è particolarmente grave e la dipendenza dal mercato Usa per l’export automobilistico è marcata. Infatti, nel 2024, in piena crisi industriale e in particolare dell’automotive, Berlino ha esportato negli Usa quasi 450.000 auto corrispondenti ad un controvalore di 25 miliardi di $.

In conclusione, i provvedimenti di Trump, da una lato, rischiano di trasformarsi in un boomerang per la stessa economia statunitense che potrebbe soffrire di un rialzo dell’inflazione, di un rallentamento economico, con rischio recessione stimato per il 2025 da Goldman Sachs (1) nell’ordine del 35%, e del mantenimento del tasso di riferimento su valori elevati, mentre, dall’altro, l’avanzante protezionismo, anche a causa delle misure di risposta che inevitabilmente adotteranno la maggior parte dei paesi colpiti, fornirà indubbiamente un’ulteriore spinta al processo di deglobalizzazione (2) già peraltro in atto da una decina d’anni, con conseguente riduzione degli scambi commerciali e della crescita mondiale (grafico 1).

Grafico 1: Tasso di variazione annua del commercio mondiale di beni (istogramma blu)
Tasso di variazione annua dell’economia mondiale (istogramma verde) fra 2018-2023 con previsioni 2024. Le previsioni per il 2025 saranno sicuramente riviste al ribasso. Fonte: Wto


Note

1) https://forbes.it/2025/03/31/le-probabilita-di-recessione-usa-salgono-al-35-a-causa-dei-dazi-lavvertimento-di-goldman-sachs/

2) Dal 2015 al 2024 la percentuale di crescita dell’economia mondiale è risultata superiore a quella dei commerci globali in tutti gli anni salvo il 2017 e il 2021 confermando la tendenza alla deglobalizzazione. Nel caso in cui i commerci mondiali crescano a un tasso superiore rispetto a quello dell’economia ci troviamo in una fase di globalizzazione.

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Bagno di sangue nelle borse, la crisi ora si vede...

“In borsa si sale con le scale, si scende con l’ascensore”. La vecchia massima dei broker più esperti descrive con buona precisione gli andamenti classici delle quotazioni azionarie, anche se questa volta – bisogna ammettere – “si scende anche dalla finestra”. A grande velocità, insomma...

Il “terremoto Trump” è ovviamente stato il segnale del “si salvi chi può”, perché dazi di quelle dimensioni, quasi sempre aggiuntivi a quelli giù applicati dagli Stati Uniti, tagliano le gambe a molte aziende esportatrici costringendole in una “alternativa del diavolo”: spostare parte della produzione negli Usa oppure assorbire i dazi rinunciando a buona parte dei propri profitti.

La seconda scelta può esser fatta solo da chi applica “ricarichi” molto consistenti sui prodotti destinati agli Stati Uniti (buona parte del made in Italy, alimentare e vini su tutto), ma sotto la soglia del lusso i problemi si fanno pesanti.

La chiusura già disastrosa di Wall Street, venerdì sera (oltre 5% sia per i Dow Jones che per il Nasdaq), ha spinto sul precipizio le borse asiatiche, che normalmente “seguono” la direzione delle piazze statunitensi. Il botto speciale di Hong Kong (12,54%) è però dovuto al fatto che venerdì era un giorno festivo per la Cina, quindi la perdita odierna somma i cali di due giornate da incubo.

Stesso discorso per le europee, tutte sotto panico con crolli tra il -5 e il -6%. A Milano per parecchio tempo non riuscivano a “fare prezzo” quasi la metà dei titoli (le offerte di acquisto erano inferiori di oltre il 10% rispetto alla chiusura di venerdì, facendo così scattare la sospensione temporanea dalle contrattazioni).

Coinvolti titoli “insospettabili” di debolezza, come Leonardo – industria militare semi-pubblica che pure ha beneficiato fin qui alla grande del clima di corsa al riarmo benedetta dall’“Europa” – e quasi tutti i titoli bancari.

La spiegazione, anche in questo caso, è semplice: è vero che a soffrire i dazi sono le imprese manifatturiere, ma quelle imprese hanno sviluppato piani di produzione chiedendo prestiti alle banche. Le quali ora cominciano a temere che quei soldi “faranno fatica” a tornare indietro, alimentando l’infinita discarica dei “crediti deteriorati”, prima o poi destinati al macero della “cartolarizzazione” su cui vivono i “prodotti derivati” della finanza speculativa.

