Presentazione


Aggregatore d'analisi, opinioni, fatti e (non troppo di rado) musica.
Cerco

31/03/2023

Aleksandr Nevskij (1938) di Sergej M. Ėjzenštejn - Minirece

In Usa si sogna “l’Unione polacco-ucraina” del Trecento...

Dietro il compatto muro mediatico che riduce la guerra in Ucraina a un banale scontro tra “un aggredito” e “un aggressore” si muovono come sempre interessi molto più complessi e stratificati, che non è mai utile – per i protagonisti reali – esporre chiaramente.

I think tank occidentali, però, sono finanziati e gestiti proprio per razionalizzare scientificamente questi interessi, trovando similitudini storiche o ipotizzando scenari fuori dalle semplificazioni della propaganda spicciola per dare un senso o prefigurare i possibili punti di approdo di questa turbolenta fase storica.

E non sono assolutamente “esercizi mentali”, ma idee per costruire progetti dell’Amministrazione Usa, vista l’interscambio sempre notevoli tra questi “centri pensanti” e i posti di governo.

La rivista Foreign Policy è certamente un crocevia di primaria importanza per la “produzione teorica” migliore – o considerata “stimolante” – che esce da questi pensatoi.

E qui è apparso in questi giorni l’articolo che vi proponiamo, scritto da uno degli specialisti dell’American Enterprise Institute che si autodefinisce “un think tank di politica pubblica dedicato alla difesa della dignità umana, all’espansione del potenziale umano e alla costruzione di un mondo più libero e sicuro.
Il lavoro dei nostri studiosi e del nostro staff porta avanti idee radicate nella nostra fede nella democrazia, nella libera impresa, nella forza americana e nella leadership globale, nella solidarietà con coloro che sono alla periferia della nostra società e in una cultura pluralistica e imprenditoriale”
.

Insomma, una punta di lancia intellettuale dell’imperialismo Usa.

L’articolo, a nostro avviso, va letto in abbinamento ad un’altra notizia degli scorsi mesi, ripresa dal nostro giornale, perché insieme costituiscono due scenari non troppo alternativi sulla fine della guerra. La differenza tra i due sta nell’esito della guerra in corso – “vittoria totale” Usa per quello vecchio, “mezza vittoria” per quello qui riportato.

Perché va sempre ricordato che la guerra, nella sua brutalità, è costituente il nuovo equilibrio che si stabilisce dopo la sua conclusione.

I lettori più attento potranno vedere in controluce una serie di follie caratteristiche dell’imperialismo euro-atlantico (in generale: l’illusione di poter disporre del mondo intero come una propria colonia, semmai da ridurre a miti consigli).

Non manca, naturalmente, il disprezzo strategico totale verso l’alleato più suicida (l’Unione Europea e tutti i suoi stati membri), considerata alla stregua di minus habens costitutivamente incapaci di assumere un profilo globale (Francia e Germania in primo luogo).

Fino all’idiozia epistemologica che porta da un lato a scrivere

“La leadership politica consiste nel rispondere in modo creativo alle sfide del proprio tempo, non nel cercare di applicare una vecchia cassetta degli attrezzi (in questo caso, un approccio agli allargamenti dell’UE e della NATO in stile anni ’90) a una nuova situazione.”

... e dall’altra immaginare uno scenario che ha il suo “fondamento spirituale”... in un matrimonio regale del 1386! Ossia nella “preistoria”, rispetto alla modernità...

Buona lettura.

*****

È tempo di riportare in vita l’Unione polacco-lituana

Dalibor Rohac *, senior fellow dell’American Enterprise Institute

Nel 1386, l’ultimo sovrano pagano della Lituania, Jogaila, sposò la regina bambina della Polonia, Jadwiga, allora appena adolescente. Il matrimonio creò un’unione politica tra la Polonia e il Granducato di Lituania, che comprendeva gran parte delle attuali Bielorussia e Ucraina.

In questo modo si risolse un duplice problema. Da un lato, ha contribuito a portare i vasti territori dell’Europa orientale, comprese le terre dell’ex Rus’ di Kyiv, all’interno della cristianità occidentale. In secondo luogo, l’unione affrontò l’immediata preoccupazione per la sicurezza di polacchi e lituani: la minaccia dei Cavalieri Teutonici.

L’Unione polacco-lituano sarebbe diventata uno dei Paesi più grandi d’Europa e un affascinante laboratorio di governance politica, studiato in dettaglio dai padri fondatori degli Stati Uniti, in particolare nei Federalist Papers.

Dopo la fine della dinastia jagellonica, l’Unione si trasformò in una monarchia elettorale, simile alle città-stato italiane ma operante su una scala molto più ampia. La legislatura dell’Unione e le diete locali seguivano il principio dell’unanimità, non diversamente da quanto fa oggi il Consiglio europeo su molte questioni. L’atmosfera di tolleranza religiosa e di libertà di cui godeva la nobiltà dell’Unione costituiva un netto contrasto con le monarchie assolutiste dell’Europa occidentale, per non parlare della tragica storia che seguì la fine dell’Unione nel 1795.

E se una soluzione politica simile fosse disponibile per i problemi che l’Ucraina e la Polonia devono affrontare oggi?

L’argomentazione a favore di un’esplicita unione politica tra i due Paesi non si basa sulla nostalgia, ma su interessi comuni. A dire il vero, grazie a quattro secoli di storia comune all’interno del Unione polacco-lituano, gran parte dell’Ucraina odierna (e della Bielorussia) condivide molto più del suo passato con la Polonia che con la Russia, nonostante le affermazioni dei propagandisti russi che affermano il contrario e nonostante il fatto che la relazione sia stata spesso molto complicata, come dimostrano gli eventi del Diluvio del XVII secolo, in particolare la rivolta di Khmelnytsky e le sue interpretazioni contrastanti da parte di polacchi e ucraini.

Tuttavia, il presente e il futuro prossimo sono ancora in corso. Entrambi i Paesi stanno affrontando la minaccia della Russia. Oggi la Polonia è un membro regolare dell’UE e della NATO, mentre l’Ucraina è desiderosa di aderire a entrambe le organizzazioni, non diversamente dal Granducato di un tempo, desideroso di entrare a far parte dell’Europa tradizionale e cristianizzata.

Anche se la guerra dell’Ucraina contro la Russia dovesse concludersi con una decisiva vittoria ucraina, che caccerebbe dal Paese le degradate forze russe, Kiev dovrebbe affrontare una lotta potenzialmente lunga decenni per entrare nell’UE, per non parlare dell’ottenimento di credibili garanzie di sicurezza da parte degli Stati Uniti.

I Paesi dei Balcani occidentali, mal governati e instabili, soggetti all’interferenza russa e cinese, sono un monito per capire dove potrebbe portare un prolungato “status di candidato” e l’indecisione europea. Una nazione ucraina militarizzata, amareggiata nei confronti dell’UE per la sua inazione, e forse offesa da una conclusione insoddisfacente della guerra con la Russia, potrebbe facilmente diventare un peso per l’Occidente.

Immaginiamo invece che, alla fine della guerra, la Polonia e l’Ucraina formino uno Stato federale o confederale comune, fondendo le loro politiche estere e di difesa e portando l’Ucraina nell’UE e nella NATO quasi istantaneamente.

L’Unione polacco-ucraina diventerebbe il secondo Paese più grande dell’UE e probabilmente la sua maggiore potenza militare, fornendo un contrappeso più che adeguato al tandem franco-tedesco, cosa che manca all’UE dopo la Brexit.

Per gli Stati Uniti e l’Europa occidentale, l’unione sarebbe un modo permanente per proteggere il fianco orientale dell’Europa dall’aggressione russa. Invece di un paese sconclusionato e un po’ caotico di 43 milioni di abitanti che indugia nella terra di nessuno, l’Europa occidentale sarebbe protetta dalla Russia da un paese formidabile con una comprensione molto chiara della minaccia russa.

“Senza un’Ucraina indipendente, non ci può essere una Polonia indipendente“, sosteneva notoriamente il leader polacco del periodo tra le due guerre, Jozef Pilsudski, sostenendo la necessità di una federazione dell’Europa orientale a guida polacca che comprendesse Lituania, Bielorussia e Ucraina, in pratica una ricreazione del Unione medievale.

Non è un discorso di fantasia. All’inizio della guerra, la Polonia ha approvato una legge che consentiva ai rifugiati ucraini di ottenere un numero di identificazione polacco, dando loro così accesso a una serie di benefici sociali e sanitari normalmente riservati ai cittadini polacchi.

Il governo ucraino ha promesso di ricambiare, estendendo ai polacchi in Ucraina uno status giuridico speciale non disponibile per gli altri stranieri. Con oltre 3 milioni di ucraini che vivono in Polonia – compresa una consistente popolazione prebellica – i legami culturali, sociali e personali tra le due nazioni si rafforzano ogni giorno di più.

C’è anche un ovvio precedente di unione politica che ha significativamente alterato l’equilibrio di potere nell’UE e ha superato molti degli ostacoli che una potenziale unione polacco-ucraina dovrebbe affrontare: la riunificazione tedesca.

Dopo le prime elezioni libere in Germania Est nel marzo 1990, il nuovo governo cristiano-democratico negoziò rapidamente un trattato che stabiliva un’unione monetaria, economica e sociale tra la Germania Est e la Germania Ovest, a partire dal 1° luglio dello stesso anno. Non solo il marco tedesco divenne moneta a corso legale nella Germania dell’Est, ma la Germania dell’Est adottò anche la legislazione della Germania dell’Ovest che regolava l’attività economica – dall’antitrust, al lavoro, alla regolamentazione ambientale, alla protezione dei consumatori – e procedette allo smantellamento di ogni residuo del dominio comunista.

Questo fu solo il primo passo verso l’unificazione politica. Seguì l’adesione della Germania Est alla Costituzione tedesca, la Legge fondamentale, proprio come fece il Saarland quando si unì alla Germania Ovest nel 1956.

Un complesso trattato di unificazione regolava nei minimi dettagli quali parti della legge della ex Germania Est sarebbero rimaste in vigore e quali sarebbero state sostituite dalla legge della Germania Ovest, con quali modalità e tempi.

Contemporaneamente, nell’estate del 1990, un accordo tra il cancelliere Helmut Kohl e il leader sovietico Mikhail Gorbaciov spianò la strada verso l’adesione alla NATO e alla Comunità economica europea (CEE) per la Germania unificata. Nell’ambito della CEE, l’unificazione tedesca ha provocato una revisione del trattato, che ha portato infine all’abbandono da parte della Germania del suo amato marco tedesco a favore dell’euro.

Non si può sminuire la complessità dell’unificazione, in particolare dei suoi aspetti legali e normativi, ulteriormente complicati dagli impegni europei della Germania. Tuttavia, l’esempio tedesco dimostra che un simile esercizio è possibile quando esiste una sufficiente volontà politica. A meno di 11 mesi dalla caduta del Muro di Berlino, il 3 ottobre 1990 i tedeschi dell’Est sono diventati cittadini della Repubblica federale a tutti gli effetti.

Ci sono alcune ovvie differenze tra la situazione polacco-ucraina di oggi e quella tedesca dei primi anni Novanta. Per prima cosa, nonostante la cultura, la storia e i legami linguistici comuni – e la presenza di un’ampia popolazione ucraina in Polonia – l’idea di “assorbire” l’Ucraina nella Polonia è un’idea ovviamente non praticabile.

A differenza del 1990, quando i tedeschi dell’Est dovettero accettare la Legge fondamentale della Germania occidentale e, di fatto, l’intero sistema giuridico e politico dei loro cugini democratici più sviluppati, un’unione polacco-ucraina richiederebbe la stesura di un nuovo documento costituzionale e la costruzione di istituzioni federali o confederali condivise, oltre a quello che sarebbe un complesso trattato di unificazione.