Naturalmente è facile “dare la colpa a Trump”, e certamente la brutale faciloneria con cui si sta muovendo il suo staff fatto di miliardari non aiuta a distinguere processi di lungo periodo e paccottiglia di breve momento. Il fatto certo è però che l’economia Usa – e quindi la tenuta sociale interna – era sotto stress da anni, per una lunga serie di ragioni.

La più nota si chiama “delocalizzazioni”, ossia il trasferimento di migliaia di industrie di proprietà Usa verso siti produttivi dei “paesi emergenti”, dove il costo del lavoro era infinitamente più basso. La salute delle imprese, però, non si è più tradotta – se mai lo è stata – in benessere del Paese. Anzi. La bilancia commerciale è andata progressivamente in una voragine da cui ogni tentativo di uscita – specie attraverso “dazi col trucco” – comporta squilibri mondiali paurosi.

Stesso discorso per il debito pubblico e privato (più preoccupante del primo), che implica per un verso la necessità di pagare interessi crescenti (se non in percentuale, vista la forza residua del dollaro, certamente in cifre assolute) bloccando non solo gli investimenti pubblici ma anche la spesa corrente, persino quella militare, strategicamente centrale da almeno 80 anni.

Un quadro così critico da costringere persino un vicedirettore del Corriere, iperliberista da sempre, a parlare della “lotta di classe negli Usa” come motivazione reale per il ritorno di Trump alla Casa Bianca e per le devastanti “ricette” che va applicando. Ma è chiaro che il sistema statunitense, così com’era strutturato, è arrivato a fine vita. Così come è chiaro che qualsiasi tentativo di “resuscitarlo”, per di più nelle forme quasi pre-moderne che stiamo vedendo, deve inevitabilmente provocare fortissime turbolenze.

L’era della “globalizzazione” neoliberista si chiude col solito disastro generale, evidenziando – tra l’altro – come la “finanziarizzazione dell’economia” non abbia “generato valore”. Al contrario, lo ha sottratto per parecchio tempo a quanti lo producevano davvero (i manifatturieri, in generale). Ed ora chi ne aveva tratto il massimo beneficio deve per forza pagare dazio.

Ops...

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Cultura, razza, potere: una lettura utile

Le nostre città e campagne sono abitate da volti non bianchi: persone che svolgono il loro lavoro in condizioni difficili, giovani a cui non viene riconosciuta una cittadinanza che sarebbe loro diritto, sportivi e sportive che pur magari facendo parte di una squadra nazionale non vengono considerati “veri italiani” a causa della quantità di melanina contenuta nella loro pelle.

Tuttavia, la politica, in Italia, sembra non avere ancora preso coscienza del rilievo che hanno la questione coloniale e il razzismo nei meccanismi di funzionamento del capitalismo né degli intrecci specifici tra questione di classe e questione razziale.

Per tali ragioni appare utile la riedizione, a dieci anni dalla morte del suo autore, del testo Cultura, Razza, Potere, di Stuart Hall, presso la casa editrice Ombre corte (pp. 239, €20).

Stuart Hall è stato uno studioso nero, caraibico e britannico che ha lasciato una traccia importante negli studi culturali e postcoloniali; il testo di cui scriviamo raccoglie alcuni dei suoi saggi più importanti riguardanti il rapporto tra cultura e potere, l’identità nera nella diaspora e l’importanza di Gramsci per lo studio della razza e dell’etnicità. A guidare il lettore italiano è il curatore del libro, Miguel Mellino, che propone non solo una prefazione alla seconda edizione e l’introduzione già presente nella prima, ma anche una lunga intervista a Stuart Hall sul rapporto tra cultura e potere nei cultural studies.

Tema del testo è come pensare razza, razzismo e antirazzismo nel confronto teorico politico e culturale di oggi. È dunque chiaro che siamo di fronte a una serie di scritti che guardano alla situazione attuale e non solo alla definizione di temi teorici.

In questo senso risultano preziose le analisi sul thatcherismo e sul “populismo autoritario” e di quel “razzismo popolare” che vede aumentare il consenso verso le forze apertamente xenofobe che agiscono nei diversi paesi europei ma anche alla politica istituzionale dei partiti della sinistra liberale o socialdemocratica implicati nelle politiche di respingimento e controllo della fortezza europea. In questo quadro Hall rilancia l’idea d’ intendere la politica nella concezione gramsciana di lotta culturale per la guida della società.