La sussidiarietà dovrebbe essere il principio guida di tali sforzi, soprattutto perché lo scopo dell’unione non sarebbe quello di cancellare l’identità o la statualità ucraina, al contrario. Le aree in cui il diritto polacco dovrebbe essere introdotto nel sistema giuridico ucraino, non appena possibile, sono quelle necessarie per l’effettivo funzionamento dell’Ucraina all’interno dell’UE e del suo mercato unico.

Ci sono altre aree, tuttavia, in cui tale armonizzazione non è necessaria – o perché si trovano completamente al di fuori delle competenze dell’UE o perché gli ucraini potrebbero trovare il modo di conformarsi al diritto dell’UE alle loro condizioni entro tempi predefiniti.

Probabilmente, la sfida più grande della riunificazione tedesca ha riguardato il divario economico tra le due parti costituenti. Dal 1990, si stima che più di 2.000 miliardi di dollari siano stati trasferiti dall’Ovest all’Est, ovvero circa la metà del PIL annuale della Germania, in gran parte sotto forma di trasferimenti attraverso il sistema di welfare.

In termini reali, i redditi della Germania Est erano circa un terzo di quelli dell’Ovest, una differenza simile a quella tra Ucraina e Polonia prima della guerra. La differenza principale, ovviamente, è la dimensione relativa dei due Paesi: mentre la popolazione della Germania Est era solo un quarto di quella della Germania Ovest, quella dell’Ucraina è più grande di quella della Polonia.

Non è ragionevole aspettarsi che il sistema di welfare polacco diventi un importante veicolo di ridistribuzione verso l’Est; in realtà, i contribuenti polacchi non dovrebbero affatto pagare il conto della ricostruzione dell’Ucraina e della sua crescita di recupero. Oltre ai beni russi – in particolare i 300 miliardi di dollari detenuti dalla sua banca centrale e attualmente congelati nelle capitali finanziarie occidentali – l’UE e i suoi ricchi Stati membri dell’Europa occidentale dovranno farsi avanti.

Ma questa non è una novità, indipendentemente dalla natura dell’accordo politico del dopoguerra. La novità dell’idea di un’Unione polacco-ucraina è che la sua nascita creerebbe un ambiente politico e legale in cui il denaro speso non sarebbe diretto a un Paese che indugia nella sala d’attesa dell’UE, ma a uno Stato membro, con tutto il rigore e il controllo che ne derivano.

Ci sono molte potenziali obiezioni. La principale è il realismo dell’idea. Perché i polacchi dovrebbero intraprendere un’impresa radicale di tali proporzioni? E perché le nazioni dell’Europa occidentale dovrebbero accettare (e in gran parte pagare) l’ascesa di una nuova potenza europea che sposterebbe irrevocabilmente il centro di gravità dell’UE verso est?

La risposta alla prima domanda è semplice: l‘aggressione della Russia e il suo fallimento aprono nuove opportunità per la costruzione di uno Stato.

La leadership politica consiste nel rispondere in modo creativo alle sfide del proprio tempo, non nel cercare di applicare una vecchia cassetta degli attrezzi (in questo caso, un approccio agli allargamenti dell’UE e della NATO in stile anni ’90) a una nuova situazione.

Un’Unione polacco-ucraina potrebbe essere il modo più semplice per trasformare l’Ucraina del dopoguerra in un Paese stabile, prospero e forte, in grado di tenere a bada la Russia, cosa che è nell’interesse di Varsavia.

Per quanto riguarda la seconda domanda, si noti che Bruxelles, Berlino e Parigi si sono già impegnati ad allargare l’UE concedendo all’Ucraina lo status di candidato, con tutto ciò che questo comporterebbe.

Un’unione politica esplicita tra la Polonia e l’Ucraina renderebbe impossibile prendere tempo e sottrarsi a tale impegno, come si può prevedere che faranno. Opporsi a tale unione, inoltre, significherebbe opporsi a uno degli attributi fondamentali dell’autodeterminazione nazionale dell’Ucraina, che i leader europei hanno giurato più volte di proteggere.

È qui che entra in gioco la leadership degli Stati Uniti. Considerati gli investimenti già effettuati per il successo dell’Ucraina sul campo di battaglia, che superano di gran lunga i contributi dell’Europa occidentale, gli americani hanno un forte interesse a trasformare l’Ucraina in una storia di successo, soprattutto quando la guerra stessa si allontana dallo specchietto retrovisore.

Data la cronica incostanza della vecchia Europa, illustrata dalle disavventure dell’UE nei Balcani, il futuro dell’Ucraina è troppo importante per essere lasciato nelle mani di Bruxelles, Parigi e Berlino. Se Varsavia e Kiev fossero disposte a farsi avanti e a risolvere il problema dell’Europa orientale una volta per tutte, l’amministrazione statunitense dovrebbe sostenere la Polonia e l’Ucraina.

Fonte

Brasile - Bolsonaro ritorna nel Paese

di Glória Paiva

Jair Bolsonaro è tornato in Brasile ieri (30/03) dopo aver trascorso tre mesi negli Stati Uniti. L’ex presidente ha lasciato il suo paese d’origine il 30 dicembre, due giorni prima della fine del suo mandato, rifiutandosi di seguire la tradizione di consegnare la fascia presidenziale al suo successore, Luis Inácio Lula da Silva, la cui vittoria Bolsonaro non ha mai riconosciuto pubblicamente. Ora dovrà affrontare almeno 20 indagini in corso contro di lui ed è già stato citato a testimoniare in uno dei casi. Allo stesso tempo, viene accolto nel suo partito come il principale nome dell’opposizione al governo attuale e un importante sostegno per la destra e l’estrema destra nelle elezioni comunali del 2024.

Bolsonaro ha più volte rimandato il suo ritorno in Brasile, in un soggiorno prolungato che alcuni esponenti dell’opposizione, internauti e giornalisti hanno considerato una sorta di fuga. Come riportato da CNN Brasil, i piani dell’ex presidente, al suo arrivo, prevedevano un corteo per le strade di Brasília e un discorso ai suoi sostenitori già in aeroporto, ma il forte schema di sicurezza messo in atto dalla Polizia Federale non lo hanno permesso. Né sono stati consentiti manifestazioni e accampamenti come quelli visti tra dicembre e gennaio di quest’anno. La piazza Três Poderes – scenario di violente manifestazioni golpiste l’8 gennaio – ha avuto la sicurezza rafforzata.

L’accoglienza dell’esponente dell’estrema destra è stata tutt’altro rispetto a quanto i gruppi bolsonaristi su Telegram e Whatsapp avevano promesso: “la terra avrebbe tremato” al suo ritorno, dicevano. Al contrario, poco più di 100 persone lo stavano aspettando nell’area arrivi dell’aeroporto di Brasilia, dove il suo volo commerciale è arrivato prima delle 7 del mattino. Tuttavia, l’ex presidente ha utilizzato un’altra uscita e si è recato nella sede del Partito Liberale (PL), dove ha incontrato l’ex first lady, Michelle Bolsonaro, il presidente del PL, Valdemar Costa Neto, diversi membri del suo passato governo e sostenitori.

Ora, Costa Neto intenderebbe utilizzare l’immagine dell’ex presidente e di sua moglie Michelle durante le elezioni comunali del 2024, in particolare per aprire spazio nelle grandi città come Rio de Janeiro e São Paulo e nella regione nord-est, dove il forte elettorato di Lula tende ad essere decisivo nelle elezioni presidenziali. Alcuni esperti sottolineano inoltre che la coppia potrebbe sostenere il PL nel diffondere ulteriormente il bolsonarismo tra il pubblico evangelico e le donne. Durante il ricevimento presso la sede del partito, Bolsonaro ha affermato il suo obiettivo di fare sì che il PL e i suoi alleati conquistino, insieme, il 60% delle amministrazioni comunali in tutto il paese nel 2024.

In un video ottenuto dalla CNN Brasil, Costa Neto definisce Bolsonaro il “leader di un movimento che è qui per restare” – non a caso Bolsonaro ha affittato una casa a Brasilia e ha già una squadra di guardie di sicurezza, autisti e auto ufficiali, normalmente destinate per gli ex presidenti. Tra pochi giorni Bolsonaro assumerà anche la carica di presidente onorario del partito, con uno stipendio di 40mila reais (circa 7mila euro).

Nonostante lo abbia negato negli ultimi giorni, il ritorno di Bolsonaro in Brasile rappresenta, per la destra e l’estrema destra, la più grande opera di opposizione nel cammino del governo Lula, che deve affrontare sfide importanti in ambito sociale ed economico. L’attuale presidente, per mettere in opera le sue promesse elettorali, ha bisogno del sostegno di un parlamento che finora si è dimostrato ostile e turbolento, con tendenze conservatrici e sedute segnate da offese, dissapori e fake news. Attualmente, il presidente della Camera dei Deputati Arthur Lira è in contenzioso con il Senato e il governo per approvare misure economiche, fiscali e sociali che interessano il Planalto. Un altro scontro politico difficile per Lula in questo momento è con la Banca Centrale, che il presidente critica costantemente a causa degli alti tassi di interesse, fattore che incide direttamente sulla crescita del paese.

Resa dei conti con la Giustizia

Mentre si trovava a Orlando, Bolsonaro passava il tempo a criticare il governo Lula e a difendersi dalle accuse a lui rivolte, in particolare il suo ruolo nella crisi umanitaria che ha decimato parte della popolazione indigena Yanomami e la crisi dei gioielli ricevuti da Bolsonaro – e non dichiarati – durante la sua visita in Arabia Saudita mentre era il capo dello Stato.

Il 5 aprile Bolsonaro dovrà testimoniare sul caso e spiegare alla polizia federale perché ha cercato di tenere per se armi, collane, orologi e altri oggetti ricoperti di diamanti, per un valore di 17 milioni di reais (3 milioni di euro), ricevuti in dono dal regno dell’Arabia Saudita nel 2021. Secondo una determinazione del 2016, i regali ricevuti dai capi dello Stato brasiliano in viaggio devono essere incorporati nel patrimonio pubblico, a meno che non si tratti di oggetti di carattere personale.

Gli articoli di lusso sono stati sequestrati dal Fisco dopo che un consigliere di Bolsonaro, il colonnello Mauro Cid, ha tentato di entrare in Brasile senza dichiararne l’ingresso. Per mesi il governo Bolsonaro ha cercato di recuperare i gioielli, muovendosi attraverso tre ministeri, militari di alto rango e facendo pressioni anche sul capo dell’agenzia delle entrate, ma senza successo.

Bolsonaro è anche oggetto di sei inchieste presso il Supremo Tribunale Federale in casi come la sua condotta negazionista e la diffusione di notizie false durante la pandemia di Covid-19, l’esistenza di milizie digitali antidemocratiche e il ruolo dell’ex presidente nell’organizzazione degli atti golpisti a Brasilia l’8 gennaio.

Nell’ambito della Giustizia Elettorale, Bolsonaro è oggetto di indagine in 16 procedimenti, il più emblematico e recente dei quali è stato l’incontro tenutosi con gli ambasciatori brasiliani, nel luglio 2022, durante il quale Bolsonaro ha ripetuto disinformazione sul sistema elettorale del paese e ha diffuso dubbi sulla sicurezza del sistema di voto elettronico. Altre richieste di indagine in analisi includono anche l’omissione dello Stato nel caso degli Yanomami e l’uso della struttura presidenziale per articolare campagne di disinformazione. Queste e altre procedure potrebbero, come minimo, rendere Bolsonaro inammissibile alla presidenza nel 2026.

Le indagini devono ancora andare in primo grado e un’eventuale condanna definitiva di Bolsonaro per i suoi crimini richiederebbe anni. Finora, i giuristi stimano che Bolsonaro sia riuscito a proteggersi da accuse formali facendo nominare nel 2019 un suo alleato come procuratore generale della repubblica, Ricardo Aras. L’anno scorso, Aras ha archiviato più di 100 richieste di indagine contro il presidente. Nel 2021, l’ONG Transparência Internacional ha denunciato “l’allineamento sistematico della Procura Generale della Repubblica con il governo Bolsonaro” come uno dei fattori di rischio per la democrazia brasiliana. Il mandato di Aras dura fino a settembre di quest’anno.

Fonte

USA - Fiato sospeso per l’arresto di Trump

Donald Trump dovrebbe consegnarsi alle autorità giudiziarie martedì prossimo 4 aprile. Un gran giurì del tribunale di New York ha votato per l’incriminazione dell’ex presidente Usa per aver comprato nel 2016 il silenzio dell’attrice porno Stormy Daniels affinché mantenesse segreta una loro relazione.

Il Time riferisce che i funzionari dell’intelligence hanno registrato un aumento della retorica violenta dopo che la notizia del possibile atto d’accusa si è diffusa il 18 marzo, con la maggior parte delle minacce rivolte alle forze dell’ordine, ai giudici e ai funzionari governativi di New York.

Diverse agenzie della sicurezza hanno discusso potenziali piani di sicurezza per le vicinanze del tribunale penale di Manhattan. Il dipartimento di polizia di New York ha comunicato ai suoi 36.000 agenti di essere mobilitati e pronti a rispondere a qualsiasi potenziale protesta o disordini

Trump è il primo presidente o ex presidente della storia americana a essere incriminato. Nei suoi confronti pendono oltre trenta capi di accusa per frode aziendale. L’ufficio del procuratore ha contattato i legali di Trump per la consegna dell’ex presidente, che dovrà presentarsi in tribunale a Manhattan, presumibilmente all’inizio della prossima settimana, affinché un giudice gli comunichi l’accusa, e sarà posto agli arresti per un breve periodo, per sottoporsi a procedure quali la foto segnaletica e la rilevazione delle impronte digitali. Dovrà quindi dichiararsi colpevole o non colpevole.

Ma l’ex presidente Usa, non intende arrendersi e ha mobilitato sia gli alleati chiave al Congresso, che i suoi sostenitori nell’America profonda alla ricerca di sostegno.

Trump avrebbe già parlato con alcuni leader del partito alla Camera e con i membri della commissione che intende mettere sotto inchiesta il procuratore distrettuale Alvin Bragg, ovvero il titolare dell’indagine che ha portato all’incriminazione di Trump.

Il governatore della Florida, Ron De Santis, ritenuto il principale competitore repubblicano di Donald Trump nella corsa alla Casa Bianca, stavolta si è subito schierato a sostegno del suo rivale, annunciando che non concederà l’estradizione per trasferirlo a New York: “La Florida non risponderà alla richiesta di estradizione”. “La strumentalizzazione del sistema giudiziario per far avanzare un’agenda politica – ha commentato De Santis su Twitter – capovolge lo stato di diritto ed è anti-americana“.

Dal canto suo Trump sta mobilitando anche la sua base sociale attraverso un appello diffuso via mail. “Il deep state – scrive Trump nella email – userà qualsiasi cosa avrà a disposizione per chiudere il movimento che tu hai messo al primo posto“. “Noi – si legge ancora nel messaggio di Trump – stiamo vivendo il capitolo più buio della storia americana. Da quando ho cominciato a correre per la carica di presidente da completo outsider politico, la corrotta classe al potere ha cercato di chiudere il movimento America First”.

Dentro il Partito Repubblicano crescono le prese di posizione che a sostegno dell’ex presidente. Il senatore Lindsey Graham, uno dei leader del Partito Repubblicano, ha duramente contestato le accuse contro Trump. “Questo – ha dichiarato in un’intervista a Fox Newsè letteralmente un vodoo legale. Questa è una persecuzione politica, questa è la combinazione di odio politico e persecuzione selettiva”. Un’analoga reazione arriva anche dall’ex vice presidente degli Stati Uniti e probabile candidato alla nomination repubblicana per le elezioni presidenziali del 2024, Mike Pence, che ha definito l’incriminazione dell’ex presidente, Donald Trump, una “persecuzione politica”. “Penso che la stragrande maggioranza del popolo americano la vedrà in questo modo”, ha aggiunto l’ex vice di Trump in un’intervista alla Cnn.

“Arrivando in un momento di profonde divisioni politiche, è probabile che le accuse rafforzino piuttosto che rimodellare le prospettive di scontro tra coloro che ritengono che la resa dei conti giudiziaria fosse attesa da tempo e coloro che ritengono che Trump sia preso di mira per scopi politici da un procuratore democratico” scrive l’Associated Press.

Fonte

In Medio Oriente tutto è in movimento

In Medio Oriente tutto si muove, e rapidamente. Non c’è solo lo “sganciamento” dell’Arabia Saudita dall’influenza USA e l’accordo storico di Riad con l’Iran mediato dalla Cina. Anche le relazioni storiche tra Usa e Israele sembrano sottoposte a sollecitazioni fuori dalla “normale amministrazione”.

Martedì sera era stato il Presidente degli Stati Uniti Joe Biden a dichiarare di essere preoccupato per i recenti eventi in Israele aggiungendo che ”come molti sostenitori di Israele sono molto preoccupati. Che lo capiscano bene... non possono continuare su questa strada”.

La replica, piuttosto dura, è arrivata direttamente nella notte tra martedì e mercoledì dal premier israeliano Netanyahu, il quale ha risposto seccato che “Israele è un Paese sovrano che non prende decisioni sulla base di pressioni provenienti dall’estero, anche quelle dei migliori amici”.

In seguito anche il vicepresidente della Knesset Nissim Vaturi, anch’egli membro del Likud, ha replicato alla Casa Bianca incolpando addirittura gli Stati Uniti dell’amministrazione Obama per la morte di alcuni soldati israeliani durante i bombardamenti del 2014 nella Striscia di Gaza.

L’agenzia israeliana Ynet news ha riportato le dichiarazioni dell’alto esponente del Likud secondo cui “Gli Stati Uniti non possono interferire negli affari interni di Israele. Questa è una democrazia e non si azzardino a dettarci ordini”, ha dichiarato Vaturi all’emittente Radio 103. Vaturi si è spinto ad accusare l’ex presidente degli Stati Uniti Barack Obama per la morte di soldati durante l’operazione Protective Edge a Gaza. “Durante l’operazione Protective Edge, gli Stati Uniti hanno deciso un embargo sulle armi per i missili Hellfire per gli elicotteri Apache e Israele. I soldati sono stati uccisi, a mio parere, anche grazie al sostegno, tra virgolette, americano”. Un linguaggio decisamente inusuale.

Il giornale israeliano Times of Israel prova a gettare acqua sul fuoco delle tensioni tra Israele e Stati Uniti. Riporta infatti che la Casa Bianca mercoledì avrebbe elogiato i commenti di Netanyahu in risposta alle preoccupazioni del Presidente degli Stati Uniti Joe Biden in merito alla revisione giudiziaria avanzata dal governo israeliano.

Secondo il Times of Israel le osservazioni del portavoce del Consiglio di Sicurezza Nazionale della Casa Bianca, John Kirby, sono apparse come un tentativo dell’amministrazione Biden di abbassare la temperatura dopo che le tensioni tra Stati Uniti e Israele si erano accese il giorno prima. “C’è molto da apprezzare. Ha parlato di ricerca del compromesso. Ha parlato di lavorare per costruire un consenso rispetto a queste potenziali riforme giudiziarie. Ha parlato di quanto sia incrollabile il rapporto tra Stati Uniti e Israele. E ha parlato del suo grande rispetto per il presidente Biden, un rispetto che anche il presidente Biden condivide”, aveva detto Kirby in un briefing con la stampa.

Kirby ha sottolineato però solo le parti della dichiarazione che gli Stati Uniti hanno apprezzato. Un funzionario statunitense ha dichiarato martedì al Times of Israel che la risposta di Netanyahu aveva fatto infuriare alcuni funzionari dell’amministrazione Biden.

Occorre ricordare che anche in passato ci stati momenti di “incomprensione” tra Stati Uniti e Israele. L’avvio del processo che portò agli accordi di Oslo tra Tel Aviv e l’Olp fu in qualche modo imposto dall’allora amministrazione di Bush senior. Israele poi ha fatto in modo che quegli accordi diventassero inservibili per la nascita dello Stato Palestinese, ma i mesi a cavallo tra il 1992 e il 1993 non furono proprio idilliaci nelle relazioni tra Washington e Tel Aviv. Ma anche durante l’amministrazione Obama, come rivelato dal tono delle dichiarazioni di Vaturi, i rapporti avevano vissuto momenti di alta tensione.

Adesso, mentre gli Accordi di Abramo tra Israele e alcuni, pochi, paesi arabi sembrano già una formalità sul calendario, la sincronia tra Usa e Israele in Medio Oriente è investita come un turbine sia dalle divergenze sulle forzature del governo fondamentalista di Netanyahu sul piano interno, sia dalle ripercussioni dei raid israeliani in Siria e contro l’Iran di cui Washington vorrebbe concordare tempi e modalità, mentre Israele si muove troppo spesso in modo autonomo in una regione in cui le alleanze a geometria variabile stanno modificando complessivamente rapporti e relazioni che sembravano inamovibili.

Infine, dagli Usa si segnala una iniziativa fino ad oggi inusuale. Alcuni congressisti statunitensi – guidati da Jamaal Bowman e Bernie Sanders – stanno guidando quello che molti definiscono uno sforzo senza precedenti per chiedere all’amministrazione Biden di indagare se Israele stia usando armi americane per commettere violazioni dei diritti umani contro i palestinesi

In una lettera diretta al segretario di Stato Antony Blinken e al presidente Joe Biden, i due legislatori hanno esortato l’amministrazione a garantire che il denaro dei contribuenti statunitensi non venga utilizzato per sostenere progetti negli insediamenti israeliani illegali.

Più di qualcuno avverte del rischio che Israele, alle prese con una crisi interna di consenso fortissima, possa giocare sulla carta dell’escalation militare verso l’esterno (Libano, Iran, Territori Palestinesi) per ricompattare una società e una classe dirigente che si sono duramente divaricate in questi mesi di contrapposizione contro le torsioni autoritarie e fondamentaliste del governo Netanyahu.

Fonte

Guerra in Ucraina - La “strana” guerra dell’aviazione russa.

di Francesco Dall'Aglio

Di aerei, bombe guidate e altri modi ingegnosi di uccidere la gente a distanza (rischiando poco e se possibile risparmiando).

Uno dei miti più tenaci riguardo alla tecnica sovietica, e per estensione russa, sia civile che militare è che è rozza, costruita al risparmio e utilizzando materiali quasi di fortuna e tecnologia primitiva.

Come tutti i miti è sostanzialmente falso: basterebbe pensare alle armi ipersoniche, o, andando un po’ più indietro nel tempo, all’ekranoplano, al Buran (che solo in apparenza somigliava allo Space Shuttle, ma aveva soluzioni tecniche molto diverse, oltre che un propellente meno prono alle esplosioni) o al T-34.

Come tutti i miti ha qualcosa di vero: nella fattispecie, il fatto che le FFAA russe non possono contare su un budget infinito come i colleghi del Pentagono, e che a volte un po’ di creatività e filo di ferro è necessaria per superare alcuni problemi che, con una o due vagonate di dollari in più, non si presenterebbero (che poi l’F-35 continui a ribaltarsi da solo anche se ogni esemplare costa il suo peso in diamanti è un altro discorso che qui non affronteremo).

Questa cosa è particolarmente vera sull’aviazione. Non è sfuggito a nessuno, io credo, che l’impiego dell’aviazione da parte russa sia stato in questo conflitto molto meno incisivo di quanto ci si aspettasse, non solo se paragonato all’impiego dell’aviazione statunitense o NATO nei conflitti recenti, ma anche all’impiego della stessa aviazione russa in Siria.

Questa minore efficacia dipende da una serie di fattori che hanno poco a che vedere con la qualità dell’aviazione russa, che è piuttosto alta con punte di eccellenza, ma che si trova a dovere affrontare alcuni problemi di difficile soluzione dovuti al teatro, alle modalità di impiego e all’armamento a disposizione.

La questione del teatro è stata già discussa varie volte: in un conflitto con un peer o near-peer, cioè con un avversario di livello tecnologico e capacità belliche pari o solo di poco inferiore, ci possiamo scordare sia le cavalcate di mezzi corazzati sia campagne aeree tipo Desert Storm: l’ambiente è saturo di difese antiaeree sia portatili che fisse, oltre che dell’aviazione nemica, e l’Ucraina riceve intelligence in tempo reale sui movimenti dell’aviazione russa da parte dei satelliti e degli AWACS NATO, per cui è necessario esercitare parecchia cautela per non ritrovarsi a fare rapidamente i conti con perdite umane e materiali che non è possibile rimpiazzare.

In sintesi: è facile bombardare i pastorelli sui monti afghani, un po’ meno la rete di bunker di Avdiivka.

A questo va aggiunto che la dottrina strategica sovietica e poi russa non ha mai posto particolare enfasi sul ruolo dell’aviazione (a differenza di quella USA) se non come supporto alle operazioni militari di terra.

Gli aerei russi sono sostanzialmente piattaforme per il lancio di missili, che sono precisi e letali ma hanno due gravi svantaggi: costano molto più delle bombe e, soprattutto, hanno un payload molto limitato. Trasportano relativamente poco esplosivo perché, per ovvi motivi pratici, il loro peso non può eccedere determinati parametri. Questo, spesso, è un problema.

Certo, la Russia dispone di un gran quantitativo di vecchie bombe a caduta libera: ma sono poco precise e, soprattutto, vanno depositate sul bersaglio, o in prossimità dello stesso, con tutti i rischi di cui sopra. Per farla breve, l’aviazione russa dispone della superiorità tattica e operativa, ma non strategica: non può colpire bersagli in profondità nel territorio ucraino se non con i missili e il payload degli stessi non è sufficiente per fare grossi danni, il che spiega come mai le capacità logistiche dell’esercito ucraino siano sostanzialmente intatte (perlomeno quelle lontane dalla linea del fronte), perché i ponti sul Dnepr siano ancora in piedi, eccetera.

Le bombe a caduta libera hanno anche un altro svantaggio, oltre a quelli riportati sopra: l’angolo d’impatto. Per distruggere un obiettivo non basta scaricarci sopra qualche tonnellata di esplosivo: bisogna che l’esplosivo colpisca con un angolo di impatto che massimizzi la portata dell’esplosione, altrimenti è come scaricare secchiate d’acqua su un ombrello. Molto rumore e molta scena, ma pochi risultati pratici: e l’angolo di impatto delle bombe a caduta libera non è dei migliori.

Ci vorrebbero le bombe guidate, del tipo che utilizza l’aviazione USA, ad esempio le LGB, Laser-Guided Bombs, o al limite le JDAM, Joint Direct Attack Munition, che trasformano le bombe a caduta libera in bombe guidate.

In questo settore la Russia è molto indietro. Secondo stime russe, durante la prima guerra cecena solo il 3% delle munizioni aeree erano guidate; la percentuale si riduce ancora di più per la seconda guerra cecena (1,5%) e per la guerra del 2008 con la Georgia (0,5). Il 70% delle munizioni aeree NATO in Iraq invece era guidata, e la percentuale è salita al 100% durante la guerra in Libia.

È questa, pare, la direzione in cui l’aviazione russa si sta muovendo – ed è qui che entra in gioco il filo di ferro (metaforico). Il kit JDAM è molto semplice ed economico: delle alette per stabilizzare la bomba, un timone per guidarla, un sistema GPS per dirigerla e tutta la potenza esplosiva di una bomba da 500 chilogrammi (tipo la FAB-500 della foto in apertura) che hai già pagato trent’anni fa può essere diretta con precisione, e angolo di impatto migliore, contro il bersaglio designato, con risultati molto più distruttivi e maggior sicurezza per chi la lancia essendo la gittata di un centinaio di km e anche di più a seconda delle necessità.

Yuriy Ignat, portavoce dell’areonautica ucraina, nei giorni scorsi ha dichiarato che la Russia ha cominciato a usare bombe di questo tipo, solo che al posto del GPS usano il GLONASS, l’equivalente russo. E non usano nessun kit, che costa comunque i suoi 20.000 dollari (quello USA almeno), modificano le bombe negli hangar in maniera, come vuole il mito, cruda ma efficace.

Nella foto 2, una delle bombe in questione con l’accrocco JDAM-equivalente montato sotto il corpo; nella foto 3 i resti di uno di questi accrocchi trovato nella regione di Sumy, dove dal 24 marzo le linee ucraine, i depositi e le caserme sono sotto attacco di questi ingegni.

Vedremo quale sarà l’impatto sul conflitto, e se anche l’aviazione russa produrrà un kit standardizzato. Ad ogni modo, come sempre, è solo in una guerra (possibilmente una guerra vera, non contro i pastorelli in montagna) che ti rendi conto delle tue magagne.

Fonte

Brasile e Cina si accordano per commerciare senza usare il dollaro

Lo scorso mercoledì Brasile e Cina hanno raggiunto un accordo per svolgere le reciproche transazioni commerciali con le proprie valute nazionali, senza usare il dollaro come mezzo di intermediazione. La Banca industriale e commerciale della Cina e il Banco BBM brasiliano sono state incaricate di procedere alle relative operazioni di cambio.

La firma di una ventina di accordi tra i due paesi era stata sospesa solo qualche giorno fa a causa dell’indisponibilità del presidente brasiliano Lula per una polmonite bilaterale. Le nuove collaborazioni avrebbero riguardato l’agroalimentare, la scienza e la tecnologia, l’istruzione e la cultura, e anche un’eventuale adesione del Brasile alla Belt and Road Initiative.

Anche senza Lula, il forum commerciale tra i due paesi si è comunque svolto, portando a compimento anche questo accordo sugli scambi, già abbozzato in maniera preliminare lo scorso gennaio. A questo incontro hanno partecipato anche quasi 250 uomini d’affari cinesi, e altrettanti brasiliani.

Nel comunicato dell’Agenzia brasiliana per la promozione delle esportazioni si legge che lo scopo è quello di “ridurre i costi” e di “promuovere ulteriormente il commercio bilaterale, facilitando al contempo gli investimenti”. Già oggi la più grande economia del Sud America vede nel Dragone il suo principale partner commerciale.

Oltre ai 150 miliardi di scambi bilaterali del 2022, la Camera di Commercio Brasile-Cina ha calcolato che il 48% degli investimenti cinesi in America Latina tra il 2007 e il 2020 sono finiti proprio in Brasile. Un ulteriore rafforzamento del legame tra i due paesi potrebbe avvenire attraverso il via libera alle banche brasiliane a partecipare al mercato finanziario cinese.

La Banca Nazionale per lo Sviluppo Economico e Sociale (BNDES) sarebbe al centro dell’intesa che permetterebbe a questo istituto di accedere ai crediti sottoposti al controllo di Pechino, per finanziare progetti infrastrutturali ed energetici. Anche se la pubblicità di questo patto è stata rimandata, sembra che ormai esso sia vicino alla fase finale.

Intanto, anche altro si muove nel panorama mondiale. Dilma Rousseff, la presidente del Brasile dal 2011 al 2016, è stata da poco indicata al vertice della National Development Bank, la banca di sviluppo dei BRICS. Nell’istituto finanziario è stato inoltre appena accolto l’Egitto, che secondo le stime della Banca Mondiale dovrà avviare nei prossimi anni un piano di investimenti di 230 miliardi di dollari.

Attraverso i BRICS, e non solo, sta prendendo piede un nuovo sistema di pagamenti e vettori di investimento internazionali. La Cina ha già stretto accordi valutari simili a quello di cui abbiamo parlato con altri paesi, tra cui Russia, Pakistan, Cile, Argentina. A breve anche le banche brasiliane entreranno a pieno titolo nel CIPS, il circuito di compensazione bancaria cinese che si oppone allo SWIFT statunitense.

Tutte queste azioni si inseriscono all’interno di una progressiva de-dollarizzazione del mercato mondiale, guidata dalla Cina con l’obiettivo di ridurre la principale leva internazionale di Washington. Significa mettere in crisi uno dei due principali strumenti (l’altro è il Pentagono) con cui la Casa Bianca ha tenuto in pugno il mondo negli ultimi decenni.

Fonte

Delega fiscale: Meloni fa pagare solo i lavoratori (prima parte)

È stata presentata nei giorni scorsi, dopo diversi annunci, la delega fiscale predisposta dal Governo Meloni. Si tratta di una proposta di legge, che dovrà essere approvata dal Parlamento, che delega il Governo ad adottare una serie di atti (decreti legislativi) sulla riforma del sistema fiscale. La legge delega si limita, come noto, a stabilire i principi e i criteri ai quali i decreti legislativi, che avranno il valore di vere e proprie leggi, dovranno attenersi. Molti dettagli, dunque, sono ancora incompleti, mentre ben chiara è, come vedremo, la direzione di marcia.

È un documento importante, non solo perché interviene a 360 gradi sul fisco, ma anche perché è forse il primo atto di politica economica interamente addebitabile a questo Governo, che finora era soprattutto intervenuto (ovviamente sempre in modo peggiorativo) in modalità parziale su singoli istituti (i casi più evidenti sono state le pensioni e il reddito di cittadinanza).

I primi articoli sono dedicati alla riforma dell’IRPEF e in generale della tassazione delle persone fisiche, e questa è la parte che forse meglio di tutte chiarisce la profonda iniquità di questa riforma.

Accompagnata dalla promessa della “flat tax per tutti”, la delega si traduce immediatamente in un enorme colpo a quel poco di progressività che residuava nel nostro sistema, con vantaggi evidenti per i redditi più alti.

Da subito (cioè, probabilmente, già dal prossimo anno), avremo una prima riduzione degli scaglioni, passando dagli attuali 4 (erano 5 solo 2 anni fa) a soli 3, “nella transizione del sistema verso l’aliquota unica”, come recita la proposta di legge. Per capire cosa significa, ricordiamo che gli scaglioni di reddito sono lo strumento con cui l’IRPEF pensata originariamente assicurava la progressività del sistema, sottoponendo il reddito ad aliquote di imposizione via via più elevate a mano che il reddito complessivo aumentava. Per avere un’idea della perdita di progressività, è utile ricordare che al momento della sua introduzione negli anni ’70 l’IRPEF prevedeva ben 32 aliquote, partendo da un livello molto basso (il 10%) fino ad arrivare a prelievi consistenti (fino al 72%) sui redditi più alti. Un sistema, quindi, che da un lato, soprattutto sui redditi bassi, prevedeva numerosi scaglioni di importo modesto in mondo da evitare che piccoli aumenti di reddito fossero neutralizzati da aumenti consistenti del prelievo fiscale, dall’altro, con aliquote elevate sui redditi più alti, era capace di garantire un’effettiva capacità redistributiva del sistema fiscale. Dall’anno prossimo, invece, avremo probabilmente solo 3 aliquote, dal 23% per i redditi più bassi al 43% per quelli più alti; rispetto ad oggi, si accorperanno le due aliquote centrali (per il livello preciso occorrerà aspettare ancora qualche mese, ma si parla di un’aliquota compresa fra il 27% e il 33%). Ogni volta che si riduce il numero delle aliquote (anche quando questo avviene accorpando quelle centrali) la perdita di progressività è dovuta al fatto che anche i redditi più alti beneficiano di tale “sconto”, mentre niente cambierà per i redditi più bassi.

Ma questa è solo una gamba dell’attacco alla progressività. L’altra è rappresentata dalle profonde mutazioni che hanno interessato l’IRPEF. Quest’ultima, infatti, all’epoca della sua istituzione, doveva essere un’imposta omnicomprensiva, sotto cui sottoporre a tassazione tutti i redditi personali, qualunque fosse la loro origine. Nel tempo, invece, si è trasformata in un’imposta quasi esclusivamente sul reddito da lavoro dipendente (e da pensione), mentre quasi tutti gli altri tipi di reddito (sia gli altri redditi da lavoro, come i redditi dei professionisti o delle imprese individuali, che i redditi da impiego di capitale, compresi i redditi da fabbricati, in primis gli affitti) sono stati sottoposti a regimi separati. E, rispetto a questo, cosa fa la delega? In maniera spudorata, con l’obiettivo edulcorato di “passare a un sistema compiutamente dualistico”, sottrae ulteriori forme di reddito alla tassazione progressiva, per sottoporli a forme di tassazione separata, ovviamente ad aliquote ben più basse di quelle previste dall’IRPEF.

Clamorosa in questo senso è l’estensione del regime della “cedolare secca” anche per gli affitti dei locali commerciali. Ricordiamo che la cedolare secca è un regime fiscale facoltativo, che permette ai padroni di casa di non pagare l’Irpef sul reddito che percepiscono sotto forma di affitto, ma una più conveniente imposta sostitutiva dell’Irpef e delle addizionali (10% nelle grandi città per gli affitti a “canone concordato”, 21% negli altri casi). In più, optando per tale regime viene meno l’obbligo di pagare tutta una serie di imposte catastali. Ebbene, se nel caso dei contratti di locazione abitative la cedolare secca può essere giustificata con la “scusa” di aiutare a far emergere il nero, nel caso delle attività commerciali la ragione di questo regime di favore viene meno, giacché nessuna attività commerciale ha interesse ad occultare i propri costi.

Con questa delega, quindi, è pienamente compiuta la separazione fra redditi da lavoro dipendente (quelli da lavoro autonomo già erano stati messi al riparo con l’estensione del regime forfettario) e tutti gli altri redditi, una separazione così netta che ha il solo pregio di restituire plasticamente la natura classista di questi interventi: da una parte chi vive di lavoro dipendente, dall’altra il resto del mondo, cui assicurare un trattamento fiscale sempre più benevolo.

Infine, si prevede anche per il lavoro dipendente il meccanismo della “flat tax incrementale”, cioè una tassazione minore (pari al 15%) su eventuale reddito “extra” conseguito in un anno rispetto agli anni precedenti; un ulteriore strumento di iniquità e divisione anche all’interno del mondo del lavoro dipendente, in quanto si tratta di un meccanismo probabilmente applicabile solamente alle mansioni più qualificate e ai redditi più elevati. Per i redditi bassi e medi, infatti, non ci sono, in genere, sensibili aumenti di reddito da un anno all’altro, data la minore dinamicità delle carriere di chi percepisce redditi di minore entità.

Per chiudere con la parte dedicata alle persone fisiche, la delega sembra accantonare per un momento il sempiterno cuneo fiscale; è probabilmente solamente un’apparenza, perché il tema tornerà di attualità in occasione di emanazione dei decreti delegati attraverso cui la delega fiscale prenderà forma, in particolare quando insieme alla revisione degli scaglioni necessariamente occorrerà ritoccare anche il sistema delle detrazioni (in particolare quelle da lavoro dipendente e da pensione) e, sicuramente, occorrerà ripensare anche il mini-taglio contributivo operato dal Governo Draghi e confermato poi da quello Meloni, ma sempre in modalità transitoria e quindi che “scade” (in mancanza di altri interventi) a fine anno.

Sui limiti della riduzione del cuneo fiscale per difendere i salari abbiamo scritto più volte. Qui vogliamo solo sottolineare come un intervento di quel tipo è perfettamente compatibile con la logica di una delega come questa, tutta improntata, come visto, ad una perdita di progressività e che facilmente troverà il modo di riproporre il tema del cuneo argomentando che “le tasse si abbasseranno per tutti, due spiccioli li troveremo pure per voi...”. Contestare la delega sul fronte della sua “timidezza” verso la riduzione del cuneo è quindi ingenuo e fuorviante, specie in periodi come questi di alta inflazione quando, per difendere i salari, dal Governo andrebbero pretesi scala mobile e salario minimo. Non certo un provvedimento che, lungi dall’essere una soluzione, è una parte del problema.

Fonte

30/03/2023

West Side Story (1961) di Jerome Robbins e Robert Wise - Minirece

Sul precipizio climatico/2 - Chi già precipita e chi sta nell’IPCC

Dopo l’invio del mio articolo su Contropiano Sull’orlo del precipizio climatico sento la necessità di scendere dalle considerazioni generali più sul concreto.

L’Ipcc è un comitato “sub partes”

Comincio con una rettifica, faccio ammenda per l’affermazione che l’Ipcc è un panel INTERGOVERNATIVO. In realtà a ben vedere sembra piuttosto GOVERNATIVO: nel senso che sembra che gli Stati Uniti la facciano assolutamente da padroni. Il ché, voglio precisarlo chiaramente, non ha a che vedere con la serietà scientifica dei suoi report, ma piuttosto con il presentarsi (in realtà per essere considerato, al di là delle intenzioni dei vari scienziati) come l’organismo a cui tutti fanno riferimento per stabilire la gravità della situazione climatica: semmai il vero merito che va riconosciuto all’Ipcc, e ai suoi report, è di avere sbugiardato definitivamente i negazionisti.

Ma veniamo alla rappresentatività. Parto da questo grafico, già molto eloquente:


Il punto che costantemente è taciuto (e stupiscono le sinistre, gli ambientalisti) è che l’Ipcc riflette inevitabilmente i punti vista dei paesi che vi sono sovra-rappresentati, cioè quelli ricchi! Penso che si possa essere d’accordo che gli scienziati britannici siano abbastanza omogenei con quelli statunitensi: insieme sommano più di 1/3 del totale. Soprattutto, i paesi ricchi la fanno veramente da padroni, mentre sono responsabili della grande maggioranza delle emissioni di gas climalteranti.

Com’è possibile pesare che l’Ipcc sia super partes? Che, per esempio, possa essere in grado di dire «Il tempo è scaduto»? Che senso ha continuare ad insistere che ci sono 8-10 anni per intervenire? Su cosa? Su quali situazioni? Non certo sui processi climatici nuovi che compaiono sempre più di frequente, e sono chiaramente irreversibili (vi tornerò nella seconda parte). Senza contare che vi sono regioni nelle quali il fatidico aumento di 1,5 gradi centigradi è già ora irrimediabilmente superato!

Ma non è tutto. Gli scienziati che stendono materialmente i rapporti sono supportati da molti altri, e si appoggiano a una masse di lavori e ricerche (14.000) pubblicati e referenziati. Orbene, un’accurata analisi delle referenze riportate dal Working Group 1[1] conclude, fra moltissime altre cose interessanti, che:

«[Fra] i primi 100 Paesi (su 185) da cui provengono le referenze, quelli più rappresentati sono, nell’ordine, gli Stati Uniti, coinvolti in 5871 referenze (circa il 50% del numero totale di referenze disponibili), il Regno Unito con 3039 referenze (26%), la Germania (2118 referenze), la Francia e la Cina (oltre 1500 referenze).»[2]

«Le citazioni nel rapporto sono fortemente dominate dal Nord globale e si leggono spesso dietro un paywall [accesso a pagamento ai contenuti di un sito]. Abbiamo riscontrato che il 99,95% dei riferimenti citati era scritto in inglese e che tre quarti di tutta la letteratura citata nel rapporto presentava almeno un autore con sede negli Stati Uniti o nel Regno Unito.»[3]

Ma ci sono molti altri aspetti generali che ‒ a monte dei lavori dell’Ipcc ‒ marcano le differenze tra il Nord e il Sud globali oppure, non meno rilevanti, di genere:

«Una recente analisi intitolata “The Reuters Hot List” ha stilato una classifica dei 1.000 scienziati del clima “più influenti”, in gran parte basata sulle loro pubblicazioni e sul loro impegno sui social media. Gli scienziati del Sud del mondo sono ampiamente sottorappresentati nella lista, con, ad esempio, solo cinque scienziati africani. Inoltre, solo 122 dei 1.000 autori sono donne.»[4]

Nel grafico che segue, la percentuale di autori dei 100 articoli di scienza del clima più citati nel periodo 2016-20, provenienti da ciascun continente.


Il totale dell’Europa è distribuito fra i diversi Paese, e in modo molto ineguale, Gran Bretagna e Germania prevalgono: Stati Uniti, Australia e Gran Bretagna insieme rappresentano più della metà di tutti gli autori di questa analisi (rispettivamente circa il 30%, il 15% e il 10%). Inoltre, nessun articolo di questa analisi è guidato da un ricercatore proveniente dall’Africa o dal Sud America.

Queste ricerche richiedono poi ingenti investimenti in infrastrutture, quali super-computer e grandi server, che ovviamente sono proibitivi per i paesi del Sud globale. Tra le 100 istituzioni più citate nel WGI AR6, tutte si trovano in Nord America, Europa, Asia e Oceania. e Oceania: nessuna fra le prime 100 si trova in Sud America o in Africa.

Al di là del fatidico limite di riscaldamento di 1,5 gradi centigradi:  la gravità situazioni specifiche

Non sono certo in grado di fare un’analisi generale, ma sono tante le situazioni nelle quali il carismatico limite di riscaldamento di 1,5 gradi è stato superato, irreversibilmente.

Parto dall’Africa, riferendomi a un articolo della rivista Foreign Policy, Africa Brief, “Climate Change Wreaks Havoc in Southern Africa”, della giornalista Nosmot Gbadamosi[5].
«La siccità in Somalia, le inondazioni in Nigeria e un ciclone in Malawi hanno confermato le cupe proiezioni climatiche degli scienziati sul futuro dell’Africa.

Il rapporto è stato pubblicato lo stesso giorno di un altro sondaggio delle Nazioni Unite che ha stimato che 43.000 persone sono morte durante la peggiore siccità della Somalia negli ultimi decenni, e la metà di queste morti erano probabilmente bambini sotto i 5 anni.

La scorsa settimana il ciclone Freddy, che ha devastato il Mozambico, il Madagascar, l’isola della Riunione e lo Zimbabwe, è tornato a colpire l’Africa australe per la seconda volta in un mese, uccidendo centinaia di persone in Malawi e Mozambico e lasciando decine di migliaia di senzatetto in quella che potrebbe essere la tempesta prolungata più lunga mai registrata.

I cicloni sono tipici della regione tra novembre e aprile, ma ciò che rende Freddy unico, secondo gli esperti meteorologici dell’ONU, è che non si è mai completamente dissipato, nonostante le numerose frane. Gli scienziati dicono che il riscaldamento globale causato dalla maggior parte delle nazioni industrializzate che emettono gas serra ha reso l’attività del ciclone più frequente e intensa.

“Il livello di devastazione con cui abbiamo a che fare è maggiore delle risorse di cui disponiamo per farvi fronte”, ha detto il presidente malawiano Lazarus Chakwera in un discorso televisivo.

Circa 59.000 mozambicani sono sfollati a causa della tempesta, secondo le autorità locali [più di 350.000 in Malawi]. La situazione è stata aggravata da un’epidemia di colera in corso. Secondo l’Unicef, i casi sono quadruplicati a oltre 10.000, con più di 2.300 casi segnalati nella scorsa settimana.»

«Secondo l’Agenzia internazionale per l’energia, “oltre il 95 per cento del consumo mondiale di carbone è in corso in paesi che si sono impegnati a ridurre le loro emissioni a zero netto.”

Raggiungere lo zero netto in Africa è stato complicato dagli obiettivi di fornire elettricità a molti nella regione che non hanno accesso e quindi usano forme tossiche di energia come la legna da ardere. I leader africani sostengono che l’unico modo realistico per fornire energia a buon mercato è attraverso il carbone.

Uno studio pubblicato il mese scorso sulla rivista Nature ha trovato che gli scienziati dell’Ipcc si aspettano che i paesi africani riducano l’uso di combustibili fossili due volte più velocemente delle nazioni sviluppate. Tuttavia, il prestito di denaro per gli investimenti in energie rinnovabili è più costoso per le nazioni africane.»
Asia occidentale. Si registra un’ondata sbalorditiva di calore precoce, con centinaia di nuovi record di temperatura massima per marzo: 41,4 gradi in Vietnam, 40 gradi in Laos, 37,9 gradi a Taiwan.

L’Argentina ha avuto l’estate più rovente da almeno 62 anni: a metà marzo, ormai nell’autunno meteorologico, si sono registrate punte fino a 40 gradi, seguite da violenti temporali.

Qualche aggiornamento sull’inverno negli Stati Uniti

Mentre in Europa abbiamo sperimentato un inverno straordinariamente mite e secco e si prospetta un’estate con gravissimi problemi idrici, la situazione è radicalmente diversa negli Usa. Da più di un mese il paese è stato attraversato diagonalmente da una forte corrente a getto, che spinge il calore a concentrarsi nel Sud Est con punte di calore eccezionali, mentre l’aria fredda è spinta ad Ovest dove sulla costa del Pacifico incontra correnti sature di umidità provocando piogge torrenziali, inondazioni e nevicate eccezionali 20 febbraio 2023.

Estreme anomalie delle temperature negli Stati Uniti [Washington Post]
 
Verso la fine di febbraio almeno 75 milioni di americani erano sotto osservazione, allerta o avviso di tempesta. Migliaia di voli sono stati interrotti. I primi di marzo si sono verificate forti nevicate in gran parte del Midwest e in alcune zone di pianura, oltre a rare nevicate nella contea di Los Angeles e a San Francisco.

Verso la metà di marzo pioggia, neve pesante e venti forti anche a New York e nel New England.

Il 22 marzo un’altra fortissima tempesta si è abbattuta sulla California: fortissimi venti, piogge intense e inondazioni hanno scosso la Bay Area e il sud del Paese. Più di 200.000 persone son rimaste senza corrente. La tempesta trascina un fiume atmosferico verso la California meridionale, causando pioggia intensa, neve e forti venti. Un tornado ha colpito la parte orientale di Los Angeles, il più forte nell’area metropolitana dal 1983. E venerdì 24 un tornado ha ucciso 26 persone (prevalentemente afroamericani) in aree rurali in Mississippi ed Arizona, decine i feriti.

Diametralmente all’opposto, caldo record nel Sud e lungo la costa orientale, dove la primavera è già iniziata e si denuncia un aumento delle allergie.

Poi, biodiversità. Una misteriosa malattia ha devastato una specie di stella marina lungo la costa del Pacifico: le stelle marine sono fondamentali per mantenere le enormi giungle di alghe sottomarine che immagazzinano il carbonio, senza di esse, gli effetti del cambiamento climatico potrebbero peggiorare..

Ma c’è un feedback generale con il riscaldamento globale: «mentre l’uomo riscalda il pianeta, la biodiversità sta crollando. Queste due crisi globali sono collegate in molti modi. Ma i dettagli degli intricati anelli di retroazione tra il declino della biodiversità e il cambiamento climatico sono sorprendentemente poco studiati.»[6]

Così come, si può dire, quasi in modo simmetrico ma sempre con una specie di feedback, i cambiamenti climatici, il mutamento dei modelli di insediamento e la mancanza di preparazione fanno sì che le zone aride siano le più esposte al rischio di inondazioni.[7]

Intanto, a dispetto di tutto: si prevede che 158,4 milioni di passeggeri voleranno a marzo e aprile, superando i livelli del 2019.

Per di più, i voli in jet privati sono in fortissimo aumento in tutto il mondo: “L’utilizzo di jet privati è aumentato di oltre il 30% rispetto ai livelli pre-Covid. Raddoppiano partenze e arrivi dallo scalo di Napoli, Londra-Maiorca la tratta più battuta. I prezzi sono raddoppiati, spostarsi da Parigi a Mykonos costa 25mila euro con un fortissimo impatto in termini di emissioni di CO2”.

Sul notevole impatto ambientale del volo aereo scrive la Dott.sa Antonella Litta, di Isde Viterbo: «Negli ultimi decenni, il traffico aereo ha registrato una fase di crescita pressoché costante soprattutto per quanto riguarda il settore del trasporto merci e quello dei voli low cost, solitamente legato al turismo definito anche “mordi e fuggi” determinando così un incremento importante del suo impatto negativo sull’ambiente, soprattutto in termini di inquinamento atmosferico, acustico e importante contributo ai cambiamenti climatici» (Trasporto aereo e clima, Il Cisalpino, 43/2017).

L’Iccp non pubblicherà altre edizioni da qui al 2030.

Note

1) Altri due gruppi si occupano rispettivamente degli impatti e vulnerabilità, e delle mitigazioni dei cambiamenti climatici: forse non stupisce che richiamino meno l’attenzione.

2) F. Chavelli, S. Connors, Analysis of the WGI contribution to the Sixth Assessment Report: Review of the WGI AR6 references, 26 febbraio 2022.

3) “Guest post: What 13,500 citations reveal about the IPCC’s climate science report”, Carbon Brief, 16 marzo 2023.

4) A. Tandon, “Analysis: The lack of diversity in climate-science research”, Carbon Brief, 6 ottobre 2021.

5) https://foreignpolicy.com/2023/03/22/africa-cyclone-freddy-climate-change-extreme-weather/.

6) M. Mahecha et al., “Biodiversity loss and climate extremes – study the feedbacks“, Nature, 19 novembre 2022.

7) Jie Yin et al., “Flash floods: why are more of them devastating the world’s driest regions?”, Nature, 7 marzo 2023.

Fonte

I mal di pancia dell’ex procuratore Giancarlo Caselli

Per l’ex procuratore capo di Torino Giancarlo Caselli, oggi in pensione, la decisione della corte di Cassazione francese, che ha confermato il rigetto delle domande di estradizione pronunciato in precedenza dalla corte di Appello di Parigi dei dieci rifugiati italiani, ex militanti delle formazioni della sinistra armata degli anni 70, sarebbe solo un gesto di «arrogante intolleranza», figlio della irresistibile tentazione francese di «insegnare a tutti gli altri (gli italiani in particolare modo) come si sta al mondo».

I contenuti giuridici della decisione – sempre secondo l’ex pm – oscillerebbero tra «il paradossale e l’incredibile». In particolare Caselli non sembra digerire l’articolo 8 della Convenzione europea dei diritti umani, richiamato dai giudici parigini per tutelare i diritti acquisiti nel corso della pluridecennale permanenza sul suolo francese dei dieci esuli italiani, sulla scorta di decisioni giudiziarie, politiche e amministrative, pronunciate nel tempo dalla autorità del posto. Tutto ciò – a detta dell’ex procuratore – non avrebbe alcun valore. Per il diritto interno francese tutte le pene sono prescritte dopo un periodo massimo di venti anni, ciò vale anche per l’ergastolo, che nel nostro ordinamento è diventato invece imprescrittibile, al pari di un crimine contro l’umanità. Nell’ordinamento italiano, il periodo massimo oltre il quale scatta la prescrizione delle pene temporali è pari a trent’anni. Regola che l’autorità giudiziaria ha aggirato in tutti i modi mettendo in campo una serie di sotterfugi e artifici vergognosi pur di impedire che la prescrizione venisse riconosciuta a due dei dieci ex militanti richiesti. In un caso si è addirittura ricorsi ad una fraudolenta dichiarazione di pericolosità sociale, a quaranta anni dai fatti-reato, nei confronti di una persona ormai ultrasettantenne e che nel frattempo ha mantenuto una condotta penalmente irreprensibile sul suolo francese, pur di scongiurare l’applicazione della prescrizione.

Nella dottrina classica del diritto, il decorso del tempo faceva venire meno l’interesse punitivo dello Stato nei confronti del reo. Questo assunto traeva il suo fondamento penalistico dalla convinzione che fuori dal contesto sociale che lo aveva generato, il reato attenuava se non perdeva la sua portata lesiva dell’ordine sociale e politico infranto, perdeva la carica di allarme sociale in esso contenuta e il reo vedeva inevitabilmente modificarsi la sua personalità a distanza di trenta anni dai fatti. A questa concezione Caselli antepone la «punizione infinita», per altro strettamente limitata ai reati di natura politica e di contestazione sociale, secondo una visione etica dello Stato molto vicina ai presupposti culturali dell’attuale maggioranza di governo, a cui senza dubbio può dare molte lezioni.

Ai giudici francesi non è sfuggito questo atteggiamento generale della autorità politiche e giudiziarie italiane, nonché della grande stampa, tanto da aver ritenuto che il via libera alle estradizioni, a fronte dei ripetuti propositi meramente vendicativi enunciati e praticati da parte italiana, avrebbe comportato per gli estradandi un trattamento sproporzionato e iniquo, una violazione insanabile della vita familiare e privata acquista da molti decenni in Francia, infrangendo il percorso di recupero sociale realizzato.

A rendere ancora più furibondo Caselli è stato poi il richiamo al giusto processo, sancito dall’articolo 6 della Cedu. Norma finalizzata a garantire che la persona a rischio di estradizione non sia esposta, nello Stato richiedente, a un flagrante diniego di giustizia che può derivare, in particolare, dall’impossibilità di ottenere una nuova pronuncia giudiziaria sul merito dell’accusa nonostante la condanna sia stata pronunciata in sua assenza. Diverse richieste di estradizione riguardavano, infatti, persone processate e condannate in contumacia. Chi ha seguito tutte le udienze davanti alla corte di appello di Parigi sa bene che i giudici hanno ripetutamente chiesto chiarimenti e garanzie alla parte italiana affinché una volta riconsegnate, le persone condannate in contumacia potessero avere garantito il diritto a un nuovo processo. Per tutta risposta le autorità italiane hanno balbettato, tergiversato a lungo perché incapaci di fornire delle garanzie inesistenti nel nostro ordinamento processuale. Atteggiamento che ha definitivamente convinto la corte francese a rifiutare le domande di estradizione.

Per Caselli tutto ciò sarebbe solo una prova della supponenza d’Oltralpe e non una manifesta deficienza italiana, una incapacità a comprendere che la cultura della eccezione giudiziaria che ha dominato la fase repressiva della lotta armata non è sovrapponibile alle altre culture giuridiche europee a cui sfugge questa eterna riproposizione di logiche d’eccezione originate da contesti non più attuali, conclusi da oltre trent’anni.

Alla ricerca disperata di argomenti per puntellare le proprie tesi, Caselli ricorre ad un esempio surreale, il processo di Torino al nucleo storico delle Brigate rosse, definito un modello del rispetto dei diritti degli imputati. Oggi sappiamo che fu la federazione del Pci torinese a reclutare i giudici popolari di quel processo, come ha raccontato Giuliano Ferrara che quella operazione gestì in prima persona. Sono noti anche i rapporti stretti che Caselli teneva con la federazione torinese del partito comunista, in nome di quella concezione schierata e combattente del ruolo della magistratura che contrasta con la pretesa di dare lezioni morali al mondo, soprattutto se poi è la sua ex procura, in linea con le autorità di governo francesi (cosa c’entra la magistratura di Parigi che per altro nel dossier estradizioni non si è piegata ai diktat dell’Eliseo), a perseguire con uno zelo facinoroso quegli attivisti che sostengono i migranti alla frontiera tra i due paesi.

Fonte

Guerra in Ucraina - Zelenski ammette il rischio “stanchezza” nella popolazione

Il presidente ucraino Zelensky, in un’intervista rilasciata ieri all’agenzia americana AP, ha sottolineato che perdere la battaglia di Bakhmut, sarebbe per Kiev una sconfitta politica, più ancora che strategica.

Il timore del leader ucraino è che una vittoria russa a Bakhmut spingerebbe la comunità internazionale e anche quella del suo stesso paese a fare pressioni per un “compromesso inaccettabile” per porre fine al conflitto.

I giornalisti dell’Associated Press hanno intervistato Zelenski mentre tornava in treno a Kiev da Zaporizhia martedì sera.

Ha parlato della battaglia più lunga della guerra, quella di Bahkmut dove le forze ucraine e russe sono impegnate da sette mesi in un conflitto estenuante.

Alcuni analisti militari occidentali si sono chiesti perché l’Ucraina sia disposta a subire così tante perdite per difendere il territorio, sostenendo che la città non ha un significato strategico. Zelenskyy ha replicato affermando che qualsiasi perdita nella guerra darà alla Russia un’apertura. Zelenski ha predetto che se la Russia avesse sconfitto l’Ucraina a Bakhmut, Putin avrebbe deciso di “vendere” una vittoria alla comunità internazionale.

“Se sentirà un po’ di sangue, annuserà che siamo deboli, spingerà, spingerà, spingerà”, ha detto Zelensky, aggiungendo che la pressione verrebbe non solo dalla comunità internazionale ma anche dall’interno del suo stesso paese. “La nostra società si sentirebbe stanca e mi spingerà a scendere a compromessi con loro”.

Zelenskyy si è recentemente recato vicino a Bakhmut per una visita di incoraggiamento morale alle le truppe ucraine che stanno subendo perdite rilevanti nella battaglia in questa città del Donbass.

Sui rifornimenti di armi dai paesi della Nato Zelenskyy ha lasciato trapelare che una nazione europea ha inviato un altro sistema di difesa aerea in Ucraina, ma che questo non ha funzionato e “hanno dovuto cambiarlo ancora e ancora”. Non ha però nominato il paese.

Zelenskyj ha anche ribadito la sua richiesta di lunga data di aerei da combattimento, dicendo che “non abbiamo ancora nulla quando si tratta di aerei da guerra moderni”. La Polonia e la Slovacchia hanno deciso di fornire all’Ucraina aerei da combattimento dell’era sovietica, ma finora nessun paese occidentale ha accettato di fornire aerei da guerra moderni, temendo che ciò possa intensificare il conflitto e coinvolgerli ancora più profondamente.

Fonte

BRT e GEODIS in amministrazione giudiziaria

L’inchiesta che il pubblico ministero Paolo Storari del Tribunale di Milano sta conducendo sulle multinazionali della logistica sta facendo emergere uno scenario che conferma il carattere delinquenziale che si cela dietro gli appalti utilizzati dai grandi provider multinazionali della logistica per fare profitto sulle spalle dell’erario e ancor più su quelle delle lavoratrici e dei lavoratori.

Quanto imputato oggi a BRT e GEODIS rappresenta un “secondo tempo” delle indagini che portarono, nel 2021, altre multinazionali (tra queste anche DHL e GLS) sul banco degli imputati per un “eccesso di esternalizzazioni”.

Anche oggi, ancora una volta, il meccanismo truffaldino è quello che porta i committenti ad usare fornitori di servizi che non versano l’IVA, che emettono fatture per operazioni inesistenti, che praticano una intermediazione illecita di mano d’opera, che spezzano corpi di lavoratori con ritmi e carichi di lavoro insostenibili.

Ovviamente il ladrocinio avviene “ad insaputa” dei vari c.d.a. e a pagarne le spese è qualche manager di rango sacrificabile; resta il fatto che il sistema e la legislazione degli appalti mostrano una vulnerabilità al malaffare – almeno nella logistica – che data dal 2011, dalle prime inchieste della Boccassini sulle infiltrazioni n’dranghetiste (clan dei Flachi e delle n’drine reggine) nelle filiali milanesi dell’allora TNT.

Gli appalti rappresentano lo schermo dietro il quale i committenti, cioè i padroni, perseguono il profitto senza tanti scrupoli e cercano di eliminare il coinvolgimento diretto nelle controversie sindacali.

Sintomatico il caso di BRT, uno dei giganti italiani (ex Bartolini ora di proprietà delle Poste francesi) della distribuzione “ultimo miglio” che conta su 4.000 dipendenti diretti (in gran parte amministrativi) e ben 18.000 in appalto (soprattutto driver e, molto meno, magazzinieri) alle dipendenze di una moltitudine (oltre 2.000) di coop, società e padroncini.

Una vera e propria giungla di datori di lavoro caratterizzata da un turn over bestiale, da un ritmo di cambi appalti che ha una cadenza mediamente biennale.

E ad ogni cambio appalto i lavoratori rischiano di perdere per strada i versamenti contributivi, il TFR, i ratei di 13^, 14^, il pagamento delle ferie, della malattia, degli infortuni, l’anzianità convenzionale e con essa gli scatti e magari pure l’ultimo stipendio.

In questo vortice di cambi, di contenitori che mutano denominazione sociale, ma non presidenti, capi e capetti capita anche di “dimenticarsi” di pagare l’IVA, di infilare nei bilanci qualche fattura farlocca...

Ma non finisce qui il malaffare.

In BRT, ma anche negli altri provider, è molto gettonato il sistema della disintermediazione del rapporto di lavoro, ossia il trasformare il Corriere in un imprenditore con una propria partita IVA e con gli strumenti di lavoro a sue spese e responsabilità.

Si tratta dei cosiddetti padroncini, alcuni a “loro insaputa” che si trovano intestato il pagamento del leasing del furgone, le spese per i carburanti, la manutenzione dei mezzi.

Provate a fare stare a casa questi corrieri quando non stanno bene dal momento che non usufruiscono del pagamento della malattia. Provate a convincerli che è un rischio per la loro incolumità e per quella degli altri utenti della strada...

Una non assunzione di responsabilità, quella di BRT (e dei suoi simili), che si abbatte rovinosamente anche sui lavoratori con un rapporto di lavoro subordinato per i quali è previsto il pagamento di franchigie in caso di incidenti o danni al mezzo di lavoro, neanche fosse di loro proprietà.

Insomma in questo sistema di appalti la cui legislazione si fonda su una netta divisione di ruoli tra committenza – dedita alle attività di core business – e fornitori di servizi prevedendo per questi ultimi autonomia organizzativa, gestione della strumentazione di lavoro, conoscenza delle procedure e rischio di impresa, il potere datoriale rimane fermamente nelle mani del padrone e tutti i rischi e i danni sono scaricati sui lavoratori.

Non occorre dire che quando USB si cimenta nelle trattative sindacali non parla con 2.000 Coop, srl, padroncini, ma con un manager BRT che dispone di tutto.

L’indagine del PM Storari denuda il re e cambia quello che fu il paradigma adottato la scorsa estate dalla procura piacentina che definiva vittime gli imprenditori ed estorsori i sindacati che con gli scioperi chiedevano salario, sicurezza, legalità e rispetto della dignità umana.

Ora emergono le cause di quegli scioperi, emerge il caporalato, l’evasione fiscale e contributiva, la cialtronaggine della nostra classe imprenditoriale.

Auguriamo successo al PM, ci auguriamo che i 126 milioni di euro ora sequestrati a BRT e GEODIS finiscano nelle casse dello stato per pagare la sanità pubblica, il trasporto pubblico, la scuola pubblica. Noi sappiamo però che per garantire diritto e civiltà duraturi a questo paese e al lavoro che ispira la nostra Carta Costituzionale, bisogna chiudere col sistema degli appalti, bisogna INTERNALIZZARE TUTTI i lavoratori con stipendi dignitosi e ritmi umanamente sostenibili.

Fonte

L’ONU accusa l’Unione Europea di aver aiutato e favorito i crimini contro i migranti

Una missione indipendente dell’ONU formata da diversi esperti ha da poco concluso tre anni di accertamenti sulla condizione dei migranti in Libia. Alla fine della settimana il rapporto che ne è risultato verrà presentato al Consiglio per i Diritti Umani delle Nazioni Unite.

L’indagine si è basata sulle interviste a 400 tra testimoni e migranti stessi, con allegate fotografie e video, e le conclusioni sono piuttosto nette. Nei lager libici sono stati commessi crimini di guerra e contro l’umanità, e ovviamente i responsabili materiali di tali azioni sono le forze di sicurezza libiche e altri gruppi armati ad esse legati.

Ma il rapporto è piuttosto chiaro anche in un altro punto: l’Unione Europea ha aiutato e favorito questi atti. Parliamo di “tortura, isolamento, detenzione in isolamento. È stato negato un adeguato accesso ad acqua, cibo, servizi igienici, luce, attività fisica, cure mediche, consulenza legale e comunicazione con i membri della famiglia”.

Leggiamo sempre nel rapporto che “la tratta, la riduzione in schiavitù, il lavoro forzato, la detenzione, l’estorsione e il traffico di migranti vulnerabili hanno generato entrate significative per individui, gruppi e istituzioni statali”. Non sono mancati purtroppo anche casi di violenza sessuale.

“Le violazioni e gli abusi indagati dalla missione erano collegati principalmente al consolidamento del potere e della ricchezza da parte delle milizie e di altri gruppi affiliati allo stato”. Intorno ai flussi migratori si è dunque creato un vero e proprio sistema di potere, che da essi ha tratto vantaggio.

L’UE ha quindi sostenuto attivamente questo meccanismo, addestrando la guardia costiera libica e finanziando programmi di gestione delle frontiere libiche. Frontex è stato strumento centrale in questa complicità, data la sua attività di sorveglianza che spesso portava a comunicare la posizione delle imbarcazioni agli aguzzini dell’altra parte del Mediterraneo.

Peter Stano, tra i portavoce del Servizio Europeo per l’Azione Esterna, aveva ribadito poco prima della presentazione del testo che la UE è sempre impegnata nell’aiutare a migliorare l’attività delle autorità libiche e a tutelare i diritti dei migranti. Appena qualche giorno prima un comunicato congiunto tra UE, Unione Africana e ONU stessa invitava a intervenire per migliorare la situazione dei rifugiati in Libia.

Ma riguardo le politiche comunitarie Chaloka Beyani, uno degli investigatori, ha affermato senza lasciare spazio a interpretazioni che “non si possono respingere le persone in aree non sicure, e le acque libiche non sono sicure per l’imbarco dei migranti”. Dalle Nazioni Unite dicono che passeranno tutta la documentazione alla Corte Penale Internazionale.

Non è la prima critica del genere che arriva a Bruxelles. Era già successo lo scorso anno, da parte dell’Organizzazione Internazionale per le Migrazioni. La ONG Human Rights Watch ha stimato più di 30 mila persone intercettate e poi condotte in detenzione in Libia nel solo 2021.

Ciò che emerge dal rapporto rende impossibile ignorare quel che avviene vicino a noi, a persone che vengono definite “carico residuo” e persino colpevolizzate se muoiono in mare. È importante sottolineare che ora diventano incontrovertibili anche le responsabilità della UE.

Oggi viene giustamente chiesto conto al governo Meloni dei terribili naufragi delle scorse settimane, ma la sua politica segue quella imboccata da decenni anche dal centrosinistra. E soprattutto, tutte queste scelte si inseriscono all’interno di una strategia UE fondata sull’esternalizzazione della gestione frontaliera, a discapito dei migranti e dei loro diritti.

Fonte

L’accordo tra Iran e Arabia Saudita è molto di più di un negoziato

L’accordo siglato a Pechino tra Iran e Arabia Saudita, è assai più ampio del solo ripristino delle relazioni diplomatiche tra due paesi “in guerra” da decenni. Esso include infatti disposizioni in merito a diverse questioni di sicurezza, incluso il sostegno condizionato di Riad al programma nucleare iraniano e la fine del conflitto nello Yemen.

L’intesa firmata lo scorso 10 marzo nel corso di una serie di incontri riservati tra il presidente cinese Xi Jinping e i leader di Arabia Saudita e Iran prevede, secondo fonti diplomatiche, il sostegno politico di Riad al rilancio dell’accordo internazionale sul nucleare iraniano del 2015 da cui Stati Uniti si sono ritirati nel 2018, anche con l’allora sostegno dell’Arabia Saudita.

Una parte dell’accordo potrebbe contribuire a una riduzione delle tensioni in Medio Oriente con l’impegno dell’Iran a rispettare gli interessi regionali dell’Arabia Saudita e un piano di pace che ponga fine al conflitto nello Yemen, che sin dal 2015 vede opporsi i ribelli sciiti Houti, sostenuti da Teheran, a una coalizione militare a guida saudita.

I due paesi ex rivali, si sono inoltre impegnati a cooperare per la stabilizzazione di Siria e Afghanistan, e Riad avrebbe acconsentito a sospendere il proprio sostegno ai media anti-iraniani, mentre nel contesto dell’accordo l’Iran ha fornito assicurazioni che il suo programma balistico non rappresenterà una minaccia all’Arabia Saudita.

Ma nell’accordo c’è anche un altro dossier che rappresenta un serio dispiacere per Washington. Iran e Arabia Saudita hanno infatti acconsentito a cooperare e a perseguire interessi comuni in quanto membri dell’Organizzazione dei Paesi esportatori di petrolio (Opec) e per la sicurezza delle petroliere e del traffico marittimo nel Golfo Persico. Il primo passo di questo accordo prevede entro aprile l’impegno comune a normalizzare le relazioni diplomatiche, cominciando dalla riapertura delle rispettive ambasciate.

Secondo il Middle East Eye, l’altro passaggio che potrebbe cominciare a far parlare di “de-americanizzazione” del Medio Oriente ha un ultimo banco di prova qualora l’Arabia Saudita e altri produttori di petrolio inizieranno a commerciare in una valuta diversa dal dollaro

Secondo il Mee le prossime mosse in questa direzione sono già all’orizzonte. Ad esempio, sia l’Arabia Saudita che l’Iran vogliono entrare a far parte del gruppo dei BRICS, mentre l’Arabia Saudita ha già presentato domanda di adesione all’Organizzazione per la Cooperazione di Shangai, di cui l’Iran fa già parte con lo status di osservatore.

Ma la risposta alla domanda sulla “de-americanizzazione” sarà fornita, forse presto, da un ultimo test: “se l’Arabia Saudita e altri produttori di petrolio dopo di essa scambieranno in una valuta diversa dal dollaro. Solo allora ci sarebbe stata una vera rivoluzione, e quella che gli osservatori hanno chiamato “l’opzione nucleare” contro gli Stati Uniti”.

Fonte

Le monete digitali delle banche centrali potrebbero mettere fine al sistema bancario come lo conosciamo

Una Central Bank Digital Currency (CBDC) può essere definita come la rappresentazione digitale di una moneta fiat nazionale, intesa come moneta a corso legale, emessa e gestita da un’istituzione sovrana (cioè, una banca centrale).

Si tratta quindi di una passività bancaria denominata in un’unità di conto esistente, accessibile a tutti, che funge sia da mezzo di scambio sia da riserva di valore. In pratica, la versione «virtuale» di una banconota.

La differenza principale tra una CBDC e il denaro che tutti noi abbiamo nel conto corrente o nel conto deposito (la cosiddetta «moneta-debito») è che, mentre la prima è sostenuta direttamente dalla banca centrale e, proprio come una banconota, è esente da rischi di credito o di mercato, la seconda è nei fatti generata dal sistema bancario e dipende da questo per la sua circolazione.

Di conseguenza, l’attuale moneta elettronica è legata alla fallibilità delle istituzioni finanziarie che la gestiscono e, in un clima di sfiducia generalizzata nei confronti del sistema bancario, la più classica delle corse agli sportelli può compromettere seriamente il funzionamento dei sistemi di pagamento.

È questo il «frutto avvelenato» del sistema bancario a riserva frazionaria, ovvero il regime monetario in vigore praticamente in tutto il mondo. La centralità strategica del settore bancario nelle moderne economie capitaliste ha generato l’orribile moloch che è l’attuale sistema del credito, ovvero un sistema «progettato per fallire».

Un sistema che, da un lato, genera profitti sfruttando una regolamentazione ampiamente insufficiente, cavalcando bolle speculative e favorendo l’indebitamento del settore pubblico e delle famiglie. Dall’altro, socializza le perdite chiedendo bail out a gran voce quando, una volta ogni dieci o quindici anni, il giochino si rompe e c’è bisogno di togliere le castagne dal fuoco.

Il problema è che, ad oggi, non esiste alternativa: il sistema delle banche private ha monopolizzato la creazione e la circolazione della moneta. Una delle principali motivazioni alla base dello sviluppo delle CBDC è proprio quella di affrontare l’instabilità finanziaria e diversi articoli hanno esplorato questo tema di recente, alla luce della difficoltà in cui stanno incorrendo diverse banche su entrambi i lati dell’Atlantico.

Già nel 2012, in un working paper dell’FMI intitolato “The Chicago Plan Revisited”, Jaromir Benes e Michael Kumhof (oggi senior research advisor della Banca d’Inghilterra) esplorano una proposta avanzata per la prima volta da Frederick Soddy, Frank Knight, Henry Simons and Irving Fisher negli anni Trenta.

Il “Piano di Chicago” proponeva un sistema bancario a riserva integrale, in cui le banche sarebbero state obbligate a detenere il 100% dei loro depositi in riserva presso la banca centrale. In questo sistema, le banche non sarebbero più state in grado di creare denaro attraverso il processo di prestito, come avviene sotto il sistema a riserva frazionaria.

Invece, sarebbe stata la banca centrale a essere responsabile della creazione di nuovo denaro e della sua iniezione nell’economia. Benes e Kumhof sostengono che un sistema bancario a riserva integrale, unito all’emissione di CBDC, potrebbe fornire numerosi vantaggi:

Innanzitutto, impedirebbe alle banche di creare e distruggere i propri fondi durante i boom e i crolli del credito basati sul sentiment, cioè sull’umore dei mercati finanziari, consentirebbe un controllo molto migliore dei cicli economici.

In secondo luogo, un sistema di riserva al 100% eliminerebbe completamente la possibilità di instabilità causata dalle corse agli sportelli.

In terzo luogo, consentire al governo di emettere denaro direttamente a zero interesse, invece di costringerlo a prendere in prestito lo stesso denaro dalle banche a interessi, porterebbe a una riduzione drammatica del fardello degli interessi sulle finanze governative. Inoltre, il debito netto del governo diventerebbe negativo, perché sotto il Piano di Chicago il governo acquisirebbe una posizione di credito a interesse elevato nei confronti delle banche. Questa posizione sarebbe creata quando le banche prendono in prestito per pagare il backing di riserva precedentemente inesistente.

In quarto luogo, dato che la creazione di denaro non richiederebbe più la creazione simultanea di debito, l’economia potrebbe anche assistere a una riduzione drammatica dei debiti privati. Ciò contribuirebbe evidentemente a ridurre la fragilità finanziaria a livello dell’intera economia.

In quinto luogo, il “Piano di Chicago” genererebbe grandi guadagni a lungo termine in termini di output, perché un debito inferiore e maggiori ricavi non inflazionistici di signoraggio porterebbero a grandi riduzioni dei tassi di interesse reali, delle tasse distorsive e dei costi di monitoraggio del credito.

In sesto luogo, le “trappole di liquidità” sarebbero una cosa del passato, perché il denaro sarebbe direttamente sotto il controllo del governo mentre il tasso di interesse controllato dalla politica non avrebbe un limite inferiore di zero. Ciò renderebbe anche molto più facile ridurre l’inflazione media a zero.

Benes e Kumhof non sono i soli a proporre l’utilizzo delle CBDC: la nuova fase di tensione nel settore bancario aperta dal fallimento di SVB ha fatto tornare all’ordine del giorno questo tipo di dibattito. Sulla rivista online “Project Syndacate” due economisti di rilievo come Jan Eeckhout e Yanis Varoufakis si trovano a sostenere prospettive molto simili a quella delineata nel progetto di Chicago.

Il fil rouge in questi contributi, che provengono da economisti di affiliazione ideologica diversa, è che il sistema della «moneta-debito» che ha dominato l’economia monetaria mondiale almeno sin dai tempi della fine di Bretton Woods (ma in realtà da molto prima) sta diventando rapidamente obsoleto.

Beninteso, ci sono diverse sfide che devono essere superate prima che le CBDC possano diventare realtà. Queste sfide includono questioni tecniche, come garantire la sicurezza e la resilienza dei sistemi CBDC, nonché questioni legali e regolatorie, come garantire che le CBDC non compromettano la stabilità finanziaria o la privacy.

Tuttavia, la strada è aperta: secondo un’indagine effettuata nel 2021 dalla Bank of International Settlements, l’86% delle 66 banche centrali intervistate hanno condotto attivamente ricerche sulle Central Bank Digital Currencies e il 14% si è dichiarato vicino al lancio di una propria valuta digitale.

Nel giugno 2021 l’Osservatorio Blockchain & Distributed Ledger del Politecnico di Milano ha mappato 85 progetti CBDC, sviluppati da 65 banche centrali (il 36% del totale delle banche centrali nel mondo). La Cina, che ha recentemente pubblicato un white paper sullo stato di avanzamento dello yuan digitale, è in una fase di sperimentazione relativamente avanzata.

Non è possibile prevedere quali saranno le tempistiche e le modalità con cui le CBDC saranno introdotte nel sistema finanziario mondiale, né tanto meno tutte le implicazioni nel lungo termine.

È difficile pensare che nel breve periodo si possa affermare un sistema a riserva integrale, se non altro perché la classe sociale che ha accumulato una quantità incalcolabile di ricchezza attraverso l’intermediazione finanziaria ha tutto l’interesse a rallentare o fermare questo processo.

Ciò che rileva però è che la possibilità tecnica di un «divorzio» tra la gestione del credito e la capacità di creare moneta – la prima nelle mani del settore bancario privato, la seconda restituita a pieno titolo alle banche centrali – è a portata di mano.

Quante altre crisi bancarie serviranno per trasformarla in una volontà politica?

Fonte