Il razzismo viene visto da Hall come componente fondamentale della dominazione capitalista nelle società cosiddette postcoloniali cosi come un tempo in quelle direttamente coloniali. A questo proposito non si può non rilevare come l’antirazzismo europeo sia ancora caratterizzato da una dimensione maggiormente “etica” che “politica”, nel senso che le lotte antirazziste sono incentrate più sul principio di solidarietà con i gruppi “razzializzati” che non su presupposti di classe che promuovano la necessità di mutare le concrete condizioni materiali.

Una necessità che deve trovare equilibrio tra la consapevolezza che i diversi settori della forza lavoro non subiscono affatto lo stesso sfruttamento, poiché esistono forme specifiche razzializzate e l’esigenza di non frammentare ulteriormente la classe oltre gli effetti prodotti dal capitalismo in crisi.

Oggi, la modernità europea è impregnata dal “discorso” coloniale che ha una incredibile persistenza all’interno del pensiero e della cultura, anzi ne costituisce per molti versi un tratto costitutivo che condiziona le concezioni della cultura “occidentale” e la sua costruzione storica e identitaria.

Ciò porta a un suprematismo bianco che permea tutte le istanze culturali e diventa una “pratica discorsiva” che sostiene la modernità stessa. Se vogliamo tradurre questo nella politica che viviamo ogni giorno ciò significa il continuo ricorrere a valori culturali considerati prettamente “occidentali” e superiori e la negazione degli esiti della modernità capitalista: guerre, estrattivismo e distruzione dell’ambiente, genocidi, stermini coloniali e, nei territori europei, sfruttamento di mano d’opera.

A questo proposito è evidente come le persone non bianche siano spesso, nell’immaginario coloniale, considerate incapaci di accedere a professioni e posizioni sociali elevate. La visione coloniale, non manca di contaminare anche la storia del marxismo bianco europeo, spesso anch’esso eurocentrico e incapace di considerare orizzonti di pensiero provenienti da altri continenti (in questo Hall ricorda le formulazioni di Aimé Césaire o di Frantz Fanon).

Secondo Hall il razzismo non può essere concepito come un semplice pregiudizio o retaggio culturale, bensì come una “struttura del sentire” provocata e funzionale allo stato moderno: il razzismo è una cultura che ha un ruolo attivo e relativamente autonomo dal piano puramente economico. Anche in questa convinzione nasce l’incontro con Gramsci.

Hall ha studiato profondamente i Quaderni di Gramsci, nati sotto il controllo della censura carceraria, senza disporre di libri che ne sostenessero la memoria, disponendo di informazioni dall’esterno condizionate e incomplete che sono una delle ragioni della frammentarietà dell’opera del fondatore del PCd’I.

Hall propone anche un’altra lettura di tale caratteristica frammentaria del lavoro di Gramsci, cioè che egli si concepiva come un dirigente politico che faceva della “teoria” un uso volto a spiegare casi storici concreti o ad applicare concetti generali a situazioni specifiche.

Gramsci non era un teorico puro o un accademico. Il fondatore del PCd’I aveva compreso l’esigenza di sviluppare continuamente la struttura della teoria marxista nei suoi aspetti generali applicandola alle nuove condizioni storiche e ai contesti che Marx ed Engels non potevano prefigurare. In questo senso, secondo Hall, il principale contributo teorico di Gramsci sta nella complessificazione dei problemi e delle prospettive teoriche esistenti.

Hall è molto interessato all’importanza che ha il fattore culturale, secondo Gramsci, nello sviluppo della società. Per questo, Hall vede in Gramsci l’affermazione della essenzialità della cultura per la conservazione dei rapporti di produzione che non potrebbero perpetuarsi senza le “pratiche discorsive” di cui abbiamo già scritto. Pratiche che ancora oggi, nel momento di crisi profonda dello stato capitalista nella sua variante liberista costituiscono l’intreccio ideale tra capitalismo e colonialismo.

Hall individua nel pensiero di Gramsci il tentativo di sfuggire alla concezione dello stato come puro strumento economico coercitivo vedendone anche il ruolo di formazione e di adattamento delle masse alla produzione.

La lucidità con cui Stuart Hall percorre le tematiche del rapporto tra cultura razza e potere è un contributo importante in un momento, come quello attuale, in cui le pratiche discorsive e ideologiche colonialiste e suprematiste bianche appaiono riaffiorare sempre più chiaramente a sostegno del capitalismo e del colonialismo e alle politiche xenofobe e anti-migratorie costruendone il necessario supporto culturale.

